HANDBOUND
AT THE
UNIVERSITY OF
TnnoNrrri porcc
J
8TITDJ
FILOLOGIA ROMANZA
PUBBLICATI
E. MONACI e C. DE LOLLIS
Voi. IX.
1#?
^■
TORINO
Casa Editrice
ERMANNO LOESCHER
190:
k
So 8
V.'ì
PROFRIKTA lETTKRARIA
Torino — Stabilimento Tipojfrafico Vincenzo Bona (9413).
INDICE DEL VOLUME IX
\j. BiADKNE, " Cnniiina de Men>;ibus , di Boiivesin de la
Riva Po;/. 1
(x. A. Cesareo. La sirventesca d'un giullare toscano . - l'!l
1'. Maiìchot, Dans quel sens en France et en Italie le
boucher est-il le tueur des " Boucs „ V 14tì
C. De Lollis, Proposte di correzioni ed osservazioni ai
testi provenzali del manoscritto Campori . . , L58
PiEKKE ToLDo, Études sur le théàtre comique franc^ais du
moyen àge et sur le ròle de la nouvelle dans les
farces et dans les comédies „ 181
G. B. BoNELLT, I nomi degli uccelli nei dialetti lombardi „ 370
Paolo Savj-Lopez, Il Canzoniere provenzale J. . . . , 489
Arturo Ferretto, Notizie intorno a Caleca Panzano tro-
vatore genovese e alla sua famiglia (1248-1313) . „ 595
G. Crocioni, " La Intervenuta ridicolosa „. Commedia iti
dialetto di Cingoli (Macerata) 1606 ,617
Francesco Luigi Manxucci, Del Libro de la misera hu-
maria condicione. Prosa genovese inedita del secolo
decimoquarto , 676
Giuseppe Flechia, Note lessicali ed onomatologiche di
Giovanni Flechia , 693
F. d'Ovidio, Per il dialetto di Campobasso „ 707
Giuseppe Popovici , Nuove postille al dizionario delle
Colonie mmene d'Istria , 714
Bullettino bibliografico :
Recensioni. l'ag. 171. 469. 720
Notizie , 176. 483. 734
CARMINA DE MENSIBUS
DI BOXYESIN DA LA RIVA
INTRODTIZIO^^E
Cenni sulle rappresentazioni e i contrasti delle Sta-
gioni E dei Mesi nelle arti figurative e nella poesia. —
Antichissimo è l'uso dei simboli delle Stagioni nei monu-
menti. Tali simboli sono già abbastanza frequenti nell'arte
greca, e più frequenti diventano in quella romana dell'età
imperiale e dei primi tempi del Cristianesimo ; cessano poi
forse del tutto per alcuni secoli a cominciare dalla fine
del quinto o dal principio del sesto, ma ritornano a com-
parire di nuovo nel duodecimo, se non già nell'undecimo ;
e da allora in avanti, più o meno rari, o più o meno spessi,
continuano fino ai nostri giorni ^).
') Per le rappresentazioni delle Stagioni nell'antichità si veda :
RoscHER, AusfUhrliches Lexicon d. griech. it. rimi. Mijthol., II, 2723 sgg.
e Daremberg et Saglio, Dictionnaire des antiquités grecqiies et romaines,
V, 249 sgg.; per l'epoca cristiana: Martigny, Dictionnaire des anti-
quités chrétiennes, p. 86 sgg.; Le C.te De Grimouabd de Saint Laurent,
-Guide de l'Art chrétien, Paris-Poitiers, 1873, t. Ili, 496-99; A. Peraté,
L'Archeologie chrétienne, Paris, 1892, p. 60 sg. Assai ben fatto è il
capitolo sulle Stagioni nell'egregia opera del Piper, Mythologie u.
Studj di filologia romanza, IS. ^
2 LEANDRO BIADENE
Molto più numerose di quelle delle Stagioni sono le rap-
presentanze dei Mesi. Contentandoci di accennare appena
alle immagini delle divinità egizio dei medesimi dipinte
sulle pareti dell'antichissimo Ramesseo di Tebe e più tardi
nei tempj di Edfu e Denderali, rammenteremo che il più
antico calendario figurato finora conosciuto è un fregio mar-
moreo greco della fine del secondo o del principio del
primo secolo avanti Cristo, murato sulla facciata della
chiesa metropolitana Panagia Gorgopiko di Atene. In esso
sono riprodotte feste pubbliche speciali a ciascun mese, il
quale è inoltre anche meglio indicato dal segno dello zodiaco
che gli corrisponde ^). Per trovare qualche altra rappre-
sentanza dei Mesi conviene poi discendere al quarto secolo
dell'era nostra, e in esso nessuna si può dire con sicurezza
più antica del Calendario di Filocalo del 354, le cui figure
furono tutte quante pubblicate con ampio corredo di illu-
strazioni da J. Strzygowski nel 1888 ^). Qui ci stanno
Spnbolik d. christl. Kunst, II (Weimar, 1851), 313-46, capitolo a cui
anche oggigiorro poco manca per .essere compiuto. In esso, come
l'autore suol fare quasi per ognuno degli argomenti da lui trattati,
le Stagioni sono distintamente studiate nell'antichità pagana, in
quella cristiana, nel medio evo e nell'età moderna. Buono è anche
l'articolo sull'iconografia delle Stagioni nel Larousse, Grand Dietimi-
naire universel du XIX' siede, contenente per l'età moderna notizie
e ragguagli che non si trovano altrove raccolti. M. Hehon de Ville-
fosse ha dedicato uno studio compiuto ai mosaici rappresentanti le
Stagioni nella Gazette archéologique del 1879, come apprendo da
E. Muntz, Etudes iconographiques et archéologiques sur le moyen tige,
Paris, Leroux, 1887, p. 27 n. Uno scritto, che non aggiunge ne pre-
tende aggiungere molto di nuovo a ciò che già si sapeva, ma fatto
con assai garbo e senso d'arte, è quello di A. Ventcri, La Primavera
nelle arti rappresentative (Nuora Antol., fase, del 1° maggio 1892,
pp. 39-50).
*) Cfr. Daremuebg e Saglio, op. cit., alla voce Calendrier, 1. 1, 1909-10.
*) Die Calenderhilder des Chronograp/ien rotn Jahre 35à. Mit 30 Tafeln.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 3
innanzi i Mesi in forma di persone, con intorno alcuni og-
getti e attributi, nell'atto di fare qualche cosa di caratte-
ristico a ciascun d'essi. Filocalo naturalmente non inventò
egli queste figure ma riprodusse quelle che erano comuni
al suo tempo, e altri ha già mostrato, con argomenti che
non fa mestieri qui riferire, che le medesime probabilmente
usavano già nel primo secolo dopo Cristo, se non piìi ad-
dietro. Dal quarto al principio del nono non ci sono note
altre rappresentazioni dei Mesi, se non sia forse da fare
eccezione per quella scoperta dal Renan in un pavimento
di una chiesa a Kabr-Hiram in Siria, che potrebbe anche
appartenere al sesto secolo ^).
Ciò per altro non vuol dire che non sieno continuate
anche nei secoli frammezzo. Appartengono ad essi infatti
alcune brevi poesie latine e greche -), che manifestamente
dovevano servire a spiegarle e ci aiutano anche a compren-
dere come andassero modificandosi. Qualcuna di siffatte
poesie continuò a comporsi nel secolo nono ^] ; nel quale poi
fu copiato almeno due volte il Calendario di Filocalo *), e dei
Berlin, Reimer, 1888 (Jahrbuch des k. d. Archaologischen Instituts,
Ergiinzungsheft, I). Delle altre tre rappresentazioni dello stesso secolo,
due si trovavano in pavimenti scoperti a Cartagine, una in un mosaico
scoperto a Roma ; ma di esse non ci sono pervenuti che frammenti ;
di due anzi un mese soltanto, quello di Maggio.
^) Cfr. Durano , Mosat'que de Sour, nelle Annales archéologiques,
a. 1863, p. 278 sgg. e a. 1864, p. 207 sg,
^) Tali i testi latini n' 4, 5, 13 e forse anche qualche altro della
nostra Appendice, Parte II, e nella medesima anche i testi greci
n' 2 e 3, se pure quest'ultimi non sono del secolo nono.
^) P. es. il testo latino n. 8 della Parte II della nostra Appendice,
e probabilmente anche qualche alti'O.
*) Al secolo nono risalgono i due archetipi dei codici che si con-
servano del Cronografo del 354, di cui fa parte il Calendario. Del-
4 LEANDRO BIADE.NE
primi anni del quale ci sono pervenute duo rappresenta-
zioni figurate ^). E queste non dovevano allora essere rare,
se nei libri Carolini scritti verso la fine del secolo ottavo
si biasima, come poco conformo alla religione, l'uso che se
ne fa ^); uso che non deve essersi interrotto neppure nel
secolo decimo, poiché nel Calendario francese di S. Mesmin
conservato nella Vaticana, e composto intorno al mille,
vediamo già compiuta la trasformazione medievale degli
antichi tipi dei Mesi in quegli altri che rimasero poi im-
mutati per tanto tempo e rispecchiano la vita e le occu-
pazioni caratteristiche del colono in ciascun mese.
l'opera ritesse la storia esterna lo Stkzygowski nelle prime pagine
della Memoria indietro citata Die Calenderhilder ecc., richiaman-
dosi al MoMMSEN , XJeher den Chronographen vom J. 354 (Abhandl.
d. phil. Mst. CI. d. kon. sachs. G esellschaft d. Wissenschaften, voi. I,
547-668, Lipsia, 1850), il quale ivi pubblicò tutta Fopera secondo il
codice viennese, tranne i B^isti Furii Dionisii Filocali da lui editi
più tardi, senza le immagini dei Mesi, e illustrati nel Corpus Inscr.
Lat., voi. I [1863] 332 sgg. Qui possiamo aggiungere che i Fasti
furono da lui ripubblicati nella seconda edizione (a. 1893) del primo
volume del Corpus {Pars prior, p. 254 sgg.), lasciando da parte alcune
delle illustrazioni della prima edizione, e il Cronografo fu anch'esso
da lui ripubblicato nel volume Chronica minora saec. IV, V, VI, VII,
Berlino, 1891 (nei Monum. Germaniae hist.).
') Una è contenuta nel cod. Vat. greco 1291 e, secondo la descri-
zione mandatagliene da A. Riegl, fu esaminata dallo Strzygowski,
Einc trapezuntische Bilderhandschrift vom Jahre 1346 {Repertorium
f. Kunstwissenschaft, XIII [1890], 241-63), pp. 261-62; l'altra è quella
edita di recente da A. Chroust (vedi la nostra Appendice, Parte II,
Testi latini, n. 8), della quale si fa ora qui per la prima volta men-
zione in un discorso sulla storia delle rappresentazioni figurate
dei Mesi.
'^) Lih. de iìnag. Ili, 23: " Nonne divinis scripturis eos contraire
band dubium est, cum mensibus singulis prò qualitate
temporum quid unusquisque deferat, quibusdam nudas quibusdam
etiam indutas diversis vestibus figuras dant? „.
' CARMINA DE MENs^IBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 5
E nei secoli XII e XIII o, sebbene forse un po' meno,
anche nel XIV cotesti tipi furono riprodotti un numero di
volte veramente grande, tanto da poter dire che la rap-
presentazione simbolica dei Mesi fosse allora uno degli ar-
gomenti prediletti delle arti figurative cosi in Oriente come
in Occidente : massime in Italia, Francia e Inghilterra. Al
proposito nostro non è necessario né opportuno tentare qui
l'enumerazione tutt'altro che breve di siffatte rappresenta-
zioni; bensì stimiamo utile dare in nota ragguaglio degli
scritti che si hanno intorno alle medesime, e non soltanto
per i tre secoli ora detti, ma per tutti; scritti dovuti la
maggior parte a studiosi stranieri, e mal noti in Italia,
qualcuno anzi forse del tutto ignoto ^). Qui ci contenteremo
*) In ordine di tempo vanno anzitutto nominate le Annales archéo-
logiqnes, in cui si hanno parecchie descrizioni di rappresentanze delle
Stagioni e dei Mesi in monumenti medievali, descrizioni comprese
negli articoli a cui rimanda l'Indice contenuto nel voi. XXVIII, alla
voce Mesi. Della figurazione dei quali, e specialmente di Gennaio,
ragiona colla solita precisione ed erudizione il Pipee, op. cit., II,
377 sgg. e più brevemente e vagamente il De Grimcùard, op. cit.,
HI, 499-505.
Conosciamo soltanto indirettamente, per le citazioni fattene da
altri, la pubblicazione di E. Aus'm Weerth, Der Mosaikfussboden in
S. Gereon zu Coln, Bonn, 1873 ; nella quale il pavimento a mosaico
colle figure dei mesi della cripta di S. Gereone di Colonia, fattura
probabilmente di artisti italiani, è confrontato con altri pavimenti
consimili delle chiese d'Italia. E neppure ci fu possibile di vedere il
lavoro di J. Fowler, On medioeval representations of the nionths and
seasons, contenuto neìVArchaealogia, XLIV (London, 1873), 137-224:
periodico che, secondo le nostre informazioni, non si trova in alcuna
delle biblioteche pubbliche italiane. Sappiamo per altro che di questo
lavoro fondamentale si giovò Ch. Boutkll, Si/mbols of the seasons and
ìHonths represented in early art Ta.e\VArt Journal, N. S., XVI (London,
1877), 49-52, 113-16, 177-80, 237-40. In questo lavoro, pur esso fon-
damentale, l'autore indica a p. 177 le rappresentazioni figurate dei
Mesi a lui note (e sono molte) che si trovano nei manoscritti, nei
6 LEANDRO BIADENE
di brevissime notizie sommarie. E cominceremo col dire
che le figm^e dei Mesi erano a tutti famigliari e presenti
libri a stampa, nelle opere di scultura e pittura e nei monumenti di
qualsiasi genere. Poi raccoglie le caratteristiche dei singoli Mesi, se-
gnando accanto ad ognuna di esse i monumenti che le corrispon-
dono. Splendide incisioni riproducono alcune delle rappresentazioni
stesse. Delle pubblicazioni del Fowler e del Boutell sembra non aver
avuto contezza J. Rudolf Rahn nella Memoria intitolata Die Glasge-
mdlde in der Rosette der Kathedrale voti Lausanne, Ziirich, 1879 {Mit-
theilungen der Antiqiiarischen Gesellschaft in Ziirich, XLIll), che manca
alle biblioteche italiane e abbiamo potuto avere, prima che per via
commerciale, dalla cortesia dello stesso autore a mezzo del profes-
sore G. Pizzo del Politecnico di Zurigo, a cui rendiamo pubbliche
grazie. È anche questo un lavoro egregio, fatto con molta dottrina e
grande apparato di appropriata erudizione ; nel quale l'autore si pro-
pone di illustrare le figure dipinte sui vetri della rosa della catte-
drale di Losanna, che nella sua parte più antica è del secolo XIII.
Fra queste figure si trovano anche le Stagioni e i Mesi (di cui ora
più non si conservano Febbraio e Dicembre). Il R., senza pretendere di
dare un elenco compiuto delle rappresentazioni dei Mesi, ne enumera
parecchie (p. 5 sgg.), alcune anzi non registrate dal Boutell, così
d'Italia, come di Francia; due soltanto di Germania (p. 7, n. 5). L'in-
tento suo principale è di mostrare che le varie figure della rosa, cioè
a dire, oltre le Stagioni e i Mesi, le personificazioni dei quattro ele-
menti, con attorno il Sole e la Luna, il Giorno e la Notte e i segni
dello zodiaco, e quelle dei fiumi del Paradiso ed altre, sono fra di
loro idealmente connesse così da formare un sol tutto, uri imago mundi
(p. 8 sgg. e p. 27), che trova riscontro in altri monumenti, dove i
Mesi stanno insieme colle immagini dei Vizi e delle Virtù. Di qui il
secondo titolo della Memoria: Ein Bild der Welt aus dem XlIIJahr-
hundert. Le figure dei Mesi non servivano dunque, egli dice , alla
semplice illustrazione del calendario (p. 8), ma sono una parte del-
l'enciclopedia medievale figurata. ì^eW Appendice sono indicate per
ogni mese le rappresentazioni uguali a quelle della rosa di Losanna
in altri monumenti. Alla Memoria stanno unite nove tavole, di cui
le due prime riproducono le immagini dei Mesi, la terza quella delle
Stagioni, la nona l'intera rosa. Per ordine di tempo viene dopo questo
del R. lo studio di A. D'Ancona, / dodici mesi dell'anno nella tradi-
zione popolare (Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, Il [1883],
239-70). In esso dopo aver accennato al testo / dodici mesi allora di
CARMINA DE MENSIBUS DI BONVESIN DA LA RIVA 7
come quelle che solevano adornare il monumento massimo
della vita medievale: la Chiesa. All'uomo del medio evo
corto pubblicato da V. Simoncelli nel Preludio, VII, n. 5 (vedi la
nostra Appendice, Parte IP, Testi ital., n. 9), soggiunge (p. 238):
" A noi non è parso superfluo raffi'ontare questo testo popolare con
altri documenti di vario genere, più o meno popolari, e così della
parola come dell'arte rappresentativa. Senza nutrir la fiducia di aver
raccolto quanto si potrebbe, vogliamo intanto metter insieme alcuni
fatti che a questo si riconnettono, e stabilire così un primo fonda-
mento a ricerche su siffatto soggetto „. Queste ultime parole dicono
di per sé sole che gli rimasero ignoti i lavori dianzi menzionati del
Fowler, del Boutell, del Rahn. Egli infatti indicando i monumenti
italiani, si richiama fra le pubblicazioni straniere soltanto a quella
dell' Aus'm Weerth; la quale, come abbiamo detto, si restringe ai
mosaici dei pavimenti delle chiese. Quanto agli altri monumenti, tutti
italiani, i ragguaglj del D'A. sono dovuti a descrizioni staccate già a
stampa o privatamente comunicategli. Ne indica così un buon nu-
mero, tutti per altro, o quasi tutti, già compresi negli elenchi dei
lavori stranieri predetti. Ad ogni modo, se egli non fu il primo a
raccogliere le indicazioni e descrizioni delle rappresentanze dei Mesi
nelle arti figurative, fu invece bene il primo a rassegnare i testi
poetici italiani sui Mesi, dando di ciascuno di essi le debite notizie.
E la sua rassegna si può dire quasi compiuta quando si tenga conto
degli altri testi da lui indicati nello scritto sui Calendarj monumen-
tali dell'età di mezzo, il quale riassume e rifonde la precedente Me-
moria accomodandola all'indole del periodico in cui esso comparve e
che si dirige a un più largo pubblico di lettori (Suppl. àéìV Illustra-
zione italiana, Natale e Capo d'anno 1883-84).
Poco appresso, nel 1884, il Lecot de la Marche in un articolo
della Gazette des Beaux-Arts, XXX, 363 sgg. su La miniature en France
du XIII^ au XVI^ siècle parlava delle vignette dei Mesi nei libri di
Ore, e dal loro confronto raccoglieva le caratteristiche più usuali di
ciascun Mese. Quest'articolo passava poi nel libro dello stesso autore
Les Manuscrits et la Miniature en France (Biblioth. de V enseignement
des Beaux-Arts), dove la descrizione predetta dei tipi dei Mesi si trova
a pag. 220 sgg. Nel 1886 usciva a Parigi (editori Frinzine et C"") il
magnifico volume in-folio di V. Champier, Anciens almanachs illustrés
con cinquanta tavole. A dare un'idea della contenenza del medesimo
gioverà riportarne, poiché anch'esso dev'essere poco noto in Italia, il
breve Indice: " I. Aper9u general de l'histoire des calendriers [(p. 9).
LEANDRO BIADENE
che s'accostava al tempio o entrava in esso, si affacciavano
cotesto figure in rilievo marmoreo dall'archivolto o dal tim-
— IL Les calendriei's illustrés des livres d'Heures (p. 21). — III. Les
almanachs ou " compost „ des bergers (p. 36). — IV. Les Almanachs
littéraires, prophétiques, satiriques, politiques etc. du XV® au XIX*
siede (p. 44). — V. Les almanachs-estainpes du XVP au XIX' siede
(p. 66) ,. Infine c'è la Tavola degli artisti disegnatori e incisori degli
almanacchi citati nel volume (p. 137). Contiene anche un catalogo dei
principali libri-almanacchi dal 1685 al 1823 (p. 52 sgg.) e un altro
dei principali almanacchi illustrati francesi conservati in alcune col-
lezioni pubbliche e private (p. 85 sgg.). La pubblicazione dello Cham-
pier si riferisce, come si vede, soltanto alle illustrazioni che si trovano
in libri manoscritti e stampati francesi. Tuttavia qua e là non manca
qualche accenno anche a monumenti d'altro genere. Giova per la
storia della rappresentazione dei Mesi dal secolo XIV in poi. Degli
scritti sopra menzionati è qui citato soltanto quello del Lecoy de la
ìlarohe, da cui a pag. 27 sono riportate le caratteristiche dei Mesi.
Del 1887 è il volumetto già citato di E. Mììntz, Études icotiogra-
j)hiques et archéologiques sur le moyen age (Petite Bibliothèque d'Art et
d'Archeologie), Paris, Leroux, il cui primo capitolo è intitolato Les
pavements historiés du IV" au XIP siede, e riproduce un articolo già
da lui pubblicato fino dal 1876 nella Revue archéoL, XXXII, 400 sgg.
Carattere scientifico hanno tre Memorie di J. Strzygowski. Nella
prima in ordine di tempo. Die Monatscyclen der hyzantinischen Kunst
{Repertorium filr Kunstwissenschaft, XI [1888], 23-46), confronta tre
cicli dei Mesi rappresentati da tre miniature in codici greci dei se-
coli XI e XII colla descrizione delle immagini dei Mesi lasciataci
dallo scrittore greco Eustazio del secolo XII. Il risultato del confronto
è, che al tempo in cui risalgono i versi e le figure, queste erano già
tradizionalmente fissate. Inoltre, che sullo scorcio del secolo XII fu
introdotta una mutazione, per la quale, in seguito a influsso occi-
dentale, a uno dei Mesi, ordinariamente Gennaio, fu attribuito lo
* sventramento del porco ,. Dopo aver detto che tutti quattro i cicli
risalgono a un sol tipo (p. 48), si accenna anche a quanto è poi
dimostrato nella Memoria seguente, che esso non è se non una evolu-
zione di quello antico romano-cristiano.
Questa breve Memoria e riassunta a p. 52 dell'altra molto piìi estesa
e per noi piìi importante, che abbiamo già indietro avuto occasione
di citare : Die Calenderhilder, ecc. L'autore dopo aver ragguagliato
sulla storia estema del Calendario costantiniano del 354 e special-
' CARMINA DE MENSIBLS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 9
pano 0 dagli stipiti della porta, o dipinte nel mosaico
del pavimento, o dipinte sui vetri della rosa, o scolpite sul
mente sui maiioscritti di esso, ne pubblica in trenta tavole le figure
e le illustra con assai ordine. Fra queste si trovano anche quelle dei
Mesi, sulle quali si trattiene a lungo (pp. 44-90 e 103-4), confrontan-
dole con quelle poche che si conoscono ad esse contemporanee e con
molte di quelle medievali, restringendosi per questa parte soltanto
ai monumenti italiani (pp. 52-53). Sono pochi più di quelli indicati
dal d'Ancona, il cui lavoro gli rimase sconosciuto. Dei lavori degli
altri autori indietro citati nomina soltanto quello dell'Aus'm Weerth
(p.52, n. 65) e quello dello Champier (p. 69, n. 87). Le conclusioni
principali a cui giunge sono : che le figure di Filocalo corrispondono
ai tipi per esse comuni al suo tempo in Roma, e i versi che le ac-
compagnano e le illustrano erano fatti per l'archetipo del Calendario.
E inoltre: che il ciclo bizantino è strettamente connesso con quello
romano-cristiano, in fondo anzi è il medesimo (p. 88); che il ciclo
medievale italiano non ha nulla di comune ne con l'uno ne con l'altro
(p. 89); e che i versi dichiarativi delle figure dei Mesi nel Calendario
di Filocalo risalgono al primo o secondo secolo dopo Cristo (p. 103).
Della terza Memoria dello Strzygowski, Eine trapezuntische Bilder-
handschrift, ci è già accaduto di far menzione più indietro. In essa
l'A. a pp. 245-46 enumera tredici cicli orientali dei Mesi cominciando
da quello di Filocalo, che potè mettere in testa dell'elenco, essendo,
come già si disse, il fondamento anche del calendario bizantino. A
pp. 261-62 esamina la rappresentazione dei Mesi dell'anno 814 con-
tenuta nel Cod. Vat. greco 1291, e che egli non conosceva quando
scrisse la sua prima Memoria Die Monatscyclen ecc., e conchiude a
p. 262 che essa rappresentazione corrisponde ai tipi bizantini poste-
riori e già noti, ma non reca ancora l'impronta stabile dei medesimi.
La descrizione di questo ciclo greco deir814 fu comunicata allo St.
da A. RiEGL, che di essa aveva già toccato a p. 70 del suo lavoro
Die mittelalterliche Kalenderillustration [Mitthcilungen d. Institnts f.
osterr. Geschichtsforschung, X [1889], 1-74). È questo il lavoro più com-
piuto e meglio condotto che si abbia intorno all'illustrazione medie-
vale del Calendario, quantunque s'arresti a poco dopo il mille, quando,
come l'autore con finezza di osservazioni giunge a dimostrare, aveva
già finito di compiersi l'evoluzione degli antichi tipi dei Mesi in quegli
altri che rimasero poi stabili negli altri secoli del medioevo dopo il
mille. Come si vede, egli non s'accorda collo Strzygowski nel tenere
che questi ultimi tipi non abbiano nulla di comune coi primi: gli
10 LEANDRO BIADENE
fonte battesimale o sui capitelli dei pilastri. Per restrin-
gerci all'Italia, e anche qui citando soltanto qualche esempio,
uni invece si vennero gradatamente trasformando negli altri. È questa
la conclusione principale della dissertazione. Nella quale, dopo alcune
osservazioni sul Calendario in genere (pp. 1-5), l'A. discorre di esso
presso i greci (pp. 6-13) e presso i romani (pp. 14-27), intrattenen-
dosi abbastanza a lungo su quello di Filocalo (pp. 19-27), per passare
quindi al medio evo (pp. 27 sgg.) e specialmente all'esame delle figure
dei Mesi nel Martirologio di Wandalberto quale si ha nel Cod. Vat.
Rog. 438 (pp. 40-51), e a quelle del Calendario di S' Mesmin (pp. 51-61).
Degli altri autori sopra menzionati cita il Boutell (p. 57) e FAus'm
Weerth (p. 68) e lo scritto dello Strzygowski, Die Monatscyclen ecc.
(pp. 45 n. e 57 n.). Dell'opera di questo stesso autore, Die Calender-
hilder, uscita mentre il Riegl attendeva al suo lavoro, dà il titolo
preciso in fine del medesimo (p. 74 n.), dicendo di non dover per
essa modificare in nulla le conclusioni a cui giunse.
Del 1892 è lo scritto innanzi citato di A. Venturi, La Primavera
nelle arti rappresentative, nel quale egli ha l'opportunità di discorrere,
oltre che delle Stagioni, anche dei Mesi. Attingendo alle fonti più
note senza citarle, che non era il caso, fa, come già indietro si disse,
un rapido e geniale riassunto di quanto era già stato detto da altri
intorno agli argomenti di cui discorre e di quanto aveva egli stesso
direttamente osservato, riassunto animato da vivo sentimento dell'arte.
È bene rammentare qui anche la Memoria di J. von Schlossek,
Criusto's Fresken in Padua und die Vorlàufer der Stanza della Segna-
tura (aus dem XVll Bande des " Jahrbuches der Kunsthistorischen
Sammlungen der allerhochsten Kaiserhauses „), Vienna, 1866, in grazia
del cap. Il, nel quale si parla delle rappresentazioni enciclopediche
figurate nei monumenti medievali, di cui diede per il primo la spie-
gazione il Didron e fra cui si trovano anche i Mesi.
Il medesimo concetto dell'enciclopedia medievale rappresentata nei
monumenti e specialmente nelle chiese, h accolto e svolto nel bel
libro di E. Male, L'art religieux di( XIII" sihle en France. Étude sur
Viconographie du moyen àge, Paris, Leroux, 1898, libro che, sebbene
recente, non si trova più in commercio e io potei avere dalla cortesia
di Paolo D'Ancona. Il M., come avverte nella prefazione, si propose
di coordinare i lavori sparsi che già s'avevano sull'argomento, di
dare forma sistematica alle ricerche altrui e, potendo, di compierle.
Delle rappresentazioni dei Mesi, del loro significato, dei monumenti
francesi che le conservano si ragiona per alcune pagine, cominciando
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 11
esse compaiono sui pavimenti dello cattedrali di Aosta e
di Otranto, della chiesa di S. Michele di Pavia, di S. Pro-
spero Maggiore in Reggio, di S. Giovanni Evangelista di
Ravenna e nella cripta di S. Savino di Piacenza; sulla
porta di S. Marco di Venezia, del Battistero di Pisa, del
duomo di Modena, di S. Zeno di Verona, e sulla facciata
del duomo di Cremona e di S. Martino di Lucca.
Se d'ordinario i Mesi erano effigiati nelle chiese, non è
da dire che qualche volta non fossero scelti ad adornare
anche qualche altro pubblico monumento; così essi abbel-
liscono la fontana di Perugia eretta nel 1277 da Nicola
Pisano. E, oltre che nei monumenti, ci si presentano nelle
miniature dei codici. Cosi negli uni come nelle altre le loro
figure sono da prima poco finamente lavorate, alcune volte
anzi addirittura rozze, e attraggono, se mai, soltanto per
l'ingenuità. Questo in generale, s'intende, che abbiamo già
da pag. 89. A pag. 94 sgg. sono descritti i tipi dei Mesi prendendo
a modello quelli della cattedrale di Amiens.
Sebbene recente, è nota, almeno di nome, anche a coloro che non
si occupano ex professo di storia dell'arte, la Geschichte der Christ-
lichen Kimst di F. X. Kraus, 1897. In essa, colla brevità richiesta
dalle proporzioni dell'opera, ma con precisione, si parla delle figure
delle Stagioni (1, 205-6) e dei Mesi (II, 415-16) e del Calendario di
Filocalo (1, 448-50).
L'articolo sull'iconografia dei Mesi nel Dizionario del Lakocsse con-
tiene l'indicazione di incisioni del Cinquecento e pitture moderne
non ricordate nei libri e negli scritti precedenti.
Chiuderemo finalmente questa lunga nota, rifacendoci indietro nel
tempo, col ricordare che nella Selva di varia lettione di Pietro Messia
rinovata sino l'anno 1682, Venezia, 1682, il cap. XIV della Parte quinta
è intitolato (p. 508): " Come si dipingevano anticamente, et hoggi an-
cora i dodeci mesi dell'anno, e le significationi, et misterij delle tali
pitture, e parimente quella dell'anno ,. Sono descritti i comuni tipi
medievali. La prima edizione originale spagnuola della Silva de varia
lecion di Pier Messia uscì a Siviglia nel 1542.
12 LEANDRO BIADENE
teste rammentato una notevole eccezione, e un'altra anche
più notevole, a cui abbiamo pure accennato senza rilevarla,
è quella della porta di S. Marco di Venezia. A cominciare
invece dal principio del sec. XV, ciò che innanzi accadeva
di rado, avviene abbastanza spesso: i migliori artisti si
compiacciono di mostrare la loro valentia nella rappresen-
tazione dei Mesi, Specialmente quelli della scuola fiamminga
e specialmente nei libri di Ore ; sui quali l'occhio si allieta
nella contemplazione di dodici o ventiquattro quadretti in-
spirati dall'aspetto vario della natura e dalle varie occu-
pazioni degli uomini in ciascun mese. Il quale non è rap-
presentato, come in addietro, da una sola figura o da due
al pili, ma da una scena della vita campestre o della vita
signorile. Quindi alle ordinarie e rudi fatiche del campa-
gnuolo vediamo alternarsi le caccie, i banchetti, i sontuosi
sposalizj, le danze, i sollazzi insomma e gli spassi dei ricchi.
Appartengono ai primi anni del secolo XV le Belles Heures
di Chantilly, vero capolavoro eseguito da Paolo di Limburgo
e dai suoi fratelli per il Duca di Berry ; è della fine dello
stesso secolo il celebre Breviario Grimani custodito con
gelosissima cura dalla Repubblica di Venezia ed ora esposto
all'ammirazione dei visitatori della Marciana, nel quale i
Mesi furono dipinti da Giovanni Memling ^) ; sono del se-
colo seguente le ben note Heures di Anna di Bretagna e
le Heures de Notre-Dame di Hennessy, nelle cui miniature,^
e fra esse quelle dei Mesi, si riconosce la mano di Simone
*) Per la storia del Breviario e la descrizione particolareg'giata delle
sue miniature, vedasi il Fac-similc delle miniature contenute nel Bre-
viario Grimani eseguilo in fotografìa da Antonio Perini, con
illustrazioni di Francksco Zanotto, Venezia, 1862.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 13
Bening ^). E anche in Italia artisti egregi riprendevano a
trattare lo stesso tema: si attribuiscono a Luca della Robbia
dodici medaglioni in maiolica corrispondenti ai dodici Mesi,
che si conservano nel museo di South Kensington ^), e
Giulio Romano sul palco d'un'anticamera del palazzo del T
a Mantova dipinse " le storie de' dodici Mesi dell'anno, e
quello che in ciascuno d'essi fanno l'arti più dagli uomini
esercitate; la quale pittura non è meno capricciosa e di
bella invenzione e dilettevole, che fatta con giudizio e dili-
genza ^) „ . E i lavori rurali dei singoli Mesi, per citare
ancora qualche ben noto esempio, si possono vedere nel
salone di Padova e a Ferrara nella sala della delizia estense,
detta di Schifanoia. Nella quale, ai soliti tipi medievali
s'aggiungono a rappresentare le Stagioni ed i Mesi le divi-
nità mitologiche che ne reggono il corso. È la Rinascenza
che si afferma pure in questa parte. Similmente nel museo
di Madrid si ammirano dodici quadri della maniera di Mar-
tino de Vos, le cui pitture dei Mesi contano fra le più
pregiate del secolo XVI e servirono di modello a più d'un
imitatore ; nei quali quadri Gennaio è simboleggiato per
mezzo del Trionfo di Giunone, Febbraio da quello di Net-
tuno, Marzo da quello di Minerva e cosi via gli altri Mesi
da altre divinità. E, o secondo la concezione medievale, o
forse più spesso secondo quella che potremmo dire umani-
stica, 0 qualche volta secondo qualche nuova invenzione
') Su di esse vedasi J. Destrée, Les Heures de Notre-Dame à Bru-
xelles, Bruxelles, Claesen, 1896; p. 28 sgg.
^) Segnati del n. 23 nell'elenco delle rappresentanze dei Mesi dato
dal Boutell, op. cit., p. 177 sgg.
^) G. Milanesi, Le opere di Giorgio Vasari, Firenze, Sansoni, voi. V
(1880), p. 540.
14 LEANDRO BIADENE
individuale, i Mesi continuarono a essere scelti, anche nei
secoli seguenti, come figure decorative di pareti, di vetri,
tappeti, oggetti di oreficeria, stoviglie e altri utensili do-
mestici ^), e da ultimo delle cartoline postali illustrate. La
rappresentazione dunque delle Stagioni e dei Mesi si è per-
petuata nelle arti figurative attraverso i secoli dall'anti-
chità fino ai giorni nostri.
E come nelle arti figurative, così anche nella letteratura
e specialmente nella poesia popolare. Già in un breve testo
greco in prosa, in una favola esopica, ci compariscono in-
nanzi l'Inverno e la Primavera come persone che vengono
a diverbio tra loro, intendendo ciascuno dei due di mostrare
di essere superiore all'altro ^). Si oda : " L'Inverno scher-
niva la Primavera e le muoveva rimprovero perchè, ap-
pena apparsa, nessuno sa star quieto, ma alcuni, a cui
piaccia cogliere fiori e gigli e qualche specie di rose e vagar
sopra di essi qua e là cogli occhi ed intrecciarsene i capelli,
vanno per i prati e per i boschi; altri salendo su di una
nave e varcando il mare, va, se gli riesce, fra altre genti, e
nessuno si dà più pensiero dei venti e delle copiose pioggie.
— " Io, diceva, somiglio ad un signore e tiranno, e non verso
il cielo, ma in giù e verso la terra comando che si volga
lo sguardo e che si tremi, e si può ben passare piacevol-
mente la giornata quando costringo [a rimanere] a casa „.
*) Per quello che si riferisce alla Francia, alcune indicazioni di
rappresentanze dei Mesi, anche per i secoli XVII e XVIII, si possono
trovare raccolte nella citata opera dello Champier, p. 71. Vedasi
inoltre, anche per le altre nazioni, l'articolo già citato sui Mesi nel
Larousse.
^) Halm, Fahulae Aesopicae collectae, Lipsia, Teubner, 1860, p. 199,
n. 414.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 15
— " Per questo appunto, rispose la Primavera, gli uomini si
libererebbero volentieri di te. Di me invece pare ad essi
che sia bello persino il nome, — ed è veramente, per Giove,
il migliore dei nomi, — così che e mi ricordano quando non
ci sono e, quando riappajo, ne gioiscono „. Come si vede,
qui la disputa è appena accennata; i due contendenti s'ac-
contentano di parlare brevemente una volta per uno ; non si
ha qui l'alterco ben vivo e continuato, botta e risposta, il
vero e proprio contrasto. Per trovare il quale tra le due
Stagioni converrà discendere di alcuni secoli nel medio evo,
al Con-flictus Veris et Hiemis composto alla fine dell'ottavo
0 al principio del nono secolo e attribuito a piìi d'un autore,
a Beda, a Milone di S. Amand, a Dodone discepolo di Al-
cuino, ad Alcuino stesso ^). Qui nello stampo dell'ecloga antica,
in 55 esametri, si ha il vero contrasto delle due Stagioni.
La Primavera coronata di fiori e l'Inverno coi capelli irsuti
si rimandano l'uno all'altro ogni volta tre versi 2), nei quali
la prima invoca la venuta del cuculo e ne canta le lodi,
l'altro invece vorrebbe che esso stesse lontano, non essendo,
a parer suo, se non apportatore di malanni e di danni;
quel cuculo che nella poesia dei popoli di razza germanica,
e specialmente dell'Inghilterra, è il nunzio della Primavera.
Dafni e Palemone e i pastori tutti presenti alla contesa a
un certo punto la troncano essi, non lasciando più parlare
l'Inverno :
Desine plura, Hiems, rerum tu prodigus atros,
Et veniat cuculus, pastorum dulcis amicus.
') Quali siano le più recenti e migliori edizioni del Conflictus e
quali le opere in cui di esso meglio si discorre, si può vedere nella
nostra Appendice, Parte I, dove esso ha il n. 1 fra i Testi latini.
^) Il vero alterco è soltanto di 33 versi, dal v. 10 al v. 42.
16 LEANDRO BIAUENE
E continuano inneggiando al cuculo e alla Primavera fonte
di letizia e di vita. Il contrasto si dibatte fra l'Inverno e
la Primavera, ma giova avvertire che a un certo punto
questa parla anche a nome dell'Estate ^).
E fra l'Inverno e l'Estate, che ne è il vero contrapposto,
sono quasi tutti i contrasti fra due Stagioni composti nelle
lingue volgari e che in generale si possono considerare
come una lontana imitazione del Confiìcius, di cui ripren-
dono e svolgono gli argomenti. Ne conosciamo in italiano,
in francese, in portoghese, in inglese, in tedesco. Il numero
di quelli che ci sono pervenuti è, se si faccia eccezione dei
tedeschi, piccolo ; a noi qui preme sopratutto notare che
alcuni risalgono ai secoli XIII e XIV. Del XIII è un testo
in antico genovese. Di quasi tutti diede precise indicazioni
bibliografiche ed espose con esattezza l'argomento, facendovi
sopra ottime osservazioni, L. Uhland nella mirabile disser-
tazione intitolata appunto Estate ed Inverno -), che sembra
sia rimasta fin qui del tutto ignota in Italia. Nella quale
dissertazione, colla scorta della Mitologia tedesca del Grimm,
l'autore discorre anche di certi usi e costumi dei popoli
nordici che hanno la loro origine nel concetto del contrasto
fra le due Stagioni e specialmente in quello della vittoria
dell'Estate sull'Inverno ^), concetto che, com'egli ben di-
*) Dice a un certo punto la Primavera (vv. 34-36):
Quis tibi, tarda Hiems, semper dormire parata,
Divitias cumulat gazas vel congregat ullas,
Si ver vel aestas ante tibi nulla laborant?
2) Sommer und Winter in Uiilands Schriften zur Geschichte der
Dichtung und Suge, voi. Ili, Stuttgart, 1866, pp. 17-39.
'^) Ha quindi l'opportunità di parlare anche delle feste di maggio ;
intorno alle quali, specialmente per ciò che concerne l'Italia, raccoglie
e ordina molte notizie il D'Ancoka, Origini del Teatro italiano^, Torino,
Loescher, 1891; voi. II, 245 sgg.
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 17
I nostra, ha la sua manifestazione anche nella poesia e mi-
-ilogia nordica, come altri recentemente intese di mo-
strare che esso informa pure gran parte dei miti ellenici ^).
Alle indicazioni dell'Uhland non seppe fare che alcune
aggiunte di testi tedeschi moderni H, Jantzen -) ; il quale
discorrendo dei contrasti in generale trascura affatto la let-
teratura italiana. Non conosceva di certo l'ottimo capitolo
che su di essi scrisse il D'Ancona ^).
Analogamente alle Stagioni i Mesi. Abbiamo già indietro
avuto l'opportunità di dire che alcune brevi poesie latine
e greche anteriori al secolo decimo dovettero essere com-
poste a illustrazione delle figure dei Mesi : certo a tal fine
servono i versi che accompagnano quelle del Calendario di
Filocalo. Ognuno agevolmente capisce come tali versi doves-
sero assumere di leggeri la forma di veri e proprj vanti,
come si vede essere avvenuto dei versi illustrativi di altre
figure di cui si compiaceva l'arte medievale. E siffatti vanti
e componimenti in genere sui Mesi devono essere stati ben
comuni già nei secoli XIII e XIV. A persuadersene basta
por mente a quanto segue. Jacopo da Acqui, che scrisse la
sua Cronaca nella prima metà del secolo XIV, alla fine del
racconto di certa avventura riferita a Pier della Vigna,
narra che questi, persuasosi non averlo la moglie tradito,
com'egli sospettava, coll'imperatore Federico II, fa la pace
con lei e " cantat prò gaudio metrice de XII mensibus
') H. WoLF, Mythuft, Sage, Mdrchen [Sommer wtd Winter), Dussel-
dorf, 1896 (Beilaye z. Osterprogr. d. Realgymn. zu Dusseldorf).
^) Geschichte des deutschen Streitgedichtes im Mittelalter , Breslau, 1896
{Germanistische Abhandlungeti, XIII).
3) Origini del Teatro^, I, 547-62.
StiulJ di filolorjin romanza, IX. 2
18 LEANDRO BtADENE
anni et de proprietatibus eorum „ ^). 0 perchè scegliere
appunto tale argomento a manifestare la sua gioia? Certo,
nell'intenzione di chi appropriò la storiella al della Vigna -),
perchè la poesia dei Mesi doveva essere nota e famigliare
a tutti, doveva essere una di quelle poesie che vengono
quasi inconsapevolmente sulle labbra, senza che l'argo-
mento loro abbia relazione collo stato dell'animo di chi le
dice. Di siffatte poesie sui Mesi, fatte la maggior parte
per essere recitate davanti alla gente raccolta ad udirle,
furono composte anche piìi tardi e in parecchie lingue. " I
Mesi, come scrive il D'Ancona ^), discesero a così dire dal
frontone del tempio^ o sorsero fuori delle cripte, e le loro
rigide personificazioni si animarono a vita ed atteggiamenti
di persone serbando le vesti e gli strumenti rituali, e sciol-
sero la lingua a cantare le proprie lodi, o l'un l'altro rim-
beccarsi. Così si ebbero nella forma all'età media prediletta
del Contrasto piccoli drammi essenzialmente popolari, che
dovevano essere riprodotti pe' trivi j e per le piazze da
uomini e da fantocci ,, . Siffatti drammi si solevano rappre-
sentare fino a pochi anni addietro nell'Italia meridionale ^).
Il D'Ancona ha già raccolto i canti italiani sui Mesi ^) e
') Chronicon Imaginis mundi nei Monum. hist. patr., Ili, 1577, To-
rino, 1848. Farà piacer di sapere che quel solerte e sagace ricerca-
tore che è il prof. Nevati metterà in luce il testo, fin qui passato
inosservato, della poesia sui Mesi (un vanto) attribuito al della Vigna.
^) La storiella è di origine molto più antica, orientale, come mostrò
il D'Ancona nella nota aggiunta al testo ristampato dal Cabdccci,
Cantilene e ballate, p. 27.
^) Calendarj monumentali (Suppl. deW Illustrazione italiana, Natale
e Capo d'anno 1883-84).
*) Vedasi la nostra Appendice, Parte II, Testi italiani, nn. 7, 8, 9.
") Nello studio già indietro citato e pubblicato neWArch. trad. pop.,
Il, 239 sgg.
'carmina de MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 19
alla sua raccolta poco manca per essere compiuta; di alcuni
di essi anche in altre lingue fa menzione G. Morici nel suo
pregevole studio su La poesia delle Stagioni'^); quegli greci
antichi sono indicati dal Krumbacher ^). A noi è sembrato
che di tutti i testi sulle Stagioni ed i Mesi disseminati in
un numero grande di libri, riviste ed opuscoli, e in gene-
rale poco e mal noti, mettesse conto di fare in Appendice
una rassegna quanto più possibile compiuta, sperando di
recar così un contributo non ispregevole alla conoscenza
della letteratura popolare.
Il Trattato dei Mesit>i Bonvesin da la Riva. —
Di tutti i componimenti sui mesi il più notevole è forse quello
dell* antico maestro e rimator milanese Bonvesin da la
Riva 2), pubblicato per la prima volta nel 1872 da uno stra-
') Nuova Antologia, fase, del 1° dicembre 1893, pp. 479-515.
^) Vedasi la nostra Appendice, Parte II, Testi greci.
^) Tale sembra essere stata la vera forma volgare del nome del-
l'autore piuttosto che " da Riva „, antica del resto pur essa. Il Mo-
vati nell'erudita e bella Prefazione all'edizione da lui curata dell'ope-
retta latina De Magnalibus Urbis Mediolani dello stesso Bonvesin (Roma,
1898; estr. dal Bullettino dell'Istituto Storico Italiano, n. 20) preferisce
invece chiamarlo " della Riva „, come aveva fatto anche C. Canetta
pubblicandone i testamenti nel Giorn. stor. d. lett. ital., VII, 170 sgg.
Ma la forma " de la Riva „ s'incontra soltanto nel testamento del 1313
e in un documento latino del 1290 edito in parte nel Giorn. cit.,
pag. 172, ciò che non apparisce ben chiaro dalla nota dell'an-
zidetta Prefazione (pag. 26), in cui il Nevati raccoglie le varie
forme nelle quali il nome dell'autore si presenta nelle antiche scrit-
ture che gli appartengono o gli si riferiscono. In cotesta nota infatti
non tenendo egli distinte le forme " da la „ e " de la „, potrebbe
rimanere il dubbio che anche quest'ultima si trovi nei due compo-
nimenti volgari di Bonvesin da lui citati, mentre vi si trova soltanto
la prima, come in un altro componimento da lui non rammentato,
la Disputano musce cum formica (ediz. Bekkee, Rendiconti dell'Acca-
demia di Berlino, a. 1851, p. 8, v. 1), tutti compresi nel noto codice
20 LEANDRO BIADENE
niero, il professore E. Lidforss dell'Università di Lund ^).
L'argomento ne è ormai noto agli studiosi della storia let-
teraria, ma qui gioverà riferirlo più distesamente e deter-
minatamente che non sia stato fatto finora da altri -).
L'autore stesso lo espone nelle prime tre strofe così:
Moresta da ventagio ki vor odi cantare,
Io Bonvesin da Riva la voglio determinare
come s'alomenta li mesi vogliando depotestare
lo so segnore Zenere, ke no debia piìi regnare.
Stagando Zenere al fogo per tema del fredore,
li mesi an fagio capitulo ad ira e a furore
pur per cason d'invidia de quel k' è so signore,
zò è de ser Zenere, ke vive senza lavore.
De lui per invidia egli fan lamentasone,
de la soa segnoria ke egli lo von depone;
zascun de lu si lomenta e mostra soa casone :
io Bonvesin da Riva de zò voglio far sermone.
Precisamente cosi. I mesi prendendo a parlare uno dopo
l'altro rinfacciano a Gennaio i suoi vizj e le sue colpe,
berlinese della fine del eec. XIII o del principio del XIV. Per noi il
" de , di "de la Riva „ che si affaccia, non bisogna dimenticare, da
documenti latini , sarebbe quello stesso della forma latina * de
Ripa , con cui il nome comparisce altrove (v. la nota sopra citata).
A farci propendere per il ■* da la „ contribuisce pure la forma " da
Riva ,, la quale — e compiamo anche qui la nota del Novati — ci
è attestata da due altri componimenti di Bonvesin contenuti — neppur
questo è da trascurare — in codici del sec. XV: il Trattato dei mesi
st. 1*' e 3^ (e così pure nella rubrica iniziale e neìV explicit) e quello ;
inedito che nella nostra edizione sarà indicato con R (vv. 93-94:
Anchora uno altro exemplo, lo quale partene a zò, \ eio Bonvexino da
Riva ve volio cuntare quilò). E anche nei due componimenti citati dal
Novati di sul codice berlinese, si trova la forma " da Riva „ nel testo
datone dal Biondelli, Poesie lomh. ined., p. 161, vv. 1 e 4, p. 183, v. 1.
') Il tractato dei mesi di Bonvesin da Riva, Bologna, Romagnoli,
1872 {Scelta di Curiosità letterarie, disp. 127).
^) Cfr. Wesselofsky, Propugnatore, V, ii, 368 sgg., Mussafia, Romania,
II, 113 sgg., D'Ancona, Arch. d. trad. j^op., II, pp. 258-59, Gaspary,
Storia d. letter. ital., 1, 116, Morici, Nuova Antol., die. 1893, pp. 494-95.
'CARMINA DE MENSIBL'S ' DI BONVESIN DA LA RIVA 21
mentre poi ciascuno vanta i proprj pregi. " Gennaio, essi di-
'\ino, non vuol saperne di lavorare ^) ; so ne sta tappato in
rasa 2) consumando il tempo nell'ozio ^). Siede tranquilla-
mente al fuoco ■^) e mangia e beve e canta ^). Tutto dedito
ai piaceri della gola "), mangia i buoni bocconi^) e le frutta^)
e in generale i cibi che gli sono preparati dagli altri mesi ^).
A'ive del sudore altrui ^"), chiedendo e prendendo per sé
ma non dando mai nulla agli altri ^^). Non produce alcun
buon frutto ^-) ne reca alcuna utilità ^^), anzi fa tremare
i poveri ^*), toglie lavoro ai braccianti ^^), fa sentire il
freddo ai mesi che gli sono vicini ^*'), tiene in destrenzimento
le erbe, gli alberi ^^) e tutte le cose ^^). È insomma intento
soltanto a far male ^^j. Ci tiene come servi -*^) .e vuole
pestarci sotto i piedi -i). Vuole minacciare e offendere ^'^),
ci dispregia '^^) e si fa beffe di noi ~^). Non vuole pagare -^)
V invece impone tributi ^'^) ; e vuole comandare 2^) e re-
gnare 2*) e tenere per forza e sempre il potere -^). E non
c'è alcuna ragione perché egli debba avere la signoria ^^),
anzi è il peggiore di tutti ^^). È l'ultimo mese dell'anno ^^),
è egoista ^^), superbo ^^), orgoglioso ^^), disdegnoso ^^), pre-
*) Le lettere aggiunte a modo d'esponente ai numeri delle strofe
indicano i singoli versi delle medesime: st. 2^ 19^, 46% 86% 106%
70% 66% 68"=.
») st. 66^ 3) gQa-c, 78% 79% *) 7% 51% 57% 58% 65% 86% 89^
^) 70% 7P. ") 46% ') 51% 8) 7b^ ggb-c^
3) 71% 89% 18% 56% 59% 83% 9b^', 100»'-% ") 66% 71% 86% 107%
") 49=% 58% 71% 73% 81. 86% 90^"% 106^
i3) 12% 25% 45», 72% 102^ ") 6% 68% 70% **) 5^"% 24%
'^) 23^ ") 4"-*, 5% 6% 8% 97^-% 108*% ") 20'^"% 34% 38%
") 34% 76% 13) 14% 36% 53% 63% 96% 100% ^°) 20% 91% 103».
2') 34% 48% 2^j 91% 2'') 101% *') 10% 17% 55% 56% 100*. ^^) 91».
'^) 70-^. ^'} 49% 71% 28j 97a_ 29j 33e, .3.5». 30) 3f)c.d^ 33a-b^ 20%
^1) 30"% 103% 3^) 28, 29. ^^) 11*% ^') 18% 77, 78».
" ^5) 30% 48% 36) gid^ 78a^ 101%
22 LEANDRO niADENE
suntuoso M, ingrato-), matto'') e non adora Iddio*) „.
E non basta, che gli rovescian sul capo tutta quest'altra
serqua di epiteti : malastrudo ^), misero malastrudo '^), in-
gord malastrudo ''), malvas **), vilan "), malvas vilan ^"),
goton hacaler ^^), desconvenevre ^^), reo signore ^^), bruto si-
gnore ^*), ladro ^^), pezo ka serpente ^")- Ciascun mese, essi
aggiungono, è più degno di lui ^^), e a somiglianza delle
altre prosopopee dei mesi, anche in questa di Bonvesin, come
s'è già detto, ciascuno esalta tutto ciò che fa di buono e
di bello, e conchiude che Gennaio dev'essere spodestato ^^).
E quando hanno finito di dire le loro ragioni, tutti insieme
gridano a squarciagola: " Muoia Gennaio „ ^•'); e già si
apprestano a mettere in atto il loro divisamente e corrono
all'armi. Ed eccoli davanti a noi i mesi rappresentati pro-
prio come il popolo era abituato a vederli nei monumenti
delle arti figurative -'°) : Febbraio colla forca, Marzo colla
tromba. Aprile che per gonfalone porta un ramo fiorito,
Maggio armato a cavallo, Giugno col falcetto. Luglio colla
zappa. Agosto infermizo si regge su un bastone, Set-
tembre ha in mano la mazza con cui stringe le botti.
Ottobre ha la pertica delle castagne, Novembre un coltello
da beccaio e Dicembre la scure con cui spacca la legna.
Riunitisi in armi hanno dunque stabilito di deporre Gen-
naio e pieni d'ira sembrano leoni scatenati ^^). Sennonché
') l03^
') 8% 18c, 19'■^ 59^ m-\ 88^ 89^ 91 ■') 12*, 64, 405»*.
*) 79^ 5) 8^ 28^ ^) 54^ ") 86^ «) 109S 102^
») \0h^. '") %l\ ") 99-=. ") 89^ '3) 82% 92% 98\
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'8) 30', 45% 48% 53% 54% 59S 73% 94% 107% 109'. '**) 109%
'") 110-14. 21) 115C
• CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 23
Gennaio udito il tumulto e accortosi subito di che si tratta,
si alza da sedere al fuoco e prende una mazza smisurata
e pesantissima e con quella va incontro ai mesi ^); i quali
spaventati dal terribile assalto non osano più muoversi ne
difendersi e muti e tremanti buttano via le armi ^). Al-
lora Gennaio, vedendo di aver vinto, si sfoga a parole contro
di loro e in un lungo discorso ribatte tutte le accuse ri-
voltegli. " Voi, egli dice, siete stati mossi a ribellarvi da
superbia e da invidia ^). Se tengo la signoria, la tengo ben
a ragione: la possiedo ab immemorabili^). Io sono occu-
pato in molte faccende e perciò non posso adempirle bene
tutte ^) ; voi che siete villani dovete lavorare *^). Vorreste
che mi dimettessi? Con ciò non farei che cagionare la vostra
discordia: aspirereste tutti alla signoria '). Vi lagnate
anche che non vi ringrazio dei vostri servizi, ma che forse
è uso dei signori di ringraziare i sudditi? ^). I sudditi de-
vono ubbidire e lavorare, i signori comandare e stare al-
legri ■'). E del resto non è poi vero ch'io stia colle mani
in mano ^°): combino i matrimoni ^^) e penso ai lavori da
fare in campagna ^-). Se sono l'ultimo mese, sono stato ag-
giunto da Numa agli altri mesi per essere vostro capo,
giacché nessuno di voi era degno d'onore i"). Per dignità
e per senno sono il primo ^^). Sono il portinaio dell'anno ^°)
e quando io comincio entrano in reggimento i podestà no-
velli ^''j. Ho due volti e guardo indietro e innanzi a me ^') „.
Si scaglia specialmente contro Febbraio e Dicembre che gli
sono vicini ^*) e termina dicendo che continuerà sempre a
') 116-18. ^) 119. ') 127, U2\
') 129-31. '') 133. ") 1.34. ") 1,37-38. ^) 140-41.
■^) 144. ">) 148^ '') 148', 149-51. '') 1-52. ") 153
'*) 154\ '») 155. '^) 156^ •>. *■) 157. ") 158-61.
24 LEANDRO BIADENE
regnare e a mangiare e bere e a fare ciò che vorrà. Se
qualcuno osa opporsi si faccia innanzi ').
Dopo questo rabbuffo di Gennaio gli altri Mesi se ne
stanno muti e sbigottiti a capo basso senza osare di con-
trastargli e col timore di essere presi ^). Allora Aprii cortes
colla sua faza allegra parla a Gennaio per tutti gli altri,
e chiamandolo segnor regal e segnar insuperabil, chiede per-
dono del fallo commesso, assicura che tutti ne sono pentiti
e non lo ripeteranno pili ; e dopo aver dimostrato con una
serie di proverbj che non conviene a un nobile signore adi-
rarsi per pizena cosa, protesta che d'ora in avanti tutti gli
obbediranno e lo terranno per re perpetuo ^). Alle parole di
Aprile Gennaio si rabbonisce, e i Mesi, che poc' anzi ave-
vano manifestato contro di lui tanto fieri propositi e lo
avevano coperto di tante contumelie, ora gridano tutti ad
una voce: " Zener fiza fermado perpetuamente segnor e! „ e
con pubblico strumento si obbligano a riconoscerlo per tale •*).
Qui termina il contrasto e prende la parola l'autore per
cavarne la morale seguente. La storia dei Mesi, egli dice,
sta a dimostrare che l'uomo non deve cimentarsi a imprese
che non sappia di poter condurre a buon fine; altrimenti
può venirgliene danno e dover pentirsene, appunto come
toccò ai Mesi ^).
Tale il poemetto di Bonvesin, che, come osservò già il
Mussafia (op. cit. 1. e), fa venire a mente l'apologo di
Menenio Agrippa. A immaginare il contrasto poteva arri-
vare facilmente da sé anche un autore che per tal forma
cara al medio evo non avesse avuto la propensione di
') 163-65. 2j 166. •'') 167-78. *) 179-82. '') 183-84.
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 25
Bonvesin. Da una parte infatti si avevano le rappresenta-
zioni e i vanti tradizionali dei Mesi e dall'altra il pure
tradizionale contrasto delle Stagioni ^). Per ciò che con-
cerne l'invenzione, la parte di Bonvesin sarebbe dunque pic-
cola. La novità principale sta nell'aver volto, com'egli
sempre suol fare, l'argomento a un fine didattico e morale.
E siffatto intento si manifesta non soltanto nella chiusa,
di cui abbiamo dianzi riferito il tenore ; ma pervade e com-
penetra tutto il poemetto, che è largamente cosparso di
sentenze e proverbj, e nel quale anche i singoli atti e fatti
dei Mesi sono tirati ingenuamente a significazione morale.
Del resto, se questo è l'intento, l'allegoria, come altri
notò -), è superficiale^ e l'attrattiva principale del com-
ponimento sta nella naturalezza e vivacità e comicità della
rappresentazione, per i quali pregi non la cede agli altri
contrasti drammatici dello stesso autore, com'è anche il
pili esteso di tutti, contando non meno di 184 strofe.
I Carmina de Mensibus. — Sfuggito fin qui alla
diligenza investigatrice dei ricercatori dell'antica lettera-
tura italiana e medievale in genere, esiste di questo com-
ponimento anche il testo latino, che abbiamo avuto la for-
tuna alcuni anni addietro di ritrovare e ora pubblichiamo.
Ce lo ha conservato il manoscritto Vaticano 3113 del se-
') Il D'Ancona, op. cit., pag. 258, scrive: " Probabilmente a prefe-
rire tal forma l'autore era condotto e dalla propria propensione, che
si mostra anche in altri suoi componimenti, e dalla conoscenza del
Conflictus Veris et Hiemis, che l'età media ben conobbe, attribuen-
dolo a Beda, ad Alenino, a Milone di S. Amand „.
^) A questo proposito vedansi le belle osservazioni del Wesselofsky,
op. cit., pagg. 382-83.
26 LEANDRO BIADENE
colo XV, ed è per l'appunto l'ultimo dei testi in esso con-
tenuti; gli altri che precedono sono quasi tutti trattatelli
astronomici in prosa, a cui ben si comprende come per
certa quale affinità dell'argomento possa essere stato acco-
dato ^). Non ha veruna intitolazione, e quella di Bonvicini
carmina de mensibus, recata dalla Tavola del manoscritto,
anche questa di mano antica, sarà stata probabilmente de-
sunta, per ciò che concerne il nome dell'autore, dal terzul-
timo verso.
CONFEONTO DEI CARMINA COL TESTO VOLCxARE DEL TRAT-
TATO,— Ma in questo testo latino dobbiamo veramente rico-
noscere il medesimo componimento del testo volgare? Quando
si osservi che mentre quest'ultimo si distende, come già
indietro abbiamo avuto l'opportunità di dire, per 184 strofe
quadernarie di alessandrini ossia per 736 di tali versi,
l'altro invece è ristretto in 430 esametri (dei sei dell'^a;-
plicit non accade qui tener conto), verrebbe fatto di dubi-
tarne, e si chiederà ad ogni modo quale sia con esattezza
la relazione dei due testi. Or bene, chi li confronti minu-
tamente fra di loro noterà che non soltanto hanno uguale
l'orditura, ma che quasi tutto quello che si trova nel testo
latino si ritrova anche, e assai spesso con corrispondenza
letterale, e quasi sempre disposto nel medesimo ordine, nel
') Occupa le carte 123" — 129'; Il manoscritto è cartaceo, e ba
due fogli di guardia in pergamena. A tergo dell' ultima carta (129)
sono notate le ragioni della luna dal 1442 al 1460 e si trova qualche
altra annotazioncina astronomica; l'ultima data è il 1484. Ai Carmina
de mensibus precedono quindici scritture, anch'esse senza intestazione.
La prima è il noto trattato De sphaera di Giovanni Sacrobosco.
' CARMINA DE MENSIBUS " DI BONVESIN DA LA RIVA 27
tosto italiano; la maggior lunghezza del quale, forse più
che a particolari nuovi, è in generale dovuta all'amplifica-
zione o ripetizione in forma tanto o quanto variata di quelli
comuni ai due testi.
Converrà determinar meglio questa conchiusione. Che le
vere e proprie aggiunte del testo latino sieno poche, ap-
parisce già dal prospetto delle corrispondenze dei due testi
unito qui a pie di pagina ^); ora gioverà dire che sono anche
') Al numero dei versi del testo latino si aggiungono talvolta qui sotto
le lettere a e b per indicare soltanto il primo o il secondo emistichio;
le lettere invece aggiunte al numero delle strofe del testo italiano
indicano, come d'uso, il verso di ciascuna strofa. Si badi che qualche
volta la corrispondenza dei due testi non è segnata, non perché vera-
mente manchi, ma perché è poco manifesta.
1
- 2 = str.
1
61 =30c
3
- 4'' = 2
4> = ^^
5
63 -
65"
62 =31=^-^
- 65' = 32^-1)
- 67 =31-1 + 78» 4- 35^-1'?
6
-18 =12»-^
_l_ 6-J 4- 9" 4-
68 •
- 70» = 32c-a + SBa-b
13" -L 4t-c
+ 5»
+
70"
- 71» = 32»?
10" + 15»
-h8^
+
71"
- 72« = 45'i
9"
72^
- 85 =36»-'' + 38^-^ + 39»
19 =13»
+ 40a-t + 36-= +
20 = 14»
41» + 42<:-d + 54»
21
-23
+ 45'^
24
-27 =15c-<J
-16
86
- 89 =46a-c + 47»
28
-31 =
90
32
- 34 = 17=i-b
91
- 92» = 49'=
35
-39
40»
40" = 30-=
41
92"
93"
- 93a = 50c-d +47»+ 48»
- 94 =48"
95 =53" + 54^
96 =:=47" + 50'=
42
-46 =18''-^
-43''
-^19»
+
97 ■
- 98
20»-»'
+ 21
C-d _f_ 37a
99 -
- 102 = 50» + 51-= -h 52c-d
4-25
a-b
+ 52" + 62-1
47
-49 =37i'-d
50 =43^
103
-105
106
51
-52 =25^
53 =23a-b
64
107
109 -
-108
-110 =51» + 52»
111
55
- 56a = 26
112 ■
- 121 = 55^-1' + 56 + 57»-i'
56"
-59 =28
60
+ 58» + 59» +
59''
28 LEANDRO BIADENE
brevi e di piccolo rilievo e inoltre del genere appunto di
vv.
122
201
= 92a-b?
123
202
= 93»-i>
12i
-125
= 62''-c
203
-204
= 93'=-'*
126
-127
205
128
= 65» +112»
206
-208
= 94a — 95a-c
129
= 55"=
209
-210
130
-137
= 65^-d + eea-b +
67a-b + 67c_|_68b
211
-214
215
= 96a + 97"
138
216
= 97<i
139*
= 68"
217
139"
= 68^
218
= 99a
UO»
-141
= 69" + 62^ + 70»
219
142
= 71a-ì)
220
-227
= 4'=-'! 4- 108»-t +
143
- 47
--72
92^ -^-^ 108 + gQ-'
148
= 54"
228
-234"
149
234"
-235
= lOO^-c
150
- 51»
= 73a-'>
236
- 37
= 102»-^
ISP
- 59
= 73b-c
238
- 41
160
- 61
= 74" + 76" -f- 75"
242
+ 75^
243
= 107"
162
244
- 48"
= 109
163
- 64
= 74<:-d
248"
- 67
= 110-14
165
= 75"
268
- 72
= 115 + x
166
- 67
273
-374
= 116 + 117-3 M
les''
= 73'^
118»-c + 119 +
169
= 80"
120 + 123" +
170
- 72
122 4- 123'»-<= +
173
- 74*
= 81i'-c
121" + 121'^-d -1-
175=^
= 81"^
123"= + 163" 4-
176
- 77
124" 4- 143" 4-
178
= 82"+81b-c+86"
148-504-1524-
179
= 82t-d + 86"+86'=
144c-d _i_ 140 +
180
141 4- 143a 4-
181"
= 83"
146? 4- 153 4-
181"
= 182
129? 4- 1544- 127
183
= 83-=
+ 128' 4-132 4-
184
- 86''
= 84" 4- 83-^ + 84"
134b.d 4- 158 +
186"
= 187
160^164 4-137^-
188
= 84'!
4- 138 4- 145" 4-
189
= 85"
156a-b -f i55a _^
190
154" 4- 166
191
= 88"
375
-420
= 166-684-170'+
192
= 90"
170" + 171<:-a 4_
193
-194
= 89*-c
171" + 171" +
194"
- 96"
172-74+175'=-^
196"
= 90':?
176 4- 177»-'' +
197
= 86^?
178-82
198
- 99
= 9Ia-b
421
- 27
= 183 - 84^-i>
200
= 92J
428
- 30
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 29
quelle onde s'allarga il testo italiano. Si vuole veramente
sapere quali sono? Ce ne sbrigheremo presto. Quando Feb-
braio e Dicembre sono introdotti a parlare, non vengono
indicati soltanto col nome, ma vediamo il primo comparirci
innanzi coi calzari sudici di fango (v. 5) e l'altro vestito
colla pelliccia (v. 218). In Marzo non soltanto la vite è in
fiore, come s' accontenta di dire il testo italiano, ma l'olezzo
della vigna è così forte da far scappare i rospi e le serpi
(vv. 97-98). In Settembre, oltre il panico e il miglio, si
raccolgono anche i fagiuoli colFocchio (vv. 181-82), e, oltre
che maturano piìi sorta di frutta, si seccano i fichi (v, 186).
Dicembre poi è anche il mese della piccola Quaresima ossia
dell'Avvento (vv. 238-41). Si tenga conto oltre a ciò di tre
brevi avvertimenti morali (vv. 21-23, 103-5, 336-39) e sarà
compiuta l'enumerazione delle aggiunte vere e proprie del
testo latino.
Veramente fra esse si potrebbe inchinare a comprendere
anche i tre proverbj corrispondenti ai versi 122, 138, 162;
ma questi, massime i due ultimi, non sembrano bene a
posto, e inoltre i due primi, a differenza degli altri del
poemetto (i sei deìVexpUcit non vanno neppur qui conside-
rati) sono leonini; è da credere quindi che non facessero
parte del testo originario, dove invece saranno stati intrusi
più tardi dal copista ^), e a qualcuno più dotto di noi riu-
scirà forse di determinare donde sieno presi.
') Il fatto che i versi 122, 138 sono due schietti leonini, di per sé
solo potrebbe sì far dubitare ma non basterebbe a provare che sieno
interpolati; giacché, a dire il vero, è leonino con lievissima imper
fezione nella rima anche il v. 398 " nec propter muscaìn fit temo
volubilis usquain „, il quale doveva certamente far parte del testo
originario, trovando riscontro in quello italiano (st. 174"), e sebbene
30 LEANDRO BIADENE
Un po' più grande del numero delle aggiunte è quello
delle differenze nella disposizione di quanto hanno comune
i due testi, ma anche queste in fondo non si possono dir
molte, e tutte poi sono cosiffatte da non apparir determi-
nate da alcuna speciale ragione. Passando a esaminarle
particolarmente, noteremo anzitutto che assai di rado in
un testo è attribuito ad un mese ciò che nell'altro è attri-
buito ad un altro, e in cotesti casi i due mesi sono con-
secutivi, sicché le due attribuzioni possono essere, anche
in una medesima regione, ugualmente giuste. E per vero
la semina del lino e la piantagione delle viti novelle nel
testo latino viene posta in Marzo (vv. 42, 50) e nell'ita-
liano in Aprile (st. 43*, 43°); secondo il primo gli alberi
s' adornano di foglie e fiori in Marzo (v. 45) e secondo
l'altro in Aprile (st. 37^); nell'uno i gigli fioriscono in
Maggio (v. 112) e nell'altro in Giugno (st.62^).
Più di frequente varia nei due testi l'ordine delle cose
dette da un medesimo mese. Ma poiché i mesi non fanno
che enumerare le proprie occupazioni, i proprj prodotti e
meriti e ripetere le medesime accuse ed ingiurie contro
Gennaio, è evidente che in cotesta enumerazione l'ordine
può essere quale meglio piaccia. Che ragione infatti di pre-
ferire, per citare un esempio, il testo latino, in cui Maggio
in due versi consecutivi (92-93) si vanta di essere il mese
del buon formaggio e del fieno, al testo italiano, in cui
esso mese nomina il formaggio due strofe dopo del fieno
(st. 50*^, 47") ? E similmente, non è altrettanto ammissibile
in questo non trovi riscontro, niente vieta di credere che fosse nel
testo originario anche il v. 74 " prò nive do flores, prò bruma semino
rorem „, il quale, sia pure con maggiore imperfezione nella rima,
suona come leonino anch'esso.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 31
che Settembre dica prima di preparare le botti e poi di
spremere il mosto, come nel testo latino (vv. 184-85),
quanto di fare innanzi questa seconda cosa e poi l'altra,
come in quello italiano (st. 83% 84^)? La parte del poemetto,
in cui per questo rispetto la somiglianza e diremmo quasi
la congruenza dei due testi apparisce minore, è subito sul
principio il discorso di Febbraio; tuttavia anche qui chi ben
guardi riconoscerà che il testo latino fonde e ricompone
elementi, i quali, sia pure talvolta diversamente ordinati
e atteggiati, fanno parte anche del testo italiano. E a pro-
posito di questa unione o fusione in uno dei due testi di
elementi disgiunti nell'altro, giova richiamare l'attenzione
su questo esempio caratteristico. Il testo latino introduce
a parlare Luglio in questa maniera (v. 128):
Julius assequitur quasi nudus pulverulentus
e quello italiano invece così (st. G5*):
Apreso el parla Lullo con soa sapa in man
e " descolzo e in camisa „ in corrispondenza del " quasi
nudus „ ^); ma poi, molto più avanti (st. 112-''), quando i
mesi, dopo aver finito i loro discorsi, si riuniscono, bran-
dendo ciascuno l'arme che gli è propria, per dare l'assalto
a Gennaio
Con soa sapa Lullo ven tuto polverento.
Polverento ! ossia appunto il pulverulentus del luogo sopra
citato del testo latino. E, si badi, in tutti due i testi l'ap-
pellativo si trova in fine di verso.
') Più esattamente le parole " descolao e in camisa „ corrispondono
a quelle con cui nel testo latino (vv. 112-13) viene rappresentato
Giugno " prò magno caumate lino | indutus solo, nudo pede „.
32 LEANDRO BIADENE
L'autore dei Carmina, — Ora, dopo quanto si è
già innanzi osservato sulle relazioni fra i due testi, ci
sembra che concordanze del genere di quest'ultima non si
possano spiegare se non ammettendo che essi sieno opera
di un medesimo autore; il quale nell'uno si era proposto
di allargare e nell'altro di restringere la materia, senza
che ci sieno indizj sufficenti per dire con sicurezza quale ^
dei due sia stato composto prima ^).
E così il confronto che abbiamo fatto toglierebbe il dubbio
che il testo latino non sia di Bonvesin, anche se in fine
egli non se ne dichiarasse l'autore, appunto come fa in
principio di quello italiano.
Ne recherà meraviglia veder trattato da un medesimo
autore un medesimo tema in latino e in volgare, massime
quando si ponga mente all'indole del tema stesso. 0 che
forse sono rari nel medio evo i componimenti popolareg-
gianti e moraleggianti sopra uno stesso tema e scritti in
latino e in volgare? Non sappiamo che così appunto è av-
venuto, anche fuori d'Italia, per quello dei mesi? E, per
citare un altro esempio calzante, gli argomenti di quasi
tutte le poesie italiane di Bonvesin non furono svolti pure
in latino e qualcuno in maniera molto simile a quella te-
nuta da lui? Niente strano dunque ch'egli si potesse de-
*) L'ultima strofa (54) del discorso di Maggio nel testo italiano
principia :
A quel frugio ke fa l'arbor el pò fi cognoscudo,
s'el no porta bon frugio al fogo de fi metudo;
due sentenze che forse stanno meglio riunite come sono qui che non
staccate come nel testo latino, in cui la prima è in bocca di Aprile
(v. 84), l'altra di Luglio (v. 148). Ad ogni modo questo fatto da solo
non basterebbe, ci sembra, a dimostrare la priorità del testo italiano.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BO.NVESIN DA LA RIVA 33
cidere a fare da solo ciò che d'ordinario era fatto da due
autori diversi. E lo fece non questa volta soltanto: alcuni
miracoli delle sue poesie italiane ci ritornano innanzi in
prosa latina nella sua Vita Scholastica ^).
La forma esteriore dei Carmina. — Venendo a
discorrere della forma esteriore del De Mensibus, diremo
anzitutto che l'elocuzione ne è schiettamente medievale ^).
Bonvesin non si studia di conformarsi per nulla ai modelli
letterarj. In lui poi nessuna o quasi nessuna reminiscenza
immediata d'altri autori o d'altri libri. C'è sì un verso che
ne riproduce in gran parte un altro dei Distici di Catone ^),
a lui maestro di scuola certamente noti ^), ma appunto quel
verso ha carattere proverbiale. E parimenti due altri versi
(84, 148) sono sentenze comuni che risalgono alla Bibbia;
e quantunque non sentenziosa, dovette essere spesso usata
un'espressione della stessa Bibbia ricorrente in un altro
verso °). E come nessuna reminiscenza cosi nessun ar-
tificio retorico deliberatamente voluto. Non mancano, è
') Sono i miracoli De Castellano e De pirrata nejla poesia italiana
intitolata Lattdes de Viryine Maria {Rendiconti dell'Accademia di Ber-
lino, a. 1850, pp. 481 e 483) e il miracolo De agricola desperato nel-
l'altra poesia italiana col titolo Rationes quare Virgo tenetur diligere
peccatores {Rendiconti cit., a. 1851, p. 95); tutti tre i quali nella
Vita Scholastica sono riuniti nel capitolo De detotione hubenda erga
Virginem Mariani.
^) Lo stesso anche nella Vita Scholastica e nel De Magnalibus, come
nell'Introduzione a quest'ultimo (pag. 26 n.) non mancò di notare il
Novati.
■') Vedi più avanti la nota al v. 107.
*) 11 Novati pubblicando il De Magnalibus di Bonvesin nota (p. 61)
che il " cum animadverterem , della quarta linea, col quale comincia
veramente il discorso, riproduce il principio dei Distici.
■') Vedi la nota al v. 334.
Stiidj di filolojia romanza, IX. 3
34 LEANDRO BIADENE
vero, le ripetizioni, ma sono spontanee e quasi inevitabili e
non fatte ad arte: i mesi scagliandosi ad uno ad uno contro
Gennaio è natui'ale che si esprimano spesso nella stessa
maniera e po' su po' giù colle stesse parole.
Quanto al ritmo, il lessico, l'ortografia, valgano le osser-
vazioni che appresso.
Osservazioni ritmiche. — Il carme è composto in esa-
metri; ma conviene dir subito che, se di essi molti sono
regolari anche secondo la metrica classica, molti altri in-:
vece non tornano se non attribuendo a certe sillabe un
valore prosodico diverso da quello che avevano nell'età
aurea. Quest'ultimi appartengono alla maniera degli esa-
metri schiettamente e solamente ritmici, i quali abbondano
nel medio evo e anzi si potrebbero chiamare i veri esametri
medievali, in quanto rappresentano una degenerazione di
quelli classici cagionata dall'affievolirsi e spegnersi del senso
della quantità e dal prevalere su di essa dell'accento gram-
maticale. Rendono quindi il suono degli esametri quanti-
tativi letti secondo la comune pronunzia della parola, ossia
letti a norma d'accento grammaticale, e di qui si com-
prende quanto grande possa essere la varietà della loro
struttura. Come già fu notato da altri, stanno cogli esa-
metri quantitativi nello stesso rapporto degli esametri bar-
bari carducciani ^).
*) Quindi gli studj fatti per ispiegare la genesi e la struttura
degli esametri barbari carducciani giovano anche a dichiarare quella
degli esametri ritmici latini medievali. Di siffatti studj basterà men-
zionare qui quello di E. Stampisi, Lt> odi barbare di G. Carducci e la
metrica latina, Torino, Loescher, 1881, pag. 43 e segg., e l'altro anche
pili compiuto di L. Falconi, L'esametro latino e il verso sillabico ita-
liano, che è il secondo di Due saggi critici, Vienna-Torino-Roma, 1885.
'CARMINA DE MENSIliUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 35
Ma poiché, come abbiamo detto di sopra, molti degli
esametri di Bonvesin rispondono appieno anche alle regole
della metrica classica, avrà egli dunque inteso di usare
due specie di esametri ? Sarebbe ben strano, e si potrebbe
invece piìi ragionevolmente sostenere del pari che egli abbia
voluto comporre o tutti esametri ritmici o tutti esametri
quantitativi. La prima opinione si fonderebbe sulla consi-
derazione che gli esametri dello stampo classico, oltre che
quantitativi, sono di necessità ritmici anch'essi ; l'altra opi-
nione sul fatto che via via che il sistema di versificazione
quantitativa classica andava tramutandosi in quello di ver-
sificazione solamente ritmica, e anche per un pezzo dopo
che tale tramutamento s'era già compiuto, i grammatici
credettero di poter spiegarlo, astraendo dall'accento della
parola e dall'ictus metrico, soltanto mediante alterazioni
avvenute nella quantità delle varie sillabe e, ciò che qui
preme soprattutto di notare, tentarono di fermare, ingar-
bugliandosi spesso, s'intende, le regole di cotesta come a
dire nuova quantità ^). Quindi chi componeva versi se-
condo queste nuove regole poteva benissimo illudersi di
osservare scrupolosamente il sistema quantitativo.
C'è per altro da scommettere che Bonvesin non si sarà
veramente proposto di adoperare piuttosto l'una che l'altra
specie di esametri, pago soltanto di comporli siffatti che
all'orecchio suo e dei suoi contemporanei dovessero parer
regolari.
Queste poche osservazioni generali sulla qualità del verso
') Una rassegna di coteste regole si può vedere nel lavoro di
U. Ronca, Metrica e ritmica latina nel medio evo, parte I, pag. 91 e
segg., Roma, Loescher, 1890.
36 LEANDRO BIADENE
del De Mensibus potrebbero forse bastare; ma poiché se
ormai, massime in grazia delle ricerche e dimostrazioni di
filologi italiani ^), non par dubbio che la causa del pas-
saggio dalla versificazione quantitativa alla versificazione
solamente ritmica sia quella dianzi accennata -), rimane
nondimeno qualche punto ancora non ben chiaro nel pas-
saggio stesso; non sarà senza utilità esaminare minutamente
la struttura degli esametri di Bonvesin.
Quest'esame si ridurrà, com'è naturale, a un confronto
dell'esametro ritmico con quello quantitativo, di cui, come
avvertimmo, esso non è che una trasformazione o degene-
razione. E sebbene il principio informatore delle due specie
di versi non sia il medesimo, sembra non si possa fare tale
confronto meglio che attribuendo alle sillabe dell'esametro
ritmico, le quali non possono essere né più ne meno di
quante può contarne l'esametro classico, né più di dicias-
') Oltre al pregevole e in molte parti acuto lavoro sopra citato
del Ronca, intendiamo riferirci a quello non meno pregevole e più
metodico di F. Ramorino, La pronunzia j^opolare dei versi quantitativi
latini nei bassi tempi, ed origine della versificazione ritmica (nelle Me-
morie dell' Accad. di Torino, serie II, t. XLIII [a. 1893], pp. 155-222)
e alla prima parte dell'altro di F. D'Ovidio, Sull'origine dei versi ita-
liani (nel Giornale storico della letteratura italiana, XXXII [a. 1898],
pagg. 1-88); il quale, non senza correggere qualche errore e qualche
svista dei due primi, ne accetta in fondo le conchiusioni principali,
temperandole per altro e compiendole con giudiziose osservazioni sue
proprie, e le riespone poi e le argomenta con invidiabile limpidezza
di discorso persuasivo.
^) Coloro che dissentono da quest' opinione devono essere ormai
ben pochi, ed è sperabile che non tardino a ricredersi. E. Stengel,
il quale espresse già il suo dissenso nella Romanische Verslehre (nel
Grundriss d. roman. Philol., II, 18 sgg.), continuò per altro anche più
recentemente a non mostrarsene ben persuaso nel Jahresbericht d. roman.
Philol, III, 1-2.
' CARMINA DE MEN^inUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 37
sette né meno di tredici, la quantità che dovrebbero avere
perché esso apparisca giusto a norma della prosodia classica.
Poiché per altro siffatta quantità loro attribuita non sarebbe
costante come nel latino dell'età aurea, sì invece variabile
suppergiìi come nelle lingue neolatine, converrà considerarla
sempre in rapporto colle cause da cui sembra determinata,
vale a dire l'ictus metrico e l'accento grammaticale ^).
Ciò premesso , nell' esametro ritmico potrà accadere
0 che una sillaba, la quale, secondo la prosodia classica,
sarebbe breve, si trovi invece di una lunga, o viceversa una
lunga invece di una breve. Sarà anche da tener conto dei
casi di sinizesi. Da tutti tre questi aspetti guarderemo ora
gli esametri del De Mensihus.
1. Una sillaba, che secondo la prosodia classica sa-
rebbe breve, può trovarsi in quelle sedi dove la metrica
classica richiedeva una lunga, nei due casi seguenti:
a) alla fine della parola, quando essa sillaba, per la
sua posizione nel verso, avrebbe dovuto, secondo la metrica
classica, essere colpita àaWictus metrico ^).
Com'è agevole intendere, il fatto può avverarsi più
') Qualche editore di testi poetici latini medievali, come per es.
E. VoiGT nell'Indice metrico della Fecunda ratis (Halle, Niemeyer, 1889),
si contenta di notare che la tal sillaba è lunga nei tali e tali versi
e breve nei tali e tali altri; dalla quale constatazione di per sé sola
non è dato, ci sembra, ricavare alcun costrutto.
^) 11 Ronca, op. cit., p. 96, osserva come questa regola fosse già
stata fermata da Massimo Vittorino {De rat. metr. P. 1966; K. vi. 220)
colle seguenti parole: " in heroo versu cuiuscumque pedis syllaba
prima, cum a superiore verbo remanserit, promiscue longa sit aut
brevis, ut poeta voluerit , , ed egli la allarga per modo da dire
in generale, che " in arsi potessero stare legittimamente anche sillabe
•brevi „, quand'anche non fossero in fine di parola.
38 LEANDRO BIADENE
facilmente che altrove nella sillaba che secondo la metrica
classica sarebbe stata nell'arsi immediatamente precedente
alla cesura semiquinaria, ossia alla cesura forte maschile.
Così nei vv. 61, 86, 94, 108^), 124, 136, 137, 139, 140,
146, 155, 174, 183, 184, 193, 235, 236, 255, 257, 295,
357, 364, 366, 380, 428. E, oltre che in questa sillaba, in
quella precedente alla cesura semisettenaria, nei vv. 124,
146, 255; e soltanto in quest'ultima, nei vv. 163, 270; e
nell'arsi del secondo piede, nei vv. 81, 104.
Fanno eccezione a questa regola: immO 29, 143, ma-
ronà 193; sua acc. plur. 239 ; nelle quali parole la vocale
finale da considerarsi lunga anziché breve, come era nel-
l'età classica, si trova non in arsi ma in tesi.
h) avanti la fine della parola, quando sopra di essa
sillaba cada l'accento grammaticale, anche se sopra di
essa, secondo la metrica classica, non sarebbe caduto l'ictus
metrico.
Nel recare gli esempj sarà opportuno distinguere le
sillabe in arsi (a) da quelle in tesi (t).
Superfluo aggiungere il segno di distinzione testé indi-
cato fra parentesi, alle sillabe notate col segno di brevità,
il quale di per sé solo le manifesta in tesi.
Verbi : U(jat 1 (a) ma relègat 1, fùgat 22 (t), paro
102 (a) ma preparo 185, 233, preparare 213.
Nomi : ròsa 104 (t) ma ròsas 102, lupus 140 (t), ònus
331 (t) ma ònus \2, pira 143 (a) ma pira 193, castanea
185 (a), òpus 315 (t) ma òpus 241; inoltre pamctim 99,
') Qui, e così pure più avanti nei vv. 139, 236, 428, si considera
breve, nell'età classica, quale era in fatto, V-o di ego, che in origine
era lunga come in èYib e come tale si trova anche in Virgilio, ma
sotto la percussione (cfr. Zambaldi, Metrica greca e latina, p. 158).
' CARMINA DE MENSIBUS * DI BONTESIN DA LA RIVA 39
lt>0 (t), se, coutrariamente all'attestazione dei lessici, l'i
non era già lunga nel latino classico, come pensa l'Ascoli,
Archivio glottol. ital. IV, 353n (cfr. anche Korting, Lateiti.-
roman. Wb. n. 5856).
Possessivi : suo 44 (t), sua 239 (t), 255 (t) ma sua
03, sìiis 263, meo 124 (a) ma méus 12.
Avverbj: mchil 194 (t) ma nìchil 195, 197, 230, 231;
famen 327 (t) ma tdmen 18; rètro 317 (t).
Fanno eccezione a questa seconda regola: dolore 13 {t)
ma dòloris 137, retribuendo 194 (a) ma rétributio 200, tor-
cfdaria 184 (t); dove la sillaba da considerarsi lunga in-
vece di breve non si trova sotto l'accento. Sennonché quanto
a retribuendo, si potrebbe osservare che un accento gram-
maticale quasi altrettanto forte di quello principale che
colpisce la penultima sillaba, cade anche sulla prima ; e
quanto a torcidaria, secondo la quantità classica (tórcù-
làrìa) sarebbe stata voce da non poter introdursi nell'esa-
metro, e quindi la sua quantità fu alterata per necessità
metrica, causa quest'ultima produttrice di consimili altera-
zioni fino dall'età aurea.
Nei due casi ora esaminati l'ictus metrico e l'accento
grammaticale producono dunque il medesimo effetto, ciò
che indirettamente apparisce anche dalla regola che segue.
2. Una sillaba, che secondo la prosodia classica sa-
rebbe lunga, può trovarsi in quelle sedi dove secondo la
metrica classica dovrebbe stare una breve, in questo solo
caso : quando essa sillaba, quale che sia il suo posto nella
parola, sempre per altro fuori dell'accento, secondo la me-
trica classica, per la sua posizione nel verso, non sarebbe
stata colpita à?i\\'ictus metrico.
40 LEANDRO BIADENE
Cos'i accade, con più frequenza che altrove, nella vo-
cale finale della prima persona singolare del presente del-
l'indicativo dei verbi: depellò 20, prebeó 43, piatito 50, se-
mino 74-, 99, tondeò 99, paro 102, collido 193, fero 187,
preparò 185 (e 233?), condió 206, porrigò 208, vitó 306,
cai'pò 307, tracio 313, respondeó 325, ^rac?o 328.
Invece in arsi: dò 24, 73 (il primo dei due) 74, 307,
303, 424, renilo 89, defendò 110, Ugonisó 130, fundò 184,
maturo 187, consumò, cantò 308, induco 240, fructiferò 307,
fructificò 310, 320, referò 325, /"ado 329, spargo 328, t'acf>
367. Ciò per altro non toglie che, secondo la prosodia clas-
sica, si abbia anche in ^esj; j^eró 308 (il primo), dò 73,
192, 325, per non tener conto di quiesco 307, quero 308,
321, spjecto 316, in fine di verso, dove l'ultima sillaba può
essere così lunga come breve.
Altra breve invece di lunga, in tesi: preparare 213;
invece la stessa preposizione pre in arsi e in parole com-
poste è sempre lunga: prépositus 59, prècipitetur 61, pre-
paro 185, prècipiendo 318, prèposuit 344, prènieditari 422.
Similmente in tesi: ergo 29, 40, 139, 168, 243, ma in
arsi: ergo 60, e così pure in tesi: 85, 366, 389.
Quanto alla quantità della finale di preterea 124, ne
tocchiamo qui appresso.
3. Sinizesi: céu 2, 104, 236, fuit 38 ma fuit 58,
cut 122, 162, copiàm 144 ma copia 162, 231, dentmm ^) 334,
') Potrebbe venire il dubbio di dover leggere dentum, forma la cui
esistenza è attestata da un esempio recato dal Forcellini; ma oltre
che in altri testi occorrono analoghi esempj della sinizesi '-ti-, secondo
la pronuncia popolare, giova notare che appunto dentium sta nel ver-
setto della Bibbia qui in parte riprodotto da Bonvesin, come si può
vedere più avanti nella nota apposta a cotesto verso 334.
' CARMINA DE ME.NSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 41
huic 417, lìinTìis 255. davanti a parola principiante per
consonante e quindi forse anche lulàis 128, sebbene davanti
a parola principiante da vocale. Quanto ad liTis 309, 375,
411, piuttosto che dell'unione fonetica delle due vocali, si
tratta di un vezzo ortografico, come spiegheremo meglio
più avanti. In Februs 4, 248, 354 per Februus e in^rop-rs
189 per j^ropriis la sinizesi è indicata anche dalla scrittura,
se questa è giusta come in 7iil 41, 95, 123, 141, 156, usato,
si sa. pur nell'età classica e a cui dovrà ridursi anche ni-
cìiil 325. Notevole che in preterea 124 -ea sia ridotto a una
sola sillaba breve, ma nei vv. 362, 367 si ha, come nel
tempo classico, preterèa ^).
Dopo ciò rimangono sempre alcuni versi, pochi a dir
vero, che o assolutamente non tornano, anche secondo la
teorica dell'esametro ritmico, o che è molto dubbio se tornino.
Li esamineremo ad uno ad uno.
II v. 27 è tale:
salvus erit et celestia regna tenebit.
La quantità delle due prime parole, secondo la pro-
sodia classica, sarebbe salvus érti. Perché il verso tornasse
bisognerebbe invece che la quantità fosse salvus èrlt, e
anche così non sarebbe verso bello, mancando della vera e
propria cesura; e devesi aggiungere che. anche secondo
le regole dell'esametro ritmico, non sembra possibile che
le tre brevi si trovino nel posto delle tre lunghe. Non
') Il Ronca, op. cit., p. 91, nota che era " adoperato spesso breve
fin dall'età di Marziale V-a degli avverbi e aggettivi numerali „. Cfr.
anche Ramokino, op. cit., p. 177. Nel v. 124 di Bonvesin resta per
altro sempre notevole, computando pur breve V-a di preterèa, che
funga da breve anche tutta la sillaba -eà.
42 LEANDRO BIADENE
sembra, diciamo ; non essendo mai troppa in questa materia
la cautela delle affermazioni. Viene il dubbio che l'autore
abbia scritto o abbia avuto intenzione di scrivere atque in-
vece di et, e cosi l'esametro sarebbe ritmicamente regolare :
salvùs èrit atquè cèlèstia regna tènèbìt
dove V-it di erit e il que di atque, trovandosi in arsi, po-
trebbero, benché brevi, essere computate come lunghe,
quali appariscono nel nostro schema.
Sbagliato dev'essere il v. 177:
nos ridet innocuos et sub pede calcat.
Si accomoderebbe leggendo deridet invece di ridet, so-
stituzione in certo qual modo consigliata anche dal v. 88 :
" cìim nos fructiferos sterilis derideat ille „. Bisognerebbe
per altro considerare lunga anche Vet finale, sebbene da-
vanti a parola incominciante da vocale e in tesi, e leggere
dérldét.
E il V. 233
sed nos multa quidam facimus: preparo ligna
è ritmicamente giusto? Non sarebbe del tutto giusto nep-
pure leggendo preparo, ammettendo cioè uno spondeo nel
quinto piede, giacché in tal caso converrebbe avere, e qui
invece non si ha, un dattilo nel quarto. Che dinanzi a
preparo sia omesso ego?
Nel V. 136
et dare quam carperà legitur plus esse beatum
probabilmente invece di carpere è da leggere capere.
Sbagliato certamente è il v. 188
ac agriculturas facio quibus semina prima seruntur
'carmina de MENSIBIS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 43
da correggere cosi:
cultui-as facio quis semina prima seruiitur;
e similmente sbagliato è il v. 312
aut agriculture quid opus sit consilium do,
dove è da leggere culture invece di agricuUtire.
E nel V. 156
sed dir hoc patimur? ecce vivit prodigus ille
sarà da sostituire e)i ad ecce.
Osservazioni lessicali. — Non mancano nel nostro testo
alcune voci notevoli o per la loro forma o per il loro signi-
ficato, e le passeremo ora in rassegna.
petitos (?), 5 " ceno fedatus caligas et utrosque petitos „ .
La parola manca ai lessici e forse è male scritta. Non in
tendiamo che cosa veramente significhi. Che si tratti di
un derivato di pes?
Februs, 4, 248, 354, per Fehruarius. Ne reca un solo
esempio il Du Gange, che ne cita due o tre (e si potrebbe
aumentarne il numero) della forma distesa Februus, voce
registrata dal Forcellini soltanto nel significato di " Fiuto,
vel pater Plutonis „.
lanus, 6, 28, 35, 44, 51, ecc., per lanuarius. Il For-
cellini s. v,, § 12. reca il solo esempio di Ovidio, Fast., II, 1:
" lanus habet finem : cum Carmine crescit et annus „ e
nessuno il Du Gange; ma qualche esempio medievale non
manca. Gosi una ben nota serie di versi sui dies aegyptiaci
principia: " lani prima dies et septima fine timetur „
(Baehrens, PLM, V, 354), e un'altra: " Prima dies lani
timor est et septima vani „ (Valentinelli, Bibliotheca Ma-
44 LEANDRO BIADENE
imscripta ad S. Marcì Venetiarum, I, 277); e nel Regimen
della Schola Salernitana leggiamo: " In lano claris cali-
disque cibis potiaris „ (De Renzi, CoUectio Salernitana,
Napoli, 1852, t. I, 446).
festinus, 62, 378. In tutti due i versi è l'epiteto di
Aprile (festinus Aprilis), il quale nei luoghi corrispondenti del
testo italiano (st. 3P, 167-'^) è detto cortese (Aprii cortes).
Può venire il dubbio che invece di festinus, come reca chia-
ramente il codice, sia da leggere festivus, ma è dubbio che
quasi del tutto dilegua quando si abbiano presenti i due versi
378-79 : " Tunc alacri facie coram festinus Aprilis Festive
loquitur ut lani mitiget iram „ ; dove festive è di lettura
altrettanto sicura di festinus. Converrà dunque ammettere
che quest'ultimo aggettivo dal significato primitivo e usuale
di ' presto, veloce ', sia passato, come non era diffìcile, a
quello di ' agile, svelto ' e quindi ' leggiadro ' e forse per-
sino ' cortese '. Per l'evoluzione del significato farebbe
riscontro l'ital. snello, che giunge a dire appunto anche
' leggiadro' , dal tedesco scimeli ' rapido, veloce '.
])liylomena, 11 . Il ras. ha phylomè, abbreviatura, piut-
tosto che della forma classica phylomela, della neolatina
2)hylo)nena ; la quale, del resto, s'incontra anche in altri
testi medievali latini.
affìigerei?), 98, " a se bufones, serpentes affuyit omnes „.
Probabilmente sarà da correggere affugat adoperato nel
senso del semplice fugat (vedi Du Gange s. v. affugare).
facetus, 109, " et equis facetus et armis „. Ha il signi-
ficato, in cui fu usato spesso nel medioevo, di ' elegante,
leggiadi-o '.
in sero, 116, 141. Locuzione avverbiale a cui nel testo
italiano risponde da eira (st. 58*, 69'').
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 45
Hijoniso, 130, ' ligone fodio '. Il Dii Gange e anche il
De Vit (aggiunte al Forcellini) riportano da Giovanni di
Genova: " Ligonizare, sarpere, ligone terram vertere. Ver-
bum notum Columellae „. Tre esempj dal pseudo-Agostino
aggiunge A. Funk, Die Verha auf issare und izare [Archiv
f. latein. Lexicographie, III, 410 e vedi anche 258).
amygdola, 164, invece di amyydala. La parola ha
dunque Vo che le è proprio in alcuni dei riflessi neolatini,
e col quale comparisce anche in qualche altro testo me-
dievale latino (cfr. Schuchardt, Vokalismtis, 1, 37, e spe-
cialmente 219). Già xìqW Appendix Probi (Keil, G ramni,
lat., IV, Lipsia, 1862, p. 198, 1. 26) si osserva che la
forma giusta della parola è " amigdala non amigdala „,
con che ci si fa indirettamente sapere che si pronunciasse
0 si scrivesse anche in quest'ultima maniera. Il Du Gange
registra un solo esempio, e molto tardivo, di amigdala
per amigdala, ma non omette di notare, dietro il Diefen-
bach, " amiqdalum, -olum „.
in succidilo, 207 : " porci sale condio carnes Quas iti
succidilo commedit sopissimo lanus „. Il Forcellini ha sol-
tanto l'aggettivo succiduus ' cadente, caduto ', col quale per
il senso e l'etimo nulla ha che vedere il nostro, e succidia
' carne porcina salata ', che sarà invece tutt' uno colla
' carne in succidilo ' .
" ligie, tiiceta, multis quoque partibus hirne „, 235. Ai
tre termini fanno riscontro nel testo italiano (st. 100^"^) lu-
ganege, indugeri, tornasele con cervelao, senza che si possa
dire che le parole latine e volgari si corrispondano l'una
all'altra nell'ordine in cui sono disposte; ma è certo che
tutti tre sono nomi di carni trite e salate preparate in varia
maniera. Esaminiamo separatamente ciascuna delle tre voci
46 LEANDRO BIADENE
latine. Il Forcellini spiega hillae ' intestini, budelle ', aggiun-
gendo {§ 3) che il termine è proprio " et de intestinis fartis
vel salitis „. Secondo iìForceWìnì tucetum o tuccetiim voce dì
origine celtica significherebbe * tocchetto, intingolo, guaz-
zetto ', ma per il nostro testo varrà meglio la spiegazione
di Giovanni da Genova riferita dal Du Gange " Gibus qui
fìt ex carnium contusione sicut salcicia est „. Cfr. anche
Korting, Late'm.-roman. Wb., n. 8414, il quale nota come
con diverso suffisso si abbia la stessa parola nel catalano
tocin, spagnuolo tocbio, portoghese toucinho, e rimanda al
Diez, EWb. s, v. tochio e al Grober, Archiv f. latein. Le-
xicograiohie, VI, 135. È la stessa parola, domandiamo noi,
anche il veneto tocìo, che significa appunto 'guazzetto,
intinto '? Quanto alla terza voce, sarebbe notevole per questo,
che sembra non se ne conosca alcun altro esempio di un
determinato autore e soltanto il Du Gange riferisce da un
glossario latino-italiano manoscritto " hirna la salsiza „.
Sarà probabilmente un derivato di hira come hillae.
variamine, 252. Un solo esempio della voce variamen
è registrato nell'ultima edizione del Du Gange, nessuno
dal Forcellini. Qui notiamo che lo stesso Bonvesin la ado-
pera anche nella Vita Scholastica (v. 9),
substentat, 258. Invece di se substentat.
eccturbo, 282, " esturbo turbine strati „. Il Forcellini
registra turbus ' qui turbat ' ed exturbatus ' cacciato fuori,
expulsus, dejectus ';, due forme, per così dire, riunite in
quella del nostro testo. Exturbus significherà ' violento, im-
petuoso '.
induperator, 342 per imperato)'. Voce arcaica ma ado-
perata anche da Giovenale (cfr. Forcellini). Si noti che tale
titolo è dato a Numa.
•CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 47
Mutamento di genere e di numero. Sarebbero
considerati come neutri plurali i sostantivi femminili sin-
golari agresta 1-45, castanea 185, sull'analogia di altri nomi
di frutta, che ricorrono in copia nello stesso nostro testo :
cerasa, fraga 100, prima, poma, mora 124, pira 143, 193,
marona 193, ecc.; se pure invece di multa videntur agresta
non è da leggere multa videtxir a. e castanea pulcra ma-
turatur invece di maturantur.
Grecismi. Sono due: cauma 112 ' arder, aestus, caler
intensus ' e pir 274, 313 ' focus '. Del primo reca più d'un
esempio il Du Gange e lo registra anche il Forcellini
(ediz. De Vit), che non ne adduce però esempj classici e
rimanda per la spiegazione a Isidoro. L'altro invece, ignoto
ai lessici latini, è da Bonvesin adoperato nella frase sedere
ad pir, come da Fra Salimbene, Chronica (Parma, 1857),
p. 399 1):
Dura trutaunus in m. pateram tenet et sedet ad x)ir
Regem Cappadocum credit habere cocum.
Incongruenze: mileum 100 ma milium 181; ligu-
mina 181 ma legumina 42; posteriori {sihì) 227 q posteriore
358 ; e per ragione ritmica, agevolata dalla pronuncia vol-
gare, dextra 261, 277 ma dextera 51.
OssERVAZioxi ORTOGRAFICHE. — L'ortografia del nostro
testo, confrontata con quella degli altri testi latini medie-
vali, non offre in fondo nulla di singolare. Nondimeno ora
che anche l'ortografia latina medievale si studia metodica-
mente, non parrà superfluo l'esame piuttosto minuto che
faremo di quella del nostro testo, richiamandoci sempre,
per le spiegazioni e i raffronti, all'ottimo capitolo sull'Or-
') Questo luogo di Fra Salimbene mi fu indicato dal prof. No vati.
48 LEANDRO lilADENE
tografia, che fa parte della magistrale Introduzione del
Rajna all'edizione da lui curata del Trattato De vulgari elo-
quentia dell'Alighieri (Firenze, Succ. Le Monnier, 1896),
capitolo che dovrà esser sempre tenuto dinanzi dagli editori
di testi medievali latini; come egli fra i lavori moderni
ebbe presenti gli utilissimi Notices et extraits de divers ma-
nuscrits latins pour servir à l'histoire des doctrines yramma-
ticales au moyen mje (Notices et extraits des manuscrits de
la Bihl. Impér. etautres Bihl, tom. XXII, p. 2'': Parigi, 1868)
di Ch. Thurot, a cui noi pure avremo l'opportunità di riferirci.
-ti e -ci davanti a vocale (Rajna, op. cit., p. CLXII sgg.).
La confusione già incominciata nell'antichità fra ti e ci
davanti a vocale e cresciuta poi d'assai nel medio evo, si
riscontra naturalmente anche nel nostro testo. Va per altro
notato che in esso è in generale difficile distinguere il t m
dal e, e quindi l'incoerenza dei modi in cui è veramente
scritta una stessa parola potrebbe essere minore di quello «
che è sembrato a noi, che abbiamo letto : solatia 1 e so- a
lacia 196, 308, 321 ; oda 13 e otia 106, vicium 28, viciis
107 e vitium 291; nequitie 29 e nequicia 388; ratione 39,
rationes 373 e racione 68; potius 66 e pocius 121 : patientia
389, 406 e paciencia 337. Inoltre sapientia 341 ma exer-
cicio 70, leticie 79, spaciunique 367 e per contro effitiens 9.
-et- = -tt- gucture 86. Scrizione altrove frequentissima.
-mpn- = -mn- (Rajna, op. cit., p. CLXXIII) : tyrampnus
38 ma tyranno 201, tyrannus 346; aiitumpnus 165, au-
tumpni 213.
-nt- = -mpt- (Rajna, op. cit., p. CLXXXI) : temptoria 254.
n per m davanti a. q e b. Il ms. reca distesamente
umquam 166 e tamquam 171 col m davanti al q; nono-
stante sciogliamo in nunquam il nùquam del ms. tutte le
• CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 49
volte in cui occorre (167, 198, 361, 390, 391, 404), in
quicunque il quiciìque (80, 141, 223), in quanquam il qq^
(16), giacché questa era la comune scrittura medievale di
tali parole (Rajxa, op. cit., p. CLIX-LXII), e ci sembra più
facile ammettere che il copista intendesse di attenersi ge-
neralmente ad essa, pur essendosene scostato un paio di
volte, che non il contrario ; tanto più che egli è caduto in
altre incoerenze ortografiche. Analogamente mewòra 108, 131.
Rimane tuttavia un po' d'incertezza intorno a cotesto par-
ticolare. Sempre poi tenendo conto delle abitudini e delle
norme ortografiche medievali, mettiamo per contro m in-
vece di n pur davanti a q dovendo sciogliere nimiaque 12,
spaciiìque 367, giacché qui il monosillabo principiante per q
non è, per così dire, che provvisoriamente unito alla pa-
rola precedente (cfr. Rajxa, 1. e). Del pari, sciogliendo
l'abbreviatura, stampiamo September 169, November 206,
December 218, col m di septem, novem, decem.
Quanto ad hiis 309, 375, 411 per his, il doppio i è do-
\uto alla fusione e confusione avvenuta nel medio evo di
hic e is, come bene mostrò- il Rajna, op. cit., p. CLXXX-XI.
Già i grammatici medievali notarono che si doveva scrivere
ìiii e leggere hi.
Nel primo m di secumdum 160 ravviseremo quello di
stcnm; deve trattarsi di svista dell'amanuense, il quale più
avanti scrisse secundus 251.
Quanto a micM, nichil, sono scritti sempre col eh, come
di regola nel medio evo. Cfr. Thurot, op. cit., p. 142 e 533.
Anche in questo testo si ha, secondo l'uso medievale più
comune^ abiciunt 282 con un solo i (cfr. Rajxa, op. cit.,
p. CLXXXI) e attendens 385 (cfr. Rajxa, op. cit., p. CLVI).
Uso dell'/?. — Il ms. ha habiinde 9, 210, 415 e ha-
Studj di filologia romanza, IX, 4
50 LEANDRO BIADENE
hundo 145, ortografia riprovata dai grammatici, fra cui dal
commentatore di Prisciano del sec. XIU, Pietro Elia, il
quale avverte: " Plerique tamen dicunt habundo/per h aspi-
rationem. Quod sì dicitur, simplex est et derivatum ab
habeo „ (cfr. Thurot, op. cit., p. 533, nota a p. 142, 1. 7
e p. 521, nota a p. 79, 1. 18j.
Se negli esempj ora recati si ha un Jl non etimolo-
gico, questo per contro è omesso in ortos 51, ortografia
approvata dai grammatici ; giacché, come dice Velie Longo,
si deve scrivere ortus e non hortus, essendo il luogo così
denominato " quod ibi herbae oriantur ,, (cfr. Rajna, op.
cit., p. CLXVI). È tralasciato pure ìli in anneìitus 33 in-
vece di anhelitus e in pulcra 185 ma pulchra 428.
Uso dell't/ (cfr. Rajna, op. cit., p. CLXX). — Re-
lativamente abbastanza frequente: lujems 21, hyemem 20,
22, 214, liyemales 117; ymmo (cfr. Rajna, p. CLXXII) 29,
39, 143, 347 e quindi anche yma 61, giacché da questo
aggettivo si credeva e da taluni ancora si crede derivare
l'avverbio (cfr. Rajna, p. CXC), ma ima 232; tyrampnus
38, tyranno 201, tyrannus 346; hyle 235; phylomena 77;
amygdola 260, dyademate 346, hystoria 422 e nel terzo dei
leonini finali.
Uso del ph (cfr. Rajna, op. cit., p. CLXXII), — phy-
lomena 11.
Raddoppiamento di consonanti. — Per effetto
della pronuncia volgare: tolleremus 67, tollerare 219, in-
tollerabile 334 ^). Inoltre anneìitus 33, commedo 132, commedit
*) Nei tre esempj ora citati il raddoppiamento della consonante
non ha per altro l'effetto di far considerare come lunga ^er^osi^iowe
la vocale che precede, posto che i versi si scandiscano quantitati-
vamente: Vo va computato breve come nel classico tólerare.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 51
194, 207, a quella stessa guisa che già nell'evo classico si
scriveva commissoì' e commissatio oltre che comissor, comis-
satio (cfr. Forcellini, s. v.). In Numma 343 il raddoppia-
mento deve essere conseguenza di un falso rapporto eti-
mologico, che si credeva esistere fra questo nome e numus,
come apparisce dalle seguenti parole di Isidoro, Eti/moL, VI,
18, 10: "" Numi a Numa Romanorum rege vocati sunt „. Ora,
poiché contro i grammatici (cfr. Rajxa, op. cit., p, CXC)
accanto a numus si scriveva anche nummus, cosi si credette
poter scrivere anche Numma.
Consonanti scempie invece di doppie: sucos
116, ìiyle 235, tuceta 23C ^), maleus 260.
AWEETIMENTI SUL MODO DI PUBBLICAZIONE DEI CARMINA.
— L'ortografia è quella del manoscritto; sono per altro
sciolte le abbreviature, seguendo nei pochi casi dubbj i
criterj esposti qui indietro (p. 49); è rammodernata e in-
tegrata l'interpunzione^), e in carattere grasso sono aggiunte
le iniziali per le quali nel manoscritto è lasciato lo spazio
bianco e che indicano le principali divisioni del poemetto^
Fra l'una e l'altra di quest'ultime poi è sembrato oppor-
tuno lasciare nella stampa l'intervallo di una linea. Gli
errori manifesti di scrittura sono emendati nel primo or-
dine di note. Fra parentesi quadre chiudiamo i tre versi che,
come già dicemmo (p. 29), si palesano interpolati, e così
pure il titolo Bonvicini carmina de mensibus, tolto, come
parimenti avvertimmo (p. 26), dalla Tavola del manoscritto.
*) Mettiamo qui anche questo esempio, giacché, secondo il Marx,
si dovrebbe scrivere tuccetum con doppio e e non tucetum. Cfr. Archiv
f. latein. Lexicographie, VI, 135.
^) Nell'interno dei versi le varie pause del senso sono indicate nel
manoscritto, raramente del resto, dalle solite asticelle.
52 LEANDRO BIADENE
Quanto al modo in cui il poemetto è illustrato, già in
questa Introduzione è stato mostrato come Bonvesin abbia
svolto il tema da lui preso a trattare esaminando anche
a parte a parte la composizione, il ritmo, il lessico, l'orto-
grafia del poemetto. E la storia del tema stesso è per così
dire documentata nell'Appendice. Nel secondo ordine di note
poi onde il testo è accompagnato, intendiamo principalmente
di mostrare quanto nei particolari contenga di tradizionale
0 comunque derivato da altre fonti, e ci fermiamo inoltre
a dichiarare qualche parola o espressione del medesimo
testo latino, e, ove si presenti l'opportunità del raffronto,
anche di quello italiano, e aggiungiamo qualche altra os-
servazione e spiegazione.
Giunti alla fine del lavoro, sentiamo il bisogno di ringra-
ziare tutti quelli che benevolmente ci aiutarono a compirlo.
Riservandoci di menzionare gli altri più avanti di mano
in mano che se ne offrirà l'opportuna occasione, qui in-
tanto nominiamo il prof. F. No vati, il quale ebbe la bontà
di rivedere sul manoscritto la copia da noi eseguita e colla
sua perizia paleografica assicura dell'esattezza della mede-
sima, e il prof. I. Della Giovanna, a cui piti tardi ricor-
remmo per alcuni ragguaglj, da lui gentilmente trasmessici,
intorno al manoscritto stesso. Soprattutto poi vive grazie
dobbiamo rendere al prof. A. D'Ancona, il quale, al solito,
ci fu largo di libri da consultare e inoltre sul tema da noi
preso a studiare ci fornì alcune notizie non contenute ne' suoi
scritti e che riferiremo via via col suo nome.
Leandro Biadene.
* CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 53
[BONVICINI CARMINA DE MENSIBUS]
Ms. Vaticano 3113.
H
ic legat relegat quisquis solatia querens [123^]
ceu menses voluere suum deponere regem.
1. Il testo volgare principia:
Moresta da ventagio ki vor odi cantare,
io Bonvesin da Riva la voglio determinare
come s'alomenta li mesi, vegliando depotestare
lo so segnore Zenere, ke no debia piìi regnare.
Solatia del testo latino corrisponde a moresta da ventagio, locuzione
fin qui non esattamente intesa e tanto meno spiegata. Le varie spie-
gazioni finora proposte della parola moresta si possono trovare rac-
colte nel Glossar zu den Gedichten des Bonvesin da Riva, Berlin, 1886,
di A. Seifert; il quale per altro, a essere compiutissimo, avrebbe
dovuto aggiungere che il Wesselofsky nello scritto da lui citato {Pro-
pugnatore, V n, 370) mentre inchina a credere che invece di moresta
sia da leggere moresca ' specie di lotta e di scherma ', avanza, sia
pure con maggiore esitazione, anche due altre ipotesi : che 1' autore
avesse scritto o intenzione di scrivere movesta ' mossa ' con valore di
sostantivo ' movimento ' (e questa è altresì l'opinione dell'Ascoli, Ar-
chino glottologico ital., II, 406 e cfr. Romania, II, 115), oppure molesta
invece di molestia. Or bene, quest'ultima, come ora vedremo, è ap-
punto la parola voluta scrivei'e dall'autore ; soltanto non è necessario
alterarne la forma moresta, dove si avrà la riduzione di l in r frequente,
com'è noto, tra vocali nell'antico lombardo più che nel moderno. E
che così sia veramente, vale a dire che moresta non solo possa cor-
rispondere ma corrisponda anche in fatto a molesta, apparisce dal
confronto di due poesie dello stesso Bonvesin contenute in due di-
versi manoscritti e contenenti le due diverse forme di questa che
diciamo essere una sola e medesima parola. Parlando di ciò che av-
-verrà dei buoni il giorno del Giudizio, così si esprime (D 837) :
54 LEANDRO BIADENE
c
onvenerunt; livore suas dictante qnerelas
nequiter effundunt. Primus fert talia Februs
Et intre lor ha esse sì confoiiabel festa
ke mai no fo vezuda così zentil moresta;
li zogi e li conforti k'an esse in quella jesta
seran da tute le parte in la cita celesta.
E in una poesia inedita descrivendo le glorie del Paradiso, esclama
(S III, 181):
Oi deo, splendore purissimo in la cita celeste,
corno questo è grande conforto e quen zentile molesta!
qui non piove ne fiocha, qui non dà tempesta,
^ ma el gè è strabello temporio e stradulcissima festa.
E più sotto (349):
Oy festarcza gloria, oy glorioxa festa
mirare cotale dolceza, cossi mirabile gesta ;
mirare le faze de li angeli in la cita celeste
e le faze de li arcbangeli, tropo è zentile molesta.
Può esserci più dubbio che moresta e molesta non sieno due diverse
forme di una stessa parola? Quanto poi a molesta per molestia, la
Crusca, è vero, non ne riporta alcun esempio, ma il Dizionario del
Tommaseo e del Bellini nota tal voce " in un verseggiatore del 300 ,
e aggiungiamo noi che essa si trova anche in uno dei sonetti attri-
buiti a Guido Cavalcanti (vedi G. Salvadori, La poesia giovanile e la
canzone d'amore di G. Cav. Roma, 1895, son. 39, v. 2, p. 107) e in una
poesia di Rinaldo d'Aquino (Cod. Palatino 418, n" 46), dove il Caix
non avrebbe detto, come fece {Origini della lingua poetica ital., § 258),
che è usata soltanto in grazia della rima, se avesse potuto sapere
che s'incontra anche in prosa nel Libro de li exempli edito più tardi
da G. Ulrich [Trattati religiosi e Libro ecc. nella Scelta di curiosità
leti., disp. 239, Bologna, 1891 ; vedi il Glossario a p. 170), dove fu già
notata dal Salvioni [Giorn. stor. d. letter. it. XV, 270 *). Moresta dunque,
anche nel primo verso sopra riportato del Trattato dei mesi, starà
per molesta ossia molestia; ma questo, che è il significato della pa-
rola in sé, viene nel contesto del verso ad assumere una particolare
determinazione e ad alterarsi tanto da essere, se così si può dire,
capovolto, in forza dell'espressione da ventagio, che immediatamente
le segue e da cui non può disgiungersi. Il Dizionario del Tommaseo
e del Bellini s. v. vantaggio mostra, ciò che del resto s'intende facil-
*) Ci accorgiamo ora sulle bozze già messe in pagina che un. esempio tolto da
un testo in prosa del Cavalca era stato accolto da un pezzo nel Vocabolario
della Crusca accresciuta dal Cesari (Verona, 1806).
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RITA 55
5 ceno fedatus caligas et utrosque petitos:
" ecce, quis est lanus? quis eum sine fine super nos
5. Il ma. reca chiaramente petitos. 6. Mg. cu
meite da sé, che cosa di vantaggio vale ' vantaggiata, che è fra le
migliori ', e così moresta da ventagio corrisponderà a ' molestia van-
taggiata 0 vantaggiosa ' ossia in fondo ' cosa grata, piacevole, dilet-
tevole ' e quindi press'a poco fa riscontro a zentile moresta o molesta
dalle quartine sopra riportate. Ci troviamo dunque dinanzi una di
quelle locuzioni in cui il valore antifrastico del sostantivo è reso evi-
derte dall'aggettivo o dall'espressione aggettivale che lo accompagna
0 die esprime un'idea ad esso opposta. E qui gioverà notare che di
sifiatte locuzioni (e non monta se di significato appunto contrarie a
quella di cui si discorre, bastando ne sia analoga la costruzione ideale)
Bonvesin si compiacque anche altre volte. Nella poesia inedita già
sopra citata leggiamo :
169. De zò sì me partisco; or ve dirò de la pena
ke ha l'homo quando el more, corno quella è soza zema
e
208. se debio andar con questi, questo è reo stramezo
e
1099. oy dee, comò mal gè steva, oy deo quen reo deporto
Quest'ultima espressione è usata dallo stesso Bonvesin anche al-
trove (D 65 e 85).
E così, conchiudendo, tutto il verso " Moresta da ventagio ki vor
od^i cantare „ (il quale nella penultima strofa del poemetto ritorna
determinato e per metà ripetuto in questa forma " L'ystoria de gli
misi ki vor odi cantare ,) apparisce quasi una variazione tli quest'altro
Ki voi odir cnintar d'una zentil novella „ con cui Bonvesin inco-
mincia un'altra poesia (J). Quindi 1' opinione del Lidforss (ediz. cit.,
p. 101), il quale dal confronto del moresta del Trattato dei mesi con
quello dell'altra quartina sopra recata, credeva risultare il significato
di ' intertenimento, sollazzo, festa ', diventa giusta soltanto quando la
parola si consideri insieme coll'aggettivo o l'espressione aggettivale
{zentile, da ventagio) da cui è accompagnata nei due luoghi ; e per
tal modo resta esclusa anche la derivazione, a cui egli inchinava, di
essa parola dal latino morari nel senso di ' divertire, sollazzare ', e
che del resto era difficile pure per ragioni formali.
5. Nelle arti figurative Febbraio è rappresentato o nell'atto di
potare le viti (nel Battistero di Parma lavora colla marra) o intento
56 LEANDRO BIADENE
constituit, tanto cum non sit dignus honore?
Nani nullum fructum pariens nil utilitatis
efficiens, poscit, recipit, consumit habunde;
10 nil dat ni glaciem, fluxum nivis atque pruinam.
Tarn sevum tam grande gelu parit ille malignus
quod meus asis onus sentit, nimiuraque gravatus
compescor dolore, gelu ; sed is ocia solum
solus amat, nostro fruitar sua vita labore,
15 et quia sum vicinus ei, quia parvulus assum,
me premit, et quanquam vites cum falce putare
incipiam, quarum fructu sibi postmodo gaudet,
me tamen ingratus prò nullo pendere ponit.
Cur nimis indignor? quoniam sum dignior ilio,
20 nam ver incipiens hjemem depello malignam.
Mortem signat hyemps anime, ver fertile vitam;
sic sapiens hyemem fugat, ver fertile carpens,
linquendo vi cium, prorsus virtute vigendo ;
exemplum quoque do, cum vites amputo falce,
25 ut crimen sapiens sic amputet omne fatendo
presbitero proprio, cuius mandata tenendo
salvus erit et celestia regna tenebit.
Exemplum nullum lano probitatis inheret,
ymmo nequitie; cur ergo michi dominatur
30 pessimus ille canis? cogatur linquere regnum
ac decernatur de nobis dignior unus „.
9. IHs. effitiens
alla pesca (Stkzygowski, Calenderbilder, p, 61). Poiché più avanti Bon-
vesin di coteste due occupazioni di Tebbraio rammenta soltanto la
prima (vv. 16-17, 248-49), vien fatto di pensare che il fango di cui,
secondo questo quinto verso, ha insozzati i calzari, sia quello dei
campi ordinariamente umidi in quel mese. Potrebbe del resto anche
non essere conservata la coerenza dei simboli.
'CARMINA DE MENStBUS " DI BONVESIN DA LA RIVA 57
M.
.artias irato vultu sparsusque capillos,
totus turbatus, cui creber annelitus instat,
OS aperit tumidum, clamoso turbine fatur:
35 " quis dedit ut lanus gelidus, piger et sceleratus,
prodigus et mensis nichili cunctisque nocivus,
quis dedit ut nobis dominetur pessimus ille [124'']
tyrarnpnus? per nos non fuit rex ille locatus,
ymmo dolis habuit regnum sed non ratione.
40 Ergo quid hoc patimur? regno privetur ab isto.
Nil facit ille piger nisi nostros carpere fructus.
Vites extendo, sero lina, legumina campis;
herbis, arboribus cunctis iam prebeo vires,
oppressit suo proprio quas tempore lanus,
45 iamque vigent foliis et floribus ac redolentes
apparent viole nova gaudia significantes.
Hoc est exemplum : qui vult sibi gaudia vera
floreat et vireat vii'tutum fronde vigendo
ut sua vita bonum reliquis bona prestet odorem.
50 Pianto novas vites ut det nova vinea vinum;
ingrato lano mea dextera seminat òrtos
fercula prestantes humane progeniei;
tunc opus inveniunt inopes quo lucra parantur,
quos tenet oppressos nimio pre frigore lanus;
55 ad nostrasque manus quadragesima fertur
inducens homines ut crimina confiteantur
peniteantque mali. Sed quid facit advena lanus
cur laudem mereat? post nos fuit ille repertus,
qui nunc prepositus nos centra iura cohercet;
60 cur ergo patimur lani crudelia regna?
prorsus ab arce ruat et precipitetur ad yma ,.
" bi. Ms. p fr.
58 LEANDRO BIADENE
F.
loribus ornatus loquitur festinus Aprili s:
" si lanus pei' se sua regna relinquere vellet,
cura non sit dignus nec nobis denique gratus,
65 urbane faceret; vetat alta superbia lani
se flecti, qui vult potius moriamur ut omnes
quam se deponi; nullatenus hoc tolleremus
cum dignus regno nulla racione videtur
plus nobis, quia non sensu nec more nec ortu,
70 non exercicio superat nos; sufficit illi
quod tenuit septrum dudum, quo dignior ilio
sum multo, quia prò glacie quam parturit ille
do frondes, do temperiem prò frigore duro,
prò nive do flores, prò bruma semino rorem; [124^]
75 iamque reviviscunt campi, vii'idaria, prata,
iamque boves et oves pascuntur gramine, fronde ;
omnia florescunt, cantat phylomena suave,
ac omnes letantur aves, aperitur et omnis
leticie facies ; poscit mea limina Pascha
62. Il ma. ha chiaramente qui, e più avanti al v. 378, festinus e non festivus, come
si potrebbe sospettare. 77. Ms. phylome 78. Ms. at
78-79. Più chiaramente si accenna all'etimologia di Aprile nel
testo italiano, st. 36" " Per zio o nome Aprile ke avrò gran beleza ,.
Del resto l'etimologia di Aprile da cqìerire è tradizionale. Ovidio,
Fast., IV, 87: " quia ver aperit tunc omnia... foetaque terra patet
Aprilem memorant ab aperto tempore dictum ,. Plutarco, Vita di
Ninna (TTXouTdpxou Bioi, Parigi, Didot, 1857, voi. T, Nóiuaq, cap. XIX,
p. 86, lin. 21 sgg.): « Tivé^ he où òià Tf\v 'A(ppobiTr|v tòv 'AirpiXXiov
«■paalv, ÓXX' uJOTTep ?x^\ touvo^ìo vjjiXòv 'ATTpiXXiov K€KXf|a9ai tòv lirjva,
ir\<; èapivfi^ iljpac; ÓKuaZouariq óvoiYovTa Kai àvaKoXÙTTTOvTa toù^ pXa-
OTOùq TÙJV qpuTuùv • toOto Top f\ T^uJTTa or|)Liaiv€i ». Macrobio, Saturn.,
I, 12, 14: " cum fere ante aequinoctium vernum triste sit coelum et
nubibus obductum, sed et mare navigautibus clausum, terrae etiam
ipsae aut aqua aut pruina contegantur, eaque omnia verno id est hoc
mense aperiantur, arbores quoque nec minus cetera quae continet
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESUN DA LA RIVA 59
80 quando resurrexit Dominus; quicunque venire
ad Pascila celeste petit, quod fine carebit,
dum vivit pei' eum fiat quadragesima talis
ut sit dignus eo; per me bona plurima fiunt:
fructibus a propriis omnis cognoscitur arbor;
85 ergo quam lanus sum dignior in dominatu ,.
T
alitar alloquitur extenso gucture Maius:
" lanus continuo de regno precipitetur,
cuni nos fructiferos sterilis derideat ille;
ulterius renuo sua seva gravamina forre,
terra aperire se in germen incipiant, ab bis omnibus mensem
Aprilem dici merito credendum est quasi aperilem „. Secondo i
Fasti Praenestini editi dal Mommseu {Corpus Insci'. Lat., I, 316 e 364)
Aprile è così chiamato " quia fruges flores animaliaque ac maria et
terrae aperiuntur ,. Isidoro, Etymol., lib. V, cap. 38, 6: "... vel quia
in eo mense omnia aperiuntur in florem, quasi aperilis „. Wandal-
berto di Prùm, De mensitim nominibus (Dùmmler, Poetae lat. aevi Carvi.,
Il, 604), vv. 77-79: "Vel mage quod terras brumali frigore clausas
In varios aperit faetus cogitque fovendo. Romano tantum excellet
sermone vocatus „. E l'autore deWYdioma mensiiim singnlorum (Dùmm-
LEK, op. cit., t. Il, p. 644), vv. 13-14: " Dicitur Aprelis, crescunt dum
germine flores, Frondibus et herbis quaeque virecta patent ,. E nel-
V Imago mundi di Onorio d'Autun, cap. XL: " Dicitur etiam quasi
aperilis, eo quod aperiat terram in flores „. Th. Wright, Early
Mysteries and other latin poems, London, Smith, 1849, Carminum re-
sonantium specimen, VI, 7-8:' fert Aprilis Aperii | nomen ab officio ,.
E un antico rimatore così principia un sonetto : * Tutor ch'aprile ab
aperio sia decto Perchè s'apre la terra „ (P. Tommasini Mattiucci,
Nerio Mescoli antico rimatore sconosciuto, Perugia, 1897, p. 99). E
l'autore delle Ottave sui mesi edite da M. Menghini, Rivista crit. d.
lett. ital., VII, 189: " I pori della terra aprendo Aprile Vero son
io della stagion amena ,. Gioverà aggiungere che nel Veneto i con-
tadini dicono ordinariamente verta cioè ' aperta ' il principio della
primavera, quando cioè, anche secondo l'espressione comune, si apre
la stagione.
84. Luca VI, 44 : " Unaquaeque enim arbor de fructu suo cogno-
scitur „; Matteo, VII, 20: " Igitur ex fructibus eorum cognoscetis eoa ,.
60 LEANDRO BIADENE
90 nam nichilum faciens est importanus et omne
quod volt nos cogit sibi tradere, nil prohiberi
quo gaudet lanus; fit caseus optimus a me
et fenum quo pascit equos; ingratus et ille
quod sibi porrigitur a nobis dissipat omne;
95 nil nisi tristitias nobis parit ille malignus;
maturans fruges ego sum; iam florida vitis
in tantum redolet quod vinea propter odorem
a se bufones, serpentes aflFugit omnes.
Panicum, mileum iam semino, tondeo lanas,
100 cerasa iam matura patent maturaque fraga,
prorsus odoriferas candentes et rnbicundas
multas paro rosas, iam lilla candida candent,
A quo dilectus Deus est et proximus, ille
ceu rosa splendet, ceu lilla candida candet,
105 prò Christo servans sine crimine virginitatem.
Hec ego ; sed lanus quid agit ? petit otia sola,
que viciis assueta suis alimenta ministrant.
At curiosus ego iusto dans menbra labori,
militiamque gerens et equis facetus et armis [125""]
Ilo defendo patriam; iam ver abit et incipit estas;
sed lanus nichili fert nomen oflici, perdi „.
96. Ms. maturas. Sarebbe dunque stato omesso per isvista sopra Va, dell' uUiìna sillaba
il se^no dell'abbreviatura. L'emendazione ci fu proposta dal prof. Novali. Il
costrutto maturans fruges ego sum jjìtò parere ostico anche in un testo medie-
vale come il nostro; ma come provvedere altrimenti al senso?
98. Probabilmente invece di affugit sarà da leggere affugat. 108. Ms. ac
97-98. Che l'odore della vite in fiore scacci i rospi e i serpenti
sarà stata credenza popolare; a me non è nota se non da questi
versi di Bonvesin.
107. Cfr. Dionisio Catone, Distich., I, 2 (Baehkens, PLM, III,
217): " Nam diuturna quies vitiis alimenta ministrai „.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 61
L
.unius alloquitur prò magno caumate lino
indutus solo, nudo pede, corpore fessus:
" quis lanus? prò quo tanto sudore laboro,
115 messem falce seco, frumenti grana repono,
unde facit sucos in sero perfidns ille,
triticeumque facit panem nec sum sibi gratus.
Amplius ingrato maturo legumina lano,
prò quo quidquid ago totum me perdere cerno,
120 nam non dignatur saltem miclii reddere grates
at pocius me prò niellilo reputare videtur;
[merces est talis, dominus cui servio qualis]
nil pariens nil dat parientibus omnia nobis.
Preterea matura mora sunt tempore meo
125 prunaque iam parent estu, iam poma patescunt;
ille nivem, glaciem solum parit atque pruinam ;
cur ergo patimur lani sevissima regna? ,
L
.ulius assequitur quasi nudus, pulverulentus
et multum queritur de lano talia dicens:
130 " ecce ligoniso multoque labore laboro;
sol mea menbra coquit, laxat mea corpora sudor,
panem quem commedo mereor, sed lanus ad ignem
presidet et nostro vivit gaudendo labore;
plus meret omnis homo manuum vivendo labore
135 quam mendicando vel a reliquis rapiendo,
et dare quam capere legitur plus esse beatum.
117. Ms. triticumque 136. Ms. carpere, ma cfr. Introd., p. 42.
122. Proverbio, che in questa precisa forma non so di chi sia.
136. È sentenza che variamente foggiata ritoma ad ogni mo-
mento nella poesia trovadorica (cfr. Diez, Die Poesie der Trouhadours ^
Lipsia, 1883, p. 40), ma che non saprei dire se si trovasse già in
latino 0 in italiano in forma uguale o molto simile a quella in cui
qui ci si presenta.
62 LEANDRO lUADENE
Ve qui se pascit alieni pane dolorisi
[Dat labor ardentem, gelidam dant otia mentem]
ergo beatus ego non lanus; pastus ab orbis
140 efficitur lupus alienis, ocia querens;
nil meret in sero, vitat quicunque laborem;
et ego non tantum proprio me pasco labore,
ymmo raultiplices parlo fructus, poma, pira,
copiam moro rum, prunorum; multa videntur
145 agresta, puUisque novis fecundus habundo. [125^]
lam matura patet uva domestica quedam,
at nullum fructum lanus sterilissimus affert.
Est tradenda rogo fructum que non parit arbor,
sic et comburi lanus dignissimus esset „.
150 \Jalidus Augustus facie tamen intus iniquus
de lano quex'itur: " Quis lanus? quid facit ipse
cur laudem mereat? quidquid fit proditur illi,
qui facit omne malum, nulli placet, impedit omnes.
Indignor quoniam bona plurima- me faciente
155 et lanus nullum, me subiugat atque molestat.
Sed cur hoc patimur? ecce vivit prodigus ille,
multa rapit, nil dat, large petit absque rubore.
142. 3Is. tantis o cantis 155. 3Is. iitque
137. Il testo italiano, st. Ql^: " Beao, zio dis David, ke vive de soa
fadiga „ richiamandosi al Salmo CXXVII, 2 : " Labores manuum tuarum
quia manducabis : beatus es et bene tibi erit „ ; ma più che queste
parole, scrivendo il verso latino, Bonvesin avrà forse avuto presente il
versetto del Genesi, TU, 19: " Vesceris pane tuo in sudore vultus tui ,.
138. Non conosco la fonte del proverbio nella forma in cui è
espresso qui. Alcuni proverbj italiani e stranieri ad esso affini furono
raccolti dal Vannucci, Proverbi latini, II, 19 n.
148. Matteo, VII, 19: " Omnis arbor quae non facit fructum bo-
num excidetur et in ignem mittetur „.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONTESIN DA LA RIVA .63
Cur ipso faciente malmn nos sub pede calcai
et premit ut servos viles vilissimus ille?
160 Panicum, milium, fenum maturo secumdum,
uve pinguntur, aquis iam macero Unum ;
(nuBus toUet aquam fuerit cui copia vini]
pruna damascena, ficus et persica pando,
sic et avellanas et amygdola sana comestu;
165 incipit autumpnus, qui multis fructibus uber.
Hec ego; sed dicat lanus quid fecerit umquam:
omne malum tantum, nunquam se corrigit ipsum;
ergo cadat lanus, rex alter instituatur „.
A.
.t post Augustum September talia fatus :
170 " Ve michi! quis lanus cuius sub pondere pressus
tamquam servus ego? per me bona plurima fiunt
quis fruitur lanus; recipit tantummodo, nil dat;
est eius reserata manus qui porrigit illi,
sed dando clausa; cupidus simul est et avarus,
175 ingratus ganeo, tyrannus pessimus^ asper,
nil dans, nil boni pariens sed crimine vivens
nos ridet innocuos et sub pede calcat;
strictior ad dandum sed largus ad accipiendum,
perfidus, incultus, brutus, villanus habetur.
180 Sic lanus, sed fetus ego bona plurima spargo:
panicum, milium, matura ligumina trado [126'']
que medio ventris oculos dicuntur habere;
vinca matura mustosis affluit uvis,
170. Ms. sub cuius ITI. Ms. bono
182. Di fianco a quanto verso, coll'indice teso verso di esso, sta nel margine una mano
con accanto le parole supp[le] fasoli. / legumi nominati nel testo sono dunque
quelli che anche oggi si chiamano fagiuoli coll'occhio.
183. Seìnbrerebhe scritto muscosis.
162. Cfr. Jacopone da Todi, Proverbi (Nannucci, Manuale d. lett.
,ital., P, 405): " Dell'acqua suole bevere Chi non ave del vino „.
64 LEANDRO BIADENE
iam vegetes, tina, iam torcularia piena
185 preparo, iam mustum fundo, castanea pulcra
iam maturantur, ficus siccantur et omnes
maturo fructus hyemales, quos fero lano,
ac agriculturas facio quibus semina prima seruntur,
iamque nuces propris de plantis excutiuntur;
190 ergo michi lanus conferri nil valet ille „.
0<
'ctober sequitur facie mustosus et inquit:
" Multiplicis vinum do lano raaneriei ;
colligo poma, pira, raarona, que penes ignem
ille sedens commedit, nichil michi retribuendo,
195 at nichil ìpse facit sed nostris fetibus utens
ignem cantat apud, tantum solacia querens,
deque nichil nostri curat sudore laboris;
plurima consumit, nunquani vult ad rationem
se poni, sed prò nichilo nos computat omnes.
200 A nichilo domino niellili retributio surgit;
tyranno misero non stat securus adherens;
quo magis ingrato servitur, perditur hoc plus;
servivimus lano gratis nichilumque meretur;
serpentem sinu nostro nutrire videmur;
205 ergo ruat lanus dimittere regna coactus „.
200. Sentenza simile a quella del v. 122.
201. Vedi più avanti la nota apposta ai vv. 222-24, a cui questo
per il pensiero è da ravvicinare.
202. Ha qualche somiglianza col proverbio volgare " Chi serve
a rio segnore ne grao ne guerdone „ (n. 62 della raccolta di Geremia
da Montagnone pubbl. da A. Gloria e meglio indicata nella nota
al V. 303).
204. Cfr. il proverbio italiano " Nutri la serpe in seno ti renderà
veleno „ (Giusti, Proverbi, p. 158), che, per così dire, compendia una
favola di Fedro (lib. II, xvi).
' CARMINA DE ME.NSIIJL S ' DI BONVESIN DA LA RIVA 65
Hicce November ait: " i"iorci sale condio carnes,
quas in succiduo commedit sepissime lanus;
rapas et napos extirpans porrigo lano,
unde paratui- olus cura multe maneriei
210 carnibus, unde replens ventrera solatur habunde;
omne malum sed lanus agit: succrescere frigus
intensum our cogor, linquere fetum
autumpni, cursunique sibi preparare rigoris,
ac hyemem sterilem cogor violenter inire;
215 propter quod claret lanum nimis esse malignum.
Donec erit dominus crescit tribulatio nostra;
ipso deposito pax nobis multa vigebit „.
1 ostremo loquitur vestitus vulpe December: [126^]
" Nullo facta modo lani tollerare valebo,
220 nam nimium mea dorsa gravant sua pondera seva;
tantum frigus agit, sum quia proxiiuus illi,
sentio grande gelu, pravo nocet esse propinquum
vicino ; quicunque potest se separet inde ;
stans prope serpentem securus non bene dormit.
225 Omnibus ille prior posuit me posteriorem;
hoc ego non patiar quod sit prior; advena cum sit
214. Ms. at
222-24. ì^ovATi, Serie proverbiali nel Giorn.stor. d.lett.ital.,'^Nlll,
132, n. 47 " Chi à lo reo vesin si à lo bon matin ,. E in nota i se-
guenti riscontri : * Zacher [Altfranzosische SprichwSrter nella Zeitschr.
f. deutsch. Alterthum, XI (1859), p. 114 sgg.], n. 178 " Qui a mal vesin
a mal matiu ,: cfr. C\\jr:[im., Altprovenzalische SprichwOrter, Marhurg,
1888], p. 31, n. 224; Verslus Prorerbiales] 58 (p. 43); L[e Roux de
Lincy, Le Iure des proverbes fì-angais, Paris, 1842, e 2* ediz., Paris,
1859] II 380, 459, 498, G[iusti, Proverbi Toscani, Firenze, 1855] 61,
Dur[ingsfeld u. 0. Freiherr von Reinsberg-Dùringsfeld, Sprichtvorter
.der german. u. roman. Sprachen, Leipzig, 1872-75] 124, 132 „.
SiiiJJ di filologia romanza, IX. ^
66 LEANDRO BUDENE
posteriori loco debet de iure locari.
Rursus non partu fructus, sensu, probitate
me superai. Cut post ego sum, sed is ante locatus?
230 isque agit nichilum; nichil est ex quo nichil fit;
ergo nichil lanus cum nil agat; ergo meretur
prò nichilo poni claudique sub ima profondi;
sed nos multa quidem facimus: preparo ligna
tam michi quara lano, per me siccantur ad ignem
235 byle, tuceta, multis quoque partibus hirne.
Rursus ego festum domini ciò virgine nati,
qui deus est et homo quo gentes letificantur.
Ad nostras manus minor est quadragesima ducta,
230. 3Ts. idque
284. 3l8. eiocatur ; omesso sopra l'a il segno dell'abbreviatura. 235. Ms. ceii
230. Il secondo emistichio è un ben noto aforisma (cfr. Forcel-
LiNi, s. V. nihilum e Otto, Die Sprichworter der Romer, Lipsia, Teubner
1890, p. 243, s. V. niUl).
238. La quadragesima minor non può essere se non quel periodo
dell'anno che nel calendario eccles,iastico ha il nome àaìV Avvento ed è
chiamato anche Quaresima di S. Martino e in Oriente Quaresima di
S. Filippo (v. MoEONi, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, III,
801 e 302). In origine durava dappertutto, a quanto sembra, quaranta
giorni, ma poi nella maggior parte dei paesi cattolici si ridusse alle
sole quattro settimane che precedono il Natale e principiano col 30
Novembre ; sicché si può dire che sia compreso tutto intero nel mese
di Dicembre, in cui lo pone anche Bonvesin. Ma qui è legittimo il
sospetto che egli si contentasse di esprimersi in modo anche più
approssimativo (nessun lume ci viene dal testo italiano, dove i v. 238-41
rimangono senza riscontro) e intendesse soltanto di dire che la mag-
gior parte dell'Avvento cade in Dicembre, pur incominciando alquanti
giorni prima in Novembre, se è vero quanto scrive il Moroni, op.
cit., p. 300, che " La chiesa di Milano, che sempre si attenne alla
sua antica disciplina, osserva anche a' nostri giorni, come nei primi
secoli, l'Avvento di sei settimane „. E tale sospetto sarebbe avvalo-
rato dal vedere che con le stesse parole con cui Dicembre della pic-
cola Quaresima, si vanta Marzo di essere il mese della Quaresima
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 67
qaam multi faciunt ut sua crimina pellant;
240 induco multas ad spiritualia gentes :
est opus hoc sanctum domino super omnia gratum.
lanus ad omne nefas dans se nimis est sceleratus;
ergo ruat penitus cum non sit vivere dignus.
Q.
'uisque voluntatem propriam patefecit, et omnes
245 una concordes strepitum pedibus facientes
vocibus ad celum transmissis undique claraant:
" lanus queratur, lanus moriatur „. Ad arma
omnes discurrunt. Februs prior accipit illam
vera e propria (cfr. i vv. 238 e 55), quantunque non di rado, come si
sa, una parte di questa cada in Febbraio. Sembra dunque che l'espres-
sione minor aggiunta a quadragesima e che, nella corrispondente
forma volgare, avrebbe 1' aria d' essere stata d'uso comune, non do-
vesse indicare la minore durata dell'Avvento in confronto della Qua-
resima vera e propria, ma soltanto la minore severità e il minor
numero di obblighi di digiunare e di astenersi dalle carni e dai sol-
lazzi. Già lo stesso Bonvesin nota (v. 56) che cotesta Quaresima è
osservata da molti, ma non da tutti {quam multi faciunt). Non trala-
scieremo, ad ogni modo, e parrà forse scrupolo soverchio, di tener
conto che, secondo riferisce pure il Moroni, op. cit., p. 301 " Raterio
vescovo di Verona, al cominciare del decimo secolo, asserisce che
l'Avvento durava nella Lombardia, quattro sole settimane come a
Roma ,. Dovremo pensare che sia stato così anche nella capitale
lombarda al tempo di Bonvesin? Dopo quanto abbiamo osservato
più sopra non inchineremmo certamente a crederlo, ma se qualche
dubbio potesse rimanere intomo a cotesto punto, gli eruditi eccle-
siastici avranno certamente modo di scioglierlo.
248-65. Per le rappresentazioni figurate dei Mesi nei monumenti
italiani ci contenteremo qui di rimandare ai ragguaglj dati dallo
Strzygowski, Calenderbilder, pp. 52 sgg. Gli strumenti che Bonvesin
mette in mano ai singoli Mesi, o le armi di cui li vediamo muniti, sono
in generale quegli stessi che hanno nei monumenti; nondimeno con-
viene notare qualche differenza. Così secondo lo Strzygowski, op. cit.,
p. 69, Maggio è rappresentato spesso come un cavaliere che esce
alla campagna o solo o in compagnia della sua dama, ma senz'armi ;
Bonvesin invece lo dice, vv. 254-55 " eques splendentibus armis [ Om-
08 LEANDRO BlADENE
falciculain cum qua vites putat; ecce secuudus
250 Martius est clangore tube resonando secutus;
nibus armatus, campo temptoria tendens „. Ora anche quest'ultimo
modo di raffigurarlo doveva parer tutt'altro che strano in Italia. Il
Wesselofsky nella recensione che fece del poemetto italiano di Bon-
vesin {Propugnatore, V, ii, 368 sgg.) osserva opportunamente che
Maggio era il mese delle giostre e rammenta i versi di Folgore da
S. Gemignano : " Di Maggio vi do molti cavagli E tutti quanti siano
affi-enatori . . . Rompere e fiaccare bigordi e lancie . . . „. Nei monumenti
indicati dallo Strzygowski, op. cit., p. 74, neppure Agosto è rappresen-
tato come qui fa Bonvesin, vv. 257-60; ma che non sia stato egli il primo
a concepirlo ec/er [infermizo dice il testo italiano, st. 142 ^), apparisce
anche dai seguenti versi di un canto meridionale sui dodici mesi
(D'Ancona, op. cit., pp. 244-247): * Io so Austo cu la 'nfermeria Me
l'aggio strutta "na spezzieria Mangianno 'n' 'allina ogni matina Pe fa
passa sa 'róssa 'nfermaria „. E in un altro canto meridionale (D'An-
cona, op. cit., pp. 240-44) egli si dice : " dottore de legge e de bona
medicina ,. Quanto a Settembre, lo Strzygowski, op. cit., p. 75, non
cita esempj in cui apparisca sotto forma di uomo che racconcia le
botti e a cui quindi starebbe bene in mano il " maleus quoque ligneus
Unde stringuntur vegetes , di Bonvesin, vv. 260-61; ma in tale ope-
razione, per citare un esempio, lo vediamo occupato nella chiesa di
S. Geminiano di Modena. Neanche di Ottobre, che abbia una pertica in
mano da abbacchiare le castagne, lo Strzygowski, op. cit., pp. 77-78,
sa addurre riscontri; ma è abbastanza comune che esso abbacchj le
ghiande. Ordinariamente non è Novembre, come nella poesia di Bon-
vesin, vv. 264-65, in atto di sventrare un porco, ma così suole fare
Dicembre ; il quale invece più di rado ha in mano, come nel nostro
testo, vv. 266-67, la scure colla quale spacca legne.
Bonvesin si scostò qua e là un pochino dai tipi piìi comuni forse
per la necessità che aveva di mettere in mano a ciascun mese
un'arme o uno strumento qualsiasi.
249. Si noti qui una differenza nella rappresentazione di Febbraio
fra il testo latino, secondo il quale esso " accipifc illam Falciculam
cum qua vites putat „ e quello volgare secondo cui " a soa forca
corre „. Ora poiché in nessun'altra rappresentazione, per quel eh' io
sappia, cotesto mese è raffigurato colla forca in mano, mentre lo ve-
diamo invece potare le viti con un falcetto (falcicula) anche altrove
(p. es. sulla porta della chiesa di S. Zeno a Verona e nell'edicola di
S. Geminiano del duomo di Modena) e, ciò che in questo caso vale
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 69
tertius Aprilis ramum vexillifer ofFert,
in vicem vexilli florum variamine plenum.
Accedit iam Maius eques splendentibus armis
omnibus armatus, campo temptoria tendens.
255 lunius cum falce sua, cura qua resecare [127'']
est segetes solitus, properat; sumit atque ligonem
lulius iratus; Augustus sit licet eger
cum baculo veniens cum quo substentat, iniquo
accedit vultu, baculo multumque minatur
260 a longe lano; maleus quoque ligneus unde
stringuntur vegetes destra Septembris habetur ;
Octobris manibus portatur pertica longa,
qua marona suis de rarais excutiuntur;
carnificis cultnim capiens Xovember acutum,
265 quo porcos iugulat, lanum iugulare minatur.
Ecce Decomber habet qua scindit ligna securim,
cum qua proponit lanum mactare repertum.
L
.am iuncti menses armati talibus armis
convellere simul: resonant clamore, tumultu,
270 et clangore tube patitui' quasi terra tremorem;
post strepitum nimium fingunt se querere lanum ;
exclaraant: " lanus non vivat sed moriatur ..
261-262. Ci aspetteremmo anche qui che Settembre e Ottobre, analogamente a tutti
gli altri mesi dianzi nominati, fossero i soggetti dette proposisioni di cui fanno
parte, e per vero anche le abbreviature del ms., che porterebbero a leggere Sep-
teniber, October, mostrano che cosi la pensasse pure lo scrittore di esso; ma
la grammatica richiede si legga, come abbiamo fatto di sopita, Septembris,
Octobris.
di più, nello stesso testo italiano di Bonvesin esso mese si vanta
(st. 15*) di cominciare a potare le viti {cum falce, non omette di ag-
giungere il testo latino nel luogo corrispondente), vien fatto di pen-
sare che la differenza sopra avvertita sia soltanto apparente e che
forca non possa essere se non alterazione di folca scritto invece di
folcia 0 anche folga ossia fole ' falce '.
70 LEANDRO BIADENE
L
.nterea lanus tractatus nescius huius
secure cantans ad pir solando sedebat;
275 sed postquam strepitum, sensit manare tumultum,
territus exurgit, multaque gravedine clavam
accipit in destra forti, tensoque lacerto
aggressus menses, insultum terribilemque
in medio faciens confecit properus omnes;
280 ipse furens solo prostravit et agmina vultu.
Abiuncti Fienses magnoque pavore trementes
abiciunt gladios, exturbo turbine strati ;
iam vieti cessant, clamor silet atque tumultus.
Tunc lanus victor turbatus mensibus inquit:
285 " ecce quis est qui me solito depellere regno
nititur? hic ego sum: qui vult appareat: ecce;
hic assum presens; quisquis de me mala dixit
aut neget quod ait aut exulet aut moriatur.
Quid raichi post dorsum clamatis more canino?
275. Più) venire il dubbio che sia da leggere strepitìi, nel qual caso sarebbe ludural-
mente d<i togliere la virgola dopo sensit, ma la correzione non è necessaria.
279. Ms. ppus
273. Qui tractdtits ha il .significato di ' cospirazione, congiura ',
che è uno di quelli in cui gli antichi scrittori italiani adoperarono
la stessa parola trattato. La quale, si noti, non comparisce mai entro
il testo italiano, sì bene trovasi in capo e a piede di esso. In que-
st'ultimo luogo si legge : " Finice il tractato de li misi composto da
messer Bonvesin da Riva milanese. Deo gratias. Amen „, dove trac-
tato può avere il valore assegnatogli dall' autore nel testo latino ;
mentre invece in cima leggiamo : " Comenza il tractato di mesere
Bonvesin da Riva dove tracta de la questione fra ser Zenere e gli
altri XI mesi ,; e qui tractato, come mostra la spiegazione principiante
colle parole " dove tracta ,, sembra dover intendersi nell' accezione
più comune di ' trattazione, sermone '. S' inchinerebbe quindi a pen-
sare che le parole (ÌGW'expUcit si trovassero già nell'originale e in-
vece quelle della rubrica iniziale sieno state aggiunte da altri più
tardi; ma questo è soltanto un dubbio leggero.
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 71
290 cur michi detrahitis? vos hoc tractare coegit
solus livor edax, vitium culpabile valde.
Qui proprio domino clam detrahit et raaledicit [127^]
proditor et falsus vere nimis est reputandus ;
infidus servus penam prò laude meretur,
295 laudibus et dignus et honore fidelis habetur.
Qui mordens est clam, canis est et pessima serpens,
sed clam corripiens bonus est et fidus amieus.
Est subiectorum dominos reverenter amare,
est detractorum solo livore nocere,
300 est sceleratorum domini gaudere ruina
ac illum contra nova crimina fingere, nugas
et cansas falsas, mendacia, mui'mura, fraudes.
Vos contra stimulum tractastis calce ferire
303. La locuzione contra stimulum calce ferire era proverbiale
già presso i Romani e veramente nella forma contra stimulum calci-
trare 0 anche soltanto adversum stimulum calces (cfr. A. Otto, Die
Sprichivorter der Bomer, Lipsia, Teubner, 1890, pp. 331-32 s. v. sti-
mulus) e appunto nel senso traslato in cui la adopera qui Bonvesin,
come si apprende dalle seguenti parole del grammatico Diomede
(p. 462 27 K) riferite dall' Otto, 1. e. : " parhoemia est vulgaris pro-
verbi! usurpatio rebus temporibusque accomodata cum aliud signifi-
catur quam dicitur, ut: adversum stimulum calces, quo significatur
contra pessimos vel potentiores audere stultum esse „. Il proverbio
passò anche nel volgare italiano, e Bonvesin lo aveva presente pure
nella nuova forma quando nel luogo corrispondente del Trattato
(str. 163") scriveva "Incontra lo ponzigliol verasmente repetai „, mentre
nella raccolta di Geremia da Montagnone (A. Gloria, Volgare illustre
del 1100 e proverbi volgari del 1200 negli Atti del R. Istituto Veti.,
serie VI, t. Ili, p. 103, n. 70) suona: " EI no è seno repenare a l'asejo ,;
dove, come giustamente notò il Mussafia, Romania, XV, 128, tenendo
conto della sentenza evangelica " Durum est contra stimulum recal-
citrare „, asejo " vale non solo ' pungiglione delle api ', ma altresì
' pungolo dei buoi ' „, e dove, soggiungiamo noi, repenare meglio che
corrispondere a ' impennarsi, inquietarsi ', come voleva il Gloria, 1. e,
0 è scritto per errore invece di repetare [* re-pictare], usato, come
s'è visto, anche da Bonvesin, o è riduzione del derivato repetinare,
72 LEANDRO BIADENE
puncture; penam vos est sentire necesse;
305 laudastis vosmet; proprio laus ore liquescit,
et me culpastis nimium quia vito laborem
et non fructifero, nil do sed carpo, quiesco,
quero, consumo, canto, solacia quero.
Hiis contra dico: manuales non decet esse
310 reges; fructifico faciens connubia multa
per que cotidie mundus crescens renovatur,
per que compier! regnum celeste valebit.
Tracto sedens ad pir quis campus restat arandus
aut in quo campo que debent semina spargi,
315 aut agriculture quid opus sit consilium do,
et duplici vultu transacta futuraque specto:
repet'nare ; riduzione che diventa tanto più probabile quando si pensi
che nel Veneto e propriamente, per quel ch'io* so, in una parte della
provincia di Treviso, si trova l'aggettivo sostantivato da cui il verbo
sarebbe derivato. Nel distretto di Conegliano si dicono repethn i po-
veri braccianti, che alla destra del Piave sono chiamati ^^isnew^t (su
questa voce vedansi le nostre Varietà letterarie e linguistiche, p. 61
e sgg., Padova, 1896), i quali vivono repetandose, ossia arrabattandosi
alla peggio.
305. Il secondo emistichio esprime, attenuandolo, lo stesso pen-
siero del proverbio italiano " Chi si loda s'imbroda „ (Giusti, Pro-
verbi, p. 221).
816. lanns bifrons è uno dei simboli, non il più antico ma forse
nel tardo medio evo il più diffuso, del mese di Gennaio (vedi Riegl,
Mittelalt. Kalenderill., pp. 54-56) e come tale lo troviamo anche in
Italia (vedi Strzygowski, Calenderbilder, p. 59). La rappresentazione
più comune di Gennaio nei monumenti italiani è per altro quella
secondo cui egli siede al fuoco e talvolta banchettando (Strzygowski,
op. cit., 1. e). Nel verso di Bonvesin saremmo tentati a vedere una
reminiscenza anche formale di Macrobio, Saturn., I, 18, dove dice di
Gennaio: " primumque anni esse voluit, tamquam bicipitis Doi meu-
sem, respicientem ac prospicientem transacti anni finem, futu-
rique principia „, parole ripetute poi quasi alla lettera da Beda,
Opera, Basilea, 1568, 1. 1, 242.
'CARMINA DE MENSIBLS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 73
aspicio retro mea suscipiendo tributa,
ante quidera specto subiectis precipiendo
ut bene seque regant et fructificando laborent;
320 ergo fruetifico, nil est quod dicitis ergo.
Rursus bonorifìce vivens solacia quero,
nam mos est regum solari, leta videre
et letara vitam seniper deducere largo.
Me quoque culpastis quod largus in accipiendo
325 nicbil do nec grates refero. Respondeo vobis:
non est mos regis subiectos gratificari
dum tamen dimittat eis que sunt sua iure.
Si glaciem, si trado nivem spargoque pruinam,
frigus et intensum facio, non est mea culpa. [128'"]
330 Quod Deus officium commisit me faciente
non onus sed honor; per vos michi copia rei'um
datur ut intensum valeam depellere frigus.
Exemplum quoque do genti quo Tartara Vincent,
dentium stridor ubi fit, intollerabile frigus,
335 si quoque tune inopes habeant quod displicet illis.
Nullus in boc mundo vivit qui semper habere
possit quod cupiat ; paciencia compleat omnem
desertum per quem possunt eterna parari
gaudia, post mortem perferri continuata.
339. Ms. perferre
323. Mi pare di sentirci una reminiscenza classica; seppure tale
impressione non è l'effetto dell'essere questo un esametro regolare
anche quantitativamente.
831. Il bisticcio di oiiits e honor era, come si sa, frequente già
presso i Romani (vedi il Dizionario del Forcellini e inoltre Otto,
op. cit., p. 167, s. v. honos).
384. Mattko, Vili, 12: " Filli autem regni ejicentur in tenebras
exteriores: ibi erit fletus et stridor dentium „. Cfr. Jacopone da
Todi (Nannucci, Manuale, P, 401): " Nello inferno n'andrai etema-
mente Là dove è stride e pianto con gran guai ,.
74 LEANDRO BIADENE
340 Advena non ego sum, vester concivis habendus
assum natura; quem plus sapientia dignum
fecit quam reliquos et ob hoc meus induperator
Numma videns quod nullus erat dignus dorninari
ex vobis, me preposuit regemque locavit ;
845 non igitiir suin rex fraude sed iure statutus,
non sum tyrannus sed rex dyademate dignus,
non prece nec pretio sum rex ymmo probitate
et bonitate mea; deponere me voluistis
invidia solum; semper mea regna tenebo
849. La n di regna è aggiunta d'altra mano nelle spazio interlineare.
342-43. La tradizione secondo la quale il mese di Gennaio e
quello di Febbraio furono aggiunti da Numa Pompilio agli altri dieci
mesi, di cui per l'innanzi componevasi l'anno, fu naturalmente rac-
colta da Ovidio, Fast., I, 43-44 : " At Numa nec lanum nec avitas
praeterit umbras Mensibus antiquis apposuitque duos „ e III, 152:
* Pompilius menses sensit abesse duos „. Essa fu poi via via ripe-
tuta da altri scrittori. Plutarco, Vita di Numa (ediz. cit., voi. I,
cap. XVIII, p. 86, lin. 1 sgg.): « TToXXol he cloiv, o\ koI irpooTeGf^vai
T0ÙT0u<; ÙTTÒ No^a TOÙ<; Mnvcti; XéTouai, tóv xe 'lavoudpiov koI tòv 0€-
Ppoudpiov. » Macrobio, Saturn., I, 13 dice di Numa : " factosque
quinquaginta dies, in duos novos menses pari ratione divisit, ac de
duobus priorem lanuarium nuncupavit ,. Beda, Opera (Basilea, 1563),
t. I, 242: " lanuarii Februariique menses Numa Pompilius anno ad-
jicit „. Wandalberto di Priim, Comprehensio temporuin, ecc. (Dummlkr,
Poetae lat. aem Carol., II, 577), vv. 22-23: " Solus, quem Februo men-
sem Numa addidit auctor, Bis denis tantum patet octonisque diebus „.
Lo stesso De mensium duodecim nominihus, ecc. (ibid., p. 605) così
principia a parlare De Fehruario : " Anni quo numerum regnans Pom-
pilius auxit. Quo sacra dira urbem solitum lustrare togatam Inferni
Februi retinemus nomine dictum ,. Onorio d'Autun, Imago mundi,
cap. XXXV: " Romulus Romanis decem menses ordinavit ... Numa
vero Pompilius duo: lanuarium videlicet et Februarium adiecit „. E
molto più tardi, anche dopo Bonvesin, la prima delle Ottave sui mesi
edite da Mario Menghini nella Rivista crit. della leti, ital., VII, 189
principia: " Zenar io son principio capo, e porta De Tanno come già
Pompilio volse „.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 75
350 vobis invitis. Vulgariter est quoque dictuni:
" quisquis babet teneat , ; vos que sunt vestra tenete;
quisque suis rebus contentus debeat esse
nec propriam falcem trabat in messes alienas.
Quis Februs curtus, reliquis qui peior habetur,
355 quera prope me posui, qui me clam mordet acutis
dentibus? et quare loquitur tacenda Decomber
qui nisi frigus agit? ego non, qui tempore cuncto
posteriore loco positus stetit ordine nostro.
Quid novitatis ego feci cur sim removendus
860 a solito regno? Quod crimen, dicite, feci?
Nunquam cernetis tempus quo regna relinquam;
preterea mors vestra foret si linquere regna
cogerer. Et quare? quoniam contentio magna
inter vos esset de regno, magnus et error;
365 vos non sufficeret concordes ambitus esse ; [128^]
boc ne contingat est ergo prò meliori;
preterea quia sepe vaco spaciumque gerendi
tract9,ndique bonum vestrum cognoscor habere
plus vobis, quibus est peragendi cura laboris.
370 Rursus terrarum rectores tempore lani
351. Il più vecchio testo italiano in cui abbia incontrato il pro-
verbio volgare qui sopra travestito in latino, è una ballatina del rima-
tore bolognese Matteo de' Griffoni (1351-1426); nella quale il primo
verso della ripresa, ripetuto anche in fine della stanza, comincia
appunto " Chi ha si tegna „ (Carducci, Cantilene e ballate, ecc. Pisa,
Nistri, 1871, p. 826, n. ccclii).
852. Fa pensare al noto proverbio " Chi si contenta gode „, in
forma consimile comune a parecchie nazioni, come fa vedere il Van-
Nucci, Proverbi latini, 1, 94-95.
357. Evidentemente anche il secondo qui si riferisce a December
e non a ego, che precede immediatamente. Le parole ego non sono
come fra parentesi e l'idea negata dal non è quella di frigus agere.
10 LEANDRO BI;»DENE
incipiunt regiraen. Cur dicor nomine lanus?
lanua sum, quoniam per eam rectoribus est mos
intrent ut regnum; sic ergo per has rationes
sum rex et digne sum primus in ordine vestro „.
375 Jj-iis dictis reliqui menses terrore timentes
sub lani clava mortemque pavere timentes
stant muti flexa facie, testante rubore.
Tunc alacri facie coram festinus Aprilis
festive loquitur ut lani mitiget iram,
380 dicens: " 0 lane, rex insuperabilis, audi,
et precibus nostris intendas te rogitamus.
Ut parcas nobis, nostrani nos dicere culpam
atque satisfacere sumus et parere parati
mandatis; nos penituit; miserere rogamus
385 ne sis attendens nostris defectibus; iram
371-2. Anthol. lai., ed. Riese, 394, 1 [=Baehress PLM 1,205]: " Dira
patet lani Romanis ianua bellis , ; Fast., II, 51: " Primus enim laui
mensis, quia ianua prima est „; Isidoro, Eti/in., V, 33, 3 " lanuarius
mensis a lano dictus, .... vel quia limen et ianua sit anni „. Le prece-
denti citazioni sono fatte dal Dummler, Poetae lat. aevi Carol., II, 616
al v. 3 della poesia di Wandalberto di Prùm, Uorologium per duodecim
niensiuDi punctos, che suona: " Ianua nunc anni est finisque December ,.
Nella stessa raccolta quello dei Carmina Salishurgensia intitolato
Idioma mensium Mngulorum principia (p. 644): " Fertur de lano dictus
lanuarius olim Vel quia sit anni ianua semper ibi „. E già prima
Beda, Opera (Basilea, 1563, pag. 242). scriveva di Gennajo : " Quidam
autumant eum inde vocatum quod limes et ianua sit anni „. E nel-
V Imago Mundi di Onorio d'Autun, cap. XXXVII : " Primus lanuarius di-
citur, ab idolo lano, Deo principij, eo quod hic mensis est principium
anni. Dicitur et a Ianua, eo quod per eum intret annus „. Il Ro-
SCHER, AKsfìihrliches Lexicon d. griech. n. rom. Mgthol., II, 35, cita
Mijthogr. Vat. 3, 4, 9 : * lanus anni ianuam pandat ,. E la prima
delle Ottave sui mesi edite da M. Menghini nella Riv. crii. d. leti, it.,
VII, 189, principia : " Zenar io son principio capo, e porta De l'anno
come già Pompilio volse ,.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 77
subtrahe, lane, tuam; faciem tu flecte benignam
nobis, nam quod nos vice peccavimus ista
non ita nequieia fuit hoc ut simplicitate ;
ergo te vincat patientia maxima virtus ;
390 nunquam nos alias hoc fecimus; hac vice prima
parce subiectis, nunquam peccabimus ultra ;
nostro defectu bonitas tua non minuatur;
non decet ex minimis irasci nobilitatem ;
vulnere prò modico bona non perditur arbor,
395 • queque super firmum fundamen condita turris
firma manet nec prò vento prosternitur omni;
non prò passeribus sinitur quin arva serantur,
394. NovATi, Serie proverbiali nel Giorn. stor. d. leti, ital., XVIII,
143, n. 7 " Per uno botto no caze albero „. E in nota i seguenti ri-
scontri : " L[e Roux de Linc3^ Le livre des proverbes frungais, Paris,
1842, e 2'' ediz. Paris 1859] II, 473 (e cfr. I, 57, 58) : Au primer coup
ne chet pas l'arbre; Bembo, Motti, 274 " Ma per un colpo l'albero
non cade. Cfr. G[iusti, Proverbi Toscani, Firenze 1855] 243 e Dur[ings-
feld u. 0. Freiherr von Reinsberg-Diiringsfeld, Sprichivorter der ger-
ìuan. H. roman. Sprachen, Leipzig, 1872-75] I, 64 ,. Si può aggiungere:
Pasqualigo, Proverbi veneti, 2* ediz. Venezia, 1879, p. 102 " Al primo
colpo no casca l'àlbaro „.
395. Vengono subito alla mente i noti versi del Purgatorio
V, 14-15:
Sta come torre ferma che non crolla
Griammai la cima per soffiar di venti,
i quali sono assai più vicini alla forma che la similitudine ha nel
nostro testo che non a quella in cui è espressa dagli altri autori
citati dai commentatori danteschi, e in questo caso anzi basterà dire
dal Venturi, Le similitudini dantesche, Firenze, Sansoni, 1874, p. 77,
n. 122. L'aggettivo firma e l'espressione prò vento, a cui corrispon-
dono il ferma e il pier soffiar di venti, non trovano esatto riscontro
negli altri testi, ed è quindi lecito pensare che Dante scrivendo
avesse presente la similitudine in forma, se non uguale, molto si-
mile a quella del nostro testo.
397. NovATi, Serie proverb. nel Giorn. stor. XVIII, 123, n. 13
<8 LEANDRO BIADENE
nec propter rauscam fit temo volubilis usquam ;
permanet illesa spinis rosa, nilque decoris
400 amittit spinis nec odoris, nilque valoris.
Sic ne tui bonitas inter nos fulgida sistat
et redolens vigeat; lux solis non tenebratur [129'']
stellarum radiis, sic et sapientia lani
prò nostris factis nunquam sua lumina perdat;
405 noster defectus non turbet nobilita tem,
lane, tuam ; tua nos vincat patientia magna ;
hec postponantur, hec nunc in pace quiescant;
prò nostro domino volumus te semper habere,
semper obedire reverentius et decorare,
410 et te perpetuum regem clamare libenter „.
Hi
Liis dictis lanus facilis vultuque benignus
flectitur, et menses nimio terrore paventes
in se iam redeunt, lani cessante furore.
Exclamant omnes: " vivat per secula lanus,
415 vivat rex noster, gaudens letetur liabunde,
et rex perpetuus firmetur protinus, et qui
buie contradicet non vivat sed moriatur ,.
Tunc fit continuo contractus publicus : ut sit
perpetuus rex et dominus se quilibet horum
420 obligat et iurat spondens attendere pactum.
398. Ms. trenior. L'emendazione è suggerita dal confronto col testo italiano, st. i74»''>
e La mosca sul temon ni-1 pliga ni-l desten Ke 1 carro no vada inanzo » .
413. Invece di redeunt sembrerebbe piuttosto scritto redemit senza il punto sitW i.
" Per paura de le passare non lassare di seminare el panico „. E in
nota: " Identico in G. 281, Diir. I, 532, II, 268. Cfr. poi Belis[ario]
da Cing[oli], Frott[ola] 24-5 " Chi ha paura d'uccelli. Non getti seme
in terra „ e X Tav[ole] f. 17' " Non star da seminar per celege ,.
398. NovATi, Serie proverò, nel Giorn. star., XVIII, 119, n. 30
* Mosca in timone ne leva ne pone „. E in nota: " È proverbio de-
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 79
Q,
[luisquis vult aliquod dubium tractare vel aliud
in primis monet hec hystoria premeditari
et spoetare rei finem, sapientis habendo
consilium firmum per quod deliberet ipse
425 ne male presumens temerarius esse sciatur.
Principium, medium, lector, plus aspice finem,
sic et in eternum tutus sine crimine vives.
Bonvicinus ego tibi do viridaria pulchra;
inveniens flores et fructus, elige que vis;
430 exores prò me, sit laus et gloria Christo.
Qui scripsit scribaf et onini tempore vivai; *
gloria, laits et honor tibi sii rex Christe redemptor.
sunto dalla nota favola di Fedro " Musca in temone sedit... „ lib. Ili
VI (corr. v); Hervieux [Les fabulistes du moyen àge, Paris, 1884], II,
27; cfr. Sacchetti, Nov. XVI, I, 61 „.
426. Anciie aspice finem è motto proverbiale ; per altri detti espri-
menti suppergiù il medesimo concetto si veda il Vannucci, Proverbi
latini, II, 48-49.
430. Il secondo emistichio fa parte del solito explicit " Finito
libro sit laus et gloria Christo „. Gioverà rammentare che la Vita
Scholastica dello stesso Bouvesin finisce " Sit Jesu Christo gloria laus
et honor „, verso questo che si può considerare come risultante dalla
fusione dell'altro testé citato e del secondo dei leonini finali, di cui
passiamo a discorrere nella nota che segue.
* Il primo di cotesti leonini s'incontra di frequente in fine
delle scritture medievali, e di solito col secondo emistichio in questa
forma: " et semper cum domino vivat „. Il secondo leonino invece è
tolto da un inno della Chiesa, che si canta nella domenica delle
Palme e comincia appunto con tale verso, che serve poi anche di
responsorio o ritornello. L'inno è attribuito da alcuni a Rinaldo ve-
scovo di Langres, ma più comunemente a Teodolfo abbate floriacense
poi vescovo d'Orléans nel IX secolo (vedi Moroni, Dizionario d'eru-
dizione storico-ecclesiastica, XXXI, 239 e Vili, 281). Quasi superfluo
80 LEANDRO BIADENE
Hystorla finita^' sit nobis bona vita
ac bonum vimon cum lana ante caminum
sepius infusum jjatnim sequentibus usum,
recte vivendo neminent male sti mutando.
* Ms. hysto finita ria. Per l'emendazione j/iova tener presente anche il v. 422, dove
il componimento è appunto chiamato hystoria come nel testo italiano, st. 183^.
avvertire che in questo secondo leonino la rima si restringe alla sil-
laba finale, la quale nella pai'ola presa a sé sarebbe atona (honór, re-
(lemptór), come accade non di rado e come anche nell'ultimo verso
{vivendo, stimnlundó). Questi due versi, secondo e sesto àaW explicity
seguendo la terminologia poetica medievale più esattamente che leonini
sarebbero da chiamare consonantes (cfr. Thurot, Notices et extr.
t. XXII, 2^^^^ partie, p. 452, e meglio ancora E. Freymond, Ueher den
reichen Reim bei altfrunz. Dichtern nella Zeitschr. f. rom. Phil. VI, 13-15).
CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 81
APPENDICE BIBLIOGRAFICA
LE RAPPRESENTAZIONI E I CONTRASTI DELLE STAGIONI E DEI MESI
NELLA LETTERATURA EUROPEA.
Il titolo di quest'Appendice ne esprime a sufficienza l'argomento.
Per amor di esattezza aggiungeremo che in essa comprendiamo anche
un testo indo-americano e uno neo-aramaico. L'Appendice si divide-
rebbe naturalmente da sé in due parti: I. Rappresentazioni e contrasti
delle Stagioni, lì. Rappresentazioni e contrasti dei Mesi. Sennonché
sembra opportuno far seguire una terza parte contenente notizie varie
affini agli argomenti delle due prime e che mal si potrebbero racco-
gliere sotto una sola comune designazione. A questa terza parte d'in-
dole sua alquanto indeterminata non sarà difficile, lo sappiamo già
da noi, fare aggiunte; le due prime invece vorrebbero essere un
Indice compiuto di tutti i testi delle rappresentazioni e dei contrasti
delle Stagioni e dei Mesi ') fin qui a stampa (soltanto il breve fram-
mento che fra i testi italiani ha il n. 3 e il testo latino n. 10 erano
finora del tutto ignoti), o dei quali comecchessia fu fatta pubblica men-
zione. Anch'esso dunque potrebbe essere in seguito accresciuto da quei
testi sullo stesso argomento che si trovassero giacere ancora inediti
t' sconosciuti nei manoscritti o che fosse dato raccogliere dalla viva
voce del popolo; oltre, s'intende, di quelli già a stampa per avven-
tura sfuggiti alla nostra diligenza. E qui dobbiamo confessare di non
avere nemmeno ricercato gli almanacchi e le strenne delle altre na-
zioni eche è pur probabile contengano poesie modei'ne d'indole rap-
') Non dunque dei testi sulle Stagioni e sui Mesi in generale, dei
quali parla invece G. Moeici, La poesia delle stagioni (nella Nuova
Antologia, fase, del 1° dicembre 1893, pp. 479-515).
Sttidj di filologia romanza, IX. 6
82 LEANDRO BIADENE
presentativa sulle Stagioni e sui Mesi '). E ci viene anche il dubbio
che alcuni testi russi, ai quali qui converrebbe far luogo, sieno già
stampati nei Trairiiix de Vexpédition d'aìxhMogie et de statistique dans
la Russie occidentale, Saint-Pétersburg, 1872-77, opera che abbiamo
invano ricercata in alcune delle principali biblioteche italiane e il
cui terzo volume sappiamo essere " una specie di Giornale del popolo,
che dà per ciascun giorno e ciascun periodo dell'anno le credenze, i
costumi, i canti che vi si riferiscono „ (Piptne et Spabovich, Histoire
des littératnres slaves, trad. p. E. Denis, p. 555. Paris, Leroux, 1881).
PARTE I.
Rappresentazioni e contrasti delle Stagioni.
Nella poesia greca e romana sono tutt'altro che frequenti le per-
sonificazioni concrete delle Stagioni, e quelle poche che s'incontrano
sono, per così dire, appena abbozzate. Di vere e proprie rappresen-
tazioni delle Stagioni nella poesia romana non sapremmo citare che i
quattro versi coi quali le dipinge Ovidio nelle Metamorfosi (II, 27-30)
e che furono o poterono essere ispirati dalle arti figurative ; versi i
quali servirono di tema alle variazioni che ne fecero più tardi i coaì
detti dodici sapienti, non tutti per altro ne sempre attenendosi alla
schietta rappresentazione. Neil' Anthologia latina coteste variazioni
hanno il titolo di Tetrasticha de qiiattuor temporibus (Baeheens, PLM,
IV, 131-34) e ad essi si può aggiungere l'altro tetrastico intitolato
nella stessa Anthologia (Baehrens, PLM, IV, 290): Lnus temporum
quattuor. E anche nella letteratura europea medievale e moderna,
dove non iscarseggiano di certo le descrizioni delle Stagioni e spe-
cialmente della Primavera, esse sono piuttosto di rado raffigurate
come persone vive e reali, visibili coll'occhio della fantasia.
*) Di alcuna di siffatte poesie, p. e. di quella pubblicata nel 1893
da A. Thedriet col titolo La ronde des saisons et des mois, fa cenno
e riporta alcuni versi il Morici in fine dello scritto citato nella nota
precedente.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 83
Ciò accade talvolta, oltre che in componimenti d'altro genere, nei
contrasti delle Stagioni, che sono abbastanza numerosi. Di ognuno
di essi espose l'argomento e diede precisi ragguaglj bibliografici
r Uhland nella dissertazione Sommer iind Winter {Schriften, III,
17-51), tralasciando per altro i testi italiani; dei quali, a dir vero,
quand'egli scriveva era a stampa soltanto il n. 2 del nostro Indice. E
i medesimi rimasero ignoti anche ad H. Jantzen; il quale, Geschichte
des deiitschen Streitgedichtes im Mittelalter, Breslau, 1896 (Germanistische
Ahhandlnngen, XIII Heft) non fa, come dice egli stesso (p. 38), che enu-
merare i testi già esaminati dall' Uhland, aggiungendo soltanto a
p. 39 n. 4 l'indicazione di alcune moderne versioni, quelle nel nostro
Indice dei testi tedeschi segnate dei n' 10-16.
A. Contrasti dell'Inverno e dell'Estate,
Testo greco.
Xeinùjv Koì 'Eap. Fuhulae Aesopicae coUectae, ree. Halm, Lipsia,
Teubner, 1860, p. 199, n" 414. Breve testo in prosa.
Testo latino.
Conflictns Veris et Hiemis '). Riese, Anthologia latina, II, 145 (Lipsia,
Teubner, 1870), n° 687; Dùmmler, Poetae latini aevi Carolini, I, 270 (nei
Monumenta Germaniae historica). Sono 55 esametri. Com. " Conve-
* niunt subito cuncti de montibus altis | Pastores pecudum „. Su di
esso vedi Uhland, op. cit., pp. 23-24, che rimanda al Grimm, Deutsche
Mythologie, 640, il quale ne cita le più antiche edizioni, e vedi inoltre :
Ebert, Histoire generale de la littérature latine au moyen-age, II (Paris,
Leroux, 1884)79-80; Selbach, Das Streitgedicht in der altprov. Lìjrik,
Marburg, Elwert, 1886, § 20, pp. 25-26 e Jantzen, op. cit., pp. 5-6.
La poesia è stata attribuita a Beda, a Milone di S. Amand, a Dodo di-
scepolo di Alenino, ad Alenino stesso.
') Nel cod. 11412 della Nazionale di Parigi hanno il titolo comune
di Altercano ìiyemis et aestatis due poesie latine, le quali non sono
che rifacimenti del contrasto osceno fra Ganimede ed Elena composto
sui primi del sec. XIII (v. Hauréau, Notices et Extraits des tnst. de la
Bihl. nation., Paris, 1880, t. XXIX, 275).
84 LEANDRO BIADENE
Testi italiani.
1. De hyeme et destate. N. Lagomaggiore, Rime Genovesi della fine
del sec. XIII e del principio del XIV wqW Archivio glottol. ital., II
(1873), 206-8.
La personificazione non è perfetta. Inoltre la poesia, che, così come
ci è pervenuta, consta di 152 versi enneasillabi (12 di introduzione,
48 in bocca àoiVInverno, gli altri dell'altro interlocutore), è incom-
piuta. Dopo il discorso à^WEstate (o meglio del difensore e lodatore
di lui) nel ms. segue il titolo yeme, ma il testo della risposta manca.
Si noti die come VInverno si era riservato di replicare (vv. 57-60),
così aveva espresso anche V Estate l'intenzione di fare altrettanto
(vv. 151-52). Secondo G. Paris (Journal des Satmnts, a. 1892, p. 157)
questo contrasto genovese sarebbe imitato da un altro consimile fran-
cese; ma non vediamo su che cosa veramente si fondi tale asserzione.
2. Contrasto piacevole fra l'estate et il verno nel quale si sentono
tutti gli commodi et incommodi tanto dell'uno quanto dell'altro di Giulio
Cesare dalla Croce. In Bologna, presso gli Heredi di Gio: Rossi, 1604;
pp. 18; 51 ottave. 0. Guerrini, Vita e opere di G. C. Croce, Bologna,
Zanichelli, 1878, p. 354 registra al n° 42 del Saggio bibliografico anche
un'edizione posteriore, s. d. in 8 carte, degli Eredi Cocchi,
3. Lu Cuntrastu di la Stati cu In Invernu, pri sapiri cui duna
chiù abbundanza di li dui. In Palermo, per l' Isola, 1689. In-8'', pp. 4,
a due coli. Ecco ciò che di esso scrive S. Salomone Marino, Le storie
popolari in poesia siciliana messe a stampa dal sec. XV ai d^i nostri
{Archivio jjer lo studio delle tradizioni popolari, XV [aprile-giugno
1896] fase. II, 183, n" 57): " Mi segnava questo Contrasto il librajo
Carmelo de Stefano, che l'ebbe sott'occhio al 1886 e pensava ripro-
durlo, ma non potè più perchè andò smarrito. Conosco la traduzione
italiana fatta dal solito Foriano Pico in una edizione di Napoli della
fine del sec. XVII, che passo a registrare in mancanza dell'originale :
Piacevole Discorso Dove s'intende contrastare l'Estate e l'Inverno Delle
stagioni naturali e chi di loro dà più abbondanza in terra et in Mare
per sostanza del Mondo. Composta da Foriano Pico Fiorentino. In
Napoli. Per il Monaco . . . pp. 4 non num. Nel frontespizio, dopo il
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 85
6" rigo, una vignetta rappresentante , in quattro scompartimenti,
quattro scene della vita che si riferiscono alle quattro stagioni. Sono
33 ottave epiche, stampate a due colonne, 11 per pagina, da p. 2 a
p. 4. La traduzione, al solito, è scempiatissima e basta mutare le de-
sinenze per vedere il testo siciliano genuino.
Comincia :
Signore in Cielo e in Terra Onnipotente
Tutte le cose son da te create
finisce :
Dio creò a me e creò a voi
Nessuno vale senza tutti dui.
Come si vede, Foriano Pico è qui diventato senz'altro autore del
Contrasto *).
Testi francesi.
1. De l'Yver e de VEsté. Jubinal, Nouveau recueil de contes, dits,
fabliaux, Paris, 1842 ; t. II, 40-49. Testo anglo-normanno del principio
del sec. XIV (v. Uhland, op. cit., pp, 22 e 42, n. 10 e G. Paris, La
littérature frangaise au moyen age'^, Paris, 1890, p. 159, § 110). Note-
vole che ciascuno dei due interlocutori adoperi un metro differente
dall'altro : VInverno coppie di ottonari a rima baciata, VEstate strofe
rimate aabaab, in cui a e ottonario, b quadernario. La poesia che se-
condo alcuni, come già dicemmo, sarebbe del secolo XIV, secondo
altri invece sarebbe stata composta fra il 1160 e il 1190 (v. Naetebus,
Die nichthjrischen Strophenformen des Altfranzosischen, Leipzig, 1891,
pag. 191).
2. [Le Debat de l'Yver et de VEsté]. Montaiglon et Rothschild,
Recueil de poésies frangaises du XV^ et XVP siede, Paris, 1875; t. X,
43-49. Del sec. XIV : 32 strofe quademarie monoritmiche.
*) Alla molta gentilezza del Salomone Marino devo la copia di buona
parte del poemetto, nel quale i due interlocutori ripetono suppergiù
i soliti argomenti; mentre, se non rammento male, nel poemetto del
Croce, essi, e specialmente l'Inverno, sapendo di essere uditi dal po-
polo della grassa Bologna, enumerano con compiacenza singolare le
ghiotte vivande di cui ciascuno dei due va ricco.
86 LEANDRO BIADENE
3. [Le Debat de VYver et de l'Esté]. Montaiglon et Rothschild,
Rectteil etc. Paris, 1857; t. VI, 190-5. Del sec. XV; rimaneggiamento
del testo precedente ; 25 strofe quademarie monoritmiche. Vedi anche
Uhland, op. cit., pp. 22-23 e 42, n. 11.
Testi ispano-portoghesi.
Due drammi di Gii Vicente (t 1536?). Obras de G. V., Amburgo,
1834; I, 76 sgg. : Auto dos quatro tempos; 11,446 sgg. : Triumpho do
Inverno (v. Uhland, op. cit., pp. 28 e 45, n. 34).
Testi inglesi.
1. A song on the Ivy and the HoUy. Sandts, Christmas carols,
Londra, 1833 (efr. Uhland, op. cit., pp. 26-27 e 44, n. 26). I due al-
beri simboleggiano uno l'Inverno e l'altro l'Estate. La poesia è con-
tenuta in un ms. del sec. XV.
2. 3. 4. Tre brevi poesie frammentarie, che riguardano il contrasto
fra i due alberi indicati nel numero precedente, stanno in Songs and
Carols, noto first printed from a Manuscrit of the 15 Cent. Edit. by
Th. Wright. Londra, 1847, pp. 44, 84 e sgg. (v. Uhland, op. cit.,
pp. 27 e 44, n. 28).
5. The debate and stryfe betw. Somer and Winter. Hazlitt. Remains
of the early pop. poetry of England, London, 1864; Introd., p. 64. Non
so se sia lo stesso testo stampato in Early Dutch German and En-
glish Printer's Marks, London, 1866, in-8°, n" 6, il quale non è che la
traduzione letterale del testo francese n" 2 = 3 (cfr. la nota di E. Picot
aggiunta a questo testo nell'edizione sopra citata).
Testo indo-americano.
Fiaba degli Indiani dell'America del Nord. Kletkes, Màrchensaal,
voi. Ili, Berlino, 1845, pp. 378 sgg. (v. Uhland, op. cit., pp. 28 e 45
n. 33).
Testi tedeschi.
1. Van den zomer und van den winter. Ms. pergamenaceo all'Aja,
n° 721, fol. 14 sgg.; della fine del sec. XIV. Comincia " Der somer
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 87
.^piicht: ich moez clagen „. Consta, a quanto sembra, di 14 strofe di
9 versi ciascuna, ma quella che ora è terza risulta dalla giustappo-
sizione di frammenti di due strofe, fra i quali quindi deve esserci
una lacuna (v. Uhland, op. cit., p. 41, n. 7, dove è riportata la
strofa 10*, e p. 21, dove ne è dato il sunto).
2. *) Een abel spel van den lointer ende van den somer. H. Hoff-
MANN, Home helgicae, VI, 125, sgg. La poesia, che è di 625 versi ri-
mati, ed ha forma drammatica, fu secondo l'editore (Introd., p. xlv)
composta nella seconda metà del sec. XIV (v. Uhland, op. cit., p. 42,
n. 9 e pp. 21-22, dove è riassunta).
3. Des Popjye Hofton. Uhland, Germania, V, 284-86. Del sec. XV;
tre strofe di 18 versi ciascuna (v. Uhland, op. cit., p. 41, n. 6 e
pp. 20-21).
4. Voti Buchsbaum ttnd Felber. Uhland, Volkslieder N. 9, voi. I,
pp. 30 sgg. Del principio del sec. XVI. I due alberi simboleggiano
le due stagioni (v. Uhland, op. cit., p. 44, nn. 29 e 30 e pp. 27-28).
5. Gesprcich zwischen dem Sommer imd dem Winter. Hans Sachs,
Gedichte, ed. Nùmberg, 1858; I, 419 sgg.; ed. Keller, IV, 255 {Bi-
hUoth. d. liti. Vereins in Stuttgart. Pubi.' 105). La poesia è dell'anno
1538, ed è notevole in essa che riesca vincitore VInverno. A spiega-
zione di ciò gioverà rammentare che la scena è trasportata nel giorno
di S. Matteo, nell'equinozio d'autunno. Tradotta in moderno alto te-
desco da C. H. Lììtzelberger nell'^^ÒMm des liti. Ver. in NUrnberg
heraitsg. (anno 1870). Cfr. Uhland, op. cit., p. 41, n. 6 e pp. 19-20 e
Jantzen, op. cit., pp. 38-39.
6. Der Krieg mit dem Winter. Hans Sachs, Gedichte, ed. di Nurn-
berg, 1558, I, 421; ed. Keller, IV, 263. È un rifacimento in forma
narrativa del testo precedente, composto nel 1539 (cfr. Uhland, op.
cit., p. 41, n. 6 e Jantzen, op. cit., p. 39, il quale inesattamente asse-
risce che la poesia sfuggì all' Uhland, soltanto perché questi non la
menziona nel testo della dissertazipne).
') È veramente un testo neerlandese.
88 LEANDRO BIADENE
7. Ain schìiner perck-rayen ron Somer und Winter. Keller lnu
GoETZE, Hans Sachs Gedichte, XXIII, 253 [Litt. Verein i. Stiittgai-t,
207). Rifacimento del n" 5, composto nel 1565 e terminante anch'esso
colla vittoria ù.^W Inverno. Sfuggito alla diligenza dell' Uhland, come
notò il Jantzen, op. cit., p. 39.
8. Uhland, VollcsUeder n° 8; I, 23. Canzone conservataci in stampe
del 1576 e del 1580 (cfr. Uhland, op. cit., p. 18). Il ritornello è man-
tenuto in una poesia dialogica del 1628 fra la città di Ulm e un
soldato (cfr. Uhland, op. cit., pp. 19 e 40, n. 3).
9. Sonimer und Winter. Tobler, Appenzeller Sprachschatz, Zùrich,
1837, pp. 425 sgg. Testo per una rappresentazione, che si soleva fare
in Isvizzera fino a non molti anni addietro (cfr. Uhland, op. cit., p. 40,
n. 4 e p. 19).
10. Testo per una rappresentazione, proveniente dalla Stiria.
BiiscHiNG, WochentUche Nachrichten fiir Freunde der Oeschichte it. s. tv.
des Mittelalters, Breslau, 1816; I, 226.
11. Testo per una rappresentazione. Panzer, Beitrag zur deutschen
Mythologie, Mùnchen, 1848 ; I, 253. Della Baviera superiore.
12. Canto accompagnato dalla melodia. Ditfurt, Frdnkische Volhs-
lieder, Leipaig, 1855; TI, 286, n' 373.
13. Canti. Hruschka u. Toischer, Deutsche VollcsUeder aus Bohmen,
Prag, 1891: pp. 48-50, n' 70-72. Dalle montagne dell' Erz, la Boemia
occidentale e Gablonz.
14. Canto o canti. M. V. Su.ss, Salzburger Volkslieder, pp. 267-72.
15. Weinhold, Zeitschrift d. Vereins fiir Volkskunde, 1893, p. 226.
Da Hartlieb presso Breslavia.
16. Mitteilnngen d. Schles. Gesellschaft fiir Volkskunde hrsg. v.Vogt
u. Jiriczeck, Breslau, anni 1895-96, pp. 68 e 100 e anno 1896, p. 30
(Soltanto l'indicazione di nuove versioni ritrovate; nessun testo). In
parte queste poesie sono ristampate in Erk u. Bohmes deutscher Lie-
derhort, III, 11 sgg. (Lipsia, 1894).
' CARMINA DE MENSIBUS * DI GONVESIN DA LA "RIVA 89
Non so se fra le poesie n" 10-16 sia compreso anche il canto sti-
riano di 14 strofe, indicato da E. Picot nella già citata nota al Re-
citeil de 2)0^sies franraises, X, 49 e pubbl. per la prima volta da Fi-
lippo voN End nel suo Malerisches Taschenbuch ecc. 1*' Jahrgang,
Vienna, 1812, pp. 175-.9, poi da F. E. von Erlach nei VolksUeder der
deutschen, Mannheim, 1835; lY, 309-11.
B. Contrasti della Priìnavera e dell'Autunno.
1. Ain hrieg von dem Mayen und von deìH Augst man. Haltaus,
Liederhuch d. Klara Hàtzlerin '), Quedlinburg u. Leipzig, 1840, p. 248,
n° 60. Cfr. Jantzen, op. cit., p. 40, il quale nota che il testo non si trova
menzionato dall' Uìiland; sennonché questi (op. cit., p. 45, n. 31) av-
verte che dei contrasti fra Maggio e Autunno, intorno ai quali indica
due opere, si sarebbe occupato in un'altra dissertazione.
2. Pseudo-Neidharts " GefràssUed „. Haltaus, Liederhuch d. Klara
Hàtzlerin, p. 70, n° 91. Contrasto fra la Primavera e l'Autunno (cfr.
Jantzen, op. cit., p. 41).
3. Dis iat von dem herbste und von dem meigen. Mullke, Samin-
lung deutscher Gedichte a. d. 12-14 Jahrh. Ili, fragm. pp. xxix sgg.
e Keller, Erzahlungen a. altd. Hands-, p. 588 (v. Jantzen, op. cit.,
pag. 41).
•) Monaca che mise insieme il predetto libro, accogliendovi proba-
bilmente anche canzoni anteriori al suo tempo, nel 1471 (vedi Ko-
berstein, Grundriss der Geschichte der deutschen NationalUteratur^,
Leipzig, Teubuer, 1872, I, 339).
9<) LEANDRO BIADENE
PARTE II.
Rappresentazioni e contrasti dei Mesi.
Testi greci.
8ono tutti direttamente o indirettamente indicati dal Kkumbacher,
GescMchte der bi/zantinischen Litieratur^, Mùnchen, 1897. § 313, nota 9,
p. 753, e i testi qui sotto segnati dei n' 4, 6-9 furono pubblicati e
diligentemente illustrati, massime rispetto alla filologia, da B. Keil,
Die Monatscyclen der hyzuntinischen Kunst in spdtgriechischer Literatur
nei Wiener Studien, XI (1889), 94-142. Gioverà rammentare che VAn-
thologia Palatina, in cui sono compresi i tre primi testi del nostro
Indice, i più antichi, fu messa insieme in principio del sec. X (cfr.
Krl'mbacher, op. cit., p. 727).
1. Mnv6<; AìyuttGìujv. Adespota. Anthologia Palatina, Parigi, Didot,
1872, voi. Il, cap. IX, n° 383. Dodici esametri, uno per mese. I mesi
sono designati col nome egiziano. La serie incomincia dal Settembre :
TTpà)TO(; 0ibe khàr\ òpenàvriv èiri PÓTpuv èYeipeiv.
2. Mnve<; 'Piui^aiuuv. Adespota. Anthologia Palatina, voi. IT, cap. IX,
n° 334. Dodici distici, uno per mese, incominciando da Gennaio :
'EE èuéOev XuKdaavTO<; ÙTtrieXieoio Oùperpa.
3. 'Eiq Toùq 'Pujiuaiujv jufivac;. k.àes'poiii. Anthologia Palatina, -voi. Il,
cap. IX, n. 580. Nove esametri: il primo, quarto e quinto compren-
dono due mesi. Si comincia da Gennaio : Mi^v uttcxtujv TrpuùToq. '0 bè
beuTcpoq aiJXaKa xéjLivei.
4. Oeoòóipou ToO TTpobpó)nou axixoi eì; toùi; òi/jòcko |-ifjva^. Keil,
op. cit., pp. 110-15. Sei trimetri giambici per ciascun mese, incomin-
ciando da Marzo : 'E^d» orparriYoùc; TTpòq TravoTrXiav (5yuj. Gli ultimi
due 0 tre versi di ciascun mese contengono precetti igienici ').
0 Come non mancò di notare il Keil, op. cit., pp. 108 sgg., a co-
testi precetti danno, per così dire, l'argomento le prime parole di
'CARMINA DE MENSIHUS " DI BONVESIN DA LA RIVA 91
Teodoro Prodromo, che finì i suoi giorni in un chiostro di Costan-
tinopoli col nome di Ilarione, visse dal 1118 fino al 1181 circa (cfr.
Krumbacher, op. cit., § 313, p. 749).
5. Descrizione dei Mesi nel romanzo Tò Ka9' 'To|nivriv koì 'To|ui-
viav òpà|ua composto nella seconda metà del sec. XII da Eustazio
(ediz. R. Hercher, Erotici scriptores graeci, II, 161 sgg., ediz. Hilberg,
lib. IV, vv. 5 sgg., pp. 49 sgg.) noto soltanto per il titolo datogli in
un ms. di TTpuuToviwgcXiaiiuoi; e Méyac; xapfOopùXaS (Krumbacher, op-
cit., § 319, p. 766).
6. Descrizione dei Mesi nel romanzo " Lybistros e Rhodamne „
di autore anonimo, della seconda metà del sec. XIII (Krumbacher,
op. cit. § 379, pp. 861 sgg.). La descrizione è imitata, spesso alla lettera,
da quella di Eustazio [vedi n" precedente], e nell'ediz. del romanzo
procurata dal Wagner, Mediaeval greek texts, London, 1880, comincia
col V. 882. Fu poi edita criticamente dal Keil, op. cit., pp. 129-36. La
serie principia da Marzo: '0 Mópnoc; fJTov IvottXo; OTpariujTJi; eìt;
TÒ ayij\nav.
7. 'Ek; toùc; òujòeKa \xf\vac,. Keil, op. cit. pp. 116-17. Tre trimetri
giambici per mese, incominciando da Marzo ; ai due ultimi. Gennaio
e Febbraio, manca un verso. Ne è autore Manuel Philes, che visse
sotto Michele Paleologo II (1295-1320). Cfr. Strzygowski, Repertorium
XI, 37 e Krumbacher, op. cit., § 324, 4, p. 777. Dovevano servire a
spiegare le rappresentazioni figurate dei Mesi. Com. Tour fipa oaqpé^ '
ó Ypotqpeùc; YÒp èveàòe.
8. Dodici trimetri giambici, uno per mese, incominciando da
Gennaio; di autore anonimo. Keil, op. cit., p. 118. Contenuti nel cod.
Vatic. 1384, fol. 71' del sec. XV, ma composti molto prima, non
però avanti il sec. XII. Evidentemente aggiunti a rappresentazioni
figurate. Com. 0r|paTiKÓ(; xiq eìm, toìx; XaYÙJ(; pX^ire, e accanto l'ab-
breviatura 'lavv.
quelli dei mesi corrispondenti nel Trattato alimentare di Jerofilo edito
dal BoissoNADE, Notices et Extraits, XI (1827), 2, 192 sgg. Lo stesso
Keil (p. 109w) nota le peculiari convenienze dei precetti di Prodromo
con quelli della Schola Salernitana (Regimen Salernitaniim) .
92 LEANDRO BIADENE
9. Tre trimetri giambici per mese, tranne per Gennaio, Febbraio,
Giugno e Luglio, nei quali è caduto un verso. Kkiv, op. cit., pp. 118-20.
Di autore ignoto ma bizantino. I versi contengono la maggior parte
precetti igienici [cfr. qui sopra n° 4]. La serie principia da Settembre:
rf]v àpoa(|ariv aireObe T^juveiv, àypóra.
10. 'EKnppaan; ]ur|vujv ùttò Ziuypdrpov KOTaYeYpaMMéviuv ouiuPoXikujc;.
Testo in i:)rosa, anonimo, che si attiene, come il n° 6, alla descrizione
di Eustazio [vedi n° 5 qui sopra]. Contenuto nel cod. 2773 della Bi-
blioteca granducale di Darmstadt (v. L. Voltz und W. Ceoenert, Der
" codex 2773 miscellaneus graeciis „ der Grossherzog. Bihliot. zu Darm-
stadt nel Centralblatt f. Bibliothekwesen, 14 [1897]) e pubblicato e il-
strato da L. Voltz, Beinerhungen zh byzantinischen MonatsUsten nella
ByzantiniscJte Zeitschrift, IV, 547 sgg. (1895). Notevole che ai nomi
latino-cristiani dei mesi sieno sostituiti i nomi attici.
Testi latini.
Dallo Strzygowski, Calenderbilder, pp. 49, 57, 90 sono citati i testi
qui appresso segnati dei n' 1, 2 e 10; dal Riegl, Mittelcdt. Kalenderill.
i n' 1 (p. 21), 2 (p. 23), 6-8 (pp. 25 sgg.), 11 (p. 23); dal RAHN,\Die
Glasgemiilde in der Rosette der Kathedrale von Lausanne, p. 20 e dal
D'Ancona, Arch. trad. j^op. II, 257, il n° 10.
La maggior parte poi furono pubblicati in edizione critica dal
Baeheens, Poetae latini minores (PLM), Lipsia, Teubner, nei voli. I
(1879), IV (1882) e V (1883), alle pagine che indicheremo qui sotto
per ognuno di essi.
1. " Hic lani mensis sacer est: en aspiee ut aris „ PLM, I, xii,
207. È il cosidetto Tetrastichon authenticum, che fu già ei-roneamente
attribuito ad Ausonio. Due distici per ciascun Mese, scritti l'uno di
fianco all'altro lungo il margine interno delle pagine contenenti i
simboli dei Mesi nel Calendario di Filocalo del 354 ; ma il Baehrens,
op. cit., I, 204, li crede più antichi e veramente prossimi all'età di
Augusto, a cagione dell'eleganza ritmica e dei pregi dell'elocuzione,
e anche lo STRzyGowsKi, Calenderbilder, p. 103, per altre ragioni, de-
sunte le più dal confronto di essi colle immagini dei Mesi, che do-
vrebbero spiegare e a cui invece non sempre corrispondono in tutto,
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 93
li riporta al primo o secondo secolo d. C. — Sarebbe questa la più
antica fra le poesie d'ogni lingua composte a illustrazione delle figure
dei Mesi.
2. " Primus, lane, tibi sacratur, eponyme, mensis „ PLM, I, xni,
210. Dodici distici, di cui l'esametro scritto sotto la figura e il pen-
tametro sotto la tabella dei giorni del Mese nel Calendario di Filo-
calo. 11 primo esametro si trova anche in questa forma : " lanus
adest bifrons pritnasque ingreditur anniim „, che per altro non deve
essere la primitiva (cfr. Baehrens, op. cit., I, 210w e Strzygowski, Ca-
Icnderbilder, p. 57).
3. " Fulget honorifìco indutus mensis aniictu „ PLM, IV, 290 (n° 305
àoìV Anthólogia latina [metà circa del sec. VI] quale fu ricomposta dal
Baehrens). Dodici distici col titolo Laus omnium mensium. Coloro che
fin qui studiarono il trasformarsi dei tipi dei Mesi non fermarono
l'attenzione su cotesti versi, i quali dovevano evidentemente servire
a illustrare un calendario pivi d'ogni altro simile a quello di Filo-
calo, ma ad esso posterioi'e, essendovi fatta parte maggiore alle fac-
cende dell'uomo in confronto dei fenomeni naturali, come vediamo
avvenire quanto più si procede nel tempo (vedi Riegl, op. cit., p. 50).
Si osservino le somiglianze caratteristiche, pur nell'espressione, dei
due calendarj, specialmente nei mesi di Marzo, Aprile e Agosto.
4. " Purpura iuridicis sacros largitur honores „ PLM, V, 214.
Ventiquattro esametri, due per mese, di Livio Draconzio, poeta vis-
suto verso la fine del sec. V.
5. " Artatur niveus bntnia lanuarius atra „ PLM, V, 854. Dodici
esametri, uno per mese, intitolati Officia XII mensium. Composti, a
parere del Baehrens, op. cit., V, 349, fra l'età di Draconzio e quella
di Colombano, cioè fra la fine del V e la seconda metà del VII secolo .
6. De mensium duodecim nominibus, signis, culturis aerisque qua-
Utatibus. DùMMLER, Poetae latini aevi Carolini, II, 604-16, Berlino, Weid-
mann, 1884 (nei Monumenta Germaniae historica). Poemetto composto
da Wandalbei-to di Priim verso la metà del sec. IX. Dei 366 esa-
metri onde si compone, 6, in principio, contengono l'argomento, al-
94 LEANDRO BIADENE
trettanti formano la chiusa, e gli altri sono così distribuiti : Gen-
naio 20, Febbraio 21, Marzo 26, Aprile 29, Maggio 33, Giugno 29,
Luglio 32, Agosto 36, Settembre 35, Ottobre 31, Novembre 28, Di-
cembre 34.
Primi versi :
Nominibus mensum quae sit rationis origo,
Annum bis seno volvunt qui sidere magnum,
Quae inlustrent pariter duodenas signa Kalendas,
Quid connexa ferat mensum discretio terris,
Quos usus generet cultus, quos formet habendi:
Servato breviter referemus in ordine, lector.
Ultimi versi :
Wandalbertus ego, liortatu compulsus amici,
Dulcia me Hreni quo tempore litora alebant,
Maxima Agrippinae veteris quis moenia praesunt.
Il titolo riassume esattamente la contenenza del poemetto, come
discorrendo di questo notò il Riegl, op. cit., pp. 35-37 ; il quale (p. 40)
aggiunge che i versi non possono essere stati composti per ispiegare
le immagini dei Mesi, ma hanno la loro origine nel gusto per la
poesia dei calendari ormai invalente nel nono secolo.
7. " Fertur de lano dictus lanuariiis olim „. Dùmmleb, Poetae lat.
aevi Carol. Il, 644-45. È uno dei Carmina Salishurgensia, col titolo
Ydioma mensium singulorum. Ventiquattro distici, due per mese, com-
posti fra 1*855 e 1*859. Secondo G.Wattenbach, Deutschlands Geschichts-
qtiellen, I, 238, avrebbero dovuto leggersi sulle pareti dell'aula episco-
pale di Salzburg. Su di essi cfr. Riegl, op. cit., p. 307. Il primo distico
di ciascun mese serve a spiegarne il nome. Tutti due i distici di
Giugno sul nome del mese.
8. " Pone focum ntensis dictus de nomine lani „. Dùhuler, Poetae
lat. aevi Carol. II, 645-46. Altro dei Carmina Salishurgensia, che fa
seguito a quello del n* precedente, col titolo Item alii versus. Tredici
distici, uno per mese e il seguente di chiusa :
Haec loca sufficiant subito prò tempore fratri,
Nam praesens otium mox meliora dabit.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 9j
L'importanza di questa poesia nella storia dei calendari illustrati
apparisce dall' esame fattone dal Riegl, op. cit., pp. 38-40. Contra-
riamente per altro all'opinione a cui egli inchinava, anche questa
poesia sembra essere stata composta a illustrazione di un ciclo dei mesi
e propriamente di quello edito di fresco da A. Chroust, Denkmdler der
Schreibkunst des Mittelalters, erste Abt. (nei Monumenta paleographica,
Mùnchen, F. Bruckmann, 1899, Ser. I, Lief. I), che lo riproduce dal
cod. lat. n. 210 (fig. 91) della R. Biblioteca di Monaco, scritto proba-
bilmente a Salzburg nell' 818 e copiato da un apografo dell' 809 pro-
veniente dal nord-ovest della Francia.
9. " Martius hic falcem retinens vult cedere vitein „. Dieci esametri,
uno per mese : mancano Gennaio e Febbraio, che probabilmente an-
darono perduti. Si legge ciascuno di essi sotto la tabella del rispettivo
mese nelVEphemeris di Beda (Bedae Opera, ediz. 1563, pp. 242 sgg.;
ediz. 1612, pp. 190 sgg.). Finora sembra sia passato inosservato che
formano una sola serie (non ne tocca il Riegl e neppure lo Strzy-
gowski) e gioverà quindi riprodurli qui riuniti tutti insieme.
Martius hic falcem retinens vult cedere vitem.
Aprilis rastrum tollendo temperat agrum.
Alligat ad fustes hic Maius in ordine vites.
Tellurem curvo lunius proscindit aratro,
lulius ergo secat gramen foenumque reservat.
Augustus metit et fruges in horrea mittit.
September lectos terit hic cum fuste corymbos.
Seminat October quod maturum metit
Sed purgat semper fruges tundendo November.
Ecce suem: fastos parat nunc iste Decembres.
Questi versi dovevano evidentemente essere scritti sotto le figure
dei Mesi (cfr. hic avv., vv. 1, 3, 7; ecce 10, iste 10). L'esametro di
Ottobre è incompiuto in tutte due le edizioni, e propriamente manca
dell'ultimo piede. Forse fu lasciato così dall'autore, che sembra avrebbe
dovuto compierlo colla parola Augustus (cfr. v. 6); sennonché in tal
maniera esso avrebbe superato d'una sillaba la giusta misura; sem-
brando che cotesti versi sieno, sebbene con qualche licenza, piuttosto
metrici che ritmici. Quanto al tempo in cui furono composti, non si
96 LEANDRO BIADENE
può precisare ; ma, badando al modo in cui i Mesi sono rappresentati,
non andremo lungi dal vero ritenendoli composti o da Beda stesso
0 poco prima di lui.
10. 0. Mazzoxi-Toselli, Spogli dell'Archivio criminale di Bologna,
Voi. II, fase. 4, p. 194' (ms. presso la Biblioteca Comunale di Bologna)
trascrive da " un libro del 1300 „ i versi seguenti '):
Pocula lanus amat et Februs ' aigeo ' clamat.
Martius arva fodit, Aprilis florida prodit.
Ros et flos nemorum Madio sunt ^) donorum.
lunius dat fena, lulio secatur avena.
Augustus spicas, September contulit uvas.
Seminat October, spoliat virgulta November.
Gaudet et exultat porcum mactando December.
11. Un tetrastico di leonini, che indicando brevemente le carat-
teristiche di tutti i dodici Mesi, e in grazia della brevità e della rima
essendo facile a ritenersi a memoria, deve essere stato molto diflFuso
nel medio evo, è il seguente :
Poto, ligna cremo, de vite superflua demo,
Do gramen gratum, mihi flos servit, mihi pratum,
Foenum declino, messes mete, vina propino,
Semen humi iacto, mihi pasco sues, mihi macto.
Secondo un'altra lezione nel v. 3 spicas invece di foeniim e nel se-
condo emistichio del v, 4 pasco sues, immolo porcos, erroneamente,
come mostra la mancanza della rima col primo emistichio. Il tetra-
stico fu pubblicato di su un ms. del sec. XV da Wright e Hallivell,
Religiciae antiquae, London, 1845, II, 40 e di su uno del sec. XIV da
^) Ne ebbi copia dal prof. D'Ancona, a cui li aveva comunicati il
prof. Nevati.
') Nella copia del Mazzoni-Toselli c'è qui una parola evidentemente
sformata, che il Nevati trascrisse per hanes ponendovi sopra bones. Il
dott. Ludovico Frati, pregato da me di riesaminare la copia del To-
selli, mi comunica colla consueta prontezza che leggerebbe homes in-
vece di hanes e che invece di donorum sta scritto erroneamente dinoram.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 97
AuBER, Histoire (in syntholisme nUgieux, Paris et Poitiers, 1871, III,
457, e da altri modernamente ; ma già avanti coteste Mensium Notae
avevano veduto la luce con tal titolo insieme colle Opere di Beda,
dove si trovano illustrate da graziose vignette. Le illustrazioni del-
l'ediz. del 1612 (I, 377) differiscono da quelle dell' ediz. del 1563
(I, coli. 457-58) e, singolare, in tutte due le edizioni è invertito l'or-
dine delle vignette di Settembre e Ottobre, sicché non corrispondono
alle parole che dovrebbero illustrare e che sono mantenute nell'or-
dine giusto.
12. Tutt'in giro a ciascuna delle dodici vignette dei mesi dise-
gnate da Martino de Vos e incise da Crispino de Passe verso la metà
del sec. XVI (riprodotte dallo Champier, Anciens almanachs illustrés,
pp. 21, 28, 35), sono scritti due versi latini che le illustrano.
Non essendo essi, crediamo, noti d'altronde, li riproduciamo qui.
Pocula lanus amo, regi applaudoque bibenti
Atque amnem lusu concretum et polio cursu.
Algidus en recreor multa Februarius olla,
Barbara larvato celebrans con vi via Baccho.
Nunc vitem ac salices praecido et balnea quaero :
Aro, seco venas et semino Martius agros.
En aperit terras diuturno frigore clausas
Prodeat ut viola ac reliquorum copia florum.
Balnea Maius amo et iuvenilia gaudia quaero,
Utor aromatibus, venam seco, salvia potus.
lunius en lautas mihi oves et pascua tondo ;
Umbra iuvat, lactuca virens, somnusque minutus.
lulius agricolis et farra et foena ministrat
Quaerit ubi optatas»cum Phyllide Tytirus umbras.
Arboreos fructus et humi nascentia fraga
Largior Augustus, beo frugibus horrea plenis.
Semen humi iacto September botryde dulci
Piscibus et vescor, pyrisque et lacte caprino.
SttxóJ di filologia romama, IX. 7
99 LEANDRO BIADENE
Colligit Octobri maturas vinitor uvas
Gaudet et hinc dulci musto madere iuventus.
Prospicio vacuae pulchra ornamenta colinae
Omnigena pecudum laniata carne November.
Macto sues: Boreae nil frigora curo December
Dum modo ligna, focus, toga sunt et aromata praesto.
13. Raccoglieremo sotto questo numero alcune poesie o frammenti
di poesie nelle quali le proprietà dei Mesi non formano il solo o il
principale argomento o sono anche soltanto leggermente accennate.
a) " Dira jxctet lani Romanis ianua bellis „ PLM, I, xi, 205.
Sei distici. Il Baehbens, 1. e, è d'opinione che i versi fossero scritti
sotto le statue dei dodici segni zodiacali e che la poesia ci sia giunta
frammentaria e sieno caduti dodici versi; vale a dire, ammettendo
che anche originariamente fosse composta di distici, che sieno caduti
il pentametro del primo distico e l'esametro del secondo, il penta-
metro del terzo e l'esametro del quarto, e così di seguito. Non è im-
probabile che questo carme, di cui è incerta l'età, fosse composto,
come pensa il Riegl^ op. cit., p. 23, ad illustrazione anche delle figure
dei Mesi, le quali, come si sa, erano spesso accompagnate dai rispet-
tivi segni zodiacali.
h) "Aestatis Maiiis Tauro primordia prodit „ PLM, V, 379. Do-
dici esametri; manca il secondo emistichio dell'ottavo e il primo del
nono. Di incerta età. La poesia è piuttosto sui segni zodiacali che
sulle proprietà dei Mesi, delle quali per altro^ almeno per alcuni, si
tocca brevemente. Notevole fra i testi latini che la serie principii da
Maggio.
e) Ricorda le rappresentazioni dei Mesi anche il primo dei due
esametri d' introduzione a ciascun mese del Martirologio di Wandal-
berto. DùMMLER, Poetae lat. aevi Carol. II, 578-62, da Marzo a Ottobre.
Di Gennaio si rammenta l'origine del nome da Giano.
In aggiunta alle poesie latine dichiarative delle figure dei Mesi
gioverà rammentare qui anche il carme di Ausonio che pi'incipia :
" Principium lani sancii trojnciis Capricornus „ {D. Magni Ausonii
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 99
Optisctila ree. R. Peipeb, Lipsia, Teubner, 1886, p. 102) e che si com-
pone di dodici esametri, i quali si trovano assai spesso a spiegare
i segni zodiacali rappresentati insieme coi Mesi. Nelle Oliere di Au-
sonio volgarizzate da P. Canal (Venezia, Antonelli, 1853) se ne legge
la traduzione nella col. 575, n" 382.
Testi italiani.
Quasi tutti indicati dal D'Ancona, / dodici mesi dell'anno nella
tradizione j^opolare (Archino per lo studio d. trad. pop. II [1883],
239-70). Nelle pagine 257-58 discorre dei testi qui sotto segnati dei
n' 1 e 2, e stampa poi per la prima volta il n° 5 e ristampa i
n' 7-11 e 19, alle pagine che indicheremo per ciascuno di essi. Inoltre
nell'articolo sui Calendari monumentali (nel Supplemento à&W Illustra-
zione italiana, Natale e Capo d'anno 1883-84) menziona i testi editi
poi da G. Finamore e che in questo nostro Indice hanno i n' 12-18.
1. Il tractato dei mesi di Bonvesin da Riva pubbl. da E. Lidforss,
Bologna, Romagnoli, 1872 (Scelta di curiosità lett., n° 127). Si compone
di 184 strofe quadernario monoritmiche di alessandrini. Nella stampa,
come forse nel codice, ciascun verso è diviso in due settenarj, il
primo dei quali resta senza rima. Recensione di A. Mussafia, Romania,
II, 113 sgg.; di A. Wesselofsky, Propugn., V, ii, 368 sgg.; di M. Caffi,
Archivio storico italiano, XVI, 496-98.
2. / sonetti de' mesi di Folgore da S. Gemignano e di Cene della
Chitarra d'Arezzo pubbl. da G. Navone, Le rime di F. da S. G. e di C.
d. Ch. Bologna, Romagnoli, 1880, pp. 3-31 e 61-83 (Scelta di Curiosità
lett., n. 172).
3. Frammento. ') Versi scarabocchiati, di mano del quattrocento,
sulla guardia anteriore di un codice posseduto dal signor Solerò di
Pieve di Cadore e contenente il noto poemetto della Passione " 0
increata maestà di Dio „ sul quale vedi Zambrini, Opere volgari a
stampa dei secoli XI fi e XIV, Bologna, Zanichelli, 1878*, col. 754:
*) Mi fu gentilmente indicato e trascritto dal dott. S. Morpurgo.
100 LEANDRO BIADENE
Disse Dezenber: corno dezo fare?
el è qua lo zomo di Nadalle
e sì non ho danari da zugare,
e starò presso lo fuogo con gran fredore.
Poi di nuovo:
Disse dezembrio : corno debio fare?
'1 è qua le feste de Nadalle
e n'azo da zugare,
e me vago a scaldar cum grani fuoco.
Disse mazo : io som el più bello ').
4. Una ballata sui dodici mesi dell'anno pubbl. da Lud. Frati nel
Giorn. stor. d. leti, ital., XXXIV, 278-79 di sul codice 1177 della Bi-
blioteca Universitaria di Bologna. Il codice è del secolo XIV, ma la
poesia vi fu trascritta sulla fine del secolo XV. Si compone di dodici
strofe quadernario di endecasillabi, i tre primi rimati tra loro e l'ul-
timo di rima uguale in tutte le strofe. — Presenta notevoli confor-
mità col testo indicato qui appresso.
5. Testo toscano pubblicato, dietro indicazione di S. Ferrari, di
sul codice Laurenz. X, e. 96 dal D'Ancona, op. cit., p. 260-61. Comincia
" Dicie Maggio: Sono il j^ià bello „. Maggio 3 versi, Giugno 4, Luglio 3,
Agosto 5, Settembre 4, Ottobre, Novembre, Dicembre e Gennaio 3,
Febbraio e Marzo 4, Aprile 3, di nuovo Maggio 4. I versi sono di
varia misura e l'ultimo di ciascuna strofetta rima o assuona coll'ul-
timo di tutte le altre.
6. " Nova Tramutatione sopra i dodeci Mesi dell'Anno. Datti in
luce da me Pompeio Ronchali dalla ChiAvra. Venetia et in Modena.
Per il Verdi 1608 „. Testo ristampato da M. Menghini, Rivista critica
d. leti, ital., VII, 1889-90 (a. 1891). Dodici ottave, una per mese. Co-
mincia " Zenar io son principio e capo e porta ,. Nelle ottave corrispon-
') Verso che ricompare anche in altri canti; p. es. nei due indicati
immediatamente dopo questo frammento.
' CABMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 101
denti ai mesi di Gennaio-Maggio e Luglio-Novembre, i vv. 5-8 con-
tengono r indicazione delle principali feste ecclesiastiche in essi
ricorrenti, le quali nell'ottava di Giugno sono comprese nei vv. 6-8
e in quella di Dicembre nei vv. 3-8. Nelle ottave di Gennaio-Maggio
e Luglio- Agosto i vv. 1-2 sono dati alla spiegazione del nome del
rispettivo mese, i vv. 3-4 invece alle note caratteristiche dei mede-
simi, per le quali sono riservati i vv. 1-5 dell' ottava di Giugno e i
vv. 1-4 delle ottave di Settembre-Novembre e i vv. 1-2 di quella di
Dicembre *).
7. Testo di Sora pubblicato da V. Simoncelli, Preludio, VII, n" 5
(16 marzo 1883) e ristampato dal D'Ancona, op. cit., pp. 240-44. È una
piccola rappresentazione drammatica. Il Simoncelli premette le se-
guenti avvertenze sul modo col quale si procede alla recitazione :
" La scena è in una piazza qualunque. Vi è il padre, 1' anno, con i
dodici figli, i mesi. L' anno è un vecchio con barba bianca, ed una
specie di scettro in mano. Gennaio indossa un cuoio di vacca; Feb-
braio una pelle di montone ; Marzo una di capra nera ; Aprile l'abito
contadinesco di fatica; Maggio il più bel giovane è vestito da festa
e tutto infiorato ; Giugno ha un costume leggero e le spiche in mano ;
Luglio va in mutande e camicia; Agosto è medico ed ha un librone
sotto il braccio; in capo una tuba e in mano una borsa di danaro.
Gli altri mesi sono in abito ordinario di fatica „.
Parla per il primo il Padre e dice:
So' patre vecchio co dudece figli
Tutti rauniti comm'a rose e gigli;
'N saccio nesciune a chi s'arrassomiglia.
*) Si noti il V. 4 di Aprile " Zefiro spira il bel tempo rimena „, che,
tranne la sostituzione di sjnra a torna, è tal quale il primo verso di
un noto sonetto del Petrarca. Avvertito questo, sarà probabilmente
da vedere una reminiscenza petrarchesca anche nel v. 4 di Agosto
" Onde fece il terren tutto sanguigno „ riferito al " gran Romano Au-
gusto , e che richiama "Cesare taccio che per ogni piaggia \ Fece l'erbe
sanguigne \ Di lor rene „ della canzone all' Italia. E il primo verso
dell'ottava di Maggio " Ben venga Maggio da maggior detto „ ripro-
duce tal quale nel primo emistichio il principio dei canti di Maggio,
fra cui quello celebre del Poliziano.
102 LEANDRO BIADENE
e poi rivolgendosi a Gennaio:
Spiegarne glie nome te', chi si'
e la medesima domanda fa via via agli altri Mesi. Gennaio risponde
con 10 versi, Febbraio con 8, Marzo con 7, Aprile con 7, Maggio
con 12, Giugno con 7, Luglio con 6, Agosto con 12, Settembre con 8,
Ottobre con 10, Novembre con 9, Dicembre con 6.
8. Una variante calabrese della rapjyresentazione " I dodici mesi „
pubblicata da V. Caravelli, Preludio, VII, n. 16 (30 agosto 1883) e
ristampata n^W Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, II, 565-68.
La poesia fa raccolta dalla bocca di una tessitora di S. Sosti (pro-
vincia di Cosenza). Il C. ci fa sapere che la rappresentazione " si
componeva di tredici persone, vestite press'a poco allo stesso modo
descritto dal Simoncelli (vedi n. 7 qui sopra) : cavalcavano però degli
asini, il vecchio non era il padre dei Mesi, ma il Capo d'anno, ed
Aprile una donna invece d'un uomo ,. Incomincia Capo d'anno: " In
su' Capii d^annti e Capa d'ogni Misi „. Dopo 4 versi di lui seguono 8
di Gennaio, 6 di Febbraio, 10 di Marzo, 14 di Aprile, 12 di Maggio,
6 di Giugno, 6 di Luglio, 7 di Agosto, 4 di Settembre, 10 di Ottobre,
6 di Novembre, 8 di Dicembre.
Questa poesia, la quale dall'editore è data come ' una variante ' di
quella pubblicata dal Simoncelli, non ha di comune con essa che la
forma di rappresentazione; invece quanto alla lezione del testo è
una variante vera e propria, come a dire un'altra versione, di quella
che indicheremo subito qui appresso.
9. Testo di Benevento pubbl. da F. Corazzixi, Componimenti mi-
nori della Ietterai, popol. ital., Benevento, De Gennaro, 1877, p. 375 e
ristampato dal D'Ancona, op. cit., p. 244-47. Il Cor. avvertiva : " nel
carnevale di ogni anno i pescatori, caprai e villani di Benevento
hanno uso di fare una mascherata, chiamata i dudici misi, e cantano
ognuno le seguenti strofe, e dopo finite tutte, ballano una quadriglia
inventata da loro stessi ,. Com. " /' so Ghiannaro e so In principale „.
Gennaio 8 versi, Febbraio 6, Marzo 8, Aprile 4, Maggio 5, Giugno 8,
Luglio 8, Agosto 10, Settembre 6, Ottobre 6, Novembre 6, Dicembre 6.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 103
10. Frammento proveniente da Mentì riguardante i soli mesi di
Giugno, Luglio, Settembre e Ottobre, pubbl. da L. Vigo, Raccolta
amplissima, ecc., e accennato dal D'Ancona, op. cit., p. 247.
11. Testo siciliano pubbl. da L. Vigo, Raccolta ampliss., p. 741 e
comunicatogli dal rapsodo Salvatore 'Nfìlao di Milo. Ristampato dal
D'Ancona, op. cit., p. 247-51, il quale osserva che nel canto " il ca-
ratt*?re drammatico è andato a confondersi e perdersi nel narrativo ,.
Sono 15 ottave siciliane. Com. " Omini e donni dotti e sapienti „.
12. Testo di Gessopalena (Abruzzo) pubbl. da G. Finamore, Ar-
chivio per lo studio d. trad. pop., IV, 436-37. Tre versi per mese, due
per Novembre; Dicembre manca. Com. " Ècche Ggennnre che IV amore
perfètte „.
13. Testo di Mozzagrogna (Abruzzo), pubbl. da G. Finamore, Ai'-
chimo trad. pop., IV, 437-40. Incomincia da Maggio con 9 versi. Se-
guono Giugno con 16, Luglio con 5, Agosto con 4, Settembre con 7,
Ottobre con 12, Novembre con 9, Dicembre con 3, Gennaio con 5,
Febbraio con 5, Marzo con 10, Aprile con 12. Com. " Ma' se nave
lu mése de Magge „. Il ritornello alla fine d'ogni mese suona: " Lu
sole che spanne le ragge: Ros'e ffiiire lu prime de Magge „.
14. Testo umbro-marchigiano-abruzzese. Per ciascun mese due
coppie a rima baciata. La serie non comincia sempre dallo stesso
mese. La versione umbra principiante da Ottobre fu pubblicata da
G. Lesca, Canti popolari umbri raccolti a Marmore (Terni) noìV Archivio
trad. pop., VI, 549, quella marchigiana principiante da Gennaio fu
pubblicata da A. Gianaxdrea, Calendario popolare marchigiano nella
Nuova Rivista Misena II, [1888-89], n' 4-15. Delle versioni abruzzesi
G. Finamore stampò quella di Lanciano, che comincia da Marzo, e
quella di Vasto, che comincia da Gennaio, wqW Archivio trad. pop.,
IV, 441-43, avvertendo (p. 443 n.) che una variante di Penne da lui
tralasciata è molto simile a quella di Lanciano. Altre quattro ver-
sioni abruzzesi delio stesso canto contaminate con altri canti dei
mesi indichiamo qui appresso. Intanto notiamo che coteste versioni
abruzzesi sono precedute, tranne una, da quattro versi, le cui due
principali versioni sono:
104 LEANDRO BIADENE
1. Ji' so' nu patre de dudece fijje:
Tutt'e ddudece so' uhuàle.
So' uhual' e ssone 'huale:
Tutt'e ddudece so' mmurtale. (Lanciano)
li. Ji' so' ppatre dde ddudece fijje;
Tutt'e ddudece so' mmurtale;
E ccujjénne la ros' e lu gijje,
Ji' so' ppatre de ddudece fijje. (Atri)
Questo principio è simile a quello del testo n. 7 e del Calendario
ecclesiastico n. 3 (vedi più avanti la Parte III di quest'Appendice).
Anche : per il mese di Marzo questo testo concorda sostanzialmente
col n. 5, col quale ha pure qualche somiglianza per i mesi di Aprile
e Maggio. Cosicché questo canto sembra essere il più largamente
diffuso di quelli sui mesi.
15. Testo di S. Eusanio del Sangro (Abruzzo) pubblicato da
G. FiNAMORE, Archivio trad. pop., IV, 444-45. Com. " Ècche Fruhbare che
'na mana ciòtele „. Variante del canto precedente, che per altro in
parte conviene coi testi 7, 8 e 13.
16. Testo di Atri (Abruzzo) pubbl. da G. Pinamore, Archivio trad,
pop., IV, 445-48. Dopo i 4 versi d'introduzione riportati al n. 14, com.
' Ji' so' Jennare. Accand'a In foche „. Variante del n. 14. Dopo i 4
versi di Aprile corrispondenti a quelli del testo ora citato, seguono
fra parentesi quadre 4 versi, che riproducono con qualche varietà
quelli di Aprile del n. 13; dopo Maggio, pure fra parentesi, 14 versi,
il 5° e il 6° e il 13° e il 14° dei quali formano il ritornello del n. 13;
dopo Settembre, 6 versi che ricordano lontanamente quelli dello
stesso mese del n. 13, e dopo i 4 di Dicembre, altrettanti senza ri-
scontro in altri testi qui indicati.
17. Testo di Archi (Abruzzo) pubbl. da G. Finamore, Architno
trad. pop., IV, 448-49. Per Gennaio 4 versi, per Febbraio 4, per Marzo 6,
per Aprile 4, Maggio, Giugno e Luglio 4, Agosto 8, Settembre 4,
Ottobre 6, Novembre e Dicembre 4. Com. " Ècche Jinnare, ch'è cchiù
galande ,. Fusione dei testi n. 13 e 14 con forte prevalenza del primo.
' CARMINA DE ME.VSIBUS ' DI BONTESIN DA LA RIVA 105
I versi di Maggio sono chiusi fra parentesi quadre, probabilmente a
indicare che in origine dovevano far parte di questo canto: in essi
di fatti ricompare il ritornello del n. 13.
18. Testo di Aquila (frammento) pubici, da G. Finamork, Archimo
trad. pop., IV, 449-50. Variante del n. 14. Com. " .//' so' ppatre dde
ddicici fìjji ,. Oltre i 4 versi d'introduzione, 4 di Aprile, 4 di Giugno
e altri 4 riferentisi a uno o più mesi d'estate.
19. Testo veneto-toscano. La versione veneta fu pubblicata prima
da D. G. Bernomi, Tradizioni popolari veneziane, Venezia, Antonelli,
1875, p. 45 e ristampata dal D'Ancona, op. cit., pp. 251-53 e poi con
leggere varianti da I. Ninni, Appendice ai materiali per un vocabo-
lario della lingua rusticana del contado di Treviso, Venezia, Longhi e
Montanari, 1892, p. 64. La contessa Ninni, la quale non fa menzione
della prima stampa, avverte di non aver potuto raccogliere la strofa
del mese di Dicembre. Lo stesso testo, frammentario, leggesi nei
Canti ]}02)olari della montagna lucchese pubbl. da G. Giannini, Torino,
Loescher, 1889, pp. 233-34. Cotesto frammento toscano comprende i
mesi da Febbraio a tutto Luglio; oltre la seguente strofetta iniziale,
che manca uUa versione veneta:
Viva viva Primavera!
Ogni albero fa ricisa
E la rosa è gentilina
La stagion perchè l'è-b-bella:
Viva viva Primavera.
Com. " E mi so' Genaro fredo ,. Una strofetta di 5 settenarj per mese,
rimati abb a a. L'ultimo verso ripete, a modo di ritornello, il primo
d'ogni strofetta. L' esame comparativo delle due versioni veneta e
toscana dimostra subito, solo che si badi alla lingua, che la prima è
l'originaria, anche a non tener conto del metro usato spesso dai can-
tori veneti.
Testi francesi.
1. La descrizione della parte esterna del padiglione di Alessandro
nell'antico poema francese, che da lui s'intitola, incomincia così {Ale-
106 LEANDRO BIADENE
xandriade oh chanson de geste d' Alexandre-ìe-Grand, epopèe romane du
XII siede de Lambert le Court (sic) et Alexandre de Bernay, Dinan-
Paris, 1861, p. 77, v. 10 sgg.):
Teiis est li tres declens que je vus ai conte
Mais or pores oir de deliors la fìerté.
E r premier cief devant, ot paint i. mois d'esté;
Tout si com li vregier verdoient et li pré
Et ensi com les vignes florisent et li blé.
Li XII. mois de l'an i sunt tout devisé,
Tout ensi com cascuns monstre sa poesté;
Les eures et li l'our i sunt tot aconté;
Li cius et li planettes et li signe nome,
Et li ans est desus pains en sa majesté
Et par lettres escrites i est tout demostré.
Più avanti (p. 367, v. 10 dal basso) si descrive l'elmo di Poro re
dell' India :
E r ciercle de son elme sunt paint li XII. mois.
2. L'autore del Roman de Tìtèbes, descrivendo " li trez mer-
veilleux et granz „ di Adrasto, dopo aver detto che da una parte di
esso è dipinto il mappamondo, continua:
De l'autre part el destre pan
Son peint li XII mois de l'an.
Estez y est o ses amoiirs,
0 ses biautez et o ses flours,
0 cent coulors est painz estez.
Yver y fet granz tempestez
Qui nège et pluet et vente et gelle
Et ses oiires ensemble melle.
Abbiamo seguito per questi versi la copia fattane dal prof. Novati
di sul ms. 784, f. 27 della Nazionale di Parigi, e favoritaci dal pro-
fessore D'Ancona, non avendo l'agio di ricercarli, se pur vi sono
compresi, nell'edizione del Roman de Thèbes procurata dal Constans
per la Société des anciens textes fran^ais, Parigi, 1890.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 107
3. Le Heures ìi Vusage de Rouen (Paris, Vostre, s. a.), pubblicate
dal Vostre nel 1508 e note col nome di Grandes Heures de Vostre,
contengono nei fregi marginali del calendario dodici quartine, che
formano un piccolo vanto dei Mesi ').
Testo provenzale.
De la natura dels XII mes de l'an nel Breviari d'Amor (ediz. Azais,
Béziers-Parigi, 1862-81, vv. 6519-6756) di Matfré Ermengau (1280-
1322). La descrizione delle proprietà dei mesi incomincia veramente
dal V. 6564, e i versi che si riferiscono specialmente al modo di rap-
presentazione dei medesimi, sono riportati dal Riegl, op. cit., pp. 56-61,
nella descrizione delle illustrazioni dei Mesi del Calendario di S. Mes-
min (del mille circa; cfr. Riegl, op. cit., p. 52), alle quali corrispon-
dono pienamente.
Il capitolo sulla natura dei dodici mesi dovrebbe leggersi anche in
catalano nella traduzione in prosa che del Breviari d'Amor fu fatta in
cotesta lingua nel sec. XIV e che, meno qualche pezzo (cfr. P. Meter,
Recueil d'anciens textes, P partie, n. 30, p. 124), giace inedita in due
mss. della Nazionale di Parigi (cfr. Morel-Fatio, Catalanische Litte-
ratur nel Grundriss d. rem. Philol., II, ii, 104).
Testi spagnoli.
Tutti due si trovano citati dal Keil, op. citi, p. 140, che ana-
lizza anche il primo (pp. 440-41) dietro indicazione del Gidel, Etudes
sur la littérature grecque moderne, Paris, 1863, p. 180, n. 2; e G. Mo-
Rici, La poesia delle stagioni, p. 494-95, riferisce con brevità l'argo-
mento pure di essi due.
1. Pittura dei Mesi all'ingresso della tenda di Alessandro nel
Libro de Alexandre restituito recentemente a Gonzalo Berceo (prima
metà del sec. XIII). La descrizione occupa le strofe quademarie mono-
') Questa notizia, che devo all'amico prof. S. Morpurgo, mi mette
il dubbio che anche altri libri di Ore da me non veduti contengano
qualche altro vanto dei Mesi.
108 LEANDRO BIADENE
ritmiche di alessandrini, n. 2390-402 (Biblioteca de nutores espanoles,
Madrid, Rivadeneyra, 1864, voi. 57, pp. 220-21, e coteste strofe, rive-
dute sul codice, anche in Monaci, Testi basso-latini e volgari della
Spagna, Roma, 1891, pp. 58-59).
2. Pittura dei Mesi sulla tenda di Don Amor nel Libro de Can-
tares di Juan Ruiz Ar9Ìpreste de Fita (f 1350), str. 1244-74 [Bibl. de
autor, espafi., voi. 57, pp. 266-67).
Testo tedesco.
La traduzione in versi fatta da P. Herzsohn della poesia latina
di Wandalberto, che nel nostro Indice dei testi latini ha il n. 6 (Tu.
Inama Sternegg, Wandalberts Gedicht ilber die 12 Monatef eingeleitet
ìind metrisch ilbersetzt nella Westdeutsche Zeitschrift fiir Geschichte tmd
Kunst, I, 277-90: Rheinisches Landleben im 9 Jahrhwtdert).
Testo neo-aramaico.
Un contrasto dei Mesi in lingua aramea moderna, e propria-
mente nel dialetto Fellihì, fu pubblicato da M. Lidzbarski, Die neu-
aramàischen Hdss. der h'óngl. Bibliothek zti Berlin nei Semitische Stu-
dien, II (Weimar, 1896), 344 sgg. Consta di 17 strofe quadernarie,
tranne l'ultima, che è di sei versi. Primo a parlare è Aprile e ul-
timi sono Dicembre e Gennaio; mancano dunque Febbraio e Marzo.
Poiché il periodico in cui la poesia fu stampata è assai difficile a
trovare nelle biblioteche pubbliche italiane, se pur si trova in qual-
cuna, crediamo utile darne qui la traduzione di sulla versione te-
desca ') ; tanto più che, non conoscendolo, si potrebbe sospettare
diversifichi notevolmente dai testi congeneri occidentali , mentre
invece chi si piaccia dei confronti troverà che ha con essi strettis-
sime somiglianze.
Ecco dunque la traduzione :
*) Il testo tedesco mi fu gentilmente trascritto dal prof. C. Appel
dell'Università di Breslavia.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 109
1. I Mesi dell'Anno si erano radunati e parlavano dei loro van-
taggi ; s'intrattenevano fra loro e cercavano mostrare ciò che in loro
havvi di pregevole. 2. Comparve e si fece avanti Aprile e disse le
seguenti parole ; mostrò che l'Anno non si compiace degli [altri] mesi
suoi [di Aprile] compagni. 3. " Nuove cose si compiono in me, in me
recano lieta promessa, anche s'adornano i monti e risplendono come
lampade '). 4. In me s'allargano i giri del Sole, le ore del giorno
diventano più lunghe; nidificano (tutte) le rondini e fanno udire da
lungi dolci suoni „. 5. Si ritirò Aprile e si avanzò Maggio e disse le
seguenti parole : " Va via, Aprile ! , e lo cacciò via. Questo lo ob-
bedì e andò via. 6. " In me produce [il suolo] bei fiori, si spandono
grate aurette, in me si portano corone intrecciate; anche i gigli
sbocciano. 7. Le spiche nei campi si lanciano in alto ; s'allungano,
diventano piene ed alte, toccano colle loro cime le spiche (sic) *), e
crescono al comando del loro creatore ,. 8. Maggio si ritirò e s'a-
vanzò Giugno e gli disse le parole : " Va via, Maggio ! , e lo cacciò
via, " il tuo discorso è finito „. 9. "Se tutta la gente si muove, e in
questo giorno si reca ai campi, loda piena di gioia il cielo, che pro-
cura pace e prosperità alla terra. 10. Balena lo splendore delle loro
falci ; di me si allietano le loro vedove, hanno cibo in me i loro or-
fani. 11. I grossi covoni che essi innalzano! e tutte le aje sono piene.
I poveri ricevono il loro cibo e innalzano lodi al Signore ,.12. Giugno
si allontanò e comparve Luglio e disse le seguenti parole : " Va,
Giugno „ e lo chiamò " piccolo „. " Piegati e inchinati davanti a me „
gli disse. 13. " In me maturano le viti e acquistano dolce sapore;
in me i grappoli e le cotogne addolciscono ogni bocca che li assaggi „.
14. Luglio andò via; vennero Agosto e Settembre. I due mesi erano
uniti insieme, portavano una croce sulle spalle e lodavano il crea-
tore dell'Anno. 15. Ottobre e il suo compagno^) si fecero avanti;
') Nella versione tedesca : " auch smiicken sich die Berge \ und glànzen
tcie Leuchten „. Si accenna ai fuochi accesi sui monti?
■) Nella versione tedesca questo verso accompagnato pure da un sic
suona: " erreichen mit ihrem Kopfen die Ahren,,, che nel contesto
del periodo non ha senso.
') In siriaco, Ottobre e Novembre hanno un solo nome e si distin-
guono l'uno dall'altro aggiungendo ad esso I e II {Noia del traduttore
' tedesco).
liO LEANDRO BIADENE
portavano olio, che era stato spremuto in essi ed anch'essi saziavano i
bisognosi. Essi schernivano Dicembre e Gennaio. 16. Però quando a
loro parlavano li chiamavano mesi infruttiferi, li disprezzavano for-
temente e gridavano loro: " Che ci avete voi? „ 17. Allora quelli rispo-
sero loro che la nascita del no^ro Signore ebbe luogo in essi e nel
secondo di essi ricevette il battesimo, e che colla sua nascita colmò
di gioia tutte le creature fino agli estremi confini, cosicché tutti in-
sieme colla loro voce fanno risuonare altamente le lodi del loro
creatore.
PARTE III.
1. Personificazione dei Mesi in fiabe e racconti.
Le fiabe e i racconti di cui qui intendiamo parlare si riducono, a
nostra notizia, ai tipi seguenti:
I. Di due sorelle o sorellastre oppure di due fratelli uno è
buono e l'altro cattivo. Il primo è regalato di bei doni dai Mesi da
lui trovati per via o più spesso mentre stavano a sedere riuniti, ed
ha poi lieta fortuna; l'altro, all'opposto, anche per opera dei Mesi,
è colpito dalla sciagura e finisce male.
Le fiabe e novelle a noi note dove tale tema è sviluppato sono le
seguenti, quasi tutte già indicate, alcune indirettamente, da J. Boltk,
Die Wochentuge in der Poesie [Archiv f. d. Stiid. d. neueren Sprachen,
XCVIII, 82 n.):
In Italia: Li Mise, trattenemiento secunno de la Jornata Quinta
de Lo Canto de li Canti di G. B. Basile. L'autore ne determina così
l'argomento : " Cianne e Lise, fratielle, l'uno ricco e l'antro povere.
Lise per essere povero e niente ajutato da lo frate ricco, sse parte ;
e 'ncontro tale fortuna che sse fa straricco. L'aiuto {sic) cerea pe'
'mmidia la medesima suorte ; e le riesce accessi contraria, che non
sso po' scazzecare da 'na disgrazia granne senza l'ajuto dell'auto
frate „. Fu narrata la stessa novella due secoli più tardi dal Somma,
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 111
col titolo La Mammadraa (Pitrè, Fiabe, novelle e racconti, IV, 386,
voi. VII della Bihliot. d. leti, popol., Palermo, 1875), e col titolo 'E
Mise e Vanne fu raccolta a Meta da Errico De Angelis, clie la pub-
blicò nel Giornale Napoletano della Domenica, n. 23 (4 giugno 1882),
notando che si riattacca alle seguenti della Novellaja fiorentina di
V. Imbriani: XIII II Lucio, XIV La bella e la brutta, XV La bella
Caterina.
Fuori d'Italia la stessa novella col titolo I dodici mesi : Tatarakis,
Analectes néohelléniques, I, 12; Legrand, Recueil de contes populaires
grecs, Paris, Leroux, 1881, p. 11; Misotakis, Ausgewàhlte griechische
Volksmilrchen, 1882, p. 109; Wenzig, Westslavischer March enschatz,
1858, p. 20 ; H. Seidel, Die Monate [Neues von Leberecht Hiihnchen,
1888, p. 227); A. Chodzko, Contes des paysans et de pàtres slaves, Paris,
1864, p. 15. R. Kohler nella recensione che fece di quest'ultima ràc-
coìtcìneìle Gottingische gelehrte Anzeigen, 18QQ, n. 28, p. 1116, rimanda
al Grimm [Kinder u. Hausmdrchen], n. 16, e lo stesso Chodzko, op.
cit., p. 29 n., nota che la novella fu rifatta in francese dal Laboulaye,
Contes bleus e pure col titolo Les douze mois.
II. È la fiaba dei giorni della merla o, come li chiamano i fran-
cesi, dei jours d'emiìrunt. P. Meyer, che ne discorse per ultimo nella
Romania, XXVI [1897], 98'-100 {Les Jours d'empruntd'après A. Neckam),
la riassume così: " Una vecchia (o un pastore) che custodiva le sue
pecore, vedendo che Febbraio s'era mostrato poco rigido, si fa beffe
di lui, credendo non aver più da temere la cattiva stagione. Ma
Febbraio irritato prende a prestito tre giorni da Marzo, e durante
questi tre giorni domina un freddo intenso (o scoppia un uragano),
che fa perire il gregge (e talvolta anche, in certi racconti, il guar-
diano) „. Come annunzia il Meyer nello scritto testé citato, p. 100 n.,
sui giorni della merla ci darà uno studio il Nevati, e intanto sullo
stesso argomento si può vedere l'altro scritto dello stesso Meyer,
Romania, III, 294-97, quello di S. Prato, Romania, XIII, 170 e quello
finora più 'ampio di tutti di L. Shaineanu, Romania, XVII, 107 sgg.
{Les jours d'emprunt ou les jours de la vieille).
III. Una giovane è mandata dalla mamma a cuocere la pizza da
un'amica. La giovane, fatta la pizza, comincia a girare per il vici-
112 LEANDRO BIADENE
nato. In una casa si vede il fumaiolo da cui esce molto fumo. In-
torno a un gran fuoco siedono dodici vecchioni: i dodici mesi del-
l'anno. Alla dimanda che ciascuno le fa che cosa di lui si dica, ella
risponde con un proverbio appropriato al mese (A. De Nino, Usi e
costumi abruzzesi, Fiabe, voi. Ili, pp. 184-89; Firenze, Barbera, 1883).
IV. Delle faccende dei mesi si discorre un paio di volte nell'opera
Lauberhiitt di Ulrico Megerle più noto col nome di Abraham a S. Clara
(1648-1709). In I, 1-5 si legge una favola di cui questo è in breve l'argo-
mento: Giove manda in terra Mercurio ad informarsi che cosa facciano
gli uomini e come passino il loro tempo '). I dodici Mesi gli danno uno
dopo l'altro i ragguaglj richiesti. Ogni risposta termina: " Pensano
assai poco a Dio „. In II, 256-58 si parla della nascita di Maria e si
dice che tutti i Mesi l' hanno ardentemente sospirata. Gennaio af-
ferma " come ingresso dell'anno che Maria, la quale viene chiamata
lamia coeli, porta e ingresso del cielo, deve esser pata in esso, ecc. „
ma soltanto a Settembre è toccata la più grande fortuna : " in Set-
tembre cadono le ferie, cessano i processi, non si eseguiscono le
sentenze , ').
2. Proverbj sulle Stagioni e sui Mesi.
11 D'Ancona, op. cit., p. 261, inchina a credere che codesti proverbj
facessero parte di canti sulle Stagioni e sui Mesi, ma anche se non
') Gioverà qui notare che delle occupazioni specialmente agricole
degli uomini nei varj mesi discorre a lungo Vincenzo di Beauvais
nello Sjìeculitm doctrinale, capp. XLV-CXLIX. E non tralascieremo
anche di rammentare il libro duodecimo del Trattato dell'agricoltura
di Piero de' Crescenzi " nel quale si fa menzione di tutte le cose, che
in ciascun mese son da fare in villa „. Quasi superfluo poi dire che i
lavori campestri da compiersi nelle varie stagioni sono indicati da
Esiodo nel poemetto che si intitola appunto Le Opere e i Giorni.
*) La citazione di Abraham a S. Clara è fiitta da J. Bolte, Die
Wochenlage in der Poesie ìiaW Archiv f. d. Studium d. neuer. Spr.,
XCVIII (a. 1897), 82», lavoro compilato colle schede lasciate dal
Kòhler. Ebbe poi la bontà di vedere per me i luoghi qui sopra citati
e di comunicarmene la contenenza il dott. A. Schnlze della R. Bi-
blioteca di Berlino.
'CARMINA DE MENSIBUS * DI BONVESIN DA LA RIVA 113
ne avessero mai fatto parte, la loro affinità coi medesimi è troppo
manifesta da poter tralasciarli in quesV Appendice. Ci rincresce quindi
di non essere per ora in grado di dare indicazioni di raccolte di siffatti
proverbj che per alcune nazioni europee, mentre anche le altre, p. es.
la tedesca, l' inglese, la spagnuola, non ne mancheranno di certo.
La lacuna non sarà probabilmente difficile a colmare in seguito, ma
per intanto questo capitolo rimane più incompiuto degli altri.
Divideremo siffatti proverbj per lingue e nazioni, non senza prima
vvertire che alcuni di quelli neolatini in genere sono riportati da
0. V. Reinsberg-Dììringsfeld, VoUcsthiimliche Benenniingen von Manaten
und Tagen bei den Romanen (nel Jahrbiich f. rom. u. engì. Literatiir,
V [1864], 361-94).
Italiani.
Le principali raccolte di Proverbj italiani riuniscono in un capitolo
speciale quelli riferentisi alle Stagioni e ai Mesi; ma qui basterà ci-
tare, come più ampia e comprensiva di tutte, fino al 1880, quella di
G. PiTRÈ, Proverbi, voi. Ili {Bibliot. d. trad. popol., XI, Palermo, 1880),
il cui cap. LV (pp. 3-71) è intitolato appunto Meteorologia, Stagioni,
Tempi dell'Anno. Più tardi F. Seves raccolse sotto il medesimo titolo
i proverbj piemontesi {Rivista delle tradiz. popol. ital., anno II, fase. I,
Roma, Forzani e C°, 1894), e una raccolta poi abbastanza ampia di
proverbj congeneri marchigiani (oltre 400) era venuto via via pubbli-
indo in alcuni fascicoli della Nuova Rivista Misena (II [1888-89],
II' 4-19) sotto il titolo Calendario popolare marchigiano, a illustrazione
(li un canto sui Mesi (quello che nella Parte II di qnesVAj)pendice
ha fra i testi italiani il n" 14), A. Gianandrea. Un proverbio di una
coppia di versi per mese (Settembre e Ottobre sono riuniti insieme
e così pure Novembre e Dicembre) si ha nella fiaba già citata e in-
titolata / dodici mesi, pubblicata da A. De Nino, Usi e costumi abruz-
zesi, Fiabe, voi. III, pp. 184-89. Non mi riuscì di vedere il Calendario
del popolo pubblicato n&W Almanacco del popolo del 1866 (Milano, 1866)
e registrato dal Pitrè al n"* 2542 della Bibliografìa delle tradiz. popol.
d'Italia (Torino-Palermo, 1894) e neppure i pochi proverbj romaneschi
pubblicati da L. Zanazzo (Roma, 1866) e registrati nella menzionata
Bibliografia ai n' 3404, 340-5, 3407.
Studj di filologia romanza, IX. 8
114 LEANDRO BIADENE
Francesi.
Abbastanza copiosa è la raccolta di Le Roux de Linct, Le livre dea
proverbes fran^ais, Paris, 1859, I, Serie III, pp. 88-137 {Temps, Astres,
Cotirs de l'année,Année, Saisofis, Jours, Heiires). Parecchj Dictons rimés
sur les mois furono stampati da P. Sebillot nella Revue des traditions
populaires, t. I [1886] 1, 29, 61, 93, 125, t. II [1888] 392, 434, 521
(473*), 590, 639. Notizie varie intorno Les mois en Franche-Comté ter-
minò, non è molto, di pubblicare Ch. Bauquier nella stessa Revue,
t. XIV [1899], n' 1-12, non trascurando i Proverbes et dictons météoro-
logiques et agricoles.
Provenzali.
Ne contiene molti VArmana pronvengaii, dal 1855, che è il primo
anno in cui cominciò ad uscire a Montpellier, fino al 1862 incluso ').
Portoghesi.
A. Thomaz PiEES distribuisce i Proverbios e adagios portttguezes da lui
pubblicati néìl' Archivio d. trad. popol., Ili, 450-52, sotto questi tre
titoli: 1. Agrictiltura e economici ritrai, 2. Calendario rustico, ^. Meteo-
r agnosia.
Retoromanci.
Alcuni pochi proverbj e versi sui Mesi a pp. 133, 135, 136 del la-
voro di H. Caviezel, Eàthoromanische Kalender-Litteratur (nella Zeit-
schrift f. rom. Philol., XVI [1892], 128-64).
Neogreci.
Furono raccolti in copia e ordinati secondo i Mesi da A. Mommsen,
Griechische Jahreszeiten, p. 1-95. Schleswig, 1873.
Proverbj russi sulle Stagioni e sui Mesi si troveranno probabil-
mente raccolti nell'opera già indietro citata Travaux de Vexpédition
d'archeologie et de statistique dans la Russie occidentale, voi. III.
') Debbo questa indicazione precisa alla cortesia di C. Chabaneau,
mentre nella Romania, 1, 107, è detto genericamente che siffatti pro-
verbj si trovano aggiunti al calendario nei primi volumi dell'-^rmano.
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 115
3. Origine dei nomi dei Mesi.
In più d'una delle poesie indicate nella Parte II di qnesVAppen-
dice Q data, fra altro, la spiegazione del nome dei singoli mesi, come
già a suo luogo avvertimmo (n' 6 e 7 dei testi latini, n° 6 dei testi
italiani). Qui converrà aggiungere e rammentare che per qualche
mese la spiegazione si trova inoltre nei testi latini n' 2, 3, 13*^ e, per
Gennaio e Aprile, anche nel poemetto di Bonvesin. Le spiegazioni
sono suppergiù sempre le stesse, vale a dire sono tradizionali, e gio-
verà quindi indicare qui appresso i testi che non potevano compren-
dersi nella Parte precedente e in cui tale tradizione è espressamente
conservata. Fra essi grande autorità fu riconosciuta a un capitolo dei
Saturnali di Macrobio.
Ovidio. Fastorum libri VI. L'origine del nome dei sei pi-imi mesi
dell'anno è dichiarata in principio di ciascuno dei sei libri ad
essi corrispondenti ; anzi l'origine di tutti sei è già brevemente
accennata nei vv. 39-44 del libro primo.
Fasti Praenestini. Da essi desunse, per quanto era possibile, le etimo-
logie dei mesi il Mommsen, Corpus Inscrip. Latin., I (1863), 364,
confrontandole con quelle di altri autori.
Plutarco. Bici, Parigi, Didot, 1857; voi. I, Nóiuac;, capp. XVIII e XIX,
p. 86. Nella versione italiana di G. Pompei, Udine, voi. II,
1821, pp. 133-37.
Ausonio. Opuscula ree. R. Peiper, Lipsia, Teubner, 1886. Due poesie.
Una intitolata Monosticha de mensibus consta appunto di dodici
esametri, uno per mese, e comincia " Primus Romanas ordiris,
lane, kalendas „ (ediz. cit., p. 98, n° X); l'altra si compone di do-
dici distici, uno per mese, e comincia " lane nove, primo qui
das tua nomina mensi „ (ediz. cit., p. 98, n" XI). Nelle Opere di
Ausonio volgarizzate da P. Canal, Venezia, Antonelli, 1853, le
due poesie hanno i n' 376 e 377 (col. 572).
Macrobio. Convimoruin primi diei Saturnaliorum ree. F. Etssenhardt,
Lipsia, Teubner, 1868; lib. I, cap. 12 " Quomodo annum ordi-
naverit Romulus „, cap. 13 " De ordinatione anni per Nummam „.
Giovanni Lorenzo Lido, scrittore greco nato nel 490 d. C, ragiona
il6 LEANDRO BIADENE
dei mesi in particolare nel quarto libro del De Mpnsihus (ed
R. WuENscH, Lipsia, Teubncr, 1898) e in principio del primo
paragrafo dei singoli mesi tocca anche dell'etimologia dei me-
desimi.
Isidoro. Etymologiarutn libri XX [Corpus grammaticorum latinorum
veterum, t. Ili, Lipsia, Teubner, 1833); lib. V, cap. XXXIII,
pp. 171-73 " De Mensibus „.
Beda. Opera, Basilea, 1563; t. I, 220 sgg. Computus vulgaris. Sui nomi
dei mesi pp. 242 sgg.
Onorio d'Autux. De Imagine mundi (Bihlioth. veter. Patrum, t. XX,
cap. XXXVI, pp. 981 sgg. " De Mensibus Rotnanorum „).
Un antico rimatore italiano, Nerio Moscoli, dà anch'esso in un so-
netto la solita spiegazione tradizionale del nome di alcuni mesi co-
minciando da Aprile. Crediamo opportuno riportarne in nota i primi
undici versi pubblicati da P. Tommasini Mattiocci, Nerio Moscoli da
Città di Castello, Perugia, 1897, p. 99 '). Accenni a etimologie popo-
lari dei mesi si trovano anche nel già citato lavoro di 0. v. Reiss-
BERG-DuRiNGSFELD, VolksthUtnIiche Benennungen von Monaten und Tagen
bei den Romanen [Jahrbuch f. rom. u. engl. Liter., V, 361-92).
4. Calendarj ecclesiastici in versi.
Al n' 13*= dei testi latini non abbiamo omesso di notare che il
primo dei due esametri in testa dei singoli mesi nel Martirologio di
Wandalberto rammenta le rappresentazioni figurate dei medesimi,
Tutor ch'aprile ab aperto sia detto
Perchè s'apre la terra, e folglie e fiore
D'ess'e delgli arbosel se mostren fore.
Donando al mondo piacevol dellecto,
E magio sia per li magiur ellecto,
E dai più giovem giungno prenda honore,
Lulglio è quel mese che lo enperadore
Volse del suo fim nome esser perfecto;
Onde ve piaccia voler che tal mese
Denominato da sì gram singnore,
Suo bem non perda de vostro vallore.
'CARMINA DE MENSIBUS " DI BONVESIN DA LA RIVA 117
e abbiamo anche notato che le ottave formanti il n° 6 dei testi ita-
liani sono per metà calendario ecclesiastico, e il principio dei testi
italiani n' 7 e 14 somiglia a quello del calendario indicato qui sotto
i^ n° 3. Che qualche elemento del calendario profano in versi potesse
entrare, com'è entrato, nel calendario ecclesiastico pure in versi, s'in-
tende da sé, e forse si potrebbe trovarne qualche altro esempio oltre
quelli testé citati. Ma anche senza di ciò ci parrebbe di non poter
omettere qui l' indicazione dei calendarj ecclesiastici in versi che ci
sono noti.
Lasciando di enumerare i martirologi latini '), indicheremo anzitutto
i rifacimenti rimati del Computus, il quale, come si sa, contiene anche
il calendario ecclesiastico. Se ne conoscono ti-e francesi antichi: quello,
più vecchio di tutti, di Filippo di Thaon, non posteriore al 1119 e
pubblicato da E. Mail '); quello di Raùf di Linham del 1259, di cui
discorre P. Meyer nella Romania, XV, 285, e quello anonimo, che
vide primamente la luce per cura di M. de Montaiglon nelV Annuaire
de la Société des antiquaires de France per il 1853 (pp. 178-83) e,
stante la rarità di cotesta edizione, fu poi ristampato dal Meyer nel
Bidletin de la Société des anciens textes fran^ais, n" 3 (1883), pp. 78-84.
Un rifacimCiito breve in versi provenzali fu dato fuori nel 1847 da
E. Thomas nei Mémoires de la Société archéologique de Montpellier,
assai malamente, tanto che C. Chabaneau credette opportuno ristam-
parlo riveduto sul codice e illustrato, ciò che fece nella Revue des
langues romanes, t. XIX (1881), 157-79.
Inoltre conosciamo i seguenti calendarj versificati, tutti italiani;
ma molto probabilmente ne esisteranno anche in altre lingue :
1. * Calendario in ottava rima stampato circa la metà del secolo
scorso a Todi „. Lo menziona colle parole ora riportate, senz'ag-
') Per essi basterà rimandare al Geòber, Lateinische Litteratur nel
Grundriss d. roman. Philol., II, i, §§ 15, 55, 73.
') Li Cumpoz rkilippe de Thailn, Strassbourg, 1873. Non potei ve-
dere quest'edizione, e dovetti quindi tenermi pago di quel poco che
intomo all'opera è detto nelV Histoire littér., XIII, 60, da G. Paris,
La littérature frangaise au moyeti age^, § 100, e da G. Gròbeb, Fran-
ziJsische Litteratur nel Grundriss d. roman. Philol., II, i, 483.
118 LEANDRO BIADENE
giunger altro, M. Menghini, Rivista critica d. leti, ital,, VII
(1891), 186.
2, Calendario in ottava rima (16 ottave) * scritto con tutta probabi-
lità sulla fine del secolo XV o su' primi del successivo ,. Pub-
blicato da M. Menohini, Rivista crii. d. leti, ital., VII, 187-89.
3. Ottave sopra i mesi dell'anno con le feste loro, Lucca, 1831. Presso
Francesco Bertini '). Sono 15 ottave. L'esistenza di questa edi-
zione sfuggì a G. Giannini, che credette di dar fuori il compo-
nimento per la prima volta nei Canti popolari della montagna
lucchese, Torino, Loescher, 1889, pp. 235-89 (vedi p. 289n). Le
differenze fra le due edizioni sono tenui. Crediamo utile ripor-
tarne qui la prima ottava dalla prima edizione in prova di
quanto abbiamo asserito più sopra, che somiglia cioè al prin-
cipio dei testi n' 7 e 14.
Un Padre ho visto con dodici figli;
Ed ha ciascun di lor trenta figliuole
Dispari e belle come rose, o gigli,
0 come proprio livide viole:
Io non saprei a chi me l'assomigli
Ch'altre son bianche, altre son nere e sóle;
Muojono tutte, e son tutte immortali,
Udite il nome voi, chi siano e quali.
Una riduzione istriana di questo poemetto è quella pubblicata dal-
rivE, Caìiti popolari istriani, Torino, Loescher, 1877, p. 379 e ristampata
dal D'Ancona, op. cit., pp. 254-57. Le ottave sono 14; è tralasciata
la prima del testo toscano. Soltanto il confronto con quest'ultimo,
che si lascia riconoscere come l'originale, permette di intendere bene
alcuni luoghi sfigurati di quello istriano. Nell'ultima ottava del quale i
versi di quello toscano sono così trasposti : 5, 6, 3, 4, 1, 2, 7, 8. Inoltre
il testo toscano termina così (ediz. Giannini):
') Potei vedere quest'opuscolo nella biblioteca del prof. D'Ancona,
il quale possiede una preziosa raccolta di poemetti popolari, che
mette liberalmente a disposizione degli studiosi.
'CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 119
A ventinove Tommaso santo e pio
Silvestro a trentun, e qui vi lascio, e addio !
e quello istriano invece :
A ventiuoto Rumano gioùsto e peìo
Ai trentoùn San Silvistro, zi cun Deio.
4. Calendario romano per il mese di Dicembre. Sono 16 versi. Com.
" Il primo di Decembre Sant' Ansano „. Pubblicato nella Gazzetta
Piemontese di Torino, anno XXIV, n° 339 (7-8 dicembre 1889)
e ristampato neìV Archivio d. trad. popol., IX, 276. È press' a
poco lo stesso di quello pubblicato da M. Menghini, Rivista
critica d. leti, itul., VII, 186, e da G. Giannini, Canti popolari
della montagna lucchese, p. 239n, il quale rimanda anche al
Bernoni, Preghiere veneziane, pp. 27-29.
5. Come già dicemmo, è per metà calendario ecclesiastico anche il
testo italiano n" 6 della Parte IL
5. I giorni pericolosi dei Mesi.
Secondo un'antica superstizione, in parte viva tuttora '), alcuni
giorni del mese, in determinate ore, sono pieni di gravi pericoli per
l'uomo '^). Cotesti giorni dai latini erano detti dies aegyptiaci, proba-
bilmente, dice il MoMMSEN {Corpus Inscrip. Lat., I, 374), il quale ac-
cenna anche agli scrittori antichi che ne fecero parola, perché i
Romani erano soliti considerare come proveniente dall'Egitto ogni
nozione matematica e astronomica ^). Aggiunge che tale superstizione
') Occorre dire che intendiamo riferirci specialmente alla supersti-
zione del venerdì? Veramente questo è un determinato giorno della
settimana e non del mese, ma in fondo non c'è diversità sostanziale.
') A dimostrare l'antichità di tale credenza non sarà forse superfluo
rammentare che Esiodo chiude il poemetto Le Opere e i Giorni ap-
punto ooH'enumerazione dei giorni del mese così propizj come nocivi
all'agricoltura e alla vita umana in genere.
') Nei versi quinto e sesto dei sei che talvolta precedono forse la
1^0 LEANDRO BIADANE
dev'essere entrata in Roma nell'età imperiale. Certo è che i dies
aegyptiaci si trovano già segnati nel Calendario di Filocalo e più tardi
continuano ad essere indicati nei calendarj medievali. In alcuni dei
quali non soltanto sono indicati a lor luogo, volta per volta, ma ven-
gono poi riuniti alla fine insieme coll'enumerazione degli effetti per-
niciosi che possono produrre, o sono ricordati in uno o più versi latini
a pie della tabella dei giorni di ciascun mese.
Poiché le singole serie di cotesti versi, per quanto sappiamo '),
finora non furono che in parte distinte l'una dall'altra, e non di rado
si trovano riuniti sotto i singoli mesi i versi di più serie, ci prove-
remo ora a distinguerle noi.
Quelle che conosciamo sono le seguenti:
1. " lani jyrima dies et sejHima fine timetur „. Sono dodici esametri
preceduti talvolta da altri sei e seguiti da altri quattro. I due primi
d'introduzione sono: " Bis deni hinique dies scribuntur in anno \ In
qinbus una solet mortalibiis hora timeri „. Coll'introduzione e la chiusa
ora dette la serie si può leggere pubblicata dal Baehrens PLM, V, 354
e dal MoMMSEN, Corpus Inscrijì. Lat.,\, 411, e senza di esse si ricom-
pone dai calendarj descritti dal Valentinelli, Bibliotheca manuscripta
ad S. Marci Venetiariim, Venezia, 1868, t. I, 391; t. Ili, 117. Nel ca-
lendario descritto nel t. I, 296 il primo verso è " Prima die lani et
sejìtima fine timetur „, ma gli altri versi sono quelli della serie se-
pia antica serie di Versus de diebus aegyptiacis (Baehrens PLM, V, 354),
si dà invece quest'altra spiegazione del nome:
Si tenebrae Aegyptus Graeco sermone vocantur
Inde dies mortis tenebrosos iure vocamus.
Questa spiegazione non prova se non che il nome era oscuro anche
anticamente; ma ad ogni modo essa deve essere sembrata molto ve-
rosimile, se la raccolse anche Onorio d'Autun nell'imago mundi, lib. Il,
cap. CVIII.
\) Ci esprimiamo così non avendo veduto la memoria di J. Loise-
LEUK, Les jours égyptiens, leurs variations dans les calendriers du moyen
àge (Mém. de la Soc. des antiq. de France, t. XXXIII, 1873). F. Aitano
non ne tocca nel libro De calendariis in genere ecc. (Venezia, 1753),
che contiene un erudito capitolo De diebus aegyptiacis (pp. 80-85).
'CARMINA DE MENSIBLS * DI BONVESIN DA LA RIVA 121
conda qui appresso. Questa prima poi trovasi disciolta, vale a dire che
ciascun verso è aggiunto insieme con versi di altre so'ie alla tabella
del rispettivo mese, anche nell'antico calendario Ambrosiano pubbli-
cato dal MrEATORi, Rerum Italicarum Scriptores, II, ir, 1027, e in quello
di Beda [Opera, ediz. di Basilea, 1563, t. I, 242 sgg.), per citare sol-
tanto i più noti.
2. " Prima dies mensis et septima truncat ut ensis „. Dodici esa-
metri. Pubblicata dal Mommsen, Corpus Inscrip. Lat., I. 411 e si rac-
coglie anche dai calendarj descritti dal Valextinelli, op. cit., I, 291 ;
III, 117.
3. " Prima dies Ioni timor est et sejìtima vani ,. Dodici esametri.
Nei calendarj descritti dal Valentinelli, op. cit., 1, 202 (manca il
verso di Gennaio), 277, 281, 296 (in quest'ultimo, il primo verso è quale
trovasi riferito più sopra, al n. 1).
4. Nelle tre serie predette sono indicati soltanto i giorni aegyp-
tiaci senza le ore pericolose, indicazione che non manca invece iu
quella pubblicata dal Muratori, Rerum Italicarum Scriiìtores, II, ii,
1023 e che si compone di 24 versi, due per mese, di cui ecco i due
primi :
Nona prò te lani vae sibilat bora diei
Septima fine dies, in quinta parvulus est serps.
I versi poi che si riferiscono soltanto alle ore si trovano uniti na-
turalmente a quelli riferentisi ai giorni, ma possono anch'essi dividersi
in serie:
1. " Nona parat bellum sed quinta dai hora flagellum „. Insieme
coi versi sui giorni della serie n. 3, nei calendarj descritti dal Va-
lentinelli, op. cit., I, 202 (manca il primo verso), 296. In quello de-
scritto a p. 281 soltanto tre versi.
2. A ciascun verso della serie n. 1 sui giorni, seguono due versi
sulle ore nel calendario Sitoniano edito dal Muratori, Rerum Itali-
carum Scriptores, II, ii, 1035. I versi di Gennaio sulle ore sono questi :
122 LEANDRO BIADENE
Prima dies nona sit iam scorpius hora
Vulnera saeva nimis fert horis septima quinis.
3. Manca il primo verso di quella seì'ie di dodici esametri cia-
scuno dei quali s'aggiunge ai versi riuniti delle serie n. 1 e 2 sui
giorni nel calendario descritto dal Valentinelli, op. cit-, I, 291. Il
verso di Febbraio è:
" In fine octava februarii lupus et leo dena ,.
4. " Est lanus in nona et quarta scorpius hora ,. Precede al verso
di Ausonio :
" Principium tropicum sancit capricornus , (sic)
e a quelli delle serie n. 1 e 2 sui giorni nel calendario descritto dal
Valentinelli, op. cit., Ili, 117. Sono dodici esametri.
Quanto ai testi in prosa, che si riducono a poco piìi di semplici
elenchi, dei dies aegyptiaci, P. Meter ne pubblicò quattro francesi
antichi in quel paragrafo delle Bribes de littérature anglo-normande
{Jahrbueh f.rom. u. engl. Liter.,Yll [1866], 47-51), intitolato appunto:
Les Jours périlleux. Piìi tardi nella Romania, VI [1878], 3n aggiunse
di averne trovati parecchj altri. Quelli da lui pubblicati sono simili
agli altri provenzali editi poi da E. Suchier, Denkmàler provenz. Liter.
Halle, Niemeyer, 1883, I, 122 sgg. Uno italiano, tratto da un codice
Magliabechiano, fu pubblicato da F. Alvino, / Calendari, Firenze,
1891, pp. 206-7.
6. L'igiene delle Stagioni e dei Mesi.
Abbiamo già veduto che Teodoro Prodromo, l'autore dei versi greci
segnati nella Parte II di qnesi^ Indice col n. 4, in essi fornisce anche
i precetti igienici che conviene osservare in ciascun mese, come
fa l'autore anonimo dei versi pure greci indicati al n. 9. Simili pre-
cetti in versi usò poi di aggiungere anche ai calendarj, e così, per
esempio, in fine della tabella di ciascun mese nel De embolismo di
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 123
Beda {Opera, Basilea, 1563, t. I, 255 sgg.) sono raccolti in quattro
versi, e nel celebre Breinario Grimani sono aggiunti al calendario i
versi dell'igiene dei mesi del Regimen sanitatis salernitano, quali li
pubblicò il Valentinelli, op. cit., I, 303-5. Il Regimen, in cui l'art.
De Mensibus è preceduto da quello De quattuor anni tempestatibus,
ebbe, si sa, larghissima diflusione e ne furono fatte traduzioni in molte
lingue, come si apprende dalla bibliografia di esso compilata da S. De
Renzi ') e premessa all'edizione che egli ne fece nel primo volume
della Collectio Salernitana, (Napoli, 1852). Quest'edizione è scorretta;
molto migliore è invece quella procurata dal medesimo De Renzi nel
quinto volume (Napoli, 1859) della stessa opera.
Nel testo provenzale edito da E. Suchieb, Denkmiiler provenz. Liter., I,
201 sgg.*) sono sull'igiene delle stagioni i vv. 247-312, e su quella
dei mesi i vv. 313-76. Precetti dietetici per ciascuna stagione e ciascun
mese dell'anno si trovano anche in altri testi medievali.
') In essa non si fa menzione dell'antico rifacimento napoletano in
versi edito più tardi da A. Mussafia, Mittheilungen aus romanischen
Handschri^ten, I, Vienna, 1884.
*) Ripubblicato più recentemente dallo stesso Suchier col titolo
Provenzalische Diutetik auf Grand neuen Materials, Halle, 1894, edizione
che non potei vedere.
124 LEANDRO BIADENE
GIUNTE E CORREZIONI
Al lavoro che precede si potranno certamente fare aggiunte di vario
genere, e ho già indietro notato qualche parte dove esse saranno più
facili. Metto subito qui quelle che mi trovo avere già in pronto in-
sieme con alcune osservazioni e correzioni, la maggior parte gentil-
mente comunicatemi dal prof. Rajna, a cui rendo pubbliche grazie.
Indico di volta in volta quelle di cui gli sono debitore.
Introduzione.
Pag. 2. Per le immagini egizie dei Mesi lo Strzygowski {Calender-
hilder, \). 48 n.) cita il Lepsius, Wandgcmcilde, 34 e il Brdgsch, Kalen-
darische Inschriften altàgyptischer Denkmàler, p. 471 sgg.
Pag. 5. Che l'elenco delle rappresentazioni figurate dei Mesi, quale
si può comporre riunendo gli elenchi già fatti da altri e tenendo
conto anche di tutte le altre indicazioni che in qualsiasi luogo sieno
state date, non sia neppur esso compiuto, non farà di certo meravi-
glia, massime quando si pensi alla varietà e qualità dei monumenti
e documenti dove esse possono trovarsi. Così è dato fare anche a noi
alflune aggiunte. Abbiamo già fatto cenno della figurazione dei Mesi
pubblicata di recente da A. Chroust, notevole per l'antichità, come
quella che risale al principio del secolo IX (vedasi la nostra Appen-
dice, Parte II, Testi latini, n. 9). Un'altra, pur essa straniera, è quella
del calendario in legno segnato nella collezione Figdor di Vienna
col n. 799, calendario che ci offre l'opportunità di far menzione del
lavoro di A. Riegl, Die Holzkalender des Mittelalters und der Renais-
sance {Mittheilungen des Institiits fili' osterr. Geschichtsforschitng , IX
[1888], 82-103), in cui è descritto, e che si riferisce soltanto indiret-
tamente alle figure dei Mesi, occupandosi invece di proposito dei
segni convenzionali adoperati dai popoli nordici nella formazione dei
loro calendarj, a un dipresso come fa A. Cebtelx nell'opuscolo Les
calendriers à etnblèmes hiéroglyphiques, Paris, 1891, raccolta di articoli
' CARMINA DE MENSIBUS ' "DI BONVESIN DA LA RIVA 125
la più parte anteriormente comparsi nella Reme des traditions i»)-
pulaires.
Inoltre i Mesi sono raffigurati nei seguenti libri e monumenti
italiani :
1. Cod. Saibante-Hamilton, n. 360, ora nella R. Biblioteca di Ber-
lino. Le figure dei Mesi stanno sul margine in quella parte del ms.
dove sono contenuti i precetti dietetici per ciascun mese ; ora sono
in parte mutilate, essendo stato strappato il margine (cfr. A. Tobler,
Zeitschr. f. rom. Phil. XII [1888], 81-83 e 87).
2. Codice erbario del sec. XV, di proprietà del cav. M. Guggenheim
di Venezia (v. E. de Toni, Atti del R. Istituto veneto, t. IX, ser. VII,
[1897-98], 5 e 24).
3. Fonte battesimale nel pian terreno del Museo Nazionale di
Firenze, dove fu trasportato di recente. Prima era a Lucca. Sembra
della fine del secolo XII o del principio del XIII.
4. Stipiti della porta laterale della Chiesa degli Eremitani di
Padova.
5. Sertorio Ursato nei Monumenta patavina {V^,àova, 1652), lib. I,
sez. IX, p. 342, descrive un capitello marmoreo con suvvi scolpite le
figure dei sei Mesi (Gennaio-Giugno), regalatogli da Girolamo Santa-
sofia professore di medicina. Gli altri sei Mesi saranno stati scolpiti
in un altro capitello. Anche il Tractato dei mesi ha nel codice alcune
immagini a penna e colorate, come ci fa sapere il Lidforss nella
prefazione del medesimo (p. XIII). Probabilmente saranno quelle
dei Mesi.
Pag. Un. e 18. Mentre si finiva di stampare il nostro lavoro sono
usciti due brevi studj sulle Stagioni e i Mesi. Uno è di A. Colasanti,
Le Stagioni nell'antichità e nell'arte cristiana (nella Rivista d'Italia, fase.
di aprile 1901, pp. 669-87). L'autore, discorrendo delle immagini delle
Stagioni e riproducendone alcune, aggiunge poco a quello che già si
sapeva ed era anche stato raccolto ed ordinato da altri, ma riespone
la materia con garbo e discrezione. Strano che mentre in nota a pa-
gina 685 cita il PiPEE, Mytìiologie und Symholik, I, 224, a proposito
dei tritoni che qualche volta si vedono sui sarcofagi cristiani, non
citi poi della stessa opera il secondo volume (o più esattamente
la seconda parte del primo tomo), nel quale, come abbiamo già detto
nella prima nota dell'Introduzione, si ha sulle Stagioni un capitolo
assai ben fatto e ricco di notizie e osservazioni.
L'altro studio è di L. Galante e s'intitola Alcuni contrasti delle
Stagioni e dei Mesi {Rivista Abruzzese, XVI, fase. II [febbraio 1901],
70-82, fase. V [maggio 1901], 222-43). È uno scritto spigliato e vivace,
nel quale l'autore si propone modestamente di dare un'idea, per ri-
126 LEANDRO BIADENE
petere la sua espressione, di alcuni di tali contrasti. Quanto a quelli
dei Mesi e anche alle rappresentanze figurato dei medesimi, le notizie
sono tutte desunte dallo studio da lui citato del D'Ancona; quanto
alle Stagioni invece, se dei testi da noi indicati conosce soltanto il
Conflictus e l'antico testo genovese e quello originai-iamente siciliano
di cui si ha la riduzione italiana di Foriano Pico, richiama in com-
penso egli per il primo l'attenzione su alcuni altri contrasti e com-
ponimenti a noi rimasti ignoti e dei quali godiamo di essere ancora
in tempo di poter qui far cenno. Uno di essi è intitolata appunto La
Contesa delle Stagioni. È un dramma sacro " di cui fu poeta Carlo
Sigismondo Capece, ignoto il compositore della musica, e che fu rap-
presentato nella notte di Natale del 1698, nel palazzo Apostolico di
Roma „. NuU'altro gli fu dato sapere intorno ad esso (p. 239), e sol-
tanto avverte che di esso fa cenno l'Ademollo, / teatri di Roma nel
secolo decimosettimo, Roma, 1888, pp. 252-53; il quale anche a pa-
gina 86 dell'opera stessa ricorda una tragedia in cinque atti e pro-
logo attribuita al card. Giulio Rospigliosi (poi papa Clemente IX,
1667), nel prologo della quale sono personaggi: il Tempo, l'Occasione,
la Vendetta, le quattro Stagioni ; manoscritto nella biblioteca Fabro-
niana di Pistoia. Di altri contrasti il G. è in grado di dare ragguaglio
convenientemente diffuso. Da alcune parole di Pietro Aretino nel
Dialogo delie Corti si ricava che il contrasto dell'Inverno e dell'Estate
doveva essere allora sempre vivo, e la prova ne è fornita anche da
una contesa epistolare del 1558 presso la Corte d'Urbino. Girolamo
Muzio scrisse una lettera in nome dell'Inverno, " un capolavoro di
requisitoria contro l'Estate sua sorella e nemica „ (p. 235). Della
quale prese le difese Bernardo Tasso in un'altra lettera, a cui replicò
nuovamente il Muzio (vedi Lettere di B. Tasso, Padova, Cornino, 1733,
voi. II, pp. 5, 17, 30. Le due epistole del Muzio furono stampate da
sole fra le Lettere facete et piacevoli di diversi grandi huomini da
Dionigi Atanasi, Venezia, 1561). " Pubblicatesi le due lettere del
Muzio per la prima volta nel 1561, e conosciutasi anche assai presto
quella del Tasso, venne la voglia di scrivere un " dialogo del para-
gone tra il Verno e la State „ a Cipriano Giambelli da Verona, del-
l'Accademia de' Solleciti fondata in Treviso nel 1585. 11 suo dialogo
intitolato 11 Rinaldi e pubblicato a Venezia nel 1589, è un plagio
audace delle lettere del Muzio (p. 229).
Un raro opuscolo tratto fuori dal G. contiene: " La Gara delle
Stagioni. Torneo a cavallo rappresentato in Modana nel passaggio
dei Serenissimi Arciduchi Ferdinando Carlo, Sigismondo Francesco
d'Austria et Arciduchessa Anna di Toscana. In Modana, per Giulian
Cassiani, Stampator Ducale, 1652 „. L'autore del testo poetico è il
Graziani, il quale si dà cura anche di descrivere com'erano vestite
e quali attributi avevano le Stagioni sulla scena.
' CARMINA DE MENSIBLS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 127
Il G. fa inoltre menzione delle feste celebrate nel castello di Ver-
sailles dal 5 al 14 maggio 1664: nel primo giorno delle quali ebbe
luogo un corteggio in cui comparivano le quattro Stagioni. Delle quali
sappiamo che ciascuna si presentò al cospetto della Regina offrendole
i suoi propri doni e recitando alcuni pochi versi, esempio anch'essi
di prosopopea, e riferiti dal G. (cfr. (Euvres de Molière, Nouvelle
édition. t. Ili (Paris, 1685), p. 152 sgg.: Les fétes de Versailles en 1664).
Pag. 26. Al R., esaminando il ms. del De Mensibus, parve che la
* Tavola ,, dove si legge il titolo '' Bonvicini carmina de mensibus ,,
sia di mano antica e anzi con tutta probabilità di quella del tra-
scrittore.
Pag. 30 e 32. Secondo il R. " bisognava pur fermarsi sull'indizio
che contro Bonvesin parrebbe sorgere dalla differenza di un mese che
si ripete tre volte nella cronologia agricola del testo latino messo a
confronto col volgare, differenza che porterebbe spontaneamente a
supporre una diversità geografica „. L'argomento non è senza peso,
ma questo diminuisce di molto se si tenga conto degli altri, che se-
condo me provano essere Bonvesin l'autore anche del testo latino.
Perciò mi è sembrato sufficiente spiegare la diversità cronologica nel
modo che ho fatto, tanto piti, che se da essa volessimo inferire che
i due componimenti appartengano a due autori di regioni diverse,
dovremmo tenere più meridionale quello del testo latino, che s'av-
vantaggia di un mese sull'altro, così da fare, p. es., fiorire i gigli in
maggio anziché in giugno. Sennonché i gigli sono attribuiti al mese
di giugno anche nei versi latini che accompagnano il Calendario di
Filocalo e che, a quanto pare, sono di autore romano, più meridio-
nale dunque di Bonvesin autore certo del testo italiano.
Pag. 82. Il R. osserva che " per la questione dell'autore non era
da trascurare il confronto colla metrica della Vita Scholastica „. L'os-
servazione è giusta, e io stesso aveva a suo tempo già fatto, seb-
bene rapidamente, tale confronto, di cui parvemi poi di poter tra-
lasciare di tener conto, essendo i versi della Vita composti tutti, se
non ho veduto male, secondo le norme della metrica classica. E mi
spiegavo la diversità di versificazione dei due componimenti colla
diversità della materia in essi trattata.
Pag. 43. Il R. crede inverosimile il ravvicinamento, da me fatto
del resto in modo molto dubitativo, di petitos a pes, e mettendosi a
ricercare l'etimologia di quella parola penserebbe piuttosto ai mila-
nesi pitt, pettarott (cfr. pito sp.). Sennonché non riuscendomi di vedere
quale relazione di significato possano avere questi due ultimi vocaboli
con petitos {pitt non può essere che plurale di jìett ' peto ', da cui pet-
128 LEANDRO BIADENE
tarott ' specie di piva con cui i contadini anziché sufolare tniUano '
[Cherubini, Vocah. milan. s. v.], ne si può ammettere che piti valga
'piedi', come, correggendosi, osserva il Cherubini nel Suppl. al Vo-
cabolario), m'accontenterò di dire che questo è forse derivato da
quella radice pet- da cui pezza (pet-i-a) e qualche altra voce si-
gnificante lembo e parte in genere degli indumenti, se pure petitos
non è da ravvicinare, ciò che soddisferebbe bene al sunso, al mug-
gese pisett ' polpacci ' (Arch. glott., XII, 331). [Il R. mi ha poi comu-
nicato esserglisi affacciata la possibilità della relazione fra pettarott
e petitos pensando all'analogia che si avrebbe col doppio valore di tibia].
Pag. 43. Il R.: " Fehrus sta a Februarius come lanus a lanuarius.
Chiaro, credo, come ci sia qui di mezzo anche il fattore analogico „.
E avrà ragione; ma ad ogni modo la forma Februs, avendo pure
principalmente origine nell' analogia, sarà stata facilitata a sorgere
dall'altra che già esisteva di Februus.
Pag. 46. Mi sono venuto poi confermando nell'opinione che l'etimo
di tuccetum, il quale sarebbe non celtico, come si crede, ma latino,
sia quello stesso del veneto tocio e in fondo anche del pur veneto
poeto, significante, oltre che ' poltiglia, melletta ', lo stesso di tocio.
La dimostrazione dell'identità etimologica di queste parole richiede-
rebbe un discorso un po' lungo, e però qui lo tralascio, tanto più
che avrò l'opportunità di farlo altrove.
Testo e Annotazioni.
Secondo il consiglio del R. ho modificato in due o tre luoghi l'in-
terpunzione e un paio di volte anche la risoluzione delle abbreviature
del codice.
V. 142. Il R., stimando difficile il pervertimento grafico di tantum
in tantis, proporrebbe di correggere captis, mettendo dopo di esso
una virgola.
v. 189. Il R. domanda se sia veramente da tenere propris invece
di propriis.
v. 203. " Si rimane titubanti se meretur o meremur. Ci sono ra-
gioni prò e contro , R.
V. 236. L'emendazione di ceu in ciò e del R.
vv. 254-55. Maggio è rappresentato da un cavaliere collo scudo in
oraccio sulla porta della Pieve d'Arezzo.
' CARMINA DE MENSIBUS ' DI BONVESIN DA LA RIVA 129
V. 371, nota. Anche Arnobio, S. Agostino e S. Girolamo derivano
il nome lanuariii!^ da ianun. Cfr. Piper, Mythol. ti. Symbol. II, 381-82.
V. 433. L'emendazione mi è suggerita dal R.
Appendice.
Pag. 86. Ai testi inglesi sono da aggiungere due drammi: uno
del 1593 di Th. Nash e uno comparso per la prima volta nel 1598
dello Shakespeare (v. Uhland, op. cit., pp. 25 e 40, nn. 20 e 21).
Pag. 87 n. 5. Nella dissertazione di A. L. Stiefel, Ueber die Quellen der
Fabeln, MSrchen u. Schwiinke des Hans Sachs contenuta nel volume
Hans S a e h s • Forschungen, Festschrift ecc. Niirnberg, 1893, non si
tocca neppure del contrasto dell'Inverno e dell'Estate, com'ebbe la
gentilezza di verificare per me in Vienna il signor C. Kuzmany. Per
le ragioni addotte dall'autore a pag. 38, la dissertazione contiene meno
di quello che il titolo prometterebbe e io stesso spei-avo.
Pag. 88. Di un dramma dell'Inverno e dell'Estate, che si soleva
rappresentare fino a questi ultimi anni in un villaggio montuoso
della Stiria, parla K. Reiterer in un articolo intitolato Das Sonimer-
und Winterspiel und andere Spiele nella Zeitschr. f. osterr. Volkskunde,
I (1895), 115, articolo di cui debbo la notizia alla cortesia del signor
C. Kuzmany. Il R. ragguaglia sul modo della rappresentazione e non
veramente smI testo. Sarà tutt'uno con quello da noi segnato del n. 10
e che proviene pure dalla Stiria?
Pag. 96 n. 10. Questi versi si trovano anche in libri francesi di Ore del
principio del sec. XVI e, in lezione un poco diversa da quella del
ms. bolognese, furono già pubblicati o meglio ripubblicati dal Piper,
Mythol. u. Symbol., II, 386-87. La parola indecifrabile del ms. bolo-
gnese è qui fomes, che bene sta nel contesto.
Pag. 97 n. 12. Lo Champier, op. cit., p. 39, fra gli elementi costitutivi
del Calendario in genere mette un quadernario latino per ciascun
mese, che ne determina le proprietà e gli accidenti, e a p. 85 de-
scrivendo brevemente un almanacco illustrato francese del 1550,
nota che verso il basso delle dodici stampe che contiene si trovano
iscrizioni latine.
Pag. 105 n. 19. La versione veronese della stessa poesia fu pubbli-
cata da P. Caliaki, Antiche villotte e altri canti del Folk-love veronese,
Verona-Padova, Drucker, 1900, pp. 214-11, e la versione mantovana,
mancante dei mesi di ottobre e dicembre e colla strofa di novembre
incompiuta, da A. Trotter neWArch. trad. pop., XIX [1900], 487-88.
StudJ di filologia romanza, IX. 9
130 LEANDRO BIADENE
Pag. 110 sgg. Sotto il titolo Materiaes para o estudo des festas,
cren^as e costumes populares portugueses A. Coelho nella Revista d'Etimo-
logia e de Glottologia, fase. I-III (Lisbona, 1880) raccoglie notizie in-
torno al Calendario popular, come apprendo dalla Zeitschr. f. rom.
PMl. VI (1882), 145-7.
Pag. 122. Sono da aggiungere gli Hucbaldi versus de diebus aegyptiacif:
editi recentemente nella prima parte del tomo quarto dei Poetariim
lat. meda aevi, Berlino, 1899, p. 272 (nei Monumenta Germaniae histo-
rica). Com. " Prima diem 2)rimam lani frons aspicit atram „. Anche
qui si dà la stessa spiegazione del nome aegyptiaci già indietro rife-
rita da altri (cfr. p. 119 e sg.):
V. 31. Et quia mors visus hominum tenebrescere cogit
Ac tenebrae Aegyptus graeci sunt famine verbi,
Hos " Aegyptiacos ^ placuit de more vocare.
L'editore aggiunge queste indicazioni, che in parte compiono le
altre già da noi date : " De diebus Aegyptiacis (i. e. fatalibus) egerunt
CI. Salmasius {De annis climatericis, Lugd. Batav. 1648, p. 885 sgg.),
Th. Mommsen (C. I. L. V p. 374 = ^p. 297; 'p. 411), W. Schmitz
(Rh. M. XII p. 303; XXIII p. 520). Hucbaldus non cum diebus Philo-
calianis (C. I. L. I^ p. 374) consentii, sed cum Beda (eius enim fe-
runtur esse versus a Mommseno C. I. L. I* p. 411 editi; cfr. Bedae
ed. Colon. I p. 394 ceterisque medii aevi testibus a Mommseno et
Schmitzio citatis) „.
Sui dies aegyptiaci nella letteratura rumena si vedano le indica-
zioni del Gaster nel Grundriss d. rom. Philol. II, in, 422.
LA SIRVENTESCA D'UN GIULLARE TOSCANO
Il cod. Laurenziano S. Croce XV, 6 contiene, come
ognun sa, quella serie di versi in antico volgare italiano,
la quale, pubblicata primieramente da Angelo Maria Ban-
dini nel quarto volume del suo catalogo de' codici lau-
renziani, poi riprodotta in fototipia nel voi. I, tav. 17
deW Archivio paleografico italiano e nella tav. 66 de' Facsi-
mili di antichi manoscritti per cura di Ernesto Monaci, ha
esercitato la pazienza di più valentuomini, senza che alcuno
sia finora riuscito a convenientemente illustrarla. E ciò
forse accadde perché su qualche parte del manoscritto of-
fuscata da macchie d'umido, e però indecifrabile, l'acume
congetturale dei critici s'indugiò meglio, che non il loro
giudizio esegetico su le parti chiare e compiute; di guisa
che l'interpretazione mosse sovente da un equivoco di let-
tura 0 d'interpretazione. Per iscansare codesto pericolo, io
qui riferisco il testo come e dove soltanto a me riesce di
leggerlo ; e su quello condurrò la mia indagine fonda-
mentale, non senza per altro, assicuratomi in questa, ten-
tare del documento una ricostituzione che non le con-
tradica.
Salva lo vescovo senato
lo mellior c'umque sia nato
l'ora fue sagrato
tutt'allumma 1 kericato. 4
Ne fisolaco ne cato
non ^ue si ringratiato.
132 G. A. CESAREO
el papa
per suo drudo più privato; 8
suo gentile vescovato
ben è cresciuto e melliorato.
L'apostolico romano
k Laterano: 12
san Benedetto e san Germano
1 destinoe d'esser sovrano
de tutto regno cristiano :
peroe vene da Lornano 16
del paradis iciano
9a non fue questo villano:
da ke 1 mondo fue pagano
non ci so tal marchisciano : 20
se mi dà cavai bal9ano
monsteroir al bon G.
al vescovo volterrano
cui bendicente bascio la mano. 24
Lo vescovo Grimaldesco
cento cavaler
di nun tempo no ll'icrescono,
an9Ì plaQono e abelliscono. 28
Ne latino ne tedesco,
ne lonbardo ne francesco,
suo mellior tenon vestisco,
tant'è di boutade fresco. 32
Allu mena aresco
corridor cavai pultresco;
li arcador ne vann'a tresco:
di paura sbagutesco. 36
Rispos'e disse latinesco:
sten'e tietti nutiaresco.
Di lui bendicer non finisco,
mentre'n questo mondo tresco. 40
LA SmVENTEyCA. d'uN GIULLARE TOSCANO 133
Manifestamente codesta composizione fu recitata in lode
o servigio d'un vescovo ; e forse è la forma iniziale e po-
polare di ciò che in Provenza divenne il sirventes aulico e
guerresco. La nostra sirventesca fu detta in Toscana,
com'è agevole rilevare non soltanto da' suoni e dalle
forme di quella, ma anche dai riferimenti toponomastici
a Lornano in Val d'Elsa nella provincia di Siena (v. 16)
e ad un vescovo di Volterra (v. 23). Tutti i paleografi che
videro quella scrittura, il Bandini, il Novati, il Monaci, la
giudicaron concordi, secondo loro scienza, del sec. XII:
per istar sul sicuro io mi contento d'affermare ch'ella non
può a ogni modo esser portata oltre la metà del sec. XIII.
E, prima di tutto, occorre dissipare alcune dubbiezze di
lettura e d'interpretazione.
Il Monaci sospettò che il v. 17 possa venir collegato col
V. 18 anziché col v. 16. e propose di leggere:
del paradis de Viano
9a non fue questo villano,
in vece di
peroe vene da Lornano
del paradis iciano ').
Or quella inversione in un componin^ento popolaresco
a me riesce intollerabile. La poesia popolare e popolareg-
giante corre piana e spedita, senza dislocamenti di costru-
zione; in tutta questa canzone non è un altro esempio di
costruzione sforzata : e a quel luogo anche sarebbe una stor-
tura inescusabile, giacché il giullare, se avesse voluto far
dipendere paradis da villano, avrebbe potuto cantare e
avrebbe cantato di certo:
9a non fue questo villano
del paradis iciano.
') Nei Rendiconti dei Lincei, IV, 2, 1895, p. 66.
134 G. A. CESAREO
Si può dunque toner per fermo che il senso giusto è quale
vien prima alla mente del lettore :
peroe vene da Lornano
del paradis iciano.
(,'a non fue questo villano.
Più oltre occorre il verso:
non ci so tal marehisciano.
Che vorrà dir marehisciano? Abitante delle Marche, o
Marchese e, in senso più largo, signor di marca, di terri-
torio, come interpretò il Monaci?
Qui io tengo dal Monaci. I titoli feudali sovente furon
piegati, durante il medio evo, a più larga significazione:
tutti sanno, per dirne una, in quante mai composizioni
provenzali, italiane, francesi, òers, bar e barotie fosse anche
detto di Gesù Cristo o d'un santo. Lo stesso dove accadere
di marchese e marchesano ; mi contento a citare un esempio
calzante del Roman d'Athis:
Un riche Due de grant povoir
Puissans d'amis, riche d'avoir
Y est Marchisans de la contrée.
Ma, più che tutto, a intendere là marehisciano per gran
signore, ci sforza la necessaria contrapposizione con villano
di due versi avanti:
ya non fue questo villano:
da ke 1 mondo fue pagano
non ci so tal marehisciano;
dove il senso torna a un puntino, se s'intenda: — Costui
non fu già un villano, ma il più gran signore ch'io co-
nosca — ; e non torna in alcun modo, se si fraintenda : —
Costui non fu già un villano; ma un delle Marche. — A
meno che il nostro giullare non ragionasse come quello del
proverbiale :
L'un era padovano e l'altro laico.
LA. SIRVENTESCA D*UN GIULLARI: TOSCANO 135
L'erudizione di lingua arcaica può contar molto; ma la
logica conta anche di più.
Toscano lesse il Bandini l'abbreviazione del v. 22 ; Gal-
gano interpretarono il Novati ed il Monaci. Il quale oppor-
tunamente avvertì come nell'antiche scritture s'abbrevias-
sero i nomi proprj, non punto gli aggettivi: io aggiungo
di mio, che in quel verso la parola Toscano sarebbe un'an-
ticipata, indeterminata e disutile ripetizione di ciò ch'è
detto più propriamente nel verso che segue: al vescovo
colterrano. Chi sùbito dopo aveva a dire che il vescovo era
nato in Volterra, non aveva bisogno di dire avanti ch'era
toscano. E qui pure mi par necessario intravvedere il
nome proprio del vescovo, e non un aggettivo importuno.
In fine è certo che lo vescovo Grimaldesco della terza
lassa non può esser tutt'uno col prelato di cui si ragiona
nella seconda. A questo, di fatti, il giullare chiede coper-
tamente un cavallo, e promette che, ottenutolo, lo mo-
strerà al vescovo suo; dall'altro, da Grimaldesco, egli invece
racconta come un cavallo, un " corridor cavai pultresco „
abbia già avuto, onde non cessa di benedire il generoso pre-
lato. Chi ha dato e chi ancora ha da dare non posson
essere la persona medesima. Se fosse, il poeta ce n'avrebbe
avvisati; almeno per iscagionarsi di questa sua faccia tosta
del domandare un cavallo a chi gliene aveva largito un
altro.
Dopo ciò tutto, torniamo su l'allusioni della sirventesca.
La più certa è quella al " vescovo Grimaldesco „
(v. 25); e può parer singolare che non v'abbia troppo
badato nessuno de' primi commentatori. Grimaldesco non
può già essere, come parve a Gaston Paris e al Mus-
safia 1), un predicato, del quale non è traccia nel vol-
gare italiano antico e moderno: è, invece, un nome proprio
'' Romania, XXII, 626; e Remliconti dei Lincei, 1895, IV, p. 34.
136 G. A. CESAREO
raccapezzato su Grimaldo o Grimoaldo, forse per amor
della rima o dell'uso ; a quel modo che di Franco e Bidolfo
si fece Francesco e Bidolfesco ; di turco, sardo, romano si
venne a turchesco, sardesco, romanesco: a quel modo che,
ne' versi seguenti, il poeta dabbene ricava latinesco da
latino e nutiaresco da nuziale. Or senza contare un Gri-
maldo, vescovo di Pisa dal 958 al 965, e un Grimaldo,
vescovo d'Ancona fra il 1051 e il 1067. altri Grimaldi in
Italia non appariscono vescovi fuorché Grimaldo vescovo
di Fermo dal 1097 al 1103; Grimoaldo, vescovo d'Osimo
almeno dal 1151 al 1157 e Grimaldo (secondo l'Ughelli;
ma Grunaldesco dà il solo documento che lo rammemori),
vescovo di Jesi nel 1197. Era un nome, si vede, frequente
in tutta la Marca.
Vescovi di Volterra i cui nomi comportin d'entrare, per
il numero delle sillabe e la desinenza, nel v. 22, si tro-
vano: Galgano Inghirami dal 1150 al 1171, Pagano d'Ar-
denghesca dal 1213 al 1239, e Galgano II dal 1244 al 1251.
Ravvicinando queste date alle precedenti, si scorge come
vescovi negli stessi anni non furon che due di tanti Gri-
maldi e Pagani e Galgani : Grimaldo, vescovo d'Osimo dal
1151 al 1157 e Galgano Inghirami, vescovo di Volterra dal
1150 al 1171. Del rimanente, Galgano, come fu detto, era
già stato proposto dal Nevati e accettato, secondo ra-
gione, dal Monaci ^).
Meglio che di coloro, d'un terzo vescovo si tesse l'elogio
nella presente composizione: d'un vescovo dotto ed illustre,
di cospicua casata (v. 20), tenuto in gran pregio persino
dal papa (vv. 7-8). Anche di codesto vescovo afferma il
poeta che San Benedetto e San Germano l'p-vean destinato
a cinger la tiara: per la qiial cosa, egli aggiunge, vien da
Lornano (*• peroe vene da Lornano „). Io non intendo perché
tutti gli espositori abbian fissato il chiodo di riferire co-
') Rendiconti dei Lincei, 1892, I, p. 338.
LA SIRVENTESCA d'uN GIULLARE TOSCANO 137
desti versi a un papa, forse per un'allucinazione di quelle
parole: "" L'apostolico romano k Laterano „. Ma come
si sarebbe potuto dire d'un che già fosse papa, ch'egli era
destinato a divenir tale e che appunto per ciò giungea da
Lornano? Che senso avrebbe avuto quel " peroe vene „
in qualunque altro caso che non fosse stato quello d'un
cardinale il quale, per diventar papa, avesse intrapreso un
viaggio? E se quella lacuna traditora andasse, com'è piii
probabile, ristorata cosi:
L'apostolico romano
konsacroìlo in Laterano?
Allora tutto riesce chiaro come la luce del sole : il papa
non c'entra per nulla; quel vescovo così dotto e magnifico,
quel grande amico d'un papa, è un cardinale, che si reca
a Roma per il conclave ; e il giullare gli predice ch'ei di-
verrà papa a sua volta e, in cambio della profezia, gli
chiede un cavallo.
Ma quel cardinal vescovo chi sarà stato egli mai? Fra
tante lodi che gli son prodigate, una può sembrare assai
stravagante :
^a non fue questo villano;
perché, siamo giusti, non è certo il più bel complimento
che si possa fare a un galantuomo, quel rilevare ch'ei non
è punto un bifolco. Se non che (vedi caso !) proprio in quel
torno di tempo era vescovo di Pisa un Villano Gaetani, il
quale durò nel suo ufficio almeno dal 1146 al 1175; e da
Lucio II un Villano, non si sa d'onde, fu creato cardinale
di Santo Stefano in monte Celio.
Ma il cardinale Villano è egli tutt'uno con Villano ar-
civescovo di Pisa? Narra Costantino Gaetani nell'annotazioni
alla vita di Gelasio li, come, morto Ranieri, da Lucio II
fosse stato creato cardinale Villano Gaetani col titolo di
Santo Stefano in monte Celio, e come avess'egli sottoscritto
le lettere di Lucio medesimo e d'Eugenio III suo succes-
13S G. A. CESAREO
sore ; secondo qualcuno sarebbe mancato ai vivi nel tempo
d'Eugenio III ^). L'Ughelli inoltre sostiene che Villano
Gaetani succedette arcivescovo di Pisa a Balduino nel 1145;
ma nega ch'ei fosse mai cardinale -).
Un Villano fu cardinale di certo ; e il suo nome occorre
più volte ne' regesti di Lucio II e d'Eugenio III. Ne rife-
risco qualche esempio piìi rilevante:
31 gennaio 1145. Un regesto di Lucio II, da Roma,
è pur sottoscritto: Villaniis presbiter Cardinalis tit.
Sancii Stephanl in Celio monte.
17 marzo 1145. Un regesto d'Eugenio III, da Narni,
reca la medesima sottoscrizione.
Dal 29 aprile al 17 novembre 1145. Cinque regesti di
Eugenio III, da Viterbo, recan la medesima sotto-
scrizione '^).
15 maggio 1146. Un regesto d'Eugenio III, da Sutri,
reca la medesima sottoscrizione.
A Villano arcivescovo mandan concessioni di vescovati
minori Eugenio III il 29 maggio 1146, da Viterbo ; Adriano IV
il 31 maggio 1157, dal Laterano; Alessandro III il 26 gen-
naio 1162, da Genova; e i documenti che lo riguardano
vanno fino al 1175'^).
Fra il 1160 e il 1168 egli si mescolò ne' contrasti della sua
patria ; e il suo nome ricorre spesso nelle cronache di quel
tempo. Romoaldo Salernitano racconta che, per suggeri-
mento di Villano, papa Alessandro nel 1160 si recò a Ge-
') Cfr. CiACONio, Vitae, I, 1025.
^) Ughelli, Italia sacra, III, 394.
^) Per tutti questi documenti cfr. Pflugk-Harttung, Ada Pontif.
Roman, inedita: Urhundeti der Piipste voinJahre 590 bis zumJahre 1197,
Tiibingen, 1881 -Stuttgart, 1886, III, p. 65; I, p. 174; III, pp. 67, 68,
70, 73; Tbouillat, Mon. de Bàie, I, 295.
') Cfr. Jaffè, Regesta pontific. rom.^ Lipsiae, 1888, II, pp. 34, 125, 155,
230 e pss.
I.A SIRVENTESCA d'un GIULLARE TOSCANO 139
nova e vi fu accolto con gran devozione. Oberto cancel-
liere lasciò scritto che l'arcivescovo Villano, mandato in
esilio da' suoi stessi concittadini (i quali avevan voluto
vescovo un Benincasa, scismatico) nell'isola di Monte Cristo,
tornò il 1168 a Genova con l'abate dell'isola di Gorgona,
e vi predicò la pace. Gli Annali di Pisa ne serban pa-
recchie notizie ^).
È certo che in nessuna delle testimonianze riguardanti
Villano arcivescovo di Pisa egli apparisce anche cardinale,
come in nessuna di quelle poche sul cardinale Villano
questi è mai detto arcivescovo di Pisa. Anzi dal 30 marzo
1151 il suo titolo " Sancti Stephani in Celio monte „ passa
a un Gerardo -| : segno che il cardinale Villano o era morto
o aveva cambiato il titolo.
Eppure l'antico biografo di Villano, citato dal Ciaconio,
dice il cardinale Villano " natione Pisanus ex familia Caie-
tana „, al modo stesso che l'Ughelli dice " de Caietanis
pervetustae ac nobilissimae familiae Pisanae „ Villano ar-
civescovo. E il Gams, là dove rammenta, nella Series epi-
scoporum, Villano arcivescovo di Pisa, lo saluta anche col
titolo di cardinale. E se il cardinale Villano non fosse la
stessa persona che l'arcivescovo, non s'avrebbe di lui altra
notizia che la sua sottoscrizione in una mezza dozzina di
bolle fra il 1145 e il 1146.
Confesso che non m'è riuscito finora di trarmi da que-
st'impaccio; a ogni modo mi par quasi certo che il giullare,
con quel verso
(,'a non fue questo villano
volesse alludere al nome del vescovo, e credesse di spiffe-
rare chi sa che bella arguzia, annunziando che l'illustre
prelato, s'era Villano di nome, tale non era di fatto.
') Cfr. Pertz, MGH, XIX, 245 sgg., 433 e pss.
*) Cfr. Jaffé, 1. e, II, p. 20.
140 G. A. CESAREO
Villano Gaetani fu arcivescovo di Pisa 3al 1146 al 1175.
Ragguagliando con questo lasso di tempo i vescovati di
Grimoaldo dal 1151 (o forse prima) al 1157, e di Galgano
dal 1150 al 1171, se ne deduce che la sirventesca del giul-
lare toscano non potè esser composta se non fra il 1150
e il 1157.
Per altro già noi segnalammo la luce che si sprigiona
dal verso
peroe vene da Lornano,
ove bisogna intendere che il prelato viaggiav^a per recarsi
a diventare sovrano
de tutto regno cristiano,
secondo il suo poeta: si recava, parrebbe, a un conclave.
Tra il 1151 e il 1157 due conclavi si succedettero : quello
per la morte d'Eugenio III nel 1153 e quello per la morte
d'Adriano IV nel 1154. In entrambe queste occasioni può
esser nata la sirventesca se l'arcivescovo era pur cardi-
nale ; ma forse meglio nella prima che nella seconda, quando
il V. 7 vada ristorato (lo sospettò il Monaci 2) e a me par
verisimile)
el papa Ugenio 1 volle a lato:
dove il giullare, rammentando la dimestichezza del vescovo
col papa testé defunto (e ch'era, si noti, di Montemagno
nel Pisano), s'apre la via a presagirgliene la successione.
Se poi si riuscisse a provare che Villano arcivescovo
non fu il cardinale Villano, bisognerà intendere che il giul-
lare, cólto l'uno 0 l'altro a mezzo un viaggio da Pisa a
Roma per la via di Lornano (entrambi al nome si rivelan
toscani) insinuasse, per amore di quel famoso cavallo, che
') Cfr. 1) primo documento su Ubaldo, successore di Villano, pub-
blicato dal Jafké, 1. e, 297 11 ajDrile 1176.
2) Cfr. Rendiconti dei Lincei, 1812, IV, p. 65.
LA SIRVENTESCA d'uN GIULLARE TOSCANO 141
quegli ne sarebbe tornato cardinale di certo, giacché i due
santi dell'ordine benedettino l'avean destinato al soglio di
Pietro ; o che questi, ch'era già cardinale, vi sarebbe creato
papa: ciò sempre fra il 1150 e il 1157.
Due soli luoghi rimangon congetturali, benché tutt' altro
che improbabili, secondo la nostra esposizione. Perché il
giullare potesse diro del vescovo (vv. 13-15):
san Benedetto e san Germano
1 destinoe d'esser sovrano
de tutto regno cristiano,
occorreva che questi fosse un frate della regola benedettina,
la quale vantava patroni qua' due nobili santi. Ora noi non
possiamo documentare ch'ei fosse di quella regola; ma
nulla ci vieta d'ammetterlo : allora appunto era stato papa
Eugenio III, conterraneo di Villano e dell'ordine di S. Be-
nedetto.
Anche i dati ci mancano per accertare la verità di quel
passo (vv. 16-17):
peroe vene da Lornano
del paradis' [del]iciano.
Deliciano^ che a me, come al Nevati, pare di scorgere
nell'ombra lacunosa del testo, conviene mirabilmente a un
paese lieto ed ameno: paradiso deliziano o deliciano gli an-
tichi scrivevano per paradiso terrestre. Così Franco Sacchetti
nelle Rime: " Che pare il paradiso deliciano „; così nel-
\' Introduzione alla virtii di Bono Giamboni, VI: " perché
avete perduto il paradiso deliziano „ ; così altrove. Ma noi
non sappiamo dare per certo che il cardinale arcivescovo si
recasse a Roma passando per Lornano. Non sarebbe già da
farne le meraviglie : se, puta caso, il giullare avesse detto
la sua cantafera in Siena (e anche al Monaci quello parve
un dialetto della Toscana meridionale), il cardinale Villano,
per venire da Pisa a Siena e muover poi verso Roma,
avrebbe per l'appunto dovuto attraversare Lornano. Ma
142 G. A. CESAREO
potrebb'essere che lì si contenga un'allusione piìi signifi-
cativa, la quale, in cosi rare notizie rimasteci di quel pre-
lato, ora come ora ci sfugge.
A questo punto, del resto, il senso, il pretesto e l'età
della composizione, tutto dee parere più chiaro. Morto
papa Eugenio III, nativo di Montemagno nel Pisano, Villano
Gaetani, cardinale arcivescovo di Pisa e appartenuto alla
sua cancelleria, si parte di Pisa alla volta di Roma per en-
trare in conclave. Prende la via di terra, si ferma un poco a
Lornano in Val d'Elsa e giunge^ mettiamo, a Siena. Qui son
convenuti altri vescovi di Toscana, fra i quali forse quel di
Volterra, e forse alcuno di fuorivia. Con un di codesti vescovi,
forse con quel di Volterra, è un giullare; il quale, profit-
tando dell'opportunità, dà di piglio alla vivuola o alla rota,
e si propone di lodare l'ospite illustre, anche per buscarsi,
se gli riesce, la mancia d'un cavallo. E principia col salu-
tare l'eroe della festa, il vescovo sennato, luce del clero,
più dotto che filosofo e che Catone; e rammenta com'egli
fosse il consigliere e l'amico del papa morto (" el papa
Ugenio 1 volle a lato per suo drudo più privato „), ond'avea
migliorata e accresciuta la sua diocesi. Dopo questo, il
giullare allude alla dignità cardinalizia del vescovo ; e
perché forse ignora quale papa l'elesse, se ne sta su le
generali : " L'apostolico romano konsacrollo in Laterano „ ;
poi, sapendo che il vescovo è della regola benedettina, in-
sinua che i due protettori dell'ordine, S. Benedetto e S. Ger-
mano, lo destinarono al soglio di Pietro. — E appunto
per questo, soggiunge, oggi vien da Lornano, del para-
diso terrestre di Siena. — Era un complimento alla terra
che l'ospitava. In buon punto l'arguto cantastorie si ri-
corda il nome del vescovo, e con un'alzata d'ingegno, av-
verte come questi, Villano di nome, non sia tale di fatto ;
anzi è il più nobile e generoso signore {marchiscianó) che
mai fosse al mondo. E qui la stoccata giullaresca: — se
mi dà cavai balzano, lo mostrerò al signor mio, a Gal-
gano, vescovo della città di Volterra — .
LA SIRVENTESCA d'uN GIULLARE TOSCANO 143
E come nulla è stimato tanto efficace alle buone opere,
quanto l'esempio, così racconta il giullare d'un caso occor-
sogli alla corte d'un altro prelato, Grimoaldo o Grimal-
desco, com'egli lo chiama, vescovo d'Osimo. Prima ne de-
scrive il fasto :
cento cavaler à a desco:
di nun tempo (= di niun tempo) non ri[n]cre8Cono,
an(,n pla^^ono e abelliscono ;
dopo ne tesse le lodi:
Ne latino ne tedesco,
ne lonbardo ne francesco,
suo mellior tenon vestisco,
tant'è di bontade fresco,
dove, leggendo il terzo verso alquanto diversamente dal
Monaci e dal Mussafia, io tengo vestisco per un sostantivo
da veste foggiato sul gusto di Grimaldesco, latinesco, nutia-
resco, e intendo : — ne latino, ne tedesco, ne lombardo, ne
francese, tengon veste, vale a dire aspetto o sembiante o
decoro, miglior della sua: tanto egli ha cera d'uomo dab-
bene. — La parola " veste „ con tale significazione è fre-
quente nei nostri scrittori. Andando avanti nella sua espo-
sizione racconta:
A llu' me[nan barb]aresco
corridor cavai pultresco;
vale a dire: gli recano un poliedro di Barberia; e a quella
vista esultan gli arcieri (" li arcador ne vann' a tresco „),
sperando che il cavallo sia dato a qualcuno di loro. Ma
del loro gaudio sbigottisce invece il giullare, che teme di
non averlo : quando, a una richiesta di lui, la quale è age-
vole indovinare, il vescovo
rispos'e disse latinesco:
stenettietti nutiaresco.
1 U G. A. CESAREO
Quest'ultimo verso non è troppo limpido. Si capisce che
il cantastorie, volendo imitare il " latinesco „ del vescovo,
ci diede quello stenettietti (se pure fu trascritto bene) che
non si sa come interpretare. La proposta del Monaci
sten' e tietti nutiaresco,
la quale anche s'aiuta d'uno stene del trovatore Inghilfredi,
è iinora la piìi ragionevole ^) : soltanto in quel verso non
iscorgerei alcuna ironia, come non ve la scorse il Mussafia ;
e intenderei senz'altro che il vescovo regalasse il poliedro,
dicendo bonariamente al giullare: — Tieni (= stené) e
tienti allegro (= tietti nutiaresco). Per la qual cosa il giul-
lare protesta ch'ei non ismetterà mai di benedire quel buon
signore, finché gli duri la vita. E qui la sirventesca, che
sicuramente sarà stata chi sa quanto lunga, rimane inter-
rotta sul meglio.
Ma quel Grimaldesco, quel Grimaldo o Grimoaldo ve-
scovo d'Osimo, chi era, che cosa faceva, perché teneva
una corte tanto magnifica? Eh, l'avremmo voluto sapere
anche noi; e abbiamo frugato per levarci la curiosità: non
siamo venuti a capo di nulla ^).
') Rendiconti dei Lincei, 1892, 1. e, p. 340.
*) Qui son costretto d'appiccicare una nota, su le bozze di stampa,
a questa mia interpretazione, esposta agli studenti dell'Università di
Palermo nell'anno scolastico 1899-900, e buttata giù per gli Studj di
filologia romanza nel dicembre del 1900. Qualcuno ha creduto trat-
tarsi invece di quel Grunaldesco, che fu vescovo di Jesi nel 1197, il
quale anche sarebbe il vescovo senato che viene da Lornano. E Lor-
nano fu pure, fino al 1249, un castello della diocesi di Camerino
(ToERACA, Su la pia antica poesia toscana, nella Rivista d' Italia,
1901, fase. 2°, p. 229 sgg.)- Ma non risulta punto ne poco che quel
Grunaldesco (non Grimaldo, ne Grimaldesco) vescovo di Jesi, venisse
dal castello di Lornano di Camerino, o ch'ei fosse stato famigliare di
alcun pontefice, o che avesse avuto desiderio, modo, speranza di dive-
nire sovrano " de tutto regno cristiano „. Senza dire che, come s'è
visto, il vescovo della prima lassa o tirata, e quello della terza, * lo
vescovo Grimaldesco , , così d'improvviso tirato in ballo a mo' di di-
gressione, non posson essere assolutamente la persona medesima.
LA SmVENTESCA d'uN GIULLARE TOSCANO 1^5
Le cronaclie finquì conosciute non recan di lui fuorché
il nomo; su la sua riverita persona non s'banno notizie
né documenti: colpa, forse, del suo vescovato di forse
-<di sei anni e del suo naturale troppo benigno. Se non
foce altro che regalar cavalli ai giullari, siamo giusti,
non era poi necessario che la storia tramandasse il grido
delle sue gesta ai più lontani nepoti. La qual cosa non
vuol mica dire che il giullare beneficato non avesse a te-
nerlo per uno de' più munifici vescovi del tempo suo.
Or se la nostra esposizione è attendibile (e niun parti-
colare filologico 0 storico le fa contro di certo), noi sa-
remmo riusciti a provare: 1" che la sirventesca è tutta
in lode d'un solo vescovo di passaggio nel luogo dov'era
accorso il giullare ; 2" che colui fu Villano Gaetani, arcive-
scovo di Pisa e forse pur cardinale, il quale si recava,
attraversando la diocesi di Siena, nella città di Roma per
un conclave ; 3'* che ciò accadde probabilissimamente alla
morte d'Eugenio III, del quale Villano era stato conter-
raneo, famigliare e fautore; 4^ che dunque la cantilena
toscana fu composta nel 1153 o nel 1154, e, a ogni modo,
non più tardi del 1157; 5" che il vescovo di Volterra, forse
andato incontro al cardinale e presente alla festa, fu Gal-
gano Inghirami, mentre il Grimaldesco, rammentato per
incidenza, fu Grimoaldo vescovo d'Osimo.
E questo componimento, insieme con la testimonianza della
costituzione normanna ^) e col Ritmo cassinese, rivela an-
cora una volta l'esistenza d'una poesia popolesca in vol-
gare per tutta Italia avanti l'imperatore Federigo di Svevia;
la qual cosa rende sempre più verisimile la nostra antica
opinione : che la poesia d'arte fra noi non nascesse per vo-
lontà dell' imperatore , ma si sviluppasse liberamente a
grado a grado co' poeti di popolo, e dall'imperatore poi
fosse stata soltanto raccolta e onorata nell'aula siciliana.
G. A. Cesareo.
') Cesareo, Le origini della poesia lirica in Italia, 1899, p. 31.
Studj di filologia ronìanza, IX. 10
DANS QUEL SENS EN FRANGE ET EN ITALIE
LE BOUCHER
EST-IL LE TUEUR DE " BOUCS „ ?
Dans les Mcinoires de la Société de linguìstique de Paris,
XI, 126 ss., M, Théodore Reinach a appole l'attention sui' la
difficulté, r impossibilité selon lui, sémasiologique, de tirer
boucher (prov. hocliier) de houc (prov. hoc) à l'aide d'un sens
primitif " tueur de boucs ,, : " Le bouc, écrit-il, a de tout
temps été, en France, un animai assez rare, peu comestible,
dont ou n'entretient guère que le nombre nécessaire pour
saillir les clièvres. Il est bien question parfois de boucs
chàtrés à quatre ans, qui jouent un róle dans l'alinienta-
tion; mais ils portent un noni particulier, menoun ^), N'est-il
pas surprenant, dès lors, que le tueur de boucs ait été un
personnage assez connu, assez occupò pour que son noni
ait fini par devenir synonyme de tueur de botali en ge-
neral? Or, cette extension de sens est réalisée dès le
XP siècle : un règlement de Fan 1022, cité par Ducango,
est intitulé De jure hucceriorum et, chose curieuse, panni
les animaux énumérés comme devant une redevance à
') Il s'agit de pays de langue proven9ale.
DANS QUEL SENS EN FRANGE ET EN ITAME LE BOUCHER ETG. 147
l'abatage, ne figure précisémont pas le bouc! „ C'est fort
bien : pourtant, le parallelismo de l'italien beccaio, heccaro
forino sur hocco, que M. Keinach n'ignore pas d'ailJeurs,
doit bieu ótre tenu pour concluant. Aiissi M. Reinacli s'est-il
fait un devoir de s'informer aiiprès des romanistes pour
savoir coniment ils résolvent la difficulte'. Et voici le re-
sultai de sa petite enquète : " On pourrait re'pondre à cette
ol)jet'tion ^) en pretendant, cornine le fait A. Darmesteter,
que le misérable peuple des campagnes au moyen àge était
reellement réduit à se nourrir de la chair coriace et mal
odorante du bouc, ou eucore, comme me le propose M. Gaston
Paris, en adniettant quo le mot hoc ait désigné également la
eliòvre et le chevreau ; mais je ne connais aucun texte qu'on
puisse invoqner à l'appui de l'une ou l'autre hypothèse.
D'une part, la femelle du bouc se dit chèvre ou hiqiie, son
petit, chevreau, hiquet, boquet. „ Evidemment, M. Reinach
u'est pas satisfait de ces essais d'explication, et il a bien
raison. Tout au plus, l'hypothèse de M. G. Paris est-elle
capable d'emporter le suffrago de tei ou tei romaniste, qui
pourra prétendre quo " le bouc „, le mot étant entendu
d'une manière generale, à la fa^on des naturalistes par
exemplo, designo l'espèce et signifie*tout à la fois le bouc,
la chèvre et le chevreau, que le " tueur de bouc „ (je mets
il dessein le mot au singulier) faisait à l'origine le com-
uierce de tout sujet de l'espèce caprine et qu'à cette
espèce peut-ètre se limitait son négoce. Mais tout cela, on
le sent bien, est fort conjectural, et memo, disons-le, iii-
vraisemblablo, respèce bouc n'étant pas en definitive une
espèce fondamentale de l'alimentation.
Au lieu do chorcher à trouver du sens do " tueur de
l)oucs ^, ([ui est assuré par l'ital. beccaio, uno explication
plausible, M. Keinach s'est engagé sur une piste fàcheuse.
Il est touibè sur *hucularius, " le tueur de huciilae „, ou
') Celle qui vient d'ètre transente plus haut.
148 P. MARCHOT
de génisses. Ce n'ost pas avoir la main heureuse. Le
boucher est à tout le moins aussi peu le tueur de génisses
que le tueur de boucs, si l'on prend ce dernier mot au sens
d'animaux miiles, adultes et propres à la reproduction. La
génisse est sur le point de devenir un animai de rapport,
elle peut faire à son possesseur un veau qui sera de profit et
elle lui fournira du lait. Ce n'est rien moins qu'un animai
de boucherie. Sa chair du reste ne vaut ni celle de la vache,
ni celle du ba?uf, ou méme du taureau: le consommateur
trouve, en la dégustant, que ce n'est plus du " veau „ et que ce
n'est pas non plus du " bceuf „. Disons aussi, en passant, que
l'on ne pourrait songer davantage à buculus, bouvillon, lequel
désigne un jeune sujet, qui va étrc susceptible de rendre des
Services comme bète de trait, que l'on ne penserait en tout
cas jamais à utiliser comme animai de boucherie, avant
qu'il n'ait atteint son maximum de croissance et de poids,
en d'autres termes qu'il ne soit devenu un " boeuf „. Tuer
sa génisse ou son bouvillon serait pour le paysan manger
son blé en herbe. Mais la phonétique (à laquelle il faut tou-
jours en revenir) est encore ce qui permet de faire à bu-
cuLARius l'objection decisive. M. Reinach est obligé de
poser un *buccularius avec deux e d'après le bas-latin
BuccuLA. Or BUccuLA est après tout une graphie de la basse
epoque, c'est une incorrection, une fante d'orthographe en
somme, dépourvue de toute espèce d'importance. Ensuite,
M. Reinach est obligé d'admettre que les sujets parlants
sentaient ce *buccularius comme un derive de diminutif,
et qu'ils ont trouvé convenable de lui substituer un derive
tire d'un primitif faussementreconstitué: *bucca,*buccarius.
Que do complications! Et pourquoialors nulle part dans toute
la Franco trace de *buccularius, la première forme en date?
Sans compter que l'impossible *bucculakius serait devenu
déjà en lat. vulg. *bucclarius et comme tei aurait été per(,'u
difficilement comme derive d'un diminutif. Mais écoutons
M. Reinach. Aussi bien, ce qu'il dit ne manque pas à l'occasion
d'une certaine gaité: " Bucul ARiusn'est pas mort non
DANS QUEL SENS EN FRANGE ET EN ITALIE LE BOUCHER E l'C 149
plus '). quoiqu'il ait bien cliangé en route. Il est vrui que
do BucuLAiiius, lUTCLAEius ii'aurait janiais pu naitre directe-
nient que heugUer ou buglier, qui est inconnu, à moins qu'il
Il ait survécu dans le noni propre Bouf/Ié. Mais à une cer-
taine epoque ce mot parait avoir redoublé le e en abré-
geant le ii: e' est un plu'iiouiène de compensation encore
mal étudié, aiu[uel la langue fran(,'aise doit des doublets
intéressants. Ainsi cupa " cuve „ et cuppa " coupé „. Buc-
cuLARius, ainsi orthographié, se lit dans des glossaires
allemands du XVP siècle avec la traduction Olisinnr
(:r= Oehsner). Dans buccularius l'instinct populaire sentait
un diiiiinutif, sans se rappeler que le primitif était bovem,
quoique celui-ci eùt survécu. Le jour oìi l'on a voulu ra-
mener le diminutif à une forme plus siinple, on s'est in-
spirò, par une fausse analogie, des mots vaccarius, por-
I \Rius (oìi le r appartieni an radicai), et l'on a créé de
toutes pièces buccarius. Gomme ce mot se confondait pour
ra?il et pour l'oreille avec buccarius " le tueur de bucci „
(de boucs) -), du confluent, si je puis dire , de ces deux
BuccARiT. serait né notre mot boucher, sur lequel l'italien
a ensuite " calqué „ beccaio. „ Je crains bien que les rai-
sonnements de M. Reinach ne convainquent personne, j'en-
tends des romanistes, Je ne voudrais pas surtout déparer
par un commentaire le trait de la fin: F ital. beccaio
" calqiu' „ sur le fr. boucher, compris comme vonant de
bone. Les Italiens, avant de créer leur beccaio, prennent
soin de s'informer comment les clioses se sont passées en
Franco, ils apprennent qu'on y dit boucher, lequel ne peut
naturellement se dériver que de bone, et ils forgent leur
mot! Mais passons et revenons à notre sens de " tueur
') Pas plus qin' KijcuLAUE, (l'oìi M. Rt'inach juge à propos de tirer
bi ugler.
*) Alors il 3' avait donc des gens, cxer^ant ce métier: en ce cas, on
ne voit pas la necessitò de recourir à la création de *bucculauius,
la question est résolue.
150 P. MARCHOT
de boucs „, étrange assurément. mais pourtant assuré par
l'italien. Il y a peut-étre moyeu de l'expliquer.
Le bouc n'est pas un animai qu'on cliàtre pour l'élever,
l'ongraisser et ensuite le tuer, comme on i'ait par exemple
du petit taureau, du jeune porc, du jeune belier. On ne le
garde que pour la saillie des chèvres, comme reproducteur,
pour la conservation de l'espèce. C'est déjà dire l'effroyable
hécatombe qu'on fait forcément des jeunes sujets màles.
Car enfin il nait naturellement autant, ou ìi peu près au-
tant, de petits chevreaux màles que de petites chevrettes.
Or, qu'est-ce qu'un jeune chevreau male, sinon un bouc,
et qu'est-ce qu'une jeune clievrette, si ce n'est une chèvre?
Car, si on le considero du point de vue du sexe, dès
l'instant oìi il a ouvert ses yeux à la lumière, le petit
chevreau est ou un bouc ou une chèvre, tout comme le
petit porc est verrat ou truie, le petit agneau bélier ou
brebis, le petit veau taureau ou génisse, et le jeune poulain
étalon ou cavale.
Le boucher n'est donc, dans le principe, que le tueur des
tout jeunes boucs qui viennent de naìtre, les femolles
étant, règie generale, conservées pour fournir du lait et
pour reproduiro. On sait que dans beaucoup de pays la chair
du petit chevreau est regardée comme particùlièrement de-
licate, do memo que celle du petit cochon de lait ^).
Le boucher n'est donc, en definitive, quo le maiselier qui
tient et débite la chair delicate des houcs, j'entends des
tout jeunes boucs. Mais pourquoi les maiseliers qui tenaient
cet article, cette spécialité ') auraient-ils abandonné leur noni
') Le statut de Pontoise de 1404 dit en parlant des bouchers :
" Tous boucqs et chèvres, se ilz ne sont de lait, ne se doivent
vendre , (Gite par M. Reinach, p. 127 note).
^) Aux bouchers tenant cette spécialité les statnts de Montpellier
de 1204 intcrdisent la vente de la viande de niouton en general,
pour empt'cher la frauda, soit que le " chevreau „ fiìt considéré
corame supérieur ài'" agneau ,, ou 1' " agneau , au " chevreau , :
" Ni ci raazel de bocaria sia veududa carn de feda , (Gite par
.Meli inach, p. 128, n. 2).
DANS QUEL SENS EN FRANGE ET EN ITALIE LE BOUCHER ETC. 151
antique et traditionnel pour on preiuire un nouveau? Af-
faire do modo ot de suobisme sans doute; c'était peut-étre
aussi une fagon de reclame. Ne voyons-nous pas l'ancien
barbier devonir au XVIV siede le perruquier, de nos jours le
coiffeur *), et mème dans les pays de langue allemande le
frìseur {\)\ l'antique " sueur „ de venir le corc?o)2m'er, l'ar-
tisan en cuir de Cordone, et de nos jours le bottier, le
chaussi'ur; le menuisier remplacé par Vébéniste; le tavernier
par le cabaretier, puis le cafetier; l'aubergiste par Vhòtelier;
le boutiquier par le commercant ; l'apothicaire par le p1ia7'-
mncien; le lunetier par Vopticien; l'ompaillour par le ned u-
ralisU'-, le quoux par le cuisinier; c'est-à-dire l'initió à l'art
de cuisine, de nos jours par le chef (des gens de ser-
vice), etc? On pourrait allonger cotte liste. Pour ótre édifié
à ce sujet, on n'a qu'à ouvrir le bottiu ou se promener
dans une rue de grande ville en lisant les enseignes.
Le galicien pour " boucher „ a buxeo, c'est le mot em-
prunte' au fran9ais assez tardivement, quand ì'r était déjà
tombée. Celui-ci aussi sans doute a étc motivò par la mode:
c'est ainsi qu'on commence à trouver dans certaines grandes
villes de langue frangaise tediar ou liair-elresser. Quant à
l'ancien espagnol huchin, bejchin, boepiin, au catalan butxi,
boxti, au german. bocho, bochero ^), qui veulent dire tous
" bourreau „, ils n'ont absolument rien à faire avec le fran-
(;ais boucher.
N'oublions pas une dernière preuve de l'étymologie
boucher <bouc fournie par M. Reinach lui-méme: " M. Paul
Meyer, dit-il, me cite ce vers tiro du roman de Vespasien:
Et aovrent et fendènt coni le bone fet bochior ^) ,.
') Peut-ótre aiiroiis-nous bientòt le posticheur, celui qui tient les
postiches.
') Baist, ZtAchr. de Gr(>ber, V, 239. Le dictionnaire de Korting
(1403) attribue erroiiément à l'ancien espagnol le sens de " bouclier „.
^) Sans doute une faute pour bochiers.
152 P. MARCHOT
Postscriptum.
Au sujet du galicien buxco, j'ai consulte, quand ce petit ;
article était déjìi redige, M. lo professeur Baist, leqiiel a ',
eu la complaisance de m'écrire ce qui suit (je traduis de
l'allemand): " Buxeo, carnicero, el quo mata las reses y
reparte la carne ò la vende. Cuvoiro Piiìol, Diccion. (/al-
lego, donne ce mot comme vivant et son indication n'est
pas suspecte. C'est sans conteste un emprunt, -eo n'existant i
pas dans des nomina agentis; sa forme et son sens le sé- mi
parent de hochero bochin. Le mot ne se rencontre pas en
proven9al d'une fa^on sùre après le XP siècle, on ne peut
penser qu'au fran9ais à cause de ts > s et de l'amuissement
de Vr finale. L' emprunt n'est donc pas ajitérieur au
XVP siècle, il est singulièrement isole et tardif, mais à
expliquer par l'influence continuo du passage de pèlerins
dans un pays qui, en dehors de la route suivie par les
pèlerinages, n'a pas possedè d'industrie (geschaftsleben)
bourgeoise „. L'explication de M. Baist est évidemment la
benne.
Paul Marchot.
PROPOSTE Dì CORREZIONI ED OSSERVAZIONI
Al TESTI PROVENZALI DEL MANOSCRITTO
CAMPORL
Mi si affacciarono alla mente queste proposte qnasi tutte
allorch'ebbi a scorrere lo bozze del Bertoni per licenziarle
alla stampa apprestatane pel fascicolo precedente di questa
Rivista. Quelle che qui pubblico avrei voluto meglio me-
ditare ed altre tentaine; ma l'agio e il tempo mi manca-
rono e mi mancano. Le dò quindi fuori così come sono,
considerando che almeno in qualche caso esse varranno ad
agevolare l'opera d'altri che intenda a restituir, tutti o in
parte, essi testi nella loro genuina lezione.
I, II, 2. 1. no' n; 4. coiT. q'enlre gens'ì — iv, 1. corr. qe Ja vi [engati],
secondo 8ug<?eriscono il senso e il riscontro di un verso di Raimon
lordan in Appel, Prot\ Lied, aus Pur. Handschr., p. 286 . . . servirai de
bon cor A tal doinna qxe no cuz quem enjan ; 2. Poiché garnitz è già
in posizion di rima alla st. ii, 2, sarà qui da leggere : garitz'ì Cfr. guerir
coir identico valore presso lo stesso C. in II, vii, 4; e qui il senso
sarebbe: " Questa non penso già che m'inganni, [anche] se io non
sia da lei guarito „ ; 6. qei = quid? Cfr. R. lordan, in Appel, op. cit.
p. 283: e per quey? (in posizion di rima). — v, 3. corr. enrequitz'ì
(cfr. il n. II, V, 4); 4. corr. e lai serai eu Va coman? Cfr. lo stesso
Cercamon, in Quant Taiirn doussa, v. 38: Lo dia quem pres a coman
(presso Appel, Chresth., p. 53). Per l'antitesi tra il lai di questo e il sui
del precedente verso non sarà inopportuno citare a riscontro II, vii, 4.
II, I, 3. corr. M[u]et7[Z]. — ii, 2. corr. laissarai'i — iii, 7. corr. pne'i
— IV, 1. (che veramente dev'esser 2). die] corr. dir; 4 (5). Piuttosto
che il fui, proposto dal Bertoni, sarà da supplire: [ce\la, o [«] la,
colla risultanza d'un costrutto ellittico che non avrebbe nulla d'inve-
rosimile? — V, 4. corr. enrequir.
154 CESAHE DE LOLLIS
IH, I, 6-7. Leggi: Q'cn non ni joi ni non Vadcs (1" ps. ind. pres. di
adesar), Ni de sa compaigmi nom lait — n, 4. Jonitz e faig[z] fraing
e dechai] Cfr. Bonifiiei Calvo in Afpel, Cltr. p. 79, vv. 51-2: Qi<c
SOS vaìenz pretz nos fraingnha Nis dcchaja ... — iii, 3. corr. d ruderi' un;
6. corr. Qi [a] gìazi fcr (non volendo fermarsi a fai = fa, fabbrica,
che pure non stride troppo nel testo, o a un gìazi aec. alla dipen-
denza di ferir che ricorderebbe il legittimo colp ferir,) a glazi cs
Feritz d'eis lo seu colp mortauì S'avrebbe così la traduzione dell'evan-
geleo : " qui gladio ferit, gladio perit „. Cfr. a ogni modo, pel sostanziale
riscontro, quel che all'identico proposito si legge sotto il nome di
Marcabru e Peire d'Alvoruhe in Mahn, Gedichte, 221, st. 5*; e Canz. A,
n. 1, st. S*. — VII, 3. corr, genzor; 6, Ve una sillaba di più, e manca
atfatto il senso. Corr.? — vm, 1. corr. diguas e leggi la ves; 3. corr.
mortz.
IV, II, 1. corr. Remazitt; 3. leggi: 7irn*;7/«, nome proprio, pel quale
cfr. Chans. d. la Croisade des Alb., v. 3926; 4. leggi: s'a longu[s ieu\
sai estati, e cfr. iii, 4, dove ritorna la frase : s'a lonjas. — iii, 6. leg-
gendo, col ms., qe niolt per fon genia sa fis, potrebbe star qui il per,
nonostante la sua attiguità al verbo, a rinforzar l'avverbio quanti-
tativo che lo precede? (cfr. Diez, Gr? 771). — iv, 4. leggi: fel
liam. — v, 2. corr. panbre; 5. corr. q'al ver afìc = al giudizio
finale; ed è frase che non appar qui la pi'ima volta, quantunque non
ne tengan conto ne Raynouard, Le.v. Rom., m, 321 ; ne Levy, Stipplem.
Worterb., I, 26. Cfr. Marcabruno in Canz. A. cit., n. 57, vv. 16-18 : Al
ver afte, Segon la penedenssa, N'auran perdo. E, ibid. n. 59, vv. 1 seg.
Seigner n' Andric, Al ver afte, Mout etz d'aver secos e plans. E
Guillem de Saint Leidier {Il Canz. A, n. 375, v. 40: Visqnerieit pois
entroc' al t>er afìc. — vi, 3. corr. fer ros dea esser et esqiu. I due
aggettivi van spesso insieme, come provan gli esempi di Marcabru
{Il Canz. A, ii. 74, vv. 21-2): A, eiiin fon tant fer ni esqin Q'estrains
qises en aiitrui nini) di Saill de Scola (in Lex. Rom., in, 191 ^): Anceis
nies esquive fera, e di Giraldo di Boriieill (in Canz. A. cit., n. 24,
vv. 9-10): Tant m'es esquira e fera La perda ti dans ; 6. n'Anfos sarà
Alfonso (liordano di Tolosa, che appunto insieme col conte (ìnglielmo
dì Poitiers ricorda anche Marcabruno {Il Canz. A., n. 66, vv. 25-26,
e cfr. n. 73, vv. 37-38). — vii, 1. Corr. France[i]s ; 2. corr. dea ;
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 155
2-3. Loggi: ...io reis Cui \el] laisset la terra el creis. Qvn creis axrh
valore di sost. ooiraccozionc di " prole „, notata dal Levv, op. cit., 1,
405, col. 1", s. il n. 2; e si riferirà ad Eleonora d'Aquitania, che
suo padre (ìuglielmo X, morto il 9 aprile 1137 in Saut'Jacopo di
Compostella (cfr. st. ix , vv. 5-6 : Saint Jacme memhreus del baro
Qc devant vos Jai jìelegris), designava nel proprio testa-
mento sposa al figliuolo del re- di Francia. Poiché essa recava in
dote Aquitania e Poitou, bene a ragione e con lodevole concisione
dice il poeta che Guglielmo lasciò al re di Fi-ancia " i proprj dominj
e la propria prole ,; 6. corr. Serraz[e^is, dove -eis, ch'è da -enus, è ben
piìi singolare che nei casi notati dall'ERDMANNSDORFB'KR, Reimivorterhuch
der Trobadors, Berlin, 1897, p. 9. — vm, 4. L. dese. — ix. 2. L. n' Eblo,
t' vi si tratterà di Ebolo II di Ventadorn; 4. de pain\ corr. d'Espainh';
che quelli di Spagna saran chiamati anch'essi a piangere il conte,
perch'egli morì in terra loro.
II.
I, I, 2. louuer] corr. lo riu? (cfr. Quan lo r i u s de la fontana
S'esclarzis, presso Stimminq, Der Troubadour laufre Radei, p. 45). —
II, 1. Siiìirei] corr. faire'i — in, 5. corr. l'enclauza. — v, 4-5. ... ver
Li dirai q'atitressi menta. Comunque s'abbia a itìtendere il passo, ben
ricorda, al suono, l'altro pur di Rndello: Ane noni dix ver ni nom
menti (in ediz. cit. p. 54).
III.
I, I, 5. trop sarà 1* ps. sing. pres. ind. di trobar. — ii, 1-3. Qe
scienza jauzionda M^apres c'al fsoleilh declin Laxft lo jorn e l'osf al
inatin. Di questi due proverbi: loda il giorno al cader del sole, e:
loda l'ospite (oste V) al mattino, non è traccia in Cnyrim, Sprichicorter ecc.
Marburg, 1888. Ma evidente è il significato del primo, a cui oH're liei
riscontro lo stesso Marcabru, scrivendo altrove (// Canz. A, 71, vv. 17-18) :
Lo sol.'i al maitin soleilla Kl nivols al veftpre muoilla) e non troppo
oscuro quello del secondo, che riceve a ogni modo luce dal passo
seguente deWensenhnmen di n'Arnaut Guilhem de Marsan (presso
Appel, Chi:, p. 165): An.9 c'al manjar siatz, Los ajatz doctrinatz
[i domestici], Que tot can obs aura Ajan [gl'invitati] tro l'endema;
i56 CESARE DE LOLLIS
Candelas e ho ri Ajan ivo lo mati. — ii, 5. Ni contra musai no
mus]. Cioè, forse: uè perda tempo con ehi vuol penlei'ue. E proprio
l'opposto par elle voglia dire, in linguaggio consimile, là dove serive
(Il Cam. A, n. 68, v. 32): Lo musatge ai rendili musan. — iii, 1-2. Cai-
la uolenza recoinda A semhlan del floc marin] corr. redonda (cfr.
redounda in Mistral, s. v.) ? o sarà da pensare a un r e e u n d i a r e
rampollato dal recundre che lo stesso Mistral allega s. v. col valore
di * résonner „? 11 senso sarebbe, correggendo flot (v. ancora Mistral,
s. V.): " che viltà moi-mora alla maniera del fiotto marino „, e ben
s'accorderebbe con quel che subito segue intorno alla maldicenza
dei vicini: " per il che io accarezzo il mio vicino, e non vuo' che
abbia a susurrar sul mio conto cose onde mi venga il nomignolo
di barbagianni „; 3. . . . segnìioriii ino iiezin] Quanto al rispetto do-
vuto al cattivo vicino, cfr. lo stesso Marcabru nel Canz. A, n. 54,
vv. 13-16 : Sorenz de pan e de vi Noiris ries honi mal vezi, E sii tengiies
de mal aire Segiirs es de mal inaiti ; 4 banda] bandir, nel senso di
mormorare „ manca al Lex. Boni., ma è in Levy, Supplement-
Worterb. s. v., e col preciso valore che ha qui occorre in altro passo
di Marcabruno: CHI qiie per marit nois fìza Voi c'oni de Ueis parie e
bonda (FI Canz. A cit., n. 70, vv. 22-3); 5. caiis] cioè, barbagianni,
manca al Lex. Rom. (cfr. II, 392 ' e II, 9 *) uel senso traslato e bur-
lesco di " marito di donna infedele „, che ha il fr. cocu (a. fr. coiis,
cfr. LiTTRK, s. cocu); ma è accertabile col riscontro del provenzale
odierno (cfr. Mistral, s. cougiiiéu). — iv, 1. iauzionda] h già in po-
sizion di rima nella st. ii, v. 1. Corr. dunque: sazionda = satolla
(cfr. suzion presso il medesimo Marcabru, in Mahn, Gedichte, n. 199, v. 3);
4. leggi : Q'evejos'e dizironda; 5. receuen] corr. reven. — v, 2-3. ...c'a
plen camin 'Segon ja li rie san train. Intendi : " che in piena strada,
cioè, coram popiilo, i potenti proseguono il lor modo di rivere „. Cfr. lo
stesso Marcabru, in Canz. A, n. 74, vv. 23-5 : Mas aras s'en san
esbatidit Si qel camin descobertiu Van assegurat e plevit. Si potrebbe
anche pensare ad accordar son con malvestatz del v. 2, e ne verrebbe
fuori un parlar più immaginoso; ma seguir son train mi suona proprio
come il fr. alter son train, e il valore che in tale interpretazione è
dato a train è in qualche modo confermato dall'uso che altrove ne fa
lo stesso Marcabru: (// Canz. A, n. 54, vv. 41-2) An lo tondres contrai
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 157
raire, Marcabrus, d'aquel trahi. — vi, 2. hosin] dovrebbe valor qui :
rumore, t'i^aeasso, scandalo (cfr. Levy, s. hozinar, I, 160); 3. baboin]
Non si anniderà qui, malamente svisato, il bedoin che altra volta
occorre presso Marcabru (cfr. Bartsch, Chr.*, 56, 3) e del quale non
si riuscì a determinare il valore (cfr. Stichel, Beitriige zar Lexico-
graphie dea <(Uprorenz(discJu'n Verbions, Marburg, 1890, p. 21)? Par-
rebbe essere il soggetto deìVaprionda (profonda, in senso osceno) del
verso seguente; 5. Leggi: s'en gratis = se ne dispiaccia. — vii, 1. clcnt
segondit]. È quella che in un componimento tutto marcabruniano
attribuito a Peire d'Alvernhe (ma cfr. Zenker, Die Lieder Peires
von Auvergne, in Roman. Forsch. XII, 653, sgg.), chiama la " contra-
ehiave , : Mas ciìl per cui hom la destreing Port'al braier la con-
traclau (cfr. Il Cam. A, n. 1, vv. 11-12). Ma lo stesso Marcabruno
altrove (ibid. n. 68, vv. 34-5): Tans n'i vei dels contraclaviers,
Greti sai remanra conz entiers; 3. porta capei corniti conin] Di
" cappello „ è questione in un altro passo di Marcabru, dove pure,
come qui, è questione di " corna , (cfr. Levy, s. cornudel, I, 372) ; ma
esso non può far luce su questo, dove il senso, all'ingrosso, è chiaro,
e ben si conferma l'esistenza di un agg. conin da con = ciinniis, quasi
dubbiosa ancor presso il Levy, I, 369, s. corin, quantunque già attestata
da altra poesia dello stesso trovatore (cfr. E Canz. A, n. 54, vv. 39-40):
. . . un no'n vei estraire Moillerat del joc coni. — viii, 3. corr. mo'h, e
intendi tutto questo verso col seguente: " e poiché alcuno per mia
opera non ne desiste, quel che non fa l'uno, faccia pur liberamente
l'altro „. 11 " tondere , sta qui a rincarar l'azione espressa già nel
" pelare , , mentre per solito si mandan piuttosto insieme * radere „
e " tondere „. Cfr. Stimming, Bertrun de Boni *, p. 277, n. al v. 9 di
n. 28; e il mio Sordello di Goito, p. 250, n. al v. 6 di u. Ili; e più
opportunamente ancora lo stesso Marcabru, in Canz. A, n. 54, vv. 39-41 :
E puois un no'n rei estraire, Moillerat, del joc coni, An lo tondres
contrai raire; 5. e retierc contra ratis] Qualunque cosa sia venere
(1» ps. ind. pres. di revertir, con -e da -t Ti cui precede /•?) raus,
bisillabo come qui, occorre altra volta in Marcabru {Il Canz. A, n. 66,
vv. 40-1): El tertz sahtis Eis de rahus, dove parrebbe aver valore di
"canneto,, non remoto da quello che gli attribuisce Raynouard,
Lex. Rom., V, 49*. Ma non sarà superfluo, in tanta incertezza, alle-
158 CESARE DE LOLLIS
gare a riscontro, se non altro per la identità materiale ilclle voci,
il passo di Raimbaut d'Aurenga presso Appel, Poésies prov. iiu'd.
tirées des tnss. d'Italie, in Rev. des langues romanes, XL, 410: Bics
hotn torna tosi en raus Can sufre c'om se inerat>ill, Qe . . . , dove
I'Appel, p. 411, annota: " raits, substautif wr&a^ de rausar, v. fr. reusar,
manque dans Raynouard „ e traduce : " Un homme riclie ne doit
point soutFrir qu'aucun reproclie fonde soit répandu contre sa maison „
— IX, 1. Corr. Quii vostre domnei[s] sahronda, e intendi: " che il
vostro donneare tlilaga tutt'intorno „. Nel Lex. Rem., IV, 372 *, è notato
solo sobrondar; ma sabranda, 3* ps. sg. ind., come qui, reca il Canz. A
in altro componimento di Marcabru (n. 70, v. 10; secondo C però,
in Mahn, Ged. 805, sobronda); e sabrounda reca il Mistkal accanto a
subrounda e sabrounda (s. sabrounda). 2-3. Leggi: E sembla joc azenin
E de loc en. loe ris canin: " e sembra gioco asinino, e, a tratti, riso
canino „. Scrivendo questi versi dovè Marcabruno aver presente la
favola dell'asino che volle, a mo' del cane, far delle smancerie al
padrone; che ad essa favola allude altrove, allo stesso proposito dei
" moillerat „ donneatori {Il Canz. A, 81, vv. 55-57): Semblan fant del
ase cortes Cab son seignor cuidet burdir, C'ar lo rie trepar ab sos ches.
Cfr. anche la poesia ivi attribuita a Pietro d'Alvernia, sotto il n. 1,
ai vv. 13-16: Viluns cortes eis de son sen E moillerat dompnejador ; E
Vases cainjet eissamen Quand vii lebrier ab son seignor. — x, 1-4. Da
questi versi di tornata, nei quali s'alhide a un'imminente crociata,
anche questo componimento si lascia ricondurre, come i più di Mar-
cabruno, al 1147 circa (cfr. Mkvkr, in Romania, Yl, 119 sgg.).
lY.
1, I, 3. E las tetinas daras ses tot...] il B. aggiunse in nota: " eud-
bait (V) con l che par cancellato „. Forse sarà da ri])ristinare einharc,
poiché occorre una rima in -are, essendo lo schema e le rime di
queste due stanze identici a quelli della canz. di Arnaldo Daniello:
Sim fos amors e del drventese dello stesso Bertrando: Non puosc
mudar. E sarà da intendere " poppe dure (daras tetinas già scrisse
Bertrando in Bassa, tant creis, v. 16; ediz. Stimming ', p. 203), senza
alcun intoppo „, cioè ben lisce. — ii, 1, pelarja] 1, pel arja = pelle
arida? (cfr. se non Vatarja del v. 1 di st. i, che potrà esser da *ad-
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 159
:rdiiir(\ il Lerga = Léridìi, di Guglielmo di l^M-gadan, presso MilA,
Los Troi\ en Esp. ', p. 317, ii.'' 18). Singolare, a ogni modo, che questo
pelarja minaeci di dar da fare alla critica quanto il capelaja dello
stesso trovatore in Bclh in'es quan rei camjar ; 3. enuart] Corr. ?
'ceorre una terminazione -are.
Il, I, 8. Per la forma duneha e per la combinazione duscha qiie cfr.
Li:vY, Suppl.- ìVtb. I, 291'. — II, 2. L. davall'e vai, e cfr. Mistral,
Tresor, dov e notato darala col valore di " dévaler ,, " descendre „;
4. corr. mentagut. — iii, 1. noill in posizione di rima è già al v. 1
di st. 1 ; 5. eeizinai] corr. aizinat ? e interpreta " sono alloggiati „ ?
(per so aizinar con tal valore cfr. Bartsch, Chi:*, Gloss., e Levt ,
Suppl. -Wtb. s. aizinar). E il passo si riconnetterebbe forse a quel che
precede, correggendo: [on] Ogiers, Raols de Cainhrai, \\ Rolantz *,
ab sa vertiit (?) || et Olitners son aizinat, || Estotz ecc. ; 6. estols] Sarà
VEstoHtz, eroe carolingio, ricordato anche da G. de Cabreira (cfr. Mila,
Los Troradores ^, p. 277, e Birch-Hirschfeld, Ueber die den proven-
zali.'ichen Troubaudoars bekannten epischen Stoffe, p. 73). E forse ba-
8terel.>l)e correggere in Estotz, forma che quel nome eroico pare as-
' sumesse nell'onomastica provenzale (cfr. V Estotz de Linars mentovato
a4 V. 81^2 della Crociata contro gli Albigesi, ediz. Mevkii) nos ristain]
■ >rr. rou 'ì'risfain'^ — iv, 2. Mancan due sillabe. Ma la seconda parte
del verso mi parreblie assicurata in: a Bocianvai, equivalente a un
a Roncesvau, con la terminazione così svisata a cagion di rima. E
poiché nel precedente verso Lérida e Verneuil parrebbero denotar
termini estremi in direzione di sud e nord, è proliabile che nella
prima parte del v. 2 s'annidi un nome di luogo che rispetto a Roncis-
valle rappresenti il termine opposto in direzione di est. Alle Alpi
non penserei, che sino ad esse par non si spingesse volentieri la to-
poiiiima.4ica dei trovatori provenzali; 4-5. Corr. portava, e cfr. lo
stesso B. de Boni in Mon chant fenisc (ediz. Stimmino ', p. 176): Que
tot: lo mons vos avia elescut Pel melhor rei que ano portes escut. —
v, 4. corr. i auria[n]. — vi, 1. funi] corr. farà'?; 2. hai] corr. ac'f;
3. Per eschai sost., col valor di " parte, porzione che tocca in sorte ,
rfr. Lkvy, Suppl. - 1(76. I, 137, s. escach; 5. si] corr. so'ì; 6. corr.
'Sc[i]cn; 7. Dividi: ntcni'a'i
160 CESARK DE LOLLIS
I, I, 3. L. non. — in, 1. L. meillur'en. — iv, 6. corr Blanr (ri-
conlati anche nella canz. No ningrada, dove A oftre anzi la miglior
lozione Blac) e Conian el Ros; e ct'r. la menzione simultanea di Comain
e Jilac in Villkhaudouix, Conquéte, ediz. Natalis de Wailly, p. 259;
7. corr. El Ture ci pajan ci Pcrsan. — vi, 4. Almassors, con valor
di titolo, occorre anche in Raimou Vidal, Abrill issi' e, presso Mila,
p. 345. — VII, 3. L. Miles de Burbcin, eh' è poi il Miles (Milone) //
Braibans così spesso ricordato da Villkharuouix, op. cit., e cfr. l'indice
in fondo al volume per le varie forme in cui tal nome vi occorre.
VI.
I, I, 5. corr. nat san = son nato, con perfetta antitesi al natz fon
di st. XI, V. 6. — II, 5. corr. cavai. — vi, 2. corr. nostra ? — vii, 3.
gel] corr. ges'i II senso dell'insieme parrebbe voler essere: " lo ac-
cusai, e non davvero a torto, di tradimento „. — viii, 3. corr. de
faitz non i ac nien.
II, I, 2. corr. Gauseran (cfr. st. v, v. 5). E certo lo stesso men-
tovato nella biografia provenzale di Peire Vidal (cfr. Chabaneau,
Biogr. p. 65), non che in un sirventese di B. de Born e relativa razo
(cfr. Stimming ^ pp. 86, 88, e 167). Figura anche in atti relativi a
cose di Catalogna dal 1191 al 1209 (cfr. Colección de docuinentos inéditos
del archivo de la corona de Aragón, Vili, pp. 87, 89, 108); 4. Pel
visconte Arnaldo de Castelbo, alleato di Ponce de Cabrerà (cfr. st. iv,
V. 6), v. la biografia provenzale di G. de Bergadan (Chab. p. 98),
VHist. gén. de Languedoc, VI, 198, 248, e Mila, Los Trovadores en
Espana ^, p. 289. — ii, 1. corr. dieii[s] . . .lo'ì ; 3. corr. nol'i; 6. le-
ni ett. — III, 5. corr. li'n valran. — iv, 4. /m] cfr. Lex. Ro)n.,Y, 444,
s. ne; 5. eu] corr. cn ; 6. Per Ponce de Cabrerà e i rapporti ch'ebbe
con lui il Bergadan, cfr. Mila ^, p. 289. — v, 2. Poig Vet-d] In un
atto dato ad Acrimonte nel max'zo 1209, publil. in Colección de doc.
incd. del Archiro de la Corona de Aragón, Vili, 108, trovo le firme
di un P. de Podioriridi e un G. de Podioviridi (un Arnaldiis de Po-
dioriridi figura inatto dell'agosto 1180, ibid., p. 63) che bastano ad
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 161
attestare l'esistenza di un tal nome di luogo nella toponomastica ca-
talana. — Ivi trovo pure notato un Guillelmus de Cerveillone (e a p. 34,
in atto del 1162 figura un Ugo de Cerviliotie) che fa riscontro al Cer-
villoti di n" III, st. V, V. 2, e un Berenguer de Petramola chu ci ac-
certa la genuinità del Petramola di questo stesso n° II, a st. v, v. 7
(un senescalcns Bernardus de Perumola occorre in atto del 1208; ibid.
p. 111). — VI, 1. Ponz Ugz] Certo: Ugo Pons de Mataplana; e cfr.
oltre il pianto dello stesso Bergadàn, presso Mila *, 314-315, la nota
dello stesso Mila, op. cit. a pp. 286-7; 3. far] corr, fai; 7. castellon]
Nessun nome di luogo più comune di questo. Ma non sarà superfluo
rUevar la firma di un Johannes de Colonia capellanus de Castilione in atto
del giugno 1174; Colección oìi.yvol. cit., p. 54. — vii, 1. Cartoon'] Del
visconte di Gardena è parola nel componimento che segue, st. 1,
V. 5. Ma sarà egli il Raimón Fole proditoriamente ucciso dal Berga-
dàn nel 1174? (cfr. Mila ^ p. 288).
Ili, I, 8. corr. cobrat, se broli che segue è, come pare, nome di
luogo ; 9. Guillem Baimon] Un Guillelmus Raimundi, dapifer, occorre
in un atto dell'aprile 1147 e in altro del luglio 1168 (cfr. Colección cit.,
voi. cit., pp. 29 e 41); 10. corr. busch'en. — ii, 2. Fra tsing e qom {= com)
suppl. [per valen]'h, 6. corr. anta; 7. corr. Bu[e]f. — m, 9. L. Vaterra.
-^ IV, S. Berrd\ Nome di luogo che il Bergadàn mentova anche al-
trove (cfr. Talans m'es pres, v. 24 ; in Mila *, p. 312) ; 7. corr. cor-
neilV ; 8. corr. corbs dreit[z]'i; 9. corr. el lignei ferra. — v, 1. Ge-
lida] Nome di luogo che occorre anche presso Olivieri il Templare ;
cfr. Mila 2, p. 382, e p. 380, n.
yn.
I, i, 6. Leggi: q'enmanentis ; 8. corr. d'enoi o d'enueg. — ii, 5.
corr. clama, invece del chamja proposto dal Bertoni? — iv, 1. corr.
a mes \toi] son...; 2. corr. creja; 4. dolran] corr. tolranì; 5. qe7i]
corr. qe en; 7. semble] corr. sebre.
vin.
I, i, 4. corr. E la plus avol vos a me g.; 5. corr. s'otn a si dons
l}orta[mas] fin' amanza; 8. leggi: q'aqi. — ii, 5. corr. Vamei eu mais'ì
E, con quel che precede, il senso sarebbe : " io l'amo più, il dieci per
Studj di filologia romanza, IX. 11
162 CESARE DE LOLLIS
uno, ohe mai l'amassi ,. — in, 8. Supplisci: Venjantz \i vensd\. —
IV, 3. corr. major ; 5. corr. que quim ; 8. corr. Ja [a] Deu... creenza. —
V, 6. corr. jagut; 7. corr. vencut. — vi, 2. vetz. vale qui " vezzo „,
" costume „, " abitudine „ (cfr. Lex. Rom. V, 531 '); 5. tant\ corr.
aital'i', 6. corr. perdut; 7. corr. agut.
II, III, 1. mi] corr. ni; 4. corr. Sitot. — vi, 1. suppl. [Ai] Deus...
Ili, I, 4. L. trai fe'i; 6. corr. sii; 8. suppl. qant [eu] viurai;
10. corr. don me. — ir, 3. suppl. [eu] vos ; 8. ira] corr. ere ? — in, 4.
corr. Xon puesc far ìnon. — iv, 5. ui] corr- ni; 7. corr. qeu. — v,
3. soppr. e; 4:. li. larges'.
IV, i, 2. L. ame; 3. corr. cum; 5. corr. cum... s'es [es]pres...; 6. L.
me te. — ii, 6. corr. noill. — ni, 2. atan] corr. tan. — iv, 1. suppl
grieu [m'es]; e per la costruzione grieu m'es car cfr. Guiraut de Bor-
nelh, presso Kolsen, G. von B., p. 86, vv. 57-8; 6. iois uir] corr, loil
tur. — V, 1. L. s'er; 2. Un punto ammirativo dopo chauzimen;
8. Dividi : tan ha ?
IX.
I, II, 3. corr. ... hem pogratz. — in, 4. si uos] corr. sius; 5. L. qu'ome'ì;
7. corr. non'ì — iv, 1. Interpungi: avez. Per qe?; 6. corr. tant[z];
9. L. notiqam. — v, 4. L. m' i ante (3* ps. cong. pres. di amenar);
5. corr. eu[s]. — vi, 1. se] corr. ò«? Mi par che il senso lo richieda,
quantunque già ricorra coll'identico valore avverbiale a st. in, v. 1.
X.
I, I, 5. Interpungi: ,tan nom pes ni m'albir; 6. uos] corr. vas. —
11. 2. Interpungi : e, qim sona, non enten son lengatge ; e cfr. Folchetto
di Marsiglia (Baetsch, Chr.,'" col. 121, 31 sgg.): Qu'om me parla,
maintas vetz s' esdeve, Qu'eu no sai que, Em saluda qu'eu non aug re ;
6. Interpungi e corr.: p>0''>'ti'^ m' en ai? eu non. Qu'' auzit ai dire. —
IV, 3. uisatge] corr. usatge; 6. qieu la] corr. q' ieul.
XI.
I, III, 3. eìianz e qui 1'^ ps. ind. pres. di enanzar. — iv, 6. corr.
cors {= corpus)? cfr. il v. 3 della stessa stanza. — v, 7. L. j^erdos.
II, ni, 8. corr. destreign el. — iv, 3. L. qom (= quomodo) s'eu ten[c];
5. L. a faire; 6. L. m' atalen.
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 163
XII.
I, I, 2. corr. en azir; 6. corr. s' e[syau2Ìs. — ii, 4. corr. domn'' egals;
5. ben] corr. bes ; 7. iious] corr. vos. — iii, 3. qcds] corr. gal.
XIII.
I, III, 2. L. ama on; 6. corr. que a niaint s'esdeve'ì 1 . h. Brahnanz
— IV, 1. corr. coinda e; 6. qe ve] corr. qe [el] ve.
II, I, 1. corr. . . . major . . . chaitius; 3. L. . . Badocs. — ii, 1. hrui\
corr. brius; 7. L. laisera. — iii, 1. corr. Francis] cavalier[s] . . . nomi-
natiu[s]; 2. Questo verso è il primo d'una ben nota canzone di Ram-
baldo di Vaqueiras {Grundr., 392, 28); 3. corr. larc[s\ e metenz e creis-
senz. — IV, 1-7. Correggerei e interpungerei così: lam dizias, Badocs,
can sias {= quando si fosse) viu[s] (vivo, s'intenda, come anima stac-
cata dal corpo morto) || Lo qals primer[s] mori{^s] ges de nos dos |) Tornes
a l'autre. Aitai tengr' ieu a vos |j . Coissi vos pot mortz ni al retener, \ )
Qe no sonest, qan vos vi en sognian'i II laus soner' eu. Er ai dig un
fati gran. || Amics, ben sai qe no'n avetz poder. Il penultimo verso po-
trebbe anche voler suonare: la eus soner\ eu crei. Dig un fail gran?
0 anche: Ja.;s soner' eu; crei eu dig u. f. g.
XIV.
I, I, 1. fui] corr. sui; 2. cfr. il verso dal Klein, Der Troubadour
Blacassetz, p. 12, lasciato fuori come spurio nella st. 1* del n. VI : jE7
gcrram piai, ses jamais en trengar (corr. treugar) ; 4. corr. ric[s] ;
6. L. qeren; 10. Non intendo; ma noto che sia 3" ps. sg. cong. ricompare
a st. IV, V. 5. — II, 2. corr. re[n]gatz; 3. bruis, pi. di bruit, pel quale
in questa forma e con questo valore di " mischia „ cfr. Levt, Suppl. -
Worterb. I, 170. Per la somiglianza poi con questo e il precedente
verso cfr. i vv. 22-3 dell'altra poesia già citata di Blacasset, ediz. cit.:
Bel in' es qu' ieu veja en un bel camp rengatz Els es ili nos, per tal
bruii ajostatz; 4. corr. lanzos, e cfr. il lanso che il cod. R offre nella
epistola in -o di Rambaldo di Vaqueiras, in un dei due versi coi
quali risponde al 19° della ediz. Schultz, Die Briefe des Trobadors
B. de V., p. 49 (nella notazione delle varianti). A proposito di che
Shidi di filologia romanza, IX. \v
164 CESARE DE LOLLIS
cfr. anche Crkscini, Ramhaut de Vaqiieirus et le Marquis Boniface de
Monferrat, (estr. dalle Annales du Midi), p. 28 n.; 5-10. Leggi e in-
terpungi : . . . e si eu temia || En aitai envazimen || Intrar, ges cel
qi ab sen \\ Creis son pretz emperial || Nom valgues, qe sohreval, \\
S' ieu per moti grat noi valia. — iii, 2. cocha ha qui il valor di
" mischia „ che manca affatto nel Lex. Rom. e dal Levt, Suppl.-
Wibuch, I, 271, gli è attribuito solo nella combinazione cocha f erida.
Ma cocha da se rasenta quel significato già presso Bertran de Born
(cfr. ediz. Stimming S n° 2, v. 48) la cui maniera questa poesia ricorda
assai da vicino (cfr. Klein, op. cit., p. 12); 10. corr. tengues <{= si
tenesse) tot (indeclinabile; cfr. Mkyer-Lubke, Gr. der rom.
Spr. in, 169). Non troppo ardita correzione sarebbe del resto: a sa
via. — IV, 4. corr. s' el; 5. Interpungi: temen, tem (1* ps. ind. pres.).
— V, 4. corr. vostre noìi ; 8. corr. fermai ?
n, I, 3. corr. pos moti cor me renovella"^; 6. nec] corr. ne^?; 8. corr.
nom . . . m'amjyar ... — ii, 1. Soppr. et; 2. L. enchapdeìla, quantunque
encapdellar non sia notato ne dal Ratnouard, ne dal Levy ; 5. capdel
sembra esser più col valor di " signoria „ " dominio ,, non notato
ne dal Ratnouard, ne dal Levy; 7. corr. d[e] autr' amor; iv, 7. nom]
corr. com? — v, 2. corr. q[e] a l. plaja. — vi, 2. 1. qar m'a; 3. corr.
q'en'?; 4. volvenz par qui avere il valore del solito camjanz; 5. L.
m' embri' en, e per embriar ondeggiante tra le accezioni di ' accre-
scere ,, e " avvantaggiare ,, cfr. Levy, I, 361-363; 7. corr. e gaugz'i
— vii, 1. L. s'enpren'ì
XT.
I, II, 4. rtm] corr. on; h. corr. no, se pure in quell'-s non si voglia
sentire l'uso pleonastico del pronome riflessivo con valore di dativus
commodi; piata] corr. p>lainha ; 8. Albaigna, nome di luogo. Cfr. P. Vidal:
...tart vetrai Orgo |j Nil rial Castel d'Albanha. — iir, 2. corr. marinier ;
5. corr. breg' et estragna. — iv, 5. Per bagadels che qui denota evi-
dentemente una specie di moneta, e manca così in Raynouard, Lex.
come in Levy, Sappi. - Wtb., cfr. Diez, Etym. Worterb. s. * bagatella „;
7. jaug] corr. jac'i o sarà da correggere in jauc e mandare in compa-
gnia di fauc, vane che occorre nel verso seguente, estauc'i; 8. corr.
compaignier e comjmgna, per cui v. Levy, I, 301. Ma il senso? — ■
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. 165
V, 6. corr. q'eì col e car' esmol (= exmolliet) quantunque non trovi at-
testato in nessun luogo un esmollar, e nel Rimario del Donato pro-
venzale (ediz. Stesctel, p. 54) appena trovi la mal sicura indicazione :
■ tnolhz, mélhz .i. perfundas umectews ,.
XVI.
I, II, 10. Supplisci : iemor ? — ni, 5. corr. qu'ill. — iv, 6. La forma
dolgatz invece di delgatz è legittima. Cfr. Appel, Chr., Gloss. s. del-
cad; e Levt, p. 62; 10. corr. sa ricor. — v, 2. plazens\ corr.?
XVII.
I, I, 1. Suppl. eu tra vos e ai; 2. corr. sen; 3. corr. entre qe son]
corr. vos? o, lasciandolo inalterato, corr. aues in vos e intendi conqes
per " conquistaste „ (2° ps. pf. ind, pi.)?; 4. L. af adesa? Ma un
sost. adesa da mandar col verbo adesar (cfr. Lex. Rom. II, 25^) non si
lascia altrimenti accertare ; 6. loroesa} È già al v. 2. Sostituisci dun-
que: gaieza o fermeza o nobleza; 7. suppl. [eu] davanti a prec;
8. soppr. e; 9. soppr. e dav. a plazens e suppliscilo dav. a valens. —
u, 2. qa] corr. qe; 5. corr. ìnal[s]. — in. 1. aten vuol essere in fin
di verso; 2. L. vos gen?; — iv, 2. cor chiude il verso; 3. cor
vorrà anche qui chiudere il verso? — viii, 1. iois e] corr. sol?; 2. non]
corr. mon.
XIX.
I, II, 5. L. m'afara = m'avvampa, e cfr. Levt, Suppl. -Wth. I, 64,
8. anfara; 6. L. m'amana, e intendi: amore me lo (il male) amman-
nisce. — III, 6. Tarar = glisser, chanceler, è notato in Gloss. Occ. s. v. ;
e cfr. Appel, Prov. Ined. aus Par. Hss. p. 331: E a tots bons compii-
ments \\ E valor qu'eii re nos vara. — v, 1. corr. trefans ; 5. corr. qe [e]u;
7. corr. soteirana. — vi, 1. L. m' agrana, e agranar, non registrato
nfe dal RocHEGUDE, ne dal Ratxouard, ne dal Levt, sarà lo stesso che
granar. — vii, 2. corr. iìn[s].
XX.
I, I, 2. corr. fessoti; 6. corr. no e viam ; 8. qaissim] corr. cossiin ? ;
• 9. corr. farà ? Circa faire a che seguito dall'inf. vale : esser d'uopo
166 CESARE DE LOLLIS
cfr, DiEz, Gr. '' 937, e Stimming, B. de Born \ p. 289, n. al v. 39,
— II, 1. suppl. \deu\ tra qi e languir; 2. corr, niarrit[z\; 5. L. enar-
dir; 6. corr. priin' ; 9. corr. ^oc. — in, 1. plus] coxx.'pus; Hizó\\j.vi
zo; 2. Punto interrogativo dopo grazir ; 3. Punto fermo dopo tion ;
8. Punto fermo dopo grazirai, e interrogativo dopo perqe. — iv, 4.
galiardor] corr. hailidor, in rispondenza al haillir del v. 9 e al bail-
litz del v. 1 di st. v?; 5. corr. ser. — v, 1. L. soil\ 2. L. éls oils;
3. hon{\ corr. han; tróbador~\ corr. rohador; 4. corr. e seti {o'.sai?)
qes'an jurat ? Ovvero, poiché la lezione di per è data come mal
sicura dal B., corr. e seti qe an jurat de m. de. ?; 5. corr. donc, voilVo
fio, coveti [me los] h. — vi, 5. d'onrat ; 9. corr. vostra.
II, I, 4. Suppl. [e] fra dir e mal; 6. Per captengn, col valore che
ha qui, cfr. Levy, Sujjpl. - Wth. I, 207 * ; 9. corr. teitig. — ii, 6. e fas\
corr. en far son'ì — in, 5. corr. vii e ratnpotiador, e cfr. Stichel, Bei-
tràge zur Lexicographie des altprovetizal. Verhutiis, p. 68, s. rampotiar.
— IV, 5. corr. q'el [volc] deseritar ; 6. L. Barut = Beirut ; e per
questa forma del nome, e per l'allusione storica, cfr. Levy, Cruilhem
Figiieira, p. 54, v. 44, e nota relativa apag. 97 ; 10. Mancan due sil-
labe. Suppl. [del tot] tra fon e cotitraire'ì — v, 3. corr. passat;
5. soppr. et. — vii, 10. L. a tnescap.
XXI.
I, II, 4. Suppl. tres[aur]; 6. corr. qis ha? — in, 7. Correggerei torti,
e interpreterei: " tal mette in non cale buona opportunità d'amore
novellamente conquiso, che quella, anziché rinnovarglisi, gli cessa „ .
Per ahans col valore di " piuttosto „ cfr. Levy, Suppl.-Wtb., I, 3'.
— IV, 2. Per dolgat cfr. sopra sotto il n° XVI, iv, 6; 3. corr. dura-
rial[s]; 4. corr. ni m'en tornava n. l. p.?; 5. corr. maniava; 7. corr.
duraria l'anz. — v, 6. corr. ni desvestit ab san tti.? — vi, 1. corr.
aii[t]r' aver ; 2-3. Qui è molta confusione ; tanto pivi che manca un
verso, quello che veramente dovrebb'essere il secondo della stanza,
e al quale è probabile appartenesse, in posizion di rima, il perdas
(in origine, forse, un percas?) malamente intrusosi in quel che qui
si denota come verso 3 e che in origine dovè esser quarto ; 2. sui
acoill] corr. ser vuoili?; 5. L. me cel (1* ps. ind. pres. di celar). —
vili, 1. fai{\ corr. fenh; 2. L. de s'ainor ras, e cfr. pel modo del-
PROPOSTE DI CORREZIONI ECC. i67
l'espressione, Raimon de Miraval, presso Bartsch, Chr. *, 152, 10 :
Qu'a pane de Joì no m'an ras; 3. corr. mourai.
XXII.
I, u, 4. dese. — in, B. ntil] corr. nil; 6. plaides m.a.nca, al Lex. Rom.
ma è notato nel Glossaire, s. v. , col valore , affatto conveniente a
questo passo, di * contraire „, " opposant ,, " adversaire „; 8. j^ere]
corr. pere, 1* ps. ind. pres. di perdre; e cfr. per l'uscita in -e, Stim-
MDiG, B. de Born^, p. 279, n. al v. 11 di n. 29; 10. seu] corr. s'en.
— IV, 1. siu's] corr. sisì ; 9. nen] corr. en; 10. tormen] corr. torn'en.
— V, 4. apres] L. a prez; 7. L. mala; 11. amoi's] corr. amor.
II, II, 1. nei\ corr. n'ai. — iv, 5. L. ia us {= unus); 6. corr. c'auzis. —
V, 3. sa per gaire] corr. sap gaire? Ma si noti che gaire occorre in
posizion di rima anche al v. 3 di st. vii. — vi, 8. corr. t'o[«]^ o
vol[h]; 4. L. ab me s n' an; 6. corr. aqi vo[i]l (o: vol[h]). — vii,
6. corr. e qan s'empren a t'enreqir.
XXV.
I, i, 6. corr. troban. — ii, 1. corr. Li croi baro; ma osserva che los
con valor di nominativo occorre di nuovo al v. 5 di questa stessa st. ;
5. los'\ corr. li; 6. corr. collector; 7. ers] corr. {h\ers\ crezanza] corr.
crezensa. — in, 6. corr. ancessor; 7. corr. rende[tz]... fat[t]... — iv, 2.
lum] corr. Vuns; 3. qil] corr. cil'ì... tenguessam] corr. tenguessan;
4. fei] corr. e feu seti sagramen e [ses] pUvensa ; 5. corr. C'a mal rie
home'i; aìdor] Sarà la stessa cosa che Vaitor (aiutatore) registrato nel
Glossaire? ma con quale preciso valore?; 7. taignienza col valore
fondamentale di " ciò che ad alcuno si spetta „ non è nei lessici.
Tenzoni.
I.
Ili, 2. ni] corr. mi; 8. eden\ corr. e de. — iv, 3. corr. qe Fiori,
el ten... Per la forma Fiori cfr. BrECH-HiKscHFELD, Ueber die den pro-
venzalischen Troubadours bekannten epischen Stoffe, p. 32; 8. corr.
e 'n Guillem[s]. — v, 6. corr. eus. — vi, 8. corr. Folc[s]. — ix, 2. corr.
segnar; 3. corr. q' e[s].
168 CESARE DE LOLLIS
II.
I, 1. corr. Jaufrez[et]; 3. Per gradaletz non registrato nel Lex. Rom.
cfr. Appel, Chr., Glos.,s. grazalet; 4. Manca una sillaba. Suppl. e tra
abelis e a? — li. 5. ne laii\ Il senso è : * ne esse a me „. Ma la mi-
sura del verso non comporta un ni elas, dove l' iato sarebbe inevi-
tabile (cfr. Pleines, Hiat und Elision im Provenzalischen, p. 67); né mi
par probabile un caso d'elisione : n' elas. L. ni 'las, e cfr. Bernart
Marti, presso Appel, Prov. Ined. aus Par. Hss., p. 30, v. 23 : ni 'stribotì
ni.
IT, 4. busnart] Lo stesso che husart = fr. buse, busart (Ratn. II,
272: s. huzac). Nome di un falcone di razza inferiore, par che poi pas-
sasse a significar " sciocco „; come attestano gli esempi che dall'ant.
fr. allega lo stesso Raynouard, e quel che del provenzale huzoc, sino-
nimo di husart allega il Levy, Suppl.-Wtb. I, 175^. Ma cfr. anche
GoDEFROY, Dictionnaire, dove si han le forme, più vicine alla nostra,
huisnart, huinard, biiignart, colla traduzione: " niais „, " imbécile „.
IV.
I, 4. Mancan due sillabe. Suppl. [vos o] tra ben e sabretz? — ii, 5.
corr. gai[s] dig[z] ; 7. Suppl. [eus] davanti a gardatz. — iii, 8. corr.
paor[s]. — IV, 1. C'è una sillaba di più. Soppr. ^e?'? — v, 3. L. qem.
V.
II, 4. lar] corr. l'aver "i; 8. L. Vavia. — in. 6. corr. envia, forma che
manca nel Lex. Rom, e nel Suppl.- Wtb. del Levy, ma è attestata dal
Gloss.; 7. mais] corr. inai; 8. corr. si. — rv, 1-2. Mi son poco chiari.
Ma sospetto che beus vada corretto in bes, e noto che jojos occorre
già in posizion di rima al v. 4 di st. I; 7. corr. major.
VI.
I, 3. Suppl. [amis]; 4. corr. /'«[t]r[e] sa[s]; 7. L. q'enver.— ii, 1. Car des]
L. Cardos ; 3. L. perqe fos a ; 4. corr. faria ?; 8. per qam] corr. que am.
— Ili, 3. corr. jorn{s]. — iv, 1. qe{n)\ corr. q'eu. — v, 5. podoti] corr.
pot on; 6. sor = " sopra „, manca in Lex. Rom., ed è dall' Appel,
nel Glossario alla Chr., messa sul conto di testi non schiettamente
PROPOSTE DI CORHEZIONI ECC.
169
provenzali; 7. ses plag] corr. sim platz qil .. . partimen. — vi, 3. corr.
lo[s] ; 4. Suppl. es lauzatz o es pojatz o es prezatz ? ; 5-6. de gran cor
" sehr geme ,, nota il Levt, Suppl.-Wtb. I, 358'; e se come a me par
di fiutare, gaug entier, che andrebbe quindi ridotto a caso retto, è
il soggetto di pot, neir ultima parola del v. 5 s'anniderà un sost.
terminante in -ansa piuttostochè una forma verbale di 3" ps. ind. pres.
Ma quale ? Nessun lessico registra un sostantivo eslansa, che io però
quasi ravviserei in un verso di Gaucelm Faidit variamente interpre-
tato dallo Chabanead, Varia Frovincialia, p. 26, v. 47, e n. 8, e dal
Le^-y, Suppl.-Wtb. I, 232'. Non sarà ivi da leggere: El laiss'a (e
ancor meglio : Eslaiss'a) tot' eslanza V arm' e lo cor, Vaur e l'aryen ;
e da intendere : Caccia via da se a tutto slancio (cioè : coli' impeto
della disperazione) l'anima e il cuore ecc.? Ma anche quando mi si
desse per certo questo eslansa sost., non saprei come incastonarlo
nel verso della presente tenzone.
VII.
I, 10. qe] Suppl. qe['l moti]'ì — ii, 3. qeistas] corr. jiitgar'ì; 6. iois]
corr. joi', 7. fos\ corr. fo? — ni, 5. né] corr. no; 10. corr. nul[s\ majer
jois. — IV, 5. nel] corr. noi; 6. meizo] corr. maizo.
YIII.
I, 1. corr. cossius vai; 6. an] corr. an[z], e 1. e 'n dechai; 8. el]
corr. e\i\l. — ii, 6. ho o] corr. oc, e 1. s' i trai. — ni, 1. corr. Gui,
'Is sieus; 8. sagai] corr. Algai, e intomo ai famosi banditi così
chiamati cfr. Bertran de Bom, 2, ediz. Stimming S v. 53 ; la relativa
razos, ibid. p. 107, e la nota dello stesso Stimming, a p. 233. —
IV, 6. non] corr. [a]noti'i — v, 3. e] corr. [e]H. — vi, 1. voi mai] corr. i
lolgra mai; 3. Inserisci * tra non e metrai.
IX.
i, 8. corr. tot{z] mos comandanien[z] ; 9. corr. monegue[s]. — ii, 4.
refugat] corr. refudat, se pur non sia risultanza di una contaminazione
con FUGAHE agevolata dall'altra forma refuidar che registrano e il Lex.
Rom., e il Glossaire. Quest'ultimo poi registra refiii colla doppia acce-
zione di * refuge , e " refus „; 6. foni] corr. fai; ufana col valore che
170 CESARE DE LOLLIS
qui si richiede non è notato nel Lex. Rom.; si però nel Glossario della
Chr. dell' Appel, dov'è anche reso per " Schaustellunpf „ " Pracht , ;
7. corr. pro[s] dom7ia[s] conoiscen[z]; 8. corr. fai Jiotn e ric[s] conduit[z]
e gen[z\'ì; 9. Proporrei di correggere: Per q'aitan amor{s^nos a dat,
e d'interpretare: perchè tanto amore ci ha commesso. Per accezioni
di dar non remote da questa che qui si adotta cfr. Levy, Suppl.- Wtb.
8. dar. — III. 2. L. mais a d.; 3. corr. autr'' ochaizon ; 8. domentz in
luogo di dementre manca nel Lex. Rom., ma è notato dal Rochegude,
Gloss., e dal Baetsch, Chr., Gloss., s. domens. Ma senza riscontro è per
me l'uso assoluto che qui se ne fa nel significato di: " frattanto „. —
IV, 1. bìizat, in questa forma diversa dall'altra già precedentemente
rilevata (cfr. Tenz. Ili, st. iv, v. 4 e nota relativa) manca nel Lex. Rom.,
ma è notata nel Suppl.- Wtb. del Levy, ai cui due esempj s'aggiunga
il terzo, di Marcabru in Canz. A., n° 60, v. 41 ; 2. et] corr. ni ? — iv,
5. bazana] Interpreta? Il basan notato dal Levy, I, 130^, con un unico
esempio di Marcabru, ha piuttosto l'aria d' essere un sostantivo ;
8. corr. d'avoìs] 9. barai, col significato che qui gli converrà di
" modo di fare „ " tratto „, ovvero " stato „, " condizione „, non è
registrato né nel Lex. Rom., ne nel Suppl.-Wtb. Ma il Godefeoy as-
segna alla voce barate, oltre ai significati di " désordre „, " confusion „,
" tapage „, comuni a barai, quelli di " éclat „, " étalage „, " élégance
recherchée ,.
Cesare de Lollis.
BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
RECENSIONI
Comedia de Calisto y Melibea (unico testo autentico de la " Celestma ,)
reimpresión publicada por R. Follché-Delbosc. — Barcelona-Ma-
drid, 1900.
Il signor Foulehé-Delbosc, indefesso cultore degli studii spagnuoli,
ci dà in un elegante volumetto della sua Bìbliotheca Hispanica una
ristampa della Comedia de Calisto y Melibea, opera famosa del sec. XV,
secondo l'edizione che ne fu fatta a Siviglia nel 1501. Questa ristampa
l' motivata e commentata in un articolo pubblicato dallo stesso au-
tore nella Revue Hispanique (1900, pagg. 28-80).
Numerose sono le edizioni della Comedia de Calisto y Melibea chia-
mata anche Tragicomedia de Calisto y Melibea, oppure Celestina. Il
sig. F.-D. le divide in cinque gruppi.
11 primo gruppo lo forma Veditio princeps tuttora sconosciuta.
Il secondo comprende l'opera in sedici atti aumentata di argomenti
al principio di ogni atto. Di questa edizione, stampata, forse, da
Fadrique da Basilea (Federico Biel) a Burgos nel 1499, si conosce un
unico esemplare privo del titolo e che sinora non si è potuto stu-
diare a lungo. È descritto nei cataloghi delle vendite Heber, de So-
leinne, Taylor, Seillière. Nel 1895 ne era proprietario il libraio
Quaritch che ne chiedeva il buon prezzo di cento quarantacinque
libbre sterline. Salva e gli altri bibliografi che si sono occupati del-
l'argomento considerarono l'edizione creduta del 1499 come Veditio
princeps. Brunet nella quinta edizione del suo Manuel du libraire dice :
Si la date de l'exemplaire décrit était exacte, c§ serait là l'édition
la plus ancienne. Il a été acquis au prix de 2 liv. 2 sh. pour
" M. de Soleinne, et depuis payé 409 frs. à la vente de cet amateur.
* Toutefois il fut constate alors que le dernier feuillet portant la
* marque (reportée) de l'imprimeur, avec la date 1499, était d'une
impression moderne imitant d'anciens caractères, mais sur un papier
" dont les vergeures laissaient apercevoir la date de 1795, preuve
" trop certaine d'une fraude qui probablement avait déjà été re-
* connue à la vente Heber, ce qui aura empèché les enchères de
" s'élever „ (voi. I, col. 1715-1716).
172 BULLKTTINO BIBLIOGRAFICO
Il terzo gruppo lo forma l'unico esemplare dell'edizione di Siviglia
(1501), che trovasi nella Biblioteca Nazionale di Parigi e che viene
scrupolosamente riprodotto nel volumetto della Bibliotheca Hispa^iica.
Contiene la Comedia de Calisto y Melibea, in sedici atti, cogli argo-
menti, colla lettera dell'autore ad un amico e coi versi acrostici. Alla
fine sono stampate le ottave di Alonso di Proaza corrector de la
impresión.
Il quarto gruppo aggiunge all'opera un pròlogo, cinque atti nuovi
e tre ottave alla fine (Siviglia, 1502).
Nel quinto ed ultimo gruppo la comedia è aumentata di un atto
nuovo.
11 F.-D. osserva che nell'edizione del 1501 si leggono dopo il titolo
le seguenti parole : con sus argumentos nuevamente anadidos. Secondo
lui queste parole sarebbero la copia esatta di quelle che si trova-
vano sul titolo perduto dell'esemplare Heber e così crede dimostrata
l'esistenza di una edizione senza argomenti e quindi anteriore a quella
del (?) 1499. Per appoggiare questa sua ipotesi F.-D. invoca la testi-
monianza del pròlogo dell'edizione in venti atti del 1502, ove è detto:
" aun los impresores han dado sus punturas, poniendo nibricas o su-
" marios al principio de cada acto, narrando en breve lo que dentro
" contenia: una cosa bien escusada, segun lo que los antiguos escri-
" tores usaron „.
A noi non sembra con ciò dimostrata l'esistenza di una edizione
anteriore a quella detta del 1499 e che non avesse argomenti. Di
fatti, se l'Autore nel prologo dell'edizione in venti atti del 1502 dice
che gli stampatori aggiunsero delle rubriche, questo può benissimo rife-
rirsi a tutti coloro che stamparono la comedia, ossia allo stampatore
del 1501 ed a quello dell'esemplare Heber. È come se l'Autore
avesse detto : io nel mio manoscritto non scrissi gli argomenti, ma
gli stampatori, seguendo una vecchia abitudine, ve li hanno aggiunti.
Il signor F.-D. fa dell'edizione sivigliana del 1501 il tipo del terzo
gruppo, perchè non crede possibile che la lettera dell'autore ad un
amico ed i versi acrostici abbino potuto figurare sul verso del foglio
che manca al primo quaderno dell'esemplare Heber.
È certo che il solo verso del foglio I non sarebbe bastato per con-
tenere la lettera, l'argomento generale ed i versi acrostici. Ma quel
che non poteva figurare sul solo verso, poteva bensì occupare il foglio
tutto intero.
11 carattere, come l'osserva l'Autore in una nota, poteva essere
pili piccolo che nel resto del volume. E poi non vi è ragione di cre-
dere che il recto del primo foglio sia stato occupato da una incisione
giacche ne troviamo una sul fol. a ij. Non sappiamo se veramente
possa attribuirsi l'esemplare Heber a Federico Biel, ma se lui fu lo
RECENSIONI 173
stampatore di questa edizione della Comedia de Calisto y Melibea si
può ammettere che la stampò senza portada come accadde col Libro
de Ics Santos Angeles (1490) del Ximenez *). L'ultimo quaderno del-
l'esemplare Heber è di soli quattro fogli, e di questi l' ultimo fu
rifatto. Non è quindi impossibile che si potessero leggere, in fine di
im esemplare completo dell'edizione del (?) 1499, le ottave al lettore
di Alonso de Proaza corrector de la impresión.
Discorrendo così vogliamo indicare "soltanto che a noi non pare
provata l'esistenza di una edizione anteriore a quella dell'esemplare
di Heber. E crediamo pure che, sino a che non salti fuori un esem-
plare intatto, fratello di quello della collezione Heber, non si potrà
affermare che ci sia una differenza fra l'edizione creduta del 1499 e
quella del 1501.
Vediamo ora quali sono le ipotesi del F.-D. intorno all'autore
della Comedia de Calisto ij Melibea. Egli crede che i sedici atti del-
l'edizione da lui riprodotta siano di un autore, ed i cinque atti nuovi
aggiunti nell'edizione del 1502 di un abile imitatore dello stile del
primo autore.
Secondo il F.-D., la lettera dell'autore ad un amico come anche i
versi acrostici possono attribuirsi a Alonso de Proaza. Questa attri-
buzione ci sembra fondata. Crediamo pure, con F.-D., che il nome
del bachiller Fernando de Eojas nascido en la pnebla de Montalvan,
messo avanti nei versi acrostici e creduto sinora, sulla unica loro
fede, il nome dell'autore della Comedta sia una pura invenzione. Ma
giacche siamo in piena ipotesi perchè fermarci a mezza strada?
Pare verosimile che Alonso de Proaza sia stato l'inventore del
bachiller Fernando de Rojas, così si spiegherebbe che lui solo abbia
conosciuto il nome di questo bachiller, del quale si sa solamente ciò
che lui ne dice. E perchè non sarebbe stato questo Alonso de Proaza
il vero autore della Celestina, della lettera, del prologo, e della
continuazione, che, malgrado le ingeniose osservazioni del F.-D., se-
guitiamo a credere opera di uno stesso autore. Del Proaza sappiamo
che fu poeta, giacché sette poesie di lui figurano nel canzoniere ge-
nerale di Hernando del Castillo; Nicolas Antonio parla di lui (B*.
H*. N*. I, pag. 42) ed il F.-D., che, in una nota, raccatta tutto ciò
che si sa di lui, cita il principio di due preguntas di H. del Castillo
che lo chiama : . . . vos que soys prima de los inventores e Discreto
prudente en metros y prosa.
Il signor F.-D. giudica la Comedia de Calisto y Melibea in sedici atti
più perfetta di quella in vent'un atti, egli dice che Vadicionador ne
') Mendez-Hidalgo. Tipografia Espanola, pag. 134.
174 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
ha distrutto rarmonia e che insistendo su certi momenti dell'azione
ha sciupato in molte parti l'efifetto prodotto dalla lettura della Co-
media nella sua prima forma. Su tutti questi punti ha ragione l'edi-
tore del testo del 1501, ma ciò non basta per negare che l'autore
stesso della commedia in sedici atti non l'abbia rifatta in vent'uno.
Molti scrittori antichi e moderni commisero tali errori di gusto. Per
aggradare al publico l' adicionador ha intercalato, fra l'atto XIV
e l'atto XX, cinque atti nuovi facendo dei primitivi atti XV e XVI
gli atti XX e XXI. Il perchè ce lo palesa nel prologo, ove scrive
che, ascoltando le discussioni suscitate dall'opera sua, conobbe il
desiderio della maggioranza dei lettori : " Asi que , viendo estas
' coiitiendas, estos disonos y varios juicios, mire adonde la mayor
" parte acostaba, y halle que querian que se alargase en el proceso
" de su deleite destos amantes, sobre lo cual fui muy importunado ;
" de manera que acordé, aunque contra mi voluntad, meter segunda
" vez la piuma en tan estraiia labor y tan ajena de mi facultad,
" hurtando algunos ratos à mi principal estudio, con otras horas
destinadas para recreacion, puesto que no han de faltar nuevos de-
" tractores à la nueva adicion „.
Il F.-D. osserva che la maggior parte delle aggiunte sono ampli-
ficazioni, accumulazioni di proverbi e di aforismi popolari, nota pic-
cole modificazioni nei caratteri dei personaggi e specialmente in
quello di Melibea che esce dalle mani àolV adicionador un poco vol-
garizzata.
Ma lo stesso F.-D. riconosce l'unità dello stile che è tale da non
permetterci di ammettere due autori distinti. L'opera ha perduto
gran parte del suo merito artistico e letterario nella trasformazione,
questo è certo. La commedia in sedici atti, tale e quale la ristampa il
F.-D., è, innegabilmente, fatta di getto, ma ciò non impedisce che il
rifacimento non sia opera della stessa penna.
L'autore della Comedia de Calisto y Melibea narra nella sua lettera
ad un amico che egli trovò il primo atto del lavoro scritto da un
antiguo autor e che avendolo letto e trovandolo buono fece suo l'ar-
gomento e si mise a finire l'opera.
Questa storia viene considerata dai critici come uno stratagemma
usato dall'autore per nascondersi meglio. Il F.-D. pure considera
y antiguo autor come una mera invenzione. È certo che se si dovesse
ammettere che il Mena, il Gota od un altro abbino scritto il primo
atto di questa commedia, bisognerebbe riconoscere che il vero autore,
per adattarlo ai seguenti, l'avesse rifatto completamente sino a scan-
cellare affatto l'impronta àeW antiguo autor.
L'articolo del F.-D. è accompagnato di nove appendici dedicate
allo studio delle varie edizioni, vere o supposte, della commedia.
RECENSIONI 175
come pure allo spoglio dei passi dell'edizione del 1501 che non si
ritrovano nelle edizioni in ventun'atti, e allo spoglio delle modifica-
zioni fatte dsdV adìcionador al testo primitivo. Questa parte del lavoro
del F.-D. sarà apprezzata da tutti i bibliografi.
Alla fine delle sue Observations sur la " Célestine „, il nuovo editore
della commedia dice : " Les conclusions de la présente étude peuvent
se formuler comme suit:
* Les seize actes de la Comedia de Calisto tj Melibea sont d'un
seul auteur. — Cet auteur est inconnu. — Il est reste entièrement
* étranger aus additions successives que son oeuvre a subies „.
Abbiamo detto come e perchè accettiamo le due prime conclusioni
del dotto critico francese, ma in quanto all'ultimo punto il F.-D. non
ci ha convinti.
Tutti gli amici delle cose di Spagna saranno grati al F.-D. di
avere risuscitato l'interesse degli studiosi per la Celestina, e di averci
dato, di questo capolavoro della letteratura castigliana, una edizione
purificaia che ci rende l'opera nella sua prima e più bella forma.
Egli ha fatto vera la parola del Moratin che diceva: " Un hombre
" inteligente haria desaparecer los defectos de la Celestina, sin anadir
* por su parte una silaba al texto „ '). Mario Schiff.
Dante' s references to ^sop by Kenneth McKenzie — Boston, Giun and
Comp., 1900.
Il profossore Kenneth McKenzie ha pubblicato quest'opuscolo (estratto
dalla Diciassettesima relazione annuale della Società dantesca di Cam-
bridge, Mass.), nel quale prendendo le mosse dalla favola del gallo e la
margherita, alla quale si allude nel Convito, IV, 30, e da quella del
topo e della rana, accennata nelì'Inf., XXIII, 4-9, intende a determinare
la raccolta o le raccolte di favole esopiche che Dante ebbe per le mani.
E la sua conclusione è che a Dante furon familiari le due rac-
colte medievali del cosiddetto Romulus, in prosa, e l'altra, in distici,
che poi dall'edizione del 1610 fu detta dell'Anonimo di Neveleto. Salvo
però ad aver Dante preferito, nel primo dei due passi citati, la pa-
rola abbastanza rara " margarita „, offertagli da Romulus, e che in
più luoghi del divino poema gli ricorre sotto la penna per influsso
del testo della volgata : " neque mittatis margaritas vestras ante
porcos „ (Matt. VII, 6).
*) Il professore K. Haebler di Dresda, oggidì il primo conoscitore
di storia della tipografia in Ispagna, mi scrive che ha potuto final-
mente ottenere dalla casa Quaritch una fotografia del famoso esem-
plare Heber. Egli ha riconosciuto che i caratteri di questo libro ap-
partengono a Federico Biel.
176 BULLETTINO BIBMOGRAFICO
Nell'altra raccolta di favole esopiane. dovuta a Marie de France, si
legge : " una chiara gemma , ; o per ciò pare infondato all'A. il so-
spetto di Pagot Toynbee che Dante, nel passo del Convito, ne sentisse
l'influsso. Ma non sarà forse fuor di proposito ricordare il " cara
gioia „ dantesco del Farad., IX, 37 e X, 71. Cesark de Lollis.
NOTIZIE
Studi latini. — F. Lora ha pul)l>licato un Saggio sintattico-compa-
rativo su S. Gerolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, come contributo allo
studio delle lingue neolatine (Padova, Gallini, 1900). Su Venantms
Fortunatus, considerato quale poeta d'occasione, ha una notevolissima
memoria Guglielmo Meyer di Spira, edita nelle Ahhandlungen della
R. Soc. di Gottinga, N. Sez., voi. IV, fase. 5. G. Mari ha dato in luce,
nelle Romanische Forachungeìt del Vollmoller, voi. Xlll. la Poetria
magistri Johannis anglici de arte lirosayca, metrica et rithmica, ora per
la prima volta restituita nella sua integrità.
Lingua romana. — Nei Rendiconti del R. Istit. Lombardo di se. e
lett. a. 1900, il Novati, prendendo a esaminare la Vita di S. Mom-
moleno, che solevasi citare, dal De Reiticnberg in poi, come la più an-
tica testimonianza ove si parli di lingua romana in contrapposizione
del latino grammaticale, revoca in dubbio la molta antichità attri-
buita a quella vita e fa rilevare che ad ogni modo il passo tante
volte citato suona ben diversamente nel testo autentico di quella
Vita. Gf. Crescini in Atti del R. Istit. Veneto di se. lett. ed arti,
a. 1900-1901, p. 443 e segg., e G. Paris in Romania, XXIX, 638.
Negli stessi Rendiconti poi il Novati richiama l'attenzione sopra
un passo di una lettera di S. Colomba (a. 613), ove si avrebbe una
allusione al volgare d'Italia. Cf. sulla questione G. Paris in Romania,
XXIX, 638, e Crescini, Atti del R. Ist. Veneto, 1900-1901. p. 444 e segg.
Volgare j)reletterario. — V. De Bartholoma?is ha iniziato, nell'^r-
chivio dell'Ascoli, una serie di Contributi alla conoscenza de' dialetti
dell'Italia meridionale, s])Og\ìiindo gli elementi volgari che s'incontrano
nel'Codex diplomaticus cavensis ', una raccolta che comprende poco
meno che duemila pergamene originali dall'a. 792 al 1064. 11 lavoro,
condotto con pieno possesso e sicurezza di metodo, desta vivo desi-
derio che l'A. continui presto l'opera passando all'esame degli altri
cartularj di quella interessantissima regione.
Anche il prof. G. Suster, nella rivist-.c Tridentum del 1900, ha pub-
blicato uno spoglio degli elementi volgari da lui osservati nelle carte
latine di Valsugana Bassa ; ma i documenti da lui spogliati non sono
più antichi dei sec. Xllt e XIV, e la indipendenza con cui egli pro-
cede rispetto al metodo, è cagione che le sue conclusioni non risul-
tino sempre abbastanza assodate.
NOTIZIE 177
Studi d'italiano. — La casa editrice E. Loescher ha pubblicato una
edizione italiana della Italienische Grammatik del Meyer-Liibke. Questa
edizione si avvantaggia sulla tedesca per esservi tenuto conto di tutti
i progressi della scienza dal 1894 in poi ; ma sottostà ad essa in quanto
che vi fu soppressa tutta la parte che riguardava i dialetti non to-
scani. Il lavoro fu eseguito da due allievi del M. L., i dottori Matteo
Bartoli e Giacomo Braun, del primo dei quali i lettori degli Studi
conoscono già un buon saggio critico pubblicato nel precedente volume.
A Berlino, presso l'editore B. Behr, ha veduto la luce un diziona-
rietto tascabile del dott. Sabersky, inteso unicamente a istruire i
tedeschi sulla retta accentuazione delle parole e sulla qualità delle
vocali accentate nella pronunzia dell'italiano.
Letteratura predantesca. — Mentre in questo stesso fascicolo esce un
nuovo inedito latino di Bonvesin di Riva, la Società filologica romana
ha cominciata la pubblicazione dei due poemi volgari pure inediti
del medesimo autore, il Libro delle tre Scritture e il Volgare delle
Vanità a cura di Vincenzo De Bartholomseis, dei quali erasi dato in
questi Studi un preannunzio (Vili, 635); ed Emilio Teza ha esumato,
negli Atti e Meni,, della R. Accad. di Padova, voi. XVI, p. 311 e segg.,
un curioso rifacimento in prosa dell'altro poemetto bonvesiniano Le
cinquanta cortesie da tavola, tratto da un raro incunabolo s. a. stam-
pato a Milano.
Nella Flegrea del giugno 1900 R. Ortiz scrive alcune pagine sulle
poesie 261-268 del Cod. Vat. 3793 attribuite a Ciacco dell' Anguillara.
Negli Studi di letter. ital., voi. Ili, N. Zingarelli pubblica uno studio
sui Trattati di Albertano da Brescia in dialetto veneziano e ne dà al-
cuni saggi arricchiti di un'accurata analisi grammaticale.
Studi danteschi. — Fra le molte pubblicazioni segnaliamo : il bel-
lissimo volume di Francesco D'Ovidio, Studii sulla Divina Commedia,
Palermo, Sandron, 1901, ove l'A. ha riunito molti suoi scritti dan-
teschi usciti di già in vari periodici e che qui ricompaiono quasi
tutti più 0 meno rimaneggiati, arricchiti di appendici e accompa-
gnati da scritti nuovi; il volume di Angelo De Gubematis, Su le orme
di Dante, Roma, 1901, che compendia tutto un corso di lezioni fatte
dall'eminente catedratico su Dante nella Università di Roma ; le due
note di Michele Scherillo, Il nome della Beatrice amata da Dante (in
Bendic. dell'Istit. Lomb. a. 1901) e Matelda svelata (in Riv. d'Italia,
nov. 1900); gli articoli del D'Ovidio e del Parodi Sulla epistola a
Cangrande, editi il primo nella Riv. d' Balia, settembre 1900, il secondo
nel Bullett. d. Soc. Dant. Ital., voi. Vili; la memoria di Gino Chia-
rini, Dante e una visione inglese del trecento, edito nella Biv. d'Balia,
marzo 1901. Ved. anche qui appresso in Misceli. D'Ancona.
Miscellanea D'Ancona. — Dal bel volume che antichi scolari ed
amici hanno dedicato ad Alessandro D'Ancona, festeggiandosi il qua-
rantesimo anniversario del suo insegnamento, notiamo : C. Frati, Un
Codice autografo di Bernardo Bembo ; G. Paris, La source italienne de
la " Courtisane amoureuse „ de la Fontaine; P. Rajna, Una questione
d'amore; F. D'Ovidio, Ancor dello zeta in rima; G. Mazzoni, Se possa
il Fiore essere di Dante Alighieri ; L. Biadene, La rima nella canzone
italiana dei secoli XIII e XIV; F. No vati, Sopra un'antica storia lom-
barda di Sant'Antonio di Vienna.
178 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
Miscellanea Ascoli. — Già annunziammo (Vili, 636) la preparazione
di quest'altra raccolta destinata a festeggiare il giubileo scientifico
di Graziadio Ascoli ; qui richiamiamo l'attenzione su gli scritti ivi
pubblicati che più direttamente interessano la filologia romanza:
P. Rajna, La lingua cortigiana; C. Nigra, Il dialetto di Viverone;
P. G. Goidanich, Intorno al dialetto di Campobasso ; C. Salvioni, Eti-
mologie; L. Biadene, Note etimologiche; G. Paris, " Ficatum , en roman;
E. G. Parodi, U tipo italiano aliare, aleggia; E. Gorra, L'alba bilingue;
V. Crescini, Dell'antico frammento epico bellunese; J. Cornu, Estoria
Troyùa acabada era de 1411 annos (1373).
Dialetti italiani. — Siciliano : R. La Rosa, inizia una serie di Saggi di
morfologia siciliana con un fascicolo sui sostantivi (Noto, Zammit, 1901).
— Abruzzese : G. Finamore, ha pubblicato una bella serie di Proverbi
abruzzesi nelle Rom. Forschungen del Vollmoller, t. XI; V. Ranalli,
in occasione di nozze, ha dato in luce un manipolo di Poesie in dia-
letto di Città S. Angelo (prov. di Teramo); L. Anelli ha cominciato a
pubblicare un Vocabolario Vastese, Vasto, tip. Anelli, 1891 ; la stampa
n'è giunta, colla lettera C, alla pag. 90, e a lavoro compiuto ne ri-
parleremo. — Veneto: Il dott. U. Levi, allievo del prof. Crescini, sotto
il titolo / monumenti più antichi del dialetto di Chioggia, Venezia, Vi-
sentini, 1901, dà il testo di tre antiche mariegole chioggiote e ne
illustra la grammatica e il lessico. — Triestino : Il dott. G. Vidossich
rvQÌÌ'Archeogr. Triestino di quest'anno ha cominciato a pubblicare al-
cuni Studi std dialetto triestino che promettono assai bene del giovane
autore. — Ladino : Sulle Germanische Bestandtheile des ratoroman.
(surselv.) Wortschatzes il dott. P. Genelin pubblica uno studio nel
Programma del Ginnasio d'Innsbruck per l'a. 1899-1900.
Topoìiomastica. — E. G. Bonner, La toponomastica italiana negli an-
tichi scrittori tedeschi, Palermo, 1900 ; D. Olivieri, Nomi di popoli e
di santi nella toponomastica veneta, Venezia, 1901; ma sopratutto in-
teressanti le Noterelle di topon. lombarda che Carlo Salvioni vien pub-
blicando nel Bollett. star. d. Svizzera italiana (1890, '99, '900), e, del
medesimo, Dei nomi locali levantinesi in -éngo (ivi, 1899); inoltre,
C. Avogaro, Appunti di toponomastica Veronese, Verona, 1901 ; G. Cro-
cioni. La topoìiomastica di Velletri, Roma, 1901.
Studi francesi. — P. Marchot, della Università di Friburgo in Sviz-
zera, ha cominciato a pubblicare una Petite phonétique du fran^ais
prélittéraire (VI-X sec), trattando in questa prima puntata del vo-
calismo (Fribourg, Weith, 1901). M. Wilmotte, della Università di
Liegi, ha comunicato al Congresso di Storia comparata tenuto a Pa-
rigi l'anno scorso, una interessante nota su l'éUment comique dans le
théàtre religieux (Macon, Protat, 1901). Sotto il titolo Pohnes et
légendes du moyen àge G. Paris ha riunito, rendendole così accessibili
a tutti, sette delle sue memorie già pubblicate in efiemeridi diverse.
Sono: La Chanson de Roland et les Nibelungen; Huon de Bordeaux;
Aucassin et Nicolette; Tristan et Iseut; Saint Josaphat; les sept In-
fants de Lara ; la " Romance mauresque „ des Orientala. A G. Paris,
dobbiamo ancora un bel volume su Francois Villon, inserito nella
collana dei Grands écrivains francais.
Studi provenzali. — N. Zingarelli, negli Annales du Midi, t. XIII,
dà il testo da lui ricostituito criticamente del Romans de San Tra-
NOTIZIE 179
feìne. Altra edizione critica è quella che P. Savi-Lopez ha comu-
nicata alla Accademia Reale di Napoli, voi. XXI, della Novella pro-
venzale del pappagallo di Arnaut de Carcasses, premettendovi un'ampia
introduzione storico-letteraria e soggiungendovi osservazioni gramma-
ticali, di versificazione, ecc.
Studj spagnoli e portoghesi. — 11 prof. F. Hanssen, del quale già
annunziammo alcune pubblicazioni di antico spagnolo (Vili, 172), ha
messo in luce altre monografie che tutte recano nuovi e pregevoli con-
tributi alla storia della lingua in Ispagna durante il medioevo. Nei
Verhandlungen des Deutschen Wissenschaftlicìien Vereins di Santiago de
Chile, 1897: Das Possessivpronomen in den altspanischen Dialekten;
1898: Ueber die altspanischen Priiterita von typus ovq pude; 1900: Zur
spanischen und portugiesischen Metrik. Negli Anales de la Universitad
di Santiago de Chile, 1897: Miscelànea de versificacion castellana;
1898 : Sobre los pronombres posestvos de los antiguos dialectos castellanns ;
1899: Un ymno de Juan Ruiz; 1900: Notas a la prosodia castellana.
La signora Carolina Michàelis de Vasconcellos, che nel 1896 iniziò
la pubblicazione delle sue preziose Postille (Randglossen) al canzo-
niere antico portoghese (v. Zeitschr. f. rom. Phil., XX, fase. 2, conti-
nuazione in XXV, fase. 2), ultimamente ha messo mano anche a una
nuova edizione del Cancioneiro da Ajuda (già edito prima da lord
Stuart, poi dal Barone de Varnhagen), e contemporaneamente verrà
pubblicando nella Revista Lusitana gli studi da lei fatti per illustrare
quell'insigne monumento. Intanto, come saggio di tali studi, ha dato
in luce nella detta rivista, voi. VI, una memoria sui Lais de Bre-
tanha, nella quale, investigando la provenienza dei cinque lais lirici
trovati nel Canzoniere già Colocci-Brancuti, ne trae occasione per
fare un bellissimo ' excursus ' anche su altre questioni che concernono
la storia della primitiva letteratura ispano-portoghese.
Nei Fac^imili di antichi mss. jper uso delle scuole di filol. neolatina
fu già segnalato un codice Vaticano, finora unico, contenente un'an-
tica redazione castigliana del romanzo in prosa di Tristano. A pre-
pararne una edizione ora si è volta la signorina Laura Filippini, stu-
dente di lettere nella Università di Roma.
GIUNTE E CORREZIONI
Nel voi. Vili, p. 504, di questi StudJ, parlando della correzione
antan per a Tan in un verso di Lanfranco Cigala, mancai di notare
che essa era stata proposta, quantunque dubitativamente, anche dal
prof. Crescini nel suo bel Manualetto provenzale, p. 143. Riparo qui
la involontaria omissione, solo aggiungendo che, forse non sarei ca-
duto in quella svista, se non mi ci avessero un po' spinto le parole
che, tornando sul Tan, l'autore stesso aveva scritte in fine del volume
(Glossario, p. 251). F. (4uerri.
180 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
Per l'articolo ' Carmina de mensibus ', pubblicato in questo stesso
fascicolo, il prof. Biadene manda le seguenti correzioni :
Pag. 5 n. Per mera dimenticanza non è fatta menzione del Dic-
tionnaire de Varchitectiire del Viollet-le-Duc, sebbene assai noto e ci-
tato in più d'uno degli scritti indicati nella stessa nota. Si veda
specialmente il t. IX (an. 1868), pag. 551. — Pag. 6n 1. 19: anzi corr.
anche — Pag. 9 1. 1 : dipinte corr. disegnate — Pag. lOn 1. 14 da
basso: 1866 corr. 1896 — Pag. 15, n. 1, 1. 3. Si tolgano le parole che
seguono a Parte 1. — Pag. 16, n. 2, 1. 2. Nelle pagg. 17-39 è com-
preso soltanto il testo della dissertazione dell'Uhland, mentre le note
stanno nelle pagg. 40-51. — Pag. 18, 1. 8: siffatte corr. consimili —
Pag. 20 1. 7 : lo corr. io — Pag. 23 1. 4 : né corr. né — Pag. 40, 1. 2
da basso: fuit ma fuit corr. fuit ma fuit — Pag. 41, 1. 8: virgola dopo
giusta. — Pag. 43. Il prof. Della Giovanna crede veramente che petitos
derivi da pes. Egli giustamente osserva che nel lombardo si ha il dimi-
nutivo x>escitt ' piedini ' (e non sarebbe dovuto sfuggire neanche a me
che è registrato nel Cherubini), che doveva scriversi pegit o pecit, e
poteva quindi facilmente latinizzarsi nel caso accusativo in pecitos.
Questo poi per la facile confusione del t col e negli antichi mano-
scritti sarebbe stato erroneamente trascritto per petitos. — Pag. 52
1. 3, virgola dopo trattare. — Pag. 55n 1. 13 : 169 corr. S 1, 169 e 1. 18:
1099 corr. S II, 171 — Pag. 60, v. 96. Il prof. Mussafia proporrebbe
di leggere : maturas fruges ego ; sum, iani florida vitis. Basterebbe
quindi una semplice virgola in fine del v. 95. Così sembra ora anche
a me che convenga leggere, come fa il codice, il primo emistichio ;
inchinerei invece a mutare il sum in tum, tralasciando la virgola
dopo di esso. — Pag. 105, 1. 6 : ddicici corr. ddodici
Tipografia VINCENZO BONA - Via Ospedale, 3, Tonnu
ETUDES
sur le tliéàtre comique fraii(;ais dn moyon àge
et sur le role de la noiivelle
(laiis Ics farces et dans les comédies.
Avant-propos.
L'étude *) que j'ai le plaisir de présenter aux lecteurs de
catte Revue a pour but de déterminer les rapports existant
depuis le moyen àge — et c'est le moyen àge que j'examine
surtout — entre la nouvelle et le théàtre comique. La farce
du XV^ et du XVI* siècle n'est, dans la plupart des cas,
qu'un fabliau mis cn action, l'action étant assez simple, pour
qu'un fabliau puisse suffire à remplir la farce tout entière.
Le procède de ceux qui, de nos jours, tirent leurs drames
de quelque roman, tout en étant plus compliqué, demeure
identique pour la méthode.
•) Cette étude devait paraìtre en France lorsque la Direction des
Studi eut l'obligeance de lui accorder son hospitalité. C'est là, outre
le sujet, la raison qui m'a pous?é à la rediger en fran9ais.
SludJ di Jìlolotjin romama, IX. 12
182 PIKRRE TOLUO
Le public du moyen age n'était guère exigeant. On se con-
tentait de peu de personnages et de peu d'idées, lorsqu'on ne
tombait pas dans l'excès conlraire et qu'on prétendait, dans
les mysières, des centaines d'acteurs et l'histoii-e tout entière
de la religion et de l'humanité. Et ici encore, dans les mys-
tères, on ne faisait qiie raettre en action des contes d'un
autre genre, les rècits renfermés dans l' ancien et dans le
nouveau Testament ou les légendes des sainls. Dans la sira-
plicité inhérant au théàtre comique, un valet ofTrant ses ser-
vices, un moine débitant un sermon bouffon, parodie d'une
impiété inconsciente du eulte catholique, une fille étalant son
impudence , sufflsaient pour égayer le public et pour en
exciler les rires. On riait de peu de chose, mais on riait à
peu près de ce que l'on rit de nos jours, des tours des fripons,
du ridicule attaché au mariage, des espiègleries des femmes
ou des infractions au célibat de la part des gens d'óglise. La
différence entro les rires des deux époques consiste plutót
dans la mesure et dans la forme extérieure que dans la subs-
tance. Mais on riait alors, plus qu'on ne le fait de nos jours,
des raisères de l'humanité souffrante, des violences de la force
brute et l'on voyait sans fremir un mari battant sa femme à
sang ou punissant, de la manière la plus cruelle, un amou-
reux surpris sur le fait. Aujourd'hui, dans ces situations, le
sérieux du drame remplace le burlesque de la farce.
Entre les fabliaux et les farces il n'y a donc d'autre diffé-
rence que celle inhérant au genre. De coté et d'autre les
mèmes personnages et les mèmes sujets: des prèlres et des
moines débauchés, des femelles en rut plutót que des femmes
passionnées, des maris d'une sottise débordante, des fripons
jouant des tours de passe-passe et des valets idiots ou intéressés.
On rit de tout le monde, mais les moqués ont droit à la
revanche et le dupeur dupé renferme tonte la moralité de
cette sorte de productions. Lorsqu'on volt ces personnages
ÉTBDES sua LE T„É.T„E C„.„«„E P„..CUS DU ,,OVE.-, .GÈ 133
parallro sur la scène. o„ n'a qu'à Ics «rouper cn deux calhé-
gor,es i,e„ distinctes, les sols et les r„sé,les trompé. et les
trompeurs; les plus forts triomphent et les faibles sont raillés
sans miséricorde. ""iianies,
Les farces continuent partant l'oeuvre des anciens conteurs
juste au mcnent où les fabliau, disparaissent, pour toujours:
Cel e succession est à peu près immediate, mais cela ne si-
8n,fie po,„t que les aulours coraigues aient puisé directement
sion est pluiot la conséquence nécessaire de ndentité da but
cet TT' '" '""""' '' aes farces se proposaient,
cest.à.d^e damuser le public par fexamen comique de la
oc,e.e de leur temps et par ,a reprod.c.ion de ces su e.^
m depuis les epo,„es les plus reculées, ont forme le ond
.nepu,sab e de la tradition populaire. Il y a un axiome en
mathemat,ques qui dit: deux quantités ou deux corps sont
semb a les entre eux, lorsqu'ils ressemblent à un troisième
Les fabhaux et les pièces comigues se ressemblent parce qu'ils
na,ssent au sein du peuple, parce que ce sont deux rivières
jam,ssant d'une mème source, ,„i ne cesse de couler méme
de nos jours, parce qu'ils ne font que répéter ce que ce
tro,s,ème elemen, le FolMore. leur avait suggóré à peu prè
ae Ja meme manière.
forme' m^' '™ """•" ''' '"'''' P"'""^'^»^ '■^«'"™"' ""«
f .me mteraire servant de modèle aux écrivains qui suivent
et lon comprendra comment, par exemple. des auteurs de
larces a.ent pu s'inspirer directement au Decameron du
ces Z,r "'f '"""''' ' '^ '™^'"-™ P°P"'-™- Toulefois
ces nsp,rat<ons d.rectes ne sont pas fréquentes aux XV' et
XVI siecles et nous verrons des sujets de farces, vivant de
venilteT " " ""''' "' ^«^'---"—ux anciens nou-
La nouvelle est un palrimoine comraun à tout le monde;
184 PIEBRE TOLDO
elle vit de memo sur les bords du Gange, de la Seine et du
Tibre, elle vit partout où il y a des hommes, qui souffrent,
qui aiment et qui rient et marque les voj'ages merveilleux
de la pensée à une epoque, où toute autre communication à
de grandes distances paraissait interdite. G'est pour cela que
la préexistence d'un certain sujet chez un auteur d'une na-
tionalité quelconque ne signifie point, au moins dans la plu-
part des cas, une dépendance directe desécrivains postérieurs.
Sacchetti, par exemple, a conte en Italie des aventures que
des nouvellistes d'une epoque successive chez nous ou au
delà des Alpes paraissent avoir reproduìtes et l'on sait que
Sacchetti a demeuré pour longtemps inconnu à la France
aussi bien qu'à l'Italie. Ce n'est donc que fort rarement qu'on
peut déterminer, avec précision, la source d'un conte ou
d'une farce; sa préexistence chez un auteur plus ou moins
inconnu ne servant qu'à déterminer corament à une cerlaine
epoque ce sujet circulait déjà de pays en pays. Meme pour
des écrivains devenus populaires, il y a parfois des exceptions
à faire, car le folldoriste entend répéter dans les veillées
d'hiver des contes, qui ont regu depuis longtemps, une forme
littéraire, mais les bonnes gens qui les débitent ignorent l'exis-
tence de ces versions écrites et se bornent à redire ce que
leurs aìeux leur ont transmis de bouche en bouche.
La nouvelle a précède la farce. Il est vrai qu'on compte
quelques pièces comiques contemporaines des fabliaux, ce qui a
fait supposer à certains criliques qu'il s'agit là de débris, attes-
tant une floraison très ricbe et très ancienne de ce genre litté-
raire. Mais il faut se garder de toute sorte d'exagération. Le
jeu de la feuillée et d'autres pièces semblables ont une physio-
nomie particulière et se distinguent nettement des farces des
XV^ et XVI^ siècles. Leur sujet n'est jamais tire des nouvelles,
ce qui s'explique par leur coexistence et tout porte à croire
que s'il y avait eu une production remarquable de ces pièces
ÈTUDES SUR LE THÉATRE CO.MIQCE FRANr.VlS DU MOVKN AGE 1S5
comiques. elles auraient dù parvenir àia postérité ainsi que
les fabhaux ou les mystères. L'empreinte populaire est tou-
jours une garanlie de longue vie.
Dès le comraencement du XVIP siede, l'inspiration que les
comedies tirent de la nouvelle se présente sous un autre
aspect. Nous n'avons plus affaire à des auteurs prirnitifs em-
pruntant leurs sujets à la tradition populaire. Ges sujets' sont
desormais bien connus par tout le monde et les contes du
Boccace ou les facéties du Pogge, imprimés et reliés, ornent
les bibhothèques des gens de lettres de lous les pays Rien
de plus naturel que de supposer que Molière, ami et contem-
porain de La Fontaine, les ait étudiés et qu'il en ait tire
quelques inspirations. Mais que ces inspirations sont diffé-
rentes de celles du siede précédenti Là le sujet est tout et
le fabliau se transforrae en farce, par un simple changement
du recit en dialogue. Ghez Molière, au contraire, aussi bien
que chez la plupart des écrivains qui l'ont suivi, la nouvelle
- comme nous le verrons plus tard - n'est qu'un épisode
quon exploile seuleraent pour en tirer quelques scènes plai-
santes et les pièces du grand écrivain ne perdraient, sans
ces accessoires, que quelques étincelles de leur gaieté. Peu
a peu i'influence de la nouvdle se rétrédt et tend à dis-
paraìtre, mais en pldn XIX« siede De Musset est là pour
nous téraoigner quelle n'est pas encore tout à fait éteinte.
Ghez lui l'inspiration présente encore d'autres différences.
Sa méthode n'est pas celle des écrivains de farces, ni non
plus cdle du pére de la comédie frangaise. Nous verrons que
plusieurs de ses pièces reproduisent des contes du Boccace
ou de Bandelle, mais ces contes ne sont que des prétextes
pour qae le poète développe là-dessus ses aimables fantaisies,
pour qu'il répande à pldnes mains le lyrisme remplissant
son àme et cet esprit brillant, airaable et parfois paradoxal,
auquel on reconnaìt son genie et sa patrie.
186 PIERRE TOLDO
Aucun critique n a étudié, que je sache, dans leur ensemble
les rapports existant entre les nouvelles et le théàtre comique,
et les sources qui ont é(é indiquées, pour les farces du moyen
àge, laissent à peine entrevoir l'état de la question *). Il faut
toutefois rendre homraage aux recherches diligentes, mais
dans un autre ordre d'idées, de M"" Petit de Julleville, dont
les études sur la comédie et surtout le répertoù^e du théàtre
comique me dispensent, dans la plupart des cas, d'indiquer
les recueils renfermant les farces en question. Je reconnais
aussi de bon gre que les essais de MM. Émile Picot et Chris-
tophe Nyrop ont frayé, d'une manière on ne pourrait plus
satisfaisante, le chemin que je vais parcourir et s'il y avait
plusieurs pièces comiques, annotées et expliquées si diligem-
ment que celles de leur recueil, ce serait de la peine inutile,
au moins sous un certain rapport, de revenir sur un tei sujet.
') Dans son intéressante étude sur les FaUiaux {p. 385), M'' Bédier
résumé l'état de la question, en rapportant le jugement de M"" Le Clerc,
qui croit que la farce continue IVeuvre des fabliaus, et celui tout à
fait oppose de M'' Petit de Julleville. " Si la farce, dit M'' de Julle-
ville, était ainsi sortie du fabliau tout entière, il y aurait plus de
ressemblance entre les sujets traités dans l'un et l'autre genre. Nous
avons conserve quelques centaines de fabliaux; nous ne possédons pas
moins de cent cinquante farces; si la farce n'était qu'un fabliau mé-
tamorphosé, quarante ou cinquante farces reproduiraient, sous la
forme dialoguée, le récit d'autant de fabliaux. Or il n'en est pas du
tout ainsi. Les rapprochements de sujets sont très rares d'un genre
à l'autre, et ces quelques rapprochements n'empécheront pas qu'on
puisse affirmer que, si la farce hérite de l'esprit narquois et de l'hu-
meur libre du fabliau, elle est néanmoins tout à fait indépendante
et dispose d'un fond comique en grande partie originai et propre à
elle „. Les résultats de mes recherches sont bien loin de confirraer
en tout et partput l'opinion de M'' Petit De Julleville. Ce que M"" Bédier
ajoute sur un fond commun d'inspiration populaire, pour les deux
genres, me paraìt plus conforme à la vérité, bien que l'on ne doive
pas exclure, comme il le fait_d'une manière si tranchante, l'influence
directe exercée sur la farce d'un coté par les fabliaux et de l'autre
par les nouvelles.
ÈTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRAXCAIS DU MOYEN AGE 187
Ancien théàtre. — Lutte de
ruses.
La ruse du renard de l'epopèe, ruse qui ne regarde pas
do près aux moj-ens, pourvu que l'adversaire soit bafouó et
vaincu, voilà ce qui triomphe surtout dans ce théàtre, où le
faible n'excite que les rires. Le faible, avons-nous dit, n'a droit
à la sympathie des auteurs des farces que dans le cas où il
sache prendre sa revanche, se moquant de son moqueur et
li y a dans cette maxime si souvent répétée — à trompeur
trompeur et demi - tonte la moralité, dont cette epoque
paraissait capable. On ne doit partant pas se raoquer des
autres, de peur qu'on ne se moque de nous, mais si nous
sommes à memo d'avoir toujours le dessus, tout tour est bon
et tout scrupule doit étre banni. G'est là la morale des valets
«ies comédies des siècles suivants.
Nous avons dono affaire à deux sortes de frompeurs: ceux
qui trompent parco que c'est là leur caractère et leur ma-
nière de vivrò et ceux qui ont recours à la ruse pour re-
pousser celle d'autrui. Une troisième catégorie, dont nous
allons nous occuper ensuite, pourrait étre formée par les
tours que les femmes jouent à leurs maris et ici encore c'est
l'opposition de la faiblesse intelligente et adroite, à la force
brutale à laquelle on a impose le nom de droit conjugal.
Outre cette distinction generale, il y en a une autre fondée
sur la portée memo de ces ruses et l'on peut séparer, d'une
manière assez nette, les simples plaisanteries des fripon-
neries proprement dites, bien que souvent les plaisanteries
elles-mémes soient faites, dans un but interesse.
La farce Le cousturier, Esopei le Gentilhomme et la cham-
brière nous offre un specimen assez agréable de ce premier
genre; une plaisanterie, qui est en mémetemps une vengeance.
188 PIERRE TOLDO
Le personnage principal de ces pièces comiques, un person-
nage chargé de résoudre les situations les plus compliquées,
de décider sans appel et d'amuser un public, pas plus difficile
certainement quo celui, qui s'extasie de nos jours aux grands
coups de la famille de Guignol, c'est ce bàton honoré d'une
foule d'adjectifs et d'applications variés, bàton despote et ven-
geur du droit *). Le bàton, dans la farce du cousiurier, dit le
dernier mot, et — ce qui lui arrive fort souvent — conclut
la pièce, à peu près corame l'agnition résolvant toule sorte
d'intrigue du théàtre latin et de celui de la Renaissance.
Les deux personnages principaux, le couturier et Esopet, ne
sont pas — on le reconnaìt de prirae abord — de tròs bons
amis. Le couturier menace à tout moment et sans raisons
plausibles d' « empoigner un baston rond », désolé et aigri
surtout par l'appétit formidable de son gargon.
Est tant feriant et tant gourmaut
Qu'il mangeroit plus qu'un alemant;
En son habit ne peult tourner
Tant est gras.
Mais on va voir que ce n'est pas lui qui l' engraisse. En
effet une chambrière, jouissant de la protection de son maitre,
protection qui n'est pas due certainement à l'éclat de ses
vertus, se présente au tailleur pour ordonner un habit à la
mode, et apporte une perdrix et un cliapon, afin que le
travail marche plus rapideraent. Le maitre couturier est
prie d'en faire part à Esopet, mais le rusé compère, pour
éviter ce partage, déclare que son apprenti ne mange jamais
de poulets, ni de perdrix, ce qui n'est pas sans étonner la
jeune filie. Cet aniefactum explique et nous prépare à la
*) Le nom de Martin baston, qu'on lui applique si souvent, se trouve
déjà dans le roman du Renart. Cfr. Romania, 1880, p. 127. Note de
M^ Delboulle.
ÈTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 189
vengeance d'Esopet. La charabrière questionne le gargon sur
les mets qu'il préfère; celui-ci l'interroge à son tour, on s'ex-
plique, on se fàche; enfìu le tour du maitre est révélé à
l'apprenti. Esopet alors congoit une invention assez bizarre.
Le couturier, déclare-t-il, n'est pas toujours si tranquille qu'il
en a l'air. De temps en temps une sorte de diable s'empare
de lui et le rend si méchant, qu'il se jette sur les personnes
qui r entourent et qu'il tuerait certainement , si on ne le
raettait pas aussitót dans l'impossibilité de nuire. Pour le domp-
ter, si l'on veut se fier à son expérience, il n'y a rien de
plus sur que de le garroter et de lui donner de bons coups
de bàton, prenant garde au moment où cette sorte de folie
s'empare de lui et qui est indiqué, par le branleraent de sa
lète et les mouvements qu'il fait d'un coté et d'autre, comme
s'il cherchait quelque chose. Le gentilhomme, maitre de la
charabrière, et celle-ci écoutent attentivement l'élrange récit,
et déclarent qu'ils vont bien se tenir sur leurs gardes et se
défendre de la manière indiquée. Et la ruse a plein effet. Le
tailleur, à la présence de ses clients, pour chercher les ci-
seaux et le drap, s'agite, se baisse, furète partout, ce qui
parait à lout le monde une marque certaine de sa folie. On
se jette sur lui, on le frappe à coups redoublós, le tailleur
crie et s'étonne, aux coups suivent les explications et la ruse
de l'apprenti parait au jour. Le maitre voudrait bien se fà-
cher, mais Esopet lui rappelle le tour des perdrix, et le tail-
leur bon gre mal gre doit reconnaitre la légitimité du tour dont
il est la victime. Tout cela est exposé avec assez de gaietó ; la
ruse est évidemment trop simple pour remplir la scène et les
faits se succèdent, au gre de l'auteur, avec une rapidité en-
fantine. mais malgré tout cela, ou comprend qu'il y avait là
de quei amuser des spectateurs simples et na'ifs. Les coups et
les horionsont toujours produit un grand effet, sur les scènes
populaires.
190 PIERRE TOLDO
La source de cette farce, que je ne trouve indiquée nulle
part, est pourtant dans la tradition populaire du moyen àge, qui
nous a été transmise, par le fabliau Du tailleur du Rai et de
sonsergent *). II y avait jadis, nous conte lauteur inconnu, un
roi, qui avait un tailleur, dont le défaut principal était celui
de l'avarice et de la gourmandise. Un jour le chamberlain du
roi lui fìt présent d'une certaine quantité de miei, le priant
d'en faire part à son valet. Mais le tailleur déclare que son
valet ne mange jamais de miei, et pour cela il le mango tout
Seul, se moquant de tous les deux. Le valet, ayant appris
le tour qu'on venait de lui jouer, se présente au chamberlain
et lui expose comment le tailleur « par lunaisons
A en la teste estordisons,
Le sens part et devient desvez;
Se il n'est erranment liez,
Celui que encontrer porrà,
Jamais de pain ne mangerà. „
Pour s'apercevoir de son accès, ajoute-t-il, on n'aura qu'à
prendre garde:
Quant il gardera 9a et là.
La terre entor lui batra.
Et de son siege leverà,
Son eschamel degetera.
La ruse du valet obtient le résultat que nous venons de
constater dans la farce. lei il y a de mème la recherche des
ciseaux et le tailleur bien garrotte apprend le tour qu'on lui
a joué, sous les coups, qui pleuvent de tous les cótés. A trom-
peur trompeur et demi.
Colte maxime inspire encore une autre farce ^), celle des
') Cfr. Fabliaux et contes, etc, édit. Barbazan, 1808, IP voi.
=) Cfr. Frère Farfait, II« voi.
ÈTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANl.:AIS DU MOYEN AGE i9i
deux savetiers, ou pour mieux dire du pauvre, du riche et
du juge. Plusieurs sujets ont concouru à la formation de
cette pièce. Le savetier pauvre et sans souci, se présentant
sur la scène, pour chanter son bonheur et excitant par là
l'envie du riche, ennuyó et troublé au milieu de ses biens,
est une vieille connaissance de ceux qui étudient les nou-
velles. On retrouve cette apologie de la vie simple et mo-
deste dans les « Gommentarii in dictis et factis Alphonsi
regis » du Piccolomini et de là, après plusieurs pérégrina-
tions, elle arrive aux Joijeux Devis attribués à Bonaventure
Des Périers et au charmant récit de La Fontaine*). Le riche
de la farce se réveille, lui aussi, de son pénible sommeil,
entendant les chansons de son voisin :
Le riche. Voicy chose non pareille :
Dequoy j'ouys oncques parler;
Car je voy mon voysin chanter
Tonte jour, et si n'a que rire.
Et il pense de mèrae que son successeur de le raettre sur le
tróne en lui offrant une somme éblouissante. La manière, dont
il s'y prend et le résultat qui s'ensuit n'ont toutefois rien à voir
à la conclusion morale de La Fontaine. Le pauvre savetier de la
farce a beau se moquer des richesses, en s'écriant que « c'est
coramencement de toute peine » ; il les désire, les prétend et
ce qui constitue la différence des deux récits c'est que lorsqu'il
les possedè, il ne souhaite plus de s'en séparer. D'ailleurs le
riche n'est nullement généreux. Il offre, il est vrai, au sa-
vetier la somme de cent écus, le mème chiffre des autres
*) Nouv. XIX: " Du savetier Blondeau qui ne fut oncq en sa vie
melaucholié que deus fois et comment il y pourveut et de son épi-
taphe „. Voyez ce que j'en dis à p. 139 de mon Contributo allo studio
della novella francese, ecc. (Rome, Loescher , 1895) et mon étude sur
Le savetier et le financier de La Fontaine (Rome, 1894).
192 PIERRE TOLDO
banquiers, mais cet offre n"a d'autre but que celui de se
moquer du malheureux et il a médité d'avance comment il
pourra ravoir son argent. Il persuade dono au cordonnier de
sadresser directement à Dieu, car le bon Dieu écoute ceux.
qui le prient avec foi. Le savetier se rend aussitót dans le
tempie, où le riche la précède, se cachant derrière lautel,
et prie le Seigneur de lui vouloir donner des gages de sa
protection, en lui paraissant sous la forme d'une pluie d'or.
Le riche répond de la part de Dieu:
Demande, je te octroyray
Mais que ce soit juste demande.
Le savetier déclare qu'il veut avoir cent ècus, l'un sur
l'autre, sans rabattre pas mème un Hard; Dieu, ou pour
mieux dire celui qui en usurpe la place trouve que la somme
est quelque peu exagérée et il commence à craindre, pour
la restitution. Enfìn Targent est donne, le pauvre homme
devient heureux et le riche doit penser à recouvrer son bien.
Mais il a beau déclarer au savetier que les cent écus lui
appartiennent et qu'il vient de lui jouer une farce; le save-
tier fait la sourde oreille, il a entendu Dieu lui répondre et
c'est à lui Seul qu'il est redevable dece qu'il vient de recevoir.
Alors le riche se volt contraint d'avoir recours à la justice,
mais le savetier ne saurait se présenter au juge, sans avoir
un manteau assez propre. Vollà donc le riche obligé, pour
atteindre son but, de lui prèler aussi le manteau, ce qui devient
un autre sujet de rire, parce que le juge déclare au riche
qu'il doit se faire rendre de Dieu ce qu'il a prète en son
nora et que le manteau mème appartient, de bon droit, au
savetier.
Pour des intrigants, qui làchent de tromper quelqu'un en
empruntant Taspect ou la place d'une divinité et parlant en
son nom, je n'ai qu'à renvoyer au commontaire de Landau tou-
ÉTUDES SUR LE THIJATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 193
chant la nouvelle célèbre du Décaméroìi '). Meme dans le
Novellino du Masuccio il y a de ces tours de passe-passe (p. 1,
nouv. 8=; p. 2, nouv. XX""), dont M' Landau n'a pas eu con-
naissance, ainsi que de l'a venture des Facétieuses nuits du
Straparole (1° nuit, fable P), où Cassandria emprunte, dans
une église, les traits et le langage d'un saint. Dans les Cent
nouvelles nouvelles (nouv. XIV) l'inspiration du Decameron
(IV, 2) est directe. L'hermite trompeur se feint un ange pour
persuader une mère fort crèdule à lui céder sa fille ^). Je
rappelle aussi le conte de Morlini : « de monacho qui in mona-
sterio divi Laurentii seraphici Francisci vitam repraesentabat »
et l'autre du mème écrivain « de patricio qui, ut matronam
falleret, Ghristum aemulatus est ^) ».
Tour ce qui est du manteau prète au débiteur, afin qu'il
puisse se présenter au juge, je n'ai qu'à citer une des nou-
velles des Porretane (nouv. XX) de Sabadino degli Arienti,
dont la ressemblance est frappante, dans tous ses détails et
qui est là pour témoigner la préexistance de cette plaisan-
terie, dans les traditions populaires. Le créancier reste moqné
de la mème manière et le juge se range du coté du débiteur.
Les farces touchant le célèbre Pathelin, présentent à leur
tour une sèrie de ruses, dont on retrouve maints exeraples,
dans les nouvelles de cette epoque.
Il y a tout d'abord l'a venture bien connue de Maistre Pierre
Pathelin avec le drapier Guillaume, où l'on retrouve encore
et jusqu'à un certain point l'application du proverbe: à trom-
^) Landau, Die Quellen des Decameron, édit. 1869, -p. 90 sgg.; Decani.,
IV, 2.
*) Masuccio, Novellino, t. I, N. XI; Fortini, Novella di Raffaello,
2" nuit; Malespini d'après les C. N. iS\(N. LXXX) et dans le Folklore,
Le frère Peintre des Contes Poitevins [Kriiptadia, III, pp. 2ol-234).
') Édit. Elz., 1855.
194 PIERRE TOLDO
peur, trompeur et demi. Le tour dont le drapier resto la vic-
tirae est vengé par la ruse du berger; il y a mème un doublé
tour, cclui du drap volé, par la fiction d'un accès de folle
polyglotte et la IcQon de Tavocat à son client, toujours au
préjudice du drapier, consistant elle aussi dans une autre
sorte de folle, un hée idiot pour toute rèponse aux questions
du juge. Mais la vengeance du Me, dont le berger paie aussi
son avocat, et qui parait l'application d'un autre proverbe
italien: elusa il giuoco, non Vinsegni, ne donne aucune joie
au marchant trompé, qui peut-ètre l'ignore, pour toujours.
La tutte est engagée plutót entre deux fripons et le drapier
reste, au bout des comptes, la victime de l'un aussi bien que
de l'autre. Cette historiette, qui a donne à l'ancien tbéàtre
francais un charmant chef-d'ceuvre, devait préexister, depuis
longtemps, dans les traditions populaires de la France et de
l'Italie. W Finamore vient de la retrouver encore vivante, de
nos jours, dans l'Italie du midi *)• G'est La storije de lu pazze,
l'histoire du fou. Un paysan est accuse d'avoir volé un cochon.
Son avocat lui conseille de se feindre fou, pour eluder les
questions du juge, mais il doit se repentir ensuite de la legon
donnée, car le paysan emploie la mème ruse, pour ne pas le
payer. On connalt la nouvelle du Parabosco *) où il est question
d'un certain Thomas, qui a promis à un notaire vingt-cinq
ducats, pourvu qu'il le tire d'affaire, devant le juge. La ruse
apprise sert de prétexte au paysan pour ne pas tenir sa parole
et le notaire reste berne. Le mème récit de Pathelin est ré-
*) Cfr. Tradizioni popol. ahruzz., Nouv. P, Lanciano, 1892.
') Diporti, Giorn. I, Nouv. VIIL Voyez, pour d'autres sujets puisés
à la mème source, Makciiesi, Per la storia della novella italiana nel
sec. XVIf, Rome, 1897, p. 86. Le critique italien oublie toutefois de
citer la farce de Pathelin et d'aiitres rédactious. Yoyez, pour le Pa-
rabosco, l'oeuvre de Bianchini (Yenise, 1899).
ÉTUDES SUR LE THKATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 195
pélé par Ludovic Domenichi dans ses Facéiies (ed. de Venise
1590, p. 209) et il va sans dire que l'auteur italien pouvait,
dans ce cas, s'inspirer directement à l'oeuvre frangaise, mais
il pouvait s'inspirer aussi à la tradition orale de son pays,
d'autant plus que, lout en étant question d'un avocat et d'un
berger, il ne s'agit plus d'un marchand de draps, mais d'une
amende, pour n'avoir pas payé les droits d'octroi, et que le
bèe est remplacé par des sifflements. Enfin la mèrae aventure
du berger et de l'avocat avec la plaisanterie de la folle si-
mulée, réapparait dans les contes du Vacalerio *).
En Italie la ruse de Pathelin eut aussi l'honneur de briller
sur la scène. Grazzini, mieux connu sous le nom de Lasca, en
fit le sujet de son Arzigogolo. Get Arzigogolo ou intrigue
est le nom d'un paysan, qui pour empècher la validité d'une
vente, d'après le conseil de son avocat Alessio, se feint fou et
répond aux demandes du juge par un éternel sfT-
Le Juge. Approche-toi de moi. Comment t'appelles-tu?
Le Paysan. Sff.
Le Juge. Quel est ton village?
Le Paysan, Sfi.
et ce sff" continue assez longtemps et se répète lorsque Ser
Alessio demande d'ètre payé. La ressemblance entre la pièce
francaise et l'italienne est evidente, bien qu'il y ait assez de
diflérences de détails, pour mettre en doute la dépendance
directe de V Arzigogolo de Pathelin.
Voici ce qu'il y a de plus ressemblant:
Ser Alessio. Voistu, Arzigogolo, à quoi servent mes conseils? tu
recouvres tes boeufs, ce dont j'ai beaucoup de plaisir; maintenant je
te prie, en homme de bien, de me donner les deux écus que tu m'as
promis.
^) Voyez Marchesi, page citée.
196
PIERRE TOl.DO
Le Paysan. SfF.
Ser Alessio. Ah! ah! tu me fais lire; tu fes moqué assez bien de
ce bonhomme de juge, et tu as joué ton ròle à merveiUe; mais à
présent il ne s'agit plus de siffler. Quand comptes-tu me payer?
Le Paysan. SfF.
Ser Alessio. Q'a suffit. La chose commence à m'embÈter. Donne-moi
mes deux écus.
Le Patjsan. SflF.
Dans les comparaisons que nous venons d'indiquer, on trouve
aussi quelques exemples de la folie slmuiée de Pathelin, exem-
ples qu'on pourrait muitiplier sans trop de peine. L'hypothèse
de la préexistence de ce sujet, dans les contes populaires, ne
saurait donc étre écartée, mais, comme les rédactions citées
sont toutes postérieures à la farce frangaise, l'hypelhèse ne
peut se transformer en affìrmation positive.
Ces doutes n'ont pas lieu pour ce nouveau Pathelin, dont
rin5=piration est tirée en partie du Pathelin classique, et en
partie aussi d'un conte traditionnel. Le Pathelin classique sert
de modèle au nouveau, dans la ruse employée par l'avocai
a fin de vaincre la méfiance du pelletier. Celui-ci est, à son
tour, une copie evidente du Drapier célèbre et la ruse que
l'avocat emploie à son égard est toujours fondèe sur la flat-
terie et sur les protestations d'une ancienne amitié. G'est là
la raéthode dont se servirà plus tard Don Juan de Molière
avec M' Dimanche. Gette connaissance du coeur humain, tou-
jours ouvert à la louange, prète un certain charme au dèbut
de ce nouveau essai sur l'avocat illustre, désormais passe en
proverbe. Malheureusement il s'agit d'un charme d'emprunt,
qui ne sufflt pas toujours à cacher plusieurs faiblesses de style
et de pensée.
Ainsi que le corbeau de la fable, le pelletier laisse tomber
son fromage, ou pour étre plus exact, livre sa marchandise
à Pathelin, qui doit s'en servir pour la garniture du drap
ÈTUDES SUR LE TUÉaTRE COMIQUE I'RAN(.:aIS DU MOYEN AGE 197
volé à l'autre marchand. G'est ainsi qu'un voi complète l'autre,
de méme que les deux pièces se complètent entre elles.
L'avocat déclare toutefois que ce n'est pas pour lui qu'il a
fait cette acquisition. Le cure auquel elle est destinée va payer
tout cela, sans marchander et sans se faire tirer l'oreille; il
sufflt de se rendre à l'église et d'attendre qu'il ait fini ses
fonctions religieuses. A l'église, ils trouvent en effet un prétre,
dont Pathelin s'approche, pour le prier de vouloir bien con-
fesser le pelletier, lui promettant une douzaine de messes,
l'argent tout comptant, bien entendu, selon sa coutume. Mais
il faut que le ben prètre prenne garde au naturel de son
pénitent :
Il est d'une complexion
Aucunesfois bien fantasticque,
Et souvent quant le ver le picque,
Devient comme tout insensé
Cette déclaration nous fait deviner l'issue de la ruse, com-
pliquée par Tinvitation que Pathelin adresse au prètre de
vouloir bien dinar avec lui, dans un certain lieu, qu'il lui
indique. Le marchand, appelé après quelque temps par le
confesseur, s'avance aussitòt, dans la persuasion d'elre payé
et réquivoque continue longtemps entre le prètre qui deraande
les péchés du jeune homme et celui-ci qui demande, à son
tour, son argent. Cette équivoque si prolongée perd peu à peu
de son naturel et l'explication se fait attendre trop longtemps,
pour qu'elle puisse résoudre logiquement une situation douée
de la possibilité comique.
On a recherché la source de cette donnée du Nouveau
Pathelin, dans les Repues franches de Villon, là où il s'agit
de « La manière comment ils eurent du poisson ». On sait que
selon le récit de ce poète, noyant son genie dans la débauché,
il se serait rendu lui-mème coupable d'un tour pareli, au
StwìJ di filoloiia romnmn, IX. 13
198 PIERRE TOLDO
préjudice d'un marchand de poissons. Ce marchand est payé
de la mème monnaie, par le Penancier de Notre-Dame, qui,
à cause de l'équivoque enlre despecher (expédier) et depecher
(confesser) croit avoir affaire à un fou.
Ce récit était toutefois bien connu en Franca et en Italie,
avant l'oeuvre de Villon. Sabadino degli Adenti, dans ses
Porretaìie (nouv. X^), nous conte l'histoire d'un certain Pirone,
qui a la raauvaise inspiration de vendre son bois à un in-
trigant. Ce filou feint vouloir le payer sur l'inslant et le méne
chez un prètre, auquel il conte cette histoire de la confession
et de la folle, que nous venons d'entendre. Pirone cru en-
diablé a beau demander son argent; on le traite de fou, on
le garrotte, on lui tire mème du sang. Et avant Sabadino degli
Arienti ce conte avait défrayé en France la muse de Gortebarbe,
qui en fit le sujet de son fabliau si connu, les Trois aveuglea
de Compiengne. lei un clerc s'écrie qu'il a donne un besani
d'or à l'un des trois aveugles, mais il ne donne en efifet rien
à personne. Les malheureux, se fiant à sa parole, se rendent
dans un cabaret, oìi ils font bombance avec cette aumóne sì
généreuse, mais, au moment de payer, après une longue
dispute, ils doivent se persuader, qu'on leur a joué un mauvais
tour. Le clerc alors intervieni de nouveau et déclare au trai-
teur qu'il va le faire payer par le cure et se hàte en mème
temps de donner avis à ce cure qu'il aura affaire à un enragé.
Le bon prètre exorcise Tbóte, qui proteste et déclare qu'il
n'est venu là, que pour recouvrer son argent et fon a bien
de la peine à éclaircir ce quiproquo, considerò par la mo-
rale de ce temps, comme une simple plaisanterie. Plus tard
Morlini en transporla la scène en Espagne: « De bispano qui
decepit rusticuin monacbumque Garmelitanum », et la trom-
perie, dont le paysan doit se plaindre, est celle des poulets,
qui lui sont volés, de la mème manière. Straparole ne manque
pas d'ajouter d'autres traits à ce récit si attrayant (13* nuit,
ÉTUDKS SUR LE THÉATRE COMIQUE KRANCAIS DU MOYEN AGE 199
XI" fable), se répétant ensuite bien des fois encore d'un coté
et de l'autre des Alpes. La troisième pièce touchant Pathelin,
le Testament de Pathelin, où le héros de la trilogie laisse
en mourant à son confesseur quelque chose de bien intime
de sa femme et fait d'autres legs buiiesques, n'est pas sans
rappeler Li dis de la vescie a prestre *) répété dans le Pa-
rangon des nouvelles et ailleurs *) et tous les testaments bur-
lesques de l'epoque, y compris ceux de Villon.
Une autre parade imitée de Patbelin et qui reconnaìt les
mèmes sources est celle qui raet en scène Le chaulderonniery
le savetier et le tavernier. Les deux premiers se rendent au
cabaret, où ils boivent tout leur soùl, sans avoir de quoi
payer. Le tavernier est obligé, fante de mieux, de leur faire
crédit, jusqu'au jour suivant, où le chaudronnier s'habille en
femme et le savetier se feint enragé. Tous les deux font un
tapage endiablé et le savetier, après avoir débite, comme son
modèle, un torrent de sottises, profitant de son delire, frappe
le tavernier, qui se sauve et renonce à se faire payer.
Dans les farces du poète piéraontais Aliene, dont l'inspiration
frangaise a été constatée depuis longtemps ^), il y a un souvenir
de toutes ces ruses, notamment dans celle de Nìcolao Spranga,
où une personne trompée, par un de ses amis, se venge de
lui d'une manière plaisante et appartenant au genre citò.
La ruse intelligente et dans le but louable de vaincre la vio-
lence d'un méchant, anime une autre farce frangaise, portant
pour*tilre Farce nouvelle du musnier et du gentilhomme à
quatì^e personnages: VaWé, le meunier, le genlilhomme et le
page *). Le gentilhomme, croyant l'abbé fort riche, veut lui em-
') Reciieil Montaiglon, IIP voi.
') Voyez les notes à ce fabliau, dans le Recueil cité.
^) Cfr. Bruno Cotronei, Le farse di Aliane, ecc., Reggio Calabria, 1889.
*) Pour les farces, dont je n'indique pas l'édition, voyez le Réper-
ioire cité de M' Petit de Julleville.
200 PIERRE TOLDO
prunter trois cents écus, qui lui doivent servir pour « festoyer...
caresnie prenant ». L'abbé refuse, le gentilhomme a recours
aux menaces, enfin bien persuade d'avoir gain de cause, le
gentilhomme consent de délivrer l'abbé de son prèt force,
pourvu qu'il réponde à trois questions: où est le centra du
monde, ce que le gentilhomme vaut et ce qu'il pense, dans
ce moment. L'abbé fort embarrassé de ces trois énigmes, appelle
à son secours le meunier, dont il a eu auparavant l'occasion
d'admirer la finesse. Le meunier se déguise en abbé, se pré-
sente au gentilhomme et répond aux trois questions de la
manière suivante: « Le centre du monde est dans ce point-là;
si vous ne le croyez pas, mesurez-le. Votre valeur ne saurait
dépasser vingt-neuf deniers, vu que Jésus-Christ a été vendu
pour trente. Vous pensez que je suis l'abbé; Eh bien! vous
vous trompez. Je suis le meunier ». Le gentilhomme, loin de
se fàcher, reconnaìt et admire la finesse du meunier, qui
sauve, par ce moyen, les biens de son client.
Le fond, a-t-on dit, est la mise en scène d'un conte de
YOrlandino de Théophile Folengo •), mais le conte passa bientót
en France, car nous le retrouvons dans le Grand Parangon
de Troyes (nouv. XL*). « D'ung seigneur qui par force vouioit
avoir la terre d'ung abbé s'il ne lui donnoit responce de trois
choses qu'il demandoit; laquelle il fit par le moyen de son
mounier ». Avant le Grand Parangon, avant Orlandino, ce
conte était, d'ailleurs, fort bien connu en Italie. On le retrouve
chez un ancien écrivain de la Péninsule, Franco Sacchetti
(nouv. IV), où le seigneur est censé ètre Messer Bernabò
seigneur de Milan et il est encore vivant de nos jours, dans
la tradition populaire ^). Les questions du seigneur ne sont pas
') Cfr. Hist. lift, de la France, XXTV, p. 363.
') Voyez une nouv. de Jehan Mansel, rapportée par M. Mabille dans
ses notes à l'édit. du Grand Parangon. Cfr. aussi Liebeecht {Got. gel.
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 201
toujours les memes, mais on les retrouve toutes les trois ré-
pétées par l'un ou par l'autre de ces conteurs. Dans le Grand
Parangon elles sont réunies: « Combien je vaulx, où est le
milieu du monde et ce que je pense », et les réponses soni
aussi identiques Ser Giovanni, dans son Pecorone, attribue
l'aventure au docteur A-lano (VI, 1).
Un conte italien, au moins dans sa première redaction,
parait inspirer de mème la Farce du paste et de la tarte,
telle qu'on la lit dans le recueil de Viollet Le Due (IP voi.).
Deux Coqutns s'accordent pour tromper et voler un pàtissier.
Ils se trouvent dans le dénouement le plus absolu, au moins
si l'on veut les juger d'après le début de l'action :
Le premier. Ouyche.
Le second. Qu'as-tu?
Le premier. Si froyt que tremble,
Et si n'ay tissu ne fiUé.
Le second. Sainct Jehan, nous sommes bien ensemble, Ouyche.
Le premier. Qu'as-tu?
Le second. Si froyt que tremble.
Il faut donc se décider, Trapper aux portes et demander
l'aumóne. Le premier se présente chez le pàtissier, où il sur-
prend un dialogue entre celui-ci et sa femme, ce qui devient
pour lui la clef de l'intrigue. Le pàtissier ordonne à sa femme
de ne donner un pàté magnifique, qu'il vient d'apprèter, dans
le but de s'en régaler avec ses amis, qu'à celui, qui aura
« enseigne certaine », c'est-à-dire qui, pour se faire reconnaìlre,
la prendra par la raain. Le Goquin n'a pas besoin d'en en-
tendre davantage. Il se rend aussitót chez son camarade, qui
Anzeigen, 1871, pp. 663-664), la IIP nouvelle des Paralipomeni à la
Nov. milan. de M. Imbriani (Bologna, 1872), El Coeugh, la nouv. sicil.
L'Abbati senza x>inseri {Race. Pitré, II, p. 323) et ce que j'en dis dans
mon Contributo allo studio della Novella, ecc., p. 102 sgg.
202 PIERRE TOLDO
se charge de jouer le róle du gargon envoyé par le mari et
de soutirer ainsi le pàté. L'autre coquin veut jouer, à son tour,
de ruse. Il se rend de nouveau chez le pàtissier pour lui
voler une tarte, mais celui-ci, qui étant revenu à la maison a
entendu ce qui s'est passe pendant son absence, et qui fait par
conséquent trotter Martin-bàton sur le dos de sa femme, à la vue
du filou s'emporte, le saisit à la gorge et veut l'obliger de rendre
ce qu'il a volé. Le filou, pour se tirer d'affaire, déclare qu'il
enverra à sa place son camarade, le véritable auteur du voi,
ce qu'il fait, faisant accroire à ce dernier, qu'il n'a qu'à se
presentar, pour recevoir la tarte. Il va sans dire que la
tarte se transforme en coups et en horions; le compagnon
se fàche, revient cbez son camarade, mais la vue du pàté
volé fait évanouir aussitót ses propos de vengeance.
Dans l'analyse que j'ai donnée ailleurs ') de la comédie La
Tasse de Claude Bonet, écrivain qui composa des pièces pour
le théàtre classique aussi bien que pour celui de la Renais-
sance, je crois avoir démontré qu'un conte semblabie vivali
déjà depuis longtemps en Italie. On le retrouve chez Franco
Sacchetti (nouv. GGXI), chez Masuccio {Novellino, nouv. XVIP) •
et ensuite en France, dans les Comptes du monde adventu-
reux (nouv. XXIV^). Il est toujours question d'un ou de deux
fripons, qui se présentent à une dame, pendant l'absence de
son mari, et trouvent le moyen de se faire donner quelque
chose, qu'elle aurait dù consigner à un messager inconnu.
Le mari revient à la maison et s'en prend à sa femme, d'une
manière grossière. Le fripon, qui n'a pas commis le premier
voi, tàche pour se faire honneur d'en commettre un autre,
toujours, dans la mème maison, mais ici l'intrigue varie et
') Cfr. Revne d'hist. lift, de la France: La Comédie frangaise de la
Renaissance (1899, pp. 594-601).
ÉTUDiS SUR LE théatre comique francais du moyen age 203
dans la Tasse, le second filou n'est pas, par exemple, si mal-
heureux qu'il l'est dans notre farce.
La diffèrence subslanlielle consiste en ce que dans tous
ces contes et, dans la Tasse aussi, il est question, comme ce
nom r indique, d'une coupé ou tasse de quelque valeur et
dans la seconde tromperie on en veut à un poisson ou à des
pordrix. Mais ce sont des variations de détail, qui ne modi-
fient pas trop le sujet general de la pièce, dont le caractère
est évidemment populaire, de mème qne tout ce qui se rap-
porte au triomphe de la ruse et aux tours des frìpons. Les
conteurs ont oubliè, dans ce cas, la revanche, tandis que
l'auteur de la farce est reste fidèle à ce proverbe sì souvent
répété: A trompeur, trompeur et demi. Que les maris et les
amoureux de ce théatre y prennent garde. Ils seront fort
souvent payés de la mème monnaie.
Contre le mariage.
Meme en laissant de coté certains malheurs, dont nous
allons nous occuper sous peu et qui défrayent le théatre
ancien plus encore que le moderne, la femme est toujours
considérée, à cette epoque, comme une source de soucis et
de misères, pour celui qui a eu la mauvaise inspiration d'en
fa ire sa compagne. J'emploie le mot compagne, bien que ce
mot renferme une conception de la femme et de ses droits
à laquelle le moyen àge était bien loin de s'inspirer, le mari
étant alors considerò comme un maitre absoiu, devant qui la
femme aurait dù courber toujours le front, dans une obéissance
aveugle et muette. Contre cette superiorità du sexe fort, le
204 PIERRE TOI.DO
sexe faible luttait, cependant, de toutes ses forces ; c'était uno
bataille domestique et obstinée livrèe par la ruse et par la
finesse, l'ancien duel que nous venons de voir, dans un autre
champ, de la force et de la ruse. La femme avait bien sou-
vent le dessus, quitte toutefois à expier son opiniàtreté et ses
rébellions, sous les coups de son maitre.
Dans une foule de compositions poétiques le mariage s'an-
nonce de loin, corame un malheur : la Conienance des femmes,
VEpttre des femmes, VEvangile des femmes, le Blastange
des femmes, le Bldme des femmes, le Bien des femmes et
surtout dans ces Quinze joies du mariage, qui eurent un
succès si extraordinaire, et dont les imitations, on ne pourrait
plus nombreuses, témoignent des sentiments de l'epoque.
Au théàtre Ics « sermons joyeux des maux de mariage »
abondent. Dans le « Nouveau et joyeux sermon contenant le
menage et la charge de mariage, pour jouer à une nopce »,
déclaration qui peut paraitre une simple plaisanterie, l'auteur
s'empresse de dire que:
On ne doit pas tenir a sage
Celuy qui vient a mariage,
Car tout homme qui se marie
Ne peut faire plus grand folie
Et lei suit une longue énumération de tout ce qu'il faut
au mariage. On doit tout d'abord se charger de l'installation
des meubles, des vivres, des domestiques, ce qui amène néces-
sairement une foule d'enuuis et de dépenses. On a ensuite
affaire à l'épouse, dont le caractère acariàtre, la sensualité
qu'on ne saurait assouvir, la passion pour le luxe et pour
la toilette, vont causer bien de la peine à son malheureux
mari. Il aura beau avoir recours au bàton: la femme se mo-
quera de lui, pis encore qu'auparavant et tout le monde lui
donnera tort:
ÉTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 205
Les uns diront qu'il est jalou,
Les autrcs diront qu'il est fou ').
M"" Picot a rapproché de ce monologue plusieurs composi-
tions, dans le mème goùt. Rappelons en passant : Le dii de
menage, VOustillement au villain, le Ditte des choses qui
faillent en menage et en mariage, la Complaincte du
nouveau mat-ié et l'on n'a qu'à ouvrir au hasard le Recueil
de M' de Montaiglon *) pour constaler le grand succès de cette
sorte de plaisanteries et d'invectives.
On y peut lire les neuf legons des Ténèbres du mariage
rappelant de près les Quinze joies, la Complaincte du nou-
veau marie et le Sermoni nouveau et fori joyeux, auquel
est contenu tous les maulx que Chomme a en mariage et
dont le début a une solemnité burlesque :
Matrimonie, matrimonia
Mala producunt omnia.
La conclusion de la première partie de ce Sermon est,
m,ore solito, d'un pessimisme outré:
Et pour condurre en brief langaige,
Tout l'argent de son mariage
Prendra vollée et e'en courra ;
Mais sa femme demourera.
Dans la Loyaulté des femmes, on recherche tout ce qui est
impossible ou absurde pour conclure que c'est seulement
lorsqu'on verrà ces choses s'accomplir que « verrez-vous en
*) Cfr. Nouveau recueil de farces frangaises des XV^ et XVP siècles, etc,
par Émile Picot et Cristophe Nyrop, Paris, 1880. Voyez surtout l'in-
troduction, p. lxix.
*) Recueil de poésies fran^aises des XV^ et XVB etc, par M. Ana-
tole de Montaiglon, Bibl. Elz.
2nfi PIERRE TOLDO
ferame loyaiilté » et dans Le danger de se marier, n'ayant
ancun caractère dramatique, l'auteur invoque pour la mil-
liòme fois des exemples bibliques et historiques à l'appui de
son blàme de la femme. Ailleurs, dans les Secretz et loìx de
Mariage, Jehan d'Ivry, sous le nom de secrétaire des Dames,
répète plusieurs pointes satiriques des Quinze joies et dans
le Sermon joyeux de la patience des femmes óbstìnèes
cantre leurs maris, on nous fait assister à l'accueil que
font les femmes à leurs malheureux corapagnons, lorsqu'ils
reviennent du cabaret.
Parfois cette critique des femmes et du mariage prend la
forme d'un débat, où il a aussi des champions favorables au
beau sexe. Le Déhat du marie et du non marie développe
une de ces disputes si chères au moyen àge et à la Renais-
sance. Le marie persuade son ami qu'il a tort de blàmer
les femmes et lui conseille de se raarier. Dans le Mono-
logue fort joyeulx auquel sont introduictz deux Advocatz
et ung Juge, devani lequel est plaidoyé le bien et le mal
des Dames, un seul acteur devait se charger, à l'aide de dé-
guisements, de remplir trois róles différents, colui d'accusa-
teur des dames, celui de leur défenseur et colui encore de
juge. Ailleurs, dans le Dèbat de VHomme et de la Femme^
par frère Guillaume Alexis, on fait une longue énumération
pour et contro le beau sexe:
L'homme. Adam jadis, le premier pere.
Par femme encourut mort amère,
Qui très mal le Consilia.
Bien eureux est qui rien n'y a.
La femme. Jhesus de femme vierge et mère
Fut fait homme, c'est chose clère;
Aussi nous reconsilia :
Malheureux est qui rien n'y a.
De part et d'autre on cite les femmes illustres ou me-
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 207
chantes, qui ont honoré ou déshonoré le sexe, aussi bien
que les hommes, qui en ont étó la dupe, savoir David, Sa-
lomon, Virgile, Hector, Samson, etc. L'Homrae a beau se
plaindre des vices de ses adversaires « cauteleuses, feintes et
fardées » ; la Femme réplique :
De bones femmes treuve-on maintes,
Qui ont esté chastes et sainctes,
Et dont nulle ne desvya.
Les saints, les guerriers, les rois ne naissent-ils pas d'une
femme? les grands crimes, meurtres, incendies, vols, etc, ne
sont-ils pas exécutós, en general, par les représentants du
sexe masculin?
Cayn tua Abel son frère;
Judas aussi Ruben, son pere;
Neron a fait sa mère ouvrir,
Les Juifs Jesuschrist mourir
Les deux séries des exemples cités tour à tour pour et
contre les femmes, les argumentations différentes et ce mé-
lange étrange de paganisme et de christianisme, Hercule,
Orphée, Démophon, Virgile, mis à coté de Salomon, Samson
et Jesus Ghrist, tout cela est emprunté au Roman de la Rose,
au Grand Mathéolus, etc, et forme partie de cette lutte assez
vive et acérée où l'on trouve d'un coté le Blason des faulces
amours, la Pipèe du dieu d'amour, Villon, Roger de Gol-
lerye, les Controverses des sexes masculin et féminin de
Gratien du Pont, etc, et de l'autre le Champion des Dames
de Martin Frane, le Triomphe de la citè des Dames de Chris-
tine de Pisan, le Miroir des Dames, la Vray-disant Advo-
cate des Dames, le Giroufflier aulx dames et ainsi de suite.
Sous ce rapport le théàtre n'est donc que l'écho d'un débat
commencé ailleurs, et plusieurs de ces compositions ont seu-
208 PIERRE TOLDO
lement une apparence draraalique. Les genres différents se
mèlent et se confondent dans cette querelle à peu près corame
certains organismes oìi l'on ne saurait déterminer au juste
où l'animai finit et oìi la piante ou le rocher commencent.
Il faut toutefois reconnaìtre que le théàtre est, dans la plupart
des cas, défavorable aux femmes, de sorte que dans cette
querelle les auteurs draraatiques se rangent le plus souvent
du coté des accusateurs, répétant à l'ennui les mèmes griefs,
appuyés des mèmes exemples. L'esprit comique ayant pour
but la critique, plutót que la louange, la plaisanterie plutót
que le raisonnement froid et impartial, ne saurait negliger
une source si importante du rire. lei, comme dans les fa-
bliaux, il faut bien plaisanter sur les faiblesses humaines et
de tout temps et à toute epoque la nouvelle et la comédie
populaire se sont égayées à ces tirades soi-disant satiriques,
dont il ne faut pourtant par exagérer la portée.
Dans plusieurs pièces dramatiques, qui n'ont pas toutefois
le but de combattre directement les femmes, lorsque le dis-
cours tombe sur elles, il faut bien s'attendre à des attaques
de ce genre. Le Sermon joyeux et de grande value *) est
adressé à « tous les foulx qui sont dessoubz la nue » et le
sermonneur, après avoir parie de cette respectable confrérie,
qui compte des adeptes dans tous les rangs, dans tous les pays
et dans tous les àges, fous « lours, habilles, privez, estranges,
sages >, s'en prend aux jaloux :
Helas! povres sotz malostrus,
N'estes-vous pas bien folles testes
De vouloir garder telles bestes?
Note les ditz et retien-les
Que dit le saige Socrates :
In animalibus bis foratis in viscerihus bassis, non est adhibenda fides.
') Cfr. Beciieil Viollet Le Due, IP voi.
ÈTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOTEN AGE 200
A quoi bon se creuser le cerveau pour dompter ces étres
d'autant plus forts qu'ils paraissent faibles?
Car, si tu estoys aussi eaige
Que Salomon, si elle a couraige
De mal faire, (ja) ne se gardera
Pour toy, mais fa9on trouvera
De parvenir à son dessein.
La consultation célèbre de Panurge est dans l'esprit du
XVP siècle, seuleraent les maris du théàtre de cette epoque
ont le tort de demander des conseils, après que le mariage
a été célèbre. Le conseil au nouveau marie est une farce
très simple et son auteur avait sans doute quelque connais-
sance du chef-d'ceuvre de Rabelais *). Le héros de la pièce
se présente sur la scène, pour demander « conseil de bouche
et d'escript » aux « clercz » sur la manière d'éviter les mal-
heurs du mariage.
Le Docteur le re^oit assez bien, d'autant plus quelejeune
homme n'oublie pas de récompenser la science, qu'il va étaler
pour lui :
Quatre escus d'or pour vostre peine,
mais son cas est très grave. La femme n'a que dix-huit ans,
àge trop tendre, pour que le mari puisse éviter « le perii...
d'estre » ce que vous savez. Toutefois, avec beaucoup de pru-
dence, il se peut qu' il puisse sauver son front. Ce doni il faut
qu'il soit bien doué c'est la patience, ensuite il doit lui ètre
fidèle:
Aussi l'Evangile le dit,
Que ceulx qui de glayve ferront
Pour certain de glayve mourront,
') La première édition de cette pièce (cfr. ed. Le Due, P voi.) est
de 1547.
210 PIERRE TOLDO
et en troisiòrae lieu il lo prie de ferraer les yeux, coùle que
coùte, s'il veut garder la paix domestique. Quoi qu'il arri ve,
et quoi qu'elle fasse, il faut bien que le mari paraisse toujours
persuade de la vertu de sa femme, sans oublier loutefois le
bàton :
amour sans crainte ne vault rien.
D'ailleurs celui qui a accepté le joug nuptial est sur au
moins de tenir un jour un rang honoré parmi les martyrs:
Tu seras homme plus martyr
Que sainct Laurens qu'on fit rostir.
L'esprit de cette farce est lourd et on a de la peine aujour-
d'hui à comprendre comment des pièces pareilles pouvaient
égayer nos aieux. Mais la consultation du mariage amusera
encore le public du XVIP siècle écoutant George Dandin.
Dans une autre vieille pièce comique. Le pèlerinage du ma-
riage *), imitée par Claude Mermet, dans LepèlerHn, lapèlerine
et deux peiits enfants, on volt une vieille pèlerine, qui par-
court avec deux enfants la route, conduisant au mariage.
Mais un pòlerin, que l'àge a rendu méfìant, tàche de les dé-
tourner de leur but, ce qui donne lieu à un débat pour et
contre le mariage, oìi Fon trouve des argumentations de cette
force : « Le mariage — dit un jeune homme — a été établi par
Dieu et ce sacreraent, sur la terre, lient lieu de paradis ter-
restre ». Et le vieillard: «Si Dieu l'estime de la sorte, pourquoi
ne s'est-il pas marie?! » L'idée du mariage de Dieu est, sans
doute, plus originale que les litanies burlesques qu'on chante
ensuite:
Sancta Fachessa ne fasches poinct nobis.
Sancta Grondina ne touches nobis
Sancta Jalousia recules de nobis
*) Cfr. édit. Leroux De Lincy et Fran9. Michel, Recueil de farces, etc,
Paris, 1837.
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 211
renfermant la longue énumération dos défauts des femmes et
des maria.
Nous avons aussi, et toujours dans le mème goùt, les dia-
logues, n'ayant pas pourtant un caraclère dramatique, sur les
joies et sur les peines de l'amour indépendamment du ma-
riage. On n'a qu'à lire les Dèbats du jeune et du vieulx
aìnoureux, le Dèbat du vieti et du jeune, etc. *) et la farce
<Ju Vieil amour eux et du jeune amoureux *), où le vieillard,
à sun mépris pour les folies de la jeunesse, ajoute les louanges
de la chasteté, selon la conception chrétienne.
Le caractère du débat, c'est-à-dire de la réplique directe
où l'on se borne à afìlrmer ou à nier, en opposant aux cri-
tiques des louanges sans qu'il y ait de véritable dispute, peut
étre expliqué facilement en citant au hasard quelques vers
de ce dialogue :
Le vieti. Femmes nous font bestes
Et rompre les testes
Par cris et tempestes.
Et tousiours sont prestes
Nous estre uuysanteB.
Le jeune. Femmes sont segretes
En amour discretea
Doulces mygnonnetes
Et tant bien parlantes
Parfois les disputes d'amour n'ont pas ce fond pessimiste
€t renferment plutót un autre genre de questions fort à la
mode au raoyen àge, et dont la farce des deux amoureux
de Cléraent Marot nous présente un exemple célèbre. Mais il
faut le dire tout de suite, ce nom de farce est fort mal ap-
*) Cfr. Anciennes poésies frang., citées, t. VII, p. 211; t. IX, p. 216,
') Cfr. édit. citée Leroux De Lincy et Franf. Michel.
212 PIERRE TOLDO
pljqué à cette composilion, qui n'a pas memo un vérilable
caractère dramatique. Marot veut démonlrer les joies d'un
amour assez chaste, visant au mariage et l'apparition de la
jeune fille, dans l'église, « le propre jour de Pasques », cet
amour naissant dans un nuage parfumé d'encens, rappelle de
près le sonnet du Pétrarque:
Era il giorno che al sol si scoloraro
Le nom de farce ne me parait pas non plus convenir à
une pièce non moins célèbre de Marguerite de Navarre, Les
deva; filles, les deux femmes et la veuve, et à une autre
portant pour litre Les mal contentes, où il est question de
ce sentiraent qui pousse les femmes aussi bien que les hommes
à se plaindre toujours de leur état.
Dans les nouvelles de Tépcque, on lit souventd'autres genres
de débats, se rapportant à l'idèe de la sensualilé outrée du beau
sexe. Des jeunc s femmes se plaignent de n'avoir pas trouvé
dans le mariage assez de joies; d'autres accusent ouvertement
leurs maris d'impuissance. On a recours aux parents de la
mariée ou à un juge, qui donne des sentences plus ou moins
comiques. Cette insatiabilité de la femme forme aussi le fond de
plusieurs fabliaux, qui reconnaissent come type l'histoire de la
Dame qui averne demandoUpour Morel sa provende avoir *).
On a beau vanter sa vigueur et sa jeunesse; on n'en a jamais
assez pour assouvir une femme, témoin ce qui arriva au
Valet aux douze femmes *), qui ne put suflire à une seule.
Un pauvre chevalier, qui a le malheur d'ètre faible dans les
') Cfr. édit. Barbazan, 808, IV' voi. Voyez aussi: " De la demoisele
qui ne pooit oir parler de f... , [Recueil Montaiglon, III, p. 65). " La
Pucele qui abevra le polain; Porcelet etc. , (ibid.).
') Barbazan, IIP voi.
ETUDES SUK LE THÉATUE COMIQUE KUANCAIS bV MOYEN AGE 213
combats d'amour, est honni par la dame du Sentier baitu ').
Prenez les contes du Poggio (XLII) et vous y verrez l'his-
toire de la jeune mariée, se plaignant fort à tort devant ses
parents du peu de vigueur de son mari. Dans les Ceni nou-
velles nouvelles (86«) le débat a lieu à la présence d'un juge
et la nouvelle mariée est appuyée dans ses réclamations par
sa mère, qui a des raisons personnelles, pour bien comprendrfj
la déception de sa fille. Ce récit est reproduit dans le Grand
Parangon (175«): « D'un homme de Rouen, qui print en ma-
riage une gente et jeune fille de l'eage de XV ans ou environ,
lesquels la mère de la fille cuida bien faire desmarier par
monseigneur l'officiai de Rouen et de la sentence que le dit
oflicial en donna, après les parties par luy ouyes ».
Le réve des jeunes filles est pour les auteurs des fabliaux
et des farces, un mari bien dispos et gaillard et l'on aurait
beaucoup de tort d'ajouter foi à leur chasteté d'eraprunt.
Écoutez le récit d'une damoisele qui onques pour ne lui ne
se volt marier, mais volt voler en Vair, et de celle qui ne
pooit oir parler de f...... prenez tous les contes d'Italie et de
France, reproduisant la méme donnée et vous verrez que
c'est là une opinion bien répandue, au moins chez les yens
en belle humeur.
On comprend donc la cure ordonnée par Frère Philibert,
dans la farce indiquée par ce nom, à la jeune fille malade,
Qu'elle converse
Avec le genre masculin,
et c'est là aussi l'ordonnance de Molière. Si l'ignorance pra-
tique des joies de l'amour peut servir de contrainte aux
jeunes filles, on comprend l'entraìnement à la sensualité des
*) Montaiglon, III*- voi., p. 75.
StudJ di filolofjia romanza , IX. ■,.
14
214 PltKKE TOLUU
femmes mariées. C'est là encore le sujet de maintes farces,
mettant en action le fond et parfois les sujets des nouvelles
que nous venons d'indiquer rapidement.
Dans une farce bien connue de Gringore '), nous avons
affaire à un conte appartenant à ce groupe de la fera me
mal-mariée. Raoullet Ployart a eu le tort d'épouser une de-
moiselle trop jeune et trop vive pour lui et qui domande à
deux personnages allégoriques, Fair e et Dire, ce qu'elle n'a
pu trouver dans son ménage. Il s'ensuit une sorte de procès
devant le seigneur du village, qui donne gain de cause à la
femme, se fondant sur une équivoque, le labourage de la terre,
ce qui forme aussi le sujet d'un conte populaire reproduit
par D'Ouville^). La farce des femines qui demandeni les
arrèrages de leurs maris et les font obliger par nisi, re-
produit la mèrae donnée. lei une femme mécontente de son
mari le fait ajourner devant le juge, demandant les arrèrages
de cinq années. La parodie des formes judiciaires réjouit ces
scènes très vulgaires.
Enfin les plaintes de la jeune mariée que le Poggio, Tauteur
des Ceni nouvelles nouvelles, et d'autres encore nous ont fait
entendre tout à l'heure, se répètent dans la farce du nouveau
marie qui ne peult fournir à Vappoinctement de sa femme.
Celle-ci vient se plaindre à ses parents des déceptions qu'elle
essuie dans son ménage :
Vous m'avez la plus mal pourveue
Que jamais fille 89auroit estre.
Son pére tàche en vain de l'apaiser; à son àge il éprouve
un sens de compassion pour les faiblesses de certains maris.
') Édit. D'Héricault et De Montaiglon, 1858, I" voi.
^) Cfr. G. B. Maeciiesi, Fer la storia della novella italiana nel se-
colo XVII, Roma, 1897, p. 114.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 215
mais sa mère interpelle vivement son beau-fils, qui ne trouve
d'autre moyen, pour so tirer d'afTaire, que de démontrer
de visu, que sa femme et sa belle-mère ont tous les torts du
monde. On reconnaìt la validité de ses bonnes raisons et la
mère finit par éprouver comme un sens d'envie à l'égard de
sa fille. Prend garde, dit-elle à son mari, de ne me pas donner
de pareils sujets de plainte. Je m en plaindrais encore plus
haut qu'elle. G'est une école, on le voit, d'une moralité édi-
fiante.
Ges pauvres maris cherchent donc tous les moyens pos-
sibles pour rajeunir. Il y a par exemple le villain d'une
farce, publiée par M"" Émile Picot *), qui se met en route
pour retrouver la fontaine de Jouvence. Sa femme lui a dit
très clairement qu'elle n'en veut plus de lui:
Mais advisez le beau maintien,
(Et) quel faulx villain engroignés!
Par Dieu! il est plus refroignés
Que n'est ung cinge de trante ans.
Et, par Dieu! Je pers bien mon temps
Avec ung villain malheureux.
Mais le vilain a beau demander des nouvelles de cette
source merveilleuse célébròe par les poèmes et par les lé-
gendes populaires du moyen age. Un peintre qu'il rencontre
et avec lequel il entre en conversation, lui propose à son
tour de le rajeunir gràce à son art merveilleux:
Se vous en voullés rien despendre,
Je vous feray, sans plus attendre,
Venir en l'easre de trante ans.
*) Farce inèdite du XVF siede, publiée d'après un manuscrit des
Archives de la Nièvre par Émile Picot. Paris, Ledere, 1900 (Extraitdu
Bulletin du Bibliophile) .
216 PIERHE TOLDO
Le peintre lui barbouille le visage de son pinceau, lui
extorque de l'argent et l'envoie chez sa femme, qui lui fait
un accueil auquel le bonhomme ne s'attendait point:
Ha! villain, allez vous laver!
Que le grant diable vous emporte!
A peu que je n'ay esté morte
De peur que m'avés fait avoir.
Un autre groupe de ces farces répète à l'ennui l'allégorie
fort facile à comprendre des femmes qui font escurer leurs
chaulderons et qui trouve son modèle dans le fabliau Do
maignen qui f... la dame ^). Il est question toujours de l'ha-
bileté des chaudronniers, des serruriers et d'autres gens pa-
reils à pourvoir aux besoins des femmes, plaisanterie suggérée
par leur métier. Dans la farce citée, on assiste à un dialogue
entre deux femmes, se plaignant, avec une modestie qu'on
ne saurait assez louer, des jeùnes auxquels leurs maris les
condamnent. Mais elles iront chercher ailleurs, ce qu'elles ne
trouvent pas dans leur ménage. Le ciel, s'écrie l'une d'elles ,
Pourquoi nous a-il icy rais,
Se n'est pour oeuvre de nature?
Et puis c'est la loy de droicture
Faire plaisir les uns aux autres.
Le maignen passe, en répétant son cri et les deux danìes
s'empressent de le mener à leurs maisons.
On peut comprendre dans ce groupe certains métiers, don-
nani lieu à ime équivoque du mème genre, tei que le ramon-
neur de cheminèes% qui sait « ramoner la cheminée hault
') Recueil Montaiglon, V voi.
') Voyez Recueil de poésies frang. des XF* et XVP siècles par M. De
Montaiglon, P' voi., Sermons,
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANgAIS DU MOYEN AGE 217
et bas », et qui avoue daus son sermon que, malgré ses efforts,
il n'est pas à raème de contenter tout le monde féminin, qui
a recours à lui. Dans une troisiòrae farce *), portant le raème
titre, mais à quatre personnages, le ramoneur, qui vieillit,
est berne par les femmes et par son valet. Gelui-ci, dans la
fleur de l'àge, pense de le remplacer en tout et partout, mais
le vieil ouvrier ne se décourage point et pousse encore son
cri afifaibli :
Ramonnez vos cheminées,
Jeunes femmes, ramonnez.
Remarquons, en passant, qu'il y a, dans cette pièce, un
souvenir évident d'une des pages les plus enjouées de l'oeuvre
de Rabelais, là où le moine répond, par monosyllabes, à toutes
les questions qu'on lui adresse :
Le varlet. Qui vous diroit à voix basse:
Prens dix escus en ma tasse,
Qu'en diriez-vous?
Le ramonneur. Rien.
Le varlet. Ou de vuyder une tasse
Et humer la souppe grasse,
Vous le feriez?
Le ramonneur. Bien.
Le varlet. Et vous fussent assignées
A dormir grans matinées,
Quel estat, quel?
Le ramonneur. Bon.
Le varlet. Mais pour housser cheminées,
Là où vertus sont minées.
Il ne vous en chault.
Le ramonneur. Non.
*) Recueil Viollet le Due, U® voi.; Rabelais, Pantagruel, V livre,
eh. XXVIII.
218 PIERRE TOLDO
L equivoque du maignen et du ramonneur est répétée
dans une farce italienne d'Alione d'Asti *), le Lanternero, où
nous voyons deux femmes se plaignant de leurs maris et le
lanternero qui se charge d'arranger leurs lanternes.
Dans cet état de choses, il arrive que les maris font souvent
de necessitò vertu et ne pouvant assouvir les passions ardentes
de leurs femmes, ferraent un oeil et mème tous les deux,
pourvu qu'ils aient au moins la paix dans leur ménage. Tel
est le sens de la farce moralisée, où l'on met en scène deux
hommes et leurs deux femmes, dont fune a inaile teste et
Vanire est iendre de e..., sorte de débat entro Colin, dont la
femme est vertueuse mais acariàtre, et Mathieu qui a trouvé
en Jeanne une compagne charmante pour tout le monde et
pour lui aussi. Mathieu déclare à son ami qu'il ne veut rien
savoir de la conduite de sa femme:
Que dyable ay-je affaire
De cercher ce qui m'est contraire
Et ce que ne vouldroys (point) trouver?...
La bonne à battre s'empire,
Et la maulvaise en devient pire.
Il vaut donc mieux se fier à sa moitié et bien que le banquet
que celle-ci lui offre ait une provenance suspecte, il se con-
tente très philosophiquement de la déclaration que Jeanne lui
fait de l'avoir payé « en beau contant ».
Jeunes fìlles, mariées et veuves, toutes sont dominées par
une sensualité pathologique et l'esprit de la legende de la
matrone d'Éphèse, née dans la plus haute antiquité, revit
dans les contes et dans le théàtre du moyen àge. Nous la re-
verrons sous peu elle-mème en action.
M (Euvre citée.
ÉTUDES SUR LE THKATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 219
L'autoritó du mari.
A l'epoque où les farces commencent, cette liitte est déjà
fort ancienne. G'est le débat entra les deux sexes, avec des
conciliations individuelles plus nombreuses qu'avouées. L'idéal
féminin du moyen ago, avons-nous dit, c'est la femme qui obéit
et qui souffre en silence; celle qui veut dominer à la maison,
ayant le sentiraent de sa personnalité, doit se considérer
corame une rebelle, que la force masculine contraindra à
Tobéissance. Malheur au mari qui n'est pas un homme à poi-
gne ! Il sera flétri de ridicule, plus encore que celui qui
ignore que l'araoureux róde autour de sa maison; sa faiblesse
n'est pas une affaire individuelle, elle tourne au préjudice de
tout son sexe et il faut bien que quelqu'un se charge d'en
revendiquer les droits. G'est le cas du fabliau de la male
dame, alias de la dame qui fu escoillièe, dame acariàtre,
orgueilleuse, devant qui le mari baisse toujours la tète. Un
certain comte se prend d'amour pour leur fìUe et pour
l'avoir, il doit s'accorder avec le pére, qui feindra de la lui
refuser. G'est le seul moyen pour l'emporter sur l'esprit de
contradiction de la mère. Mais le comte n'est pas homme à
se résigner à la supréraatie férainine, ainsi que son beau-père.
Il va se charger de la vengeance de son sexe et après avoir
réduit à l'obéissance sa femme, il fait subir à sa belle-mère
une opération simulée, qui doit la guérir, pour toujours, de
ses velléités de domination. Parfois c'est le mari lui-méme,
qui, après avoir enduro tonte sorte de violations de son auto-
rifé, secoue le joug et déclare qu'il n'y a d'autre maitre à la
maison que lui. Demandez à Hugues Piaucele quel est le
moyen employé par sire Hain contre daw,e Anieuse :
220 PIERRE TOLDO
Hues Piaucele qui trova
Cest fablel, par roson prova
Que cil qui a fame rubeste
Est garnis de mauvese teste.
Sire Hain met ses braies au milieu de la cour :
Et qui conquerre les porrà
Par bone reson mousterra
Qu'il est sire et dame du nostre.
Dame Anieuse se présente au combat armée de griffes et
d'injures, la lutte est longue et envenimée, mais la force de
l'homme finit par avoir le dessus sur la faiblesse de la femme,
règie de la nature physique, considérée alors comme fonde-
ment des rapports d'ordre moral ').
Il en est de mème de ce Bonanno de Ser Benizo, dont nous
parie Sacchetti (nouv.GXXXVIIP), raarchand pacifique «trapu
et lourdaud », qui s'arrae de pied en cap et parcourt sa
maison, l'épée à la main, pour ranger à l'ordre sa femme et
ses doraestiques, meltant, lui aussi, les culottos par terre,
comme signe d'autorité et auxquelles personne n'oserà toucher.
L'expression frangaise porter culottes et en italien portar
calzoni est encore très commune des deux còtés des Alpes*).
Il y a aussi des personnages se chargeant, de bon gre, et
pour l'amour de l'art et de la gioire, de dompter l'orgueil
féminin. Tel est, pour nous en tenir à Sacchetti, Fra Michele
Porcelli {nouy. LXXXVP), qui voyant l'humeur d'une certaine
') Voyez là-dessus pour des rapprochements, Bédier, ouvr. cité à la
page 428 et passim.
^) La méme donnée se trouve, avec quelques changements, dans une
des comédies de Nelli, écrivain italien bien connu pour ses imitations
de Molière. La pièce, dont il est ici question, porte pour titre La
moglie in calzoni, mais c'est la femme qui a le dessus.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANgAlS DU MOYEN AGE 221
femme, atlend qu'eiie soit veuve et l'épouse, rien que pour lui
apprendre coinment il faul obéir. La malheureuse tàche de se
révolter, mais elle a affaire à un maitre redoutable, dispose à la
tuer et lui faisant subir un véritable martyre. La femme finit
par baisser la tele, se déclarant, pour toujours, vaincue et sou-
mise. Rien de plus ignoble quo cette sorte de luttes, où la
force brutale rempv)rte à coups de poings et de bàton et ce
qui nous étonne le plus c'est de voir ces sentiments partagés
par un des esprits les plus éclairés du moyen àge, Boccace
lui-mème.
On Ut, en effet, dans une des nouvelles du Decameron (IX, 9)
qu'un jeune homme deraande conseil à Salomon pour savoir
comment il pourra dompter l'entetement de sa femme. Le
grand Prince, pour toute réponse, lui dit de se rendre à un
certain pont, le « ponte all'oca », où l'on voit comment les
rauletiers font marcher leurs mulets à coups de bàton. Ce que
la Reine des jeux dit là-dessus sert de commen taire à la doc-
trine de l'écrivain italien: « Si vous considérez attentivement
l'ordre des choses humaines, vous verrez que les femmes sont
soumises, par la nature elle-mème, à la domination des hommes,
de sorte qu'elles doivent agir et vivre selon le plaisir de leurs
maìtres. Il faut, partant, que la femme, qui désire vivre con-
solée et tranquille, se montre toujours résignée, humble et
patiente à l'ógard de son seigneur... ».
G'est par l'examen de l'imitation de cette nouvelle, que
nous pouvons voir ce que disent, là-dessus, les auteurs comi-
ques de l'epoque et les sources qu ils tirent des nouvelles.
Dans la farce du pont aux asgnes, nous assistons, d'abord,
à un débat entre le Mary et la Femme. Le premier ne veut
renoncer d'aucune manière à ses droits de maitre :
C'est la raison, tant que vivrez,
Que de nous vous portez la peine
Femmes doibvent couvrir la table,
222 PIERRE TOLDO
Mettre dessus linge honorable ;
Aux gens de bien, s'on les admeine,
Monstrer un semblant amyable
Et faire chère convenable
Femmes doibvent pour leur honneur
Tenir leurs barons en doulceur
Mais la femme profeste, de toutes ses forces :
Ce sera quand je seray morte
Doncques quo je t'obeiray.
Le mari trouve que ce serait probableraent trop tard, et il
s'adresse pour avoir un conseil là-dessus non pas à Salomon,
mais à un certain Domine De, parlant un baragouin italien,
presque incompréhensible et se disant né en Calabre. Sa ré-
ponse est toujours celle du conseiller de Boccace :
Vade, tenés le pont aux asgnes.
Le pont aux ànes présente le mème spectacle que celui
de l'ole. Un boscheron dompte un àne obstiné à grands coups:
Trottez, Nolly, trottcz, trottez,
Vous avez trouvé vostre maistre.
Et afin que i'exemple soit bien évident, il ajoute:
Gens mariez, notez, notez;
Tout se explique en ceste lettre.
Il va sans dire que le mari tire profit de la legon regue
et revenu chez lui eraploie la méme méthode, pour maìtriser
sa femme :
Trottez, vieille, trottez, trottez
Le sujet du conte de Boccace ne se retrouve, au moins d'après
mes recherches, que dans le Pecorone de Ser Giovanni Fio-
rentino, là où Boezio conseille Ciucolo de se rendre « al
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AG E 223
ponte a Sant'Agnolo », dans le méme but et avec la méme
application (J. V., n. 2).
La Farce du Savetier reproduit, de méme, l'idée inspira-
trice de plusieurs fabliaux et des nonvelles italiennes, surtout
de celles de Sacchetti: un homme se chargeant de dompter
la femme obstinée d'un autre mari. Le savetier, en question, a
commencé son apprentissage chez lui, c'est-à-dire en réduisant
sa propre ferarae à lui obéir en tout et partout. Toujours
souriante, elle s'empresse de lui étre agréable:
A! vous ne me seriez commander
Chose que pour vous je ne fise,
et bien qu'il soit fort exigeant, elle se fait un plaisir d'aller
au devant de ses désirs. Il s'ensuit que, malgré la misere,
ce couple peut se dire heureux. On trouverait, denosjours,
ce mari fort egoiste, mais selon les idées de l'epoque il était
le maitre idéal de la famille.
Vis-à-vis de lui ou voit un certain Jaquet, pauvre homme,
Gomme son nom paraìt l'indiquer et qui a eu le malheur d'é-
pouser une femme, dont le nom de Proserpine, redoutable à
l'enfer lui-méme, indique, à son tour, le ròle qu'elle joue dans
son ménage. Jaquet est là tremblant devant sa femme, qui le
regarde du haut de sa grandeur et ne lui permet pas méme
d'exprimer un désir. Le savetier, fort étonné de la sottise de
son voisin, se charge de ranger au devoir la terrible Pro-
serpine, pourvu que Jaquet la lui cède, pour quelques instants.
L'échange a lieu tout de suite dans un cabaret et le bon-
horame part, en regardant de travers Proserpine et son ami,
qu'il croit désormais perdu pour toujours, un vrai Daniel
dans la fosse aux lions.
Le savetier commencé par établir ses droits sur Proserpine:
Votre mary vous a donne à moy
Et je luy ay donne Marquet
224 PIERRE TOLDO
et son ècole des fem?nes s'inspire direclement à la théorie
de Salomon. Le savetier ordonne à Proserpine de chanter:
Proserpine refuse et le savetier lui applique la première cor-
rection de manu ; après il lui ordonne de faire je ne vous
dirai pas quoi: Proserpine refuse de nouveau, mais les coups
lui font, aussitót, changer d'avis. Enfin deux ou trois exemples
sufflsenl.
Le savetier est évidemment un bon maitre, ses leQons don-
nent des résultats aussi satisfaisants que rapides, et l'écolière,
loin de se plaindre, se déclare fort satisfaite.
Je me tiens la plus heureuse
De ce monde.
L'auteur a oublié de nous faire voir le revers de la mé-
daille, Marquet changeant de caractère à son tour et deve-
nant, sous la main de Jaquet, aussi acariàtre que Proserpine
est douce; ce changement aurait ajouté à la gaieté de la
pièce.
Dans les Facétieuses nuits de Straparole (Vili, 2) on trouve
une source encore plus directe que celle de la tradition popu-
laire renfermée dans la nouvelle de Sacchetti : « Deux soldats
frères espousent deux sceurs; l'un flatte et caresse sa femme,
laquelle ne lui veut obéir; l'autre menace la sienne, qui fait
tout ce qu'il lui commande ». La vengeance d'un mari sur la
ferarae d'un autre forme aussi le sujet d'un autre conte du
mème auteur (VI, 1).
Une farce bien plus connue, le Cuvier, s'inspirant à un
conte, ou mieux encore à un cycle de contes qu'on a su dé-
terrainer avec soin *), met en scène un autre genre de luttes,
') Voyez là-dessus les notes très intéressantes de M.M. Émile Picot
et Christophe Nyrop dans le Nourean recueil de farces franraises des
XV^ etXVJe siàcles, Paris, 1880, p. x sgg., et une notice de M"" Nyrop,
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 225
pour la conquéte du pouvoir. Il y est question d'un mari
excessivement soumis aux ordres de sa femrae et de sa belle-
mère, qui lui imposent un rollet, c'est-à-dire une liste très
longue des choses, qu'il doit faire, dans son ménage. Sa
femme tombe dans le cuvier et crie au secours. Le mari qui
n'a qu'à lui tendre la main, pour la sauver, s'amuse tranquil-
lement à lire son rollet, pour voir si le cas de tirer sa femme
du cuvier y est contemplò, et comme il n'y trouve rien à ce
propos, il déclare qu'il va la laisser noyer. La femme, sur lo
point de mourir, cherche tous les moyens pour fléchir son
mari ; sa mère le prie à son tour ; enfìn le mari consent, mais
sous condition que le rollet soit mis en pièces et qu'il de-
viendra désormais le maitre chez lui.
Jaquinot, de méme que sire Hain du fabliau, n'est pas d'ail-
leurs fort persuade que sa femme continuerà longtemps à
lui obéir: « Heureux seray, se (le) marcile tient ».
Sire Hain avait déjà dit: « Je ne sai se ce est en foi ».
Les sources indiquées par M. M. Picot et Nyrop sont très
nombreuses et nous transportent sur les bords du Gange.
Gourou Paramartant avait déjà eu une aventure pareille
avec ses disciples ; un allemand, J. Pauli, s'en était servi pour
réjouir ses lecteurs et Modini et Straparola *) ne l'avaient
non plus oubliée.
Si je ne me trorape, les savants éditeurs ont passe sous si-
lence la version qu'en donne Ludovic Domenichi dans ses
Facèlies ^). Cette version n'offre rien d'important, car il s'agit
dans la Romania (1882, p. 412), La farce du cuvier et un proverhe nor-
végien, où il s'agit de l'application inverse du rollet, car ici c'est le
mari qui l'impose à sa femme et qui doit ensuite en invoquer la
pitie.
*) MoRLiNi, nouv. 74 ; Straparola, XIII, 7.
') Ed. de Venise, 1590, p. 252, V= livre.
226 PIE REE TOLDO
tuujours d'un conlrat écrit entre un maitre et son valet. Les
ressemblances de toutes ces rédaclions indiquent que nous
avons affaire à une mème famille de nouvelles, mais aucune
ne révèle une filiation directe, aucune ne renferme toute la
donnée de la farce.
Le mème Domenichi, que nous venons de citer *), nous conte
qu'un certain mari, dont la femme appartenait, en tout et
partout, à la lignee de Proserpine, jouait de la cornemuse,
lorsque celle-ci s'emportait et remplissait la maison de ses
cris, et cette nouvelle avait été déjà contèe en France, par
Dos Périers, si Des Périers en est l'auteur, dans ses Joyeux
Devis (115*=). G'est là oìi il expose « la manière de faire taire
et dancer les femmes, lors que leur avertin les prend ». Le
madre compère « se prenoit à jouer d'une fleute qu'il avoit »•
et sa femme était forcéc de se taire, de crainle d'éclater
de rage.
Pogge (fac. 259^) et Des Périers (122*) avaient conte aussi
l'historiette d'un tei qui se moque d'un autre, par des chan-
sons, et en Italie on emploie le verbe canzonare dans le sens
de se moquer d'autrui. Dans le folklore ces canzonature
sont aussi très fréquentes.
G'est à cette donnée que s'inspire la farce de Calbain, un
autre savelier; mais ici, corame dans les autres, que nous'
allons examiner, le mari doit enfln baisser la téte. G'est la
revanche des femmes. La femme de Calbain veut une robe
et d'autres cboses encore. Son mari lui répond par des chan-
sons; elle crie et les chansons redoublent; enfin, de guerre
lasse, la femme garde le silence. Mais le 'galland vient à son
secours. 11 lui conseille d'endormir son mari, moyennant un
narcotique, et de prodter de son assoupissement pour lui voler
') Ibid., p. 165.
ÉTUDES SUR I.E THÈaTRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 227
sa bourse. Lorsque le mari s'éveillera et, ne trouvant plus
son argent, poussera les hauts cris. elle lui répondra, à son
tour, par des chansons. Gela arrive à souhait. Calbain a beau
la menacer et la flatter des noras les plus tendres. Il l'appelle
rri'arnyeile et Vamijette lui fait rime en violette, de sorte
qu'il doit savouer vaincu et la prier de cesser sa musique:
Ha, taisez-vous m'amye, paix, paix!
Je cognois bien que c'est ma faulte.
La conclusion est celle, que nous connaissons déjà depuis
longtemps: «Tel trompe au loing, qui est trompé ».
lei le poète s'amuse sur ce mot de trompeur :
Trompeurs sont de trompés trompez;
Trompant trompettez au fcrompé
L'homme est trompé.
Adieu, trompeurs, adieu, Messiers,
Excusez le trompeur et sa femme.
C'est le triomphe de la irromperle dans un crescendo digne
de Rossini.
Le symbole des culottes représentant l'autorité du mari,
varie quelque peu dans la farce du cousturier, du chaus-
setier et de tnaistre Antitus. lei la coiffe remplaee les cu-
lottes, cu pour raieux dire en représente le contraire. Si les
premières signifìent le eomraandement, la coiffe représente done
lobéissance. Les deux femmes, qui, d'après le jugement de
maitre Antitus, coiftent leurs'maris, vengent madame Anieuse
et les femmes de Sacchetti. Ges deux maris, aussi malheureux
que niais, travaillent sans relàehe tandis que les joyeuses
commères s'amusent au cabaret et napportent à la maison
que la poussière et la bone des rues. Les deux maris se con-
solent réciproquement :
228 PIERRE TOLDO
Cousturier. Sans cesse elle me veut battre.
Chaussetier. Si fait la mienne corame piastre,
Et si me mauclit comme un thien
Qu'el fust noyée en la rivière.
Cousturier. Sainct Jean, il ne m'en chaudroit guere
S'ils estoient toutcs deux noyées.
Sentimenis très louables et payés de retour !
Monseigneur Antitus a Tair d"ètre le seigneur du village
et peut-étre a-t-il ses bonnes raisons, pour se ranger du coté
des femmes.
Un des défauts les plus sensibles de ces dames est celai de
l'entéteraent. On connait la nouvelle du Pogge, touchant cette
femme, qui mème sur le point de se noyer, continuait à ap-
peler son mari pouilleux. Marie de France, dans ses Fables
(II, 379), avait déjà conte à peu près la mème chose et le
fabliau do pré iondu est fonde sur la mème idée.
Un paysan'voit un pré et dit à sa femme: Voilà un pré
fauché, et celle-ci repartit aussitòt, pour le seul plaisir de
contredire:
N'est pas fauchiez, ains est tondu.
Le paysan se fàche, la querelle s'échauffe, le mari frappe»
la femme crie, mais malgré les coups qui pleuvent sur son
dos, elle ne veut pas en démordre:
Là ne pot de mot soner;
Convint c'à ses doiz à montrer
Qu'il est bertodez et tonduz.
G'est le cas de la femme de Rifflart, dans la farce YOhsti-
nation des femmes. Le mari voudrait metlre une pie dans
la cage, qu'il vient d'arranger exprès. Sa femme proteste;
elle y meltra un coqu, jeu de mots d"un sens assez clair.
Rifflart menace, lève sa main, mais tout débat est inutile. La
femme l'emporte et le mari achètera le coucou.
ÉTUDES SUR LE THÉATRK COMUjUE FRA.NgAIS DU MOYEN AGE 229
Meme dans ce cas particulier, catte donnée n'est pas in-
connue aux auteurs des fabliaux *).
L'obstination de la femrae forme aussi le fond de la farce
nouvelle d'un chauldronnier, dont la source a étó déjà in-
diquée^); mais c'est une obstination mèlée d'autres éléments
et qu'on pourrait definir un pari plaisant. La pièce s'ouvre
par une violente querelle entro les deux ópoux; le mari em-
poigne un bàton, sa femme se jette sur lui et la victoire cette
fois couronne le sexe faible:
Victoire et domination,
Et bormet aux femmes soit donne!
Le mari se plaint ensuite de ce qua sa femme ne sait se
lenir tranquille; celle-ci déclare à son tour qu'elle va restar,
pendant longtemps, dans l'immobilité la plus absolue, le mari
en fera de mèrae et colui qui bougera le premier aura perdu
le pari. Les voilà tous les deux immobiles, corame des statues.
Un chaudronnior qui passe s etonne de ce spectacle. Il
coiffe le mari dun chaudron, le barbouille de noir et attaché
à ses mains une cueillère et un pot, dont l'usage est facile à
deviner. Pour la femme c'esl autre chose. Elle est bien jolie
et le chaudronnier s'approche d'elle, la caresse, la baise et
Dieu sait ce qu'il en ferait si le mari ne crùt convenable
d'intervenir :
L'homme. Le dyable te puist emporter,
Truant, paillart
La femme. Nostre Dame, vous avez perdu,
Je suis demourée maistresse.
Enfin toute chose s'arrange et les deux époux, avec le chau-
') Voyez là-dessus Bédier, Les fabliaux, pp. 20-22.
*) Voyez Petit De Jllleville, Répertoire cité, sous ce titre.
Stu^j di filolofiia romanza, IX. jt
230 PIERRE TOLbO
dronnier, vont boire au cabaret le vin du pari, « Bedouyne —
dit un certain mari d'un conte de Straparole à sa ferame, se
refusant de feraier la porte (Vili, 1) — je veux, faire un accord
avec toi, que le premier, qui parlerà de nous deux, fermerà
l'huis >. L'accord est accepté. Le mari se tient debout sur un
banc, la ferame se conche; un valet qui passe s'apergoit de
la chose et s'approche de la femme. Ce qui se passe ensuite
ne présente avec la farce que des différences de détails.
Il s'ensuit de tout ce que nous venons de voir, que les
femraes et les maris ne font bon ménage, que par exception.
Leur désir le plus vif est donc de modifier, autant que pos-
sible, leurs moitiés et les femmes surtout ont recours aux rays-
tères de la négromancie pour transformer et surtout pour
rajeunir les corapagnons de leur vie. L'eau qui rajeunit ap-
partient à ces croyances du moyen àge, dont le souvenir ne
s'est pas encore effacé, et dont nous avons vu tout-à-l'heure
un exemple dans la farce de la fontaine de jouvence. On re-
trouve cette eau merveilleuse mèlée à d'autres moyens étranges
pour rajeunir dans les contes de l'orient de mème que dans le
fotk-lore ') et Virgile lui aussi se serait dans ce but, selon la
legende, fait couper par morceaux et saler. Malheureusement
un incident quelconque rompt le charme. G'est là ce que
la mythologie avait déjà conte de Médée et nous n avons qu'à
renvoyer aux savantes études de M. M. Graesse, Simrock et
Comparetti, touchant ce sujet *).
Rien donc de plus naturel que la mème legende revive
dans les farces, avec des raodifications plus ou moins sensibles.
Les femmes qui font refondre leur^s maris, par un fondeur
') Voyez Sinhàsana-dvàtrin^ikà [Indische Studien, t. XV, 1878, p. 364);
E. CosQuiN, Contes populaires lorrams {Romania, 1881, p. 176) et Stra-
parole cité, par M. Cosquin.
^) Graesse, Die Suge der eivig. lude, p. 44 ; Simuock, Handh. der deut-
schenMyth., Il" édit., p. 260; Compaketti, Virgilio nel Medio Evo, p. 156.
ÉTUDKS SUR LE THKATRE COMIQUE KRANCAIS DU MOVEN AGE 231
qui exécule ces opérations mcrveilleuses. n'ont pas à s'en
rejou.r. Il est vrai que Jeannette a quelques raisons, pour se
plamdre de son raariage. Son bonhomme a beau énuraérer
tous les biens, qu"!! possedè, et toutes les choses. qu'il peut
lui donner: habits, bijoux, fétes, mets exquis. etc.
Son àge lui empèche de contenter sa femme en ce qu'elle
aimerait le raieux.
Ha, m'amye, qui ne peult, ne peult
Celluy mestier n'est pas science.
Fernette a, à son tour, des griefs contre son Gollart:
Tousjours il ne faict que grongner;
Tousjours ne cesse de tousser,
Cracher, niphler, souffler, ronfler
et Collari, lorsqu'elle passe à un sujet très délicat et facile
à deviner, répond ainsi que son compère:
Qui faict ce qu'il peult (il) est excuse.
Le fondeur, avant d'entreprendre cette opération assez dif-
ficile, tàche de persuader aux femmes qu'elles ont tort d etre
mécontentes. Malgré leurs imperfections, ces maris sont, au
bout des comptes, des gens aimables, soumis et patients. Il se
pourrait aussi qu'il arrivai quelque raalheur:
Et s'il y avoit faute de matières,
En les fondant d'un cueur joyeulx,
Que pour ung homme en viennent deux?
^''^«^««- Tant mieuk vauldra;
Mais qu'ilz soyent bons laboureurs.
L'un sera pour les jours ouvriers,
Et l'aultre pour les bonnes festes.
La chaudière est chauflee, les maris fondent lentement et
en sortent l'un après l'autre rajeunis, fringants, mais changés
aussi entièrement de caractère. Leurs femmes, qui s'étaient
232 PIERRE TOLDO
' réjouies tout d'abord de cette transformation, doivent se re-
pentir ensuite de leur sottise. Thibaut secrie, le premier:
Je veulx gouverner à mon tour,
et Collart ajoute:
Je vous garderay bien de rire.
Bref, c'est la résurrection du maitre absolu, dans toutes
sa puissance et dans son inflexibilité de tyran domestique.
Un Troqueur de maris est le héros d'une autre farce, où
l'on met en scène trois commères, qui voudraient changer
leurs maris, vieux, cassés et jaloux. Le troqueur, ou marchand
de maris, présente plusieurs spécimens de sa marchandise,
mais les commères les refusent ; l'un est ridicule, l'autre un
monstre de laideur, le troisième pis encore a l'air d'impuissant,
de sorte que le troqueur se retire, bien siìr qu'il ne trou-
vera jamais, dans sa boutique, aucun article, qui puisse les
contenter. La pièce a pour but de déraontrer l'incontentabilité
du beau sexe et en mème temps de nous apprendre que ce
que les femmes cherchent surtout, c'est ce qu'elles ont l'air
de dédaigner.
Les maris ne sont pas plus ménagés. Ils voudraient, eux
aussi, changer de femmes, mais à quoi bon ce changement?
ajoutent ces poètes. L'une vaut l'autre et l'on tombe souvent de
fìèvre en cbaud mal. Tel est le malheur, qui arriva, par exeraple,
à ce Marceau, dont les frères Parfait, sous le titre la Farce
des femmes salèes, nons content l'histoire douloureuse. lei, au
lieu d'un vrai troqueur ou d'un fondeur tout-puissant, on a
affaire à un véritable escroc. Marceau, le mari de la pièce,
a une ferame, dont le naturel trop doux lui paraìt insuppor-
table. Il s'en plaint à un de ses amis, se trouvant dans le
mème cas, et tous les deux s'adressent
A maistre Macé, lequel est
Grand philosophe.
ÈTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 233
Celui-ci se charge de saler les deux femmes, et dans ce
but il les appella chez lui et les persuade à changer de mé-
thode. Montrez-vous, dit-il, acariàtres et battez-les. G'est ainsi
qua vous pourrez vous venger du tort que vos maris, les
pauvres sots. font à votre douceur. Les raaris, à l'accueil de
leurs femmes, trouvent que maitre Macé a rais trop de sei
dans son breuvage et ils voudraient qu' il les adoucìt. Mais
le fripon s'écrie qu' il est tard :
Lea douces je 89ai bien saller,
Mais touchant de dessaller point,
de sorte que les malheureux baissent leur tète aussi repentis
que les femmes du troqueur.
Enfin ces querelles entre les époux naissent souvent pour
des causes à la vérité pas trop sérieuses. Dans la farce nou-
velle et fort joyeuse du pect, on volt un certain Hubert citer
sa femme devant un juge, pour la raison que le titre indique
et ce sujet du dernier plat dut paraìtre assez plaisant à cette
epoque, si Aliene d'Asti crut convenable de le reproduire en
Italie, sous le titre de Peron e Cheinna qui plaidèrent per
un peto. L'imitation d'Alione est evidente et démontre la
vulgarité de ces inspirations et en mème temps leur popu-
larité. A tei public tei spectacle !
Maris trompés.
L'histoire en est très longue et rien moins qu'édifiante.
Ainsi que chez les auteurs des fabliaux et des nouvelles, le
mari berne et trahi est tellement commun dans ce théàtre,
qu'on peut presque croire que mari et trompé ne sont que
des synonymes. Toutes les ruses possibles, tous les expédients
les plus étranges sont mis en ceuvre pour duper la benne foi de
ces malheureux pródestinés. Le mari est, d'après une vieille
234 PIERRE TOLDO
comparaison qui regoit ici une application bien exacte, comme
le capitaine d'une ville assiégée, qui aurait des ennemis au
dehurs et au dedans, ennemis d'autant plus tcrribles qu'ils se
présentent à lui le scurire sur les lèvres et la trahison dans le
coeur. Il aura beau se tenir sur ses gardes, fermer les portes,
défendre à sa compagne toute sorte de coramunication. La
ferame sortirà méme de la tour la plus sùve, eluderà la garde
la plus étroite et si le mari la surprend entro les bras de son
rivai, elle lui fermerà les yeux, ou lui fera croire qu'il vient
de rèver. Rien de plus absurde que de garder une femrae.
G'est ainsi que nous trouvons, dans les nouvelles tout d'abord
dans les farces ensuite, les tours les plus curieux et les plus
ridicules. Le mari surprend sa femme avec son amoureux, la
flétrit de coups, lui coupé les cheveux, appello ses parents,
mais la femme, par un coup d'audace, s'est fait remplacer par
une de ses voisines et le terrible vengeur de la foi conjugale
reste berne et s'avoue vaincu. G'est le fabliau des tresces.
Ailleurs au lieu d'un amoureux, nous en avons deux ou trois à
la fois. La ruse féminine ne se laisse imposer pas mème par le
nombre et par l'évidence.
Elle ordonne au premier amoureux de se feindre poursuivi
par ses ennemis et le présente à son bonhomme, ainsi qu'un mal-
heureux invoquant son' ospitante. G'est le fabliau que Boccace
a rendu célèbre dans l'aventure de Lambet^iucczo. Un mari rem-
place le galant, pour convaincre sa femme d'adultere. Gelle-ci
s'en apergoit et empruntant l'aspect de la vertu la plus farouche,
bat ou fait battre son maitre. Voilà le mari cocu, battu et
content du chevalier, de sa dame et du clerc. Dans lo Prestre
Ili abevete, celui-ci fait accroire à un paysan que ce qu'il voit
de ses yeux n'est qu'une illusion diabolique; dans le Vilaìn
de Bailleul, un autre paysan se laisse persuader qu'il est mori
et se tient coi, tandis que le cure ombrasse sa tendre moitié.
Enfin la femme, non contente de se tirer d'affaire, s'amuse à
e
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 235
la ruse pour faire parade de ses ressources; elle cache l'amou-
reux qu'elle pourrait faire fuir, et conte au mari, d'un air
goguenard, tout ce qui se passe vraiment chez lui. Le bon-
homme croit à un badinage, on n'oserait lui center des choses
pareilles; mais son aimable épouse insiste. Elle lui demande
ce qu'il va faire de l'amoureux cache sous le Ut, et lorsque
le mari entre en fureur et met Tépée à la main, la friponne
part d'un éclat de rire et lui jette un drap sur la tète. G'est
le dit dou PliQoyi. Le comble de ces plaisanteries est atteint
dans la Gageure des trois commères, fabliau qui fit le tour
du monde aussi bien que celui des hraies au cordelier, ap-
portées et consignées par le mari en grande cérémonie au
couvent. Et le fabliau, parfois grossier, se transforma dans
les aventures galantes des personnages du Decameron. La
femme de Gianni Lotterighi lui fait accroire que l'amant,
qui frappe à la porte, doit ètre un fantóme et tous les deux
chantent une oraison pour l'éloigner (VI, 1); Peronella feint
que son amoureux achète un tonneau (VI, 2); une autre,
d'après l'ancien fabliau des iresces, convaincue d'adultere, met
à sa place une de ses voisines et persuade le bonhomme qu'il
a rèvé; enfin une dame ne sachant comment s'y prendre pour
faire connaìtre son amour à un jeune homme, prie son con-
fesseur de vouloir le réprimander de ses assìduités, et il en
éveille ainsi l'attention (III, 3).
Toutes ces nouvelles, remaniées de mille fagons, passant de
bouche en bouche et de livre en livre, parcourent la France,
ritalie, le monde tout entier; on les retrouve, avons-nous dit,
sur les bords du Gange, de la Seine et du Tibre. Marguerite de
Navarre, elle-méme, malgré la vertu, rtialgré son rang de femme
et de princesse, n'a pas oublié d'en mettre un certain nombre
dans son Heptaméron, tout en tàchant de nous présenter quel-
ques femmes de bien, résistant à la violence des puissants, ou
supportant avec résignation l'abandon de leurs maris. G'est ainsi
236 PIERRE TOLDO
que nóus lisons, dans son oeuvre, la « Subtilité d'une femme,
qui fit evader son ami », le « Subtil moyen dont usoit un
grand prince pour jouir de la femme d'un avocat de Paris »
et d'autres tours pareils. Et la charge ecclésiastique ne défend
pas à Poggio de gorger ses oeuvres de ces contes saugrenus
et libres ni à Bandello de nous faire rire par des récits, où Fon
apergoit parfois des taches de sang.
Tonte cette littérature entoure, inspire et domine les pièces
comiques non seuleraent du moyen àge et de la Renaissance,
mais aussi celles des époques postérieures. La plaisanterie est
au fond toujours la mème. Le mari de la farce devient, pour
ainsi dire, un raccourci de toutes les sottises humaines et
l'actio!! a soin d'insister sur les détails pornographiques qu'elle
peut bien présenter aux yeux de son public, tandis que les
nouvellistes devaient se borner à en amuser les oreilles. Le
triomphe de la ruse féminine est pròne donc de mille fagons
et les sujets de toutes ces aventures sont toujours du ressort
de la littérature narrative. La comédie postérieure à la Re-
naissance a affaire, au contraire, à des spectateurs plus délicats
et ménage partout les convenances. Au fond on n'est pas plus
chaste, mais les mots sont moins grossiers et le rideau se
baisse à propos.
Abordons cette revue par les faits qui précèdent les noces.
Du matin on pourra deviner la journée. Les malheurs com-
mencent donc le jour mème du raariage et la condition la
plus commune pour un nouveau marie de ces farces c'est
de trouver que la jeune fìUe qu'il croyait vierge d'àrae et
de corps, ne saurait prétendre. sous aucun titre, à la fìeur
d'orange. Il est vrai que plusieurs gargons ont assez d'esprit
pour éviter ces méprises. Prenez la farce de Jehan de Lagny
et de messire Jean et vous verrez que malgré tonte l'élo-
quence de ce dernier, Jean de Lagny se tire d'affaire on
ne pourrait raieux. Trois jeunes fìlles se plaignent, au début
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANC-AIS DU MOYEN AGE 237
\«ie la pièce, de ce que Jean de Lagny les a trompées toutes
les trois, en leur faisant accroire, que le mariage arran-
gerai t bientót leur situation équivoque. Mais en trois comment
épouser un seul homme? Jean de Lagny, entouró par ces
belles, ne se perd pas de courage:
J'ai promys et promais encore
Vous espouser, je ne say quant
et il ajoute à peu près comrae Don Juan de Molière, qu'il
épousera celle-ci ou celle-là lorsqu'il épousera les aulres.
Traine devant le juge et après avoir subì le requisì toire de
l'avocat des plaignantes, il se seri de l'amour de ces filles
pour combattre l'avocat lui-mèrae, l'accusant d'un tas de
faiblesses galantes. Le juge lui donne gain de cause et con-
darane messire Jean.
11 n'en est pas de mème de l'amoureux de l'autre farce.
La mere, la fìlle, le tesmoing, l'amoureulx et Vofìfìcial, mais
ici le pauvre gargon a affaire à une mère, dont l'expérience
doit nécessairement avoir le dessus sur son étourderie. Le
beau Colin a abusé de la bonne foi d'une jeune Alle, qui s'en
plaint à sa mère. Celle-ci le ci te en jugement et le juge a
l'air d'un homme de bien, au raoins si l'on veut ajouter foi
à ce qu'il dit:
Celuy qui est droict maintenant
Est prisé de Dieu et des hommes.
On pourrait toutefois avoir quelque doute là-dessus lorsqu'on
entend la mère l'avertir que le coupable « n'est pas un trop
grand seigneur ». La scène judiciaire est fort plaisante; la
mère interrompi à tout moment la fille, pour parler en son
nora; le témoin bat la campagne et le juge doit le rappeler
au sujet de la cause; tout est assez anime et d'après nature;
le seul dont le caractère n'ait aucun relief c'est ce pauvre
238 PIERRE TOLDO
amoureux traine à rhyménée comrae à la potence. Tel est
le sujet de la XXV« des Cent nouvelles nouvelles, avec le mème
débat devant le juge *).
Si l'on va jusqu'à éprouver un certain sentiment de cora-
passion pour le beau Colin, on doit, au contraire, se féliciter
de la punition bien raéritée d'un autre galant trop malin.
Son aventure est exposée dans le Sei^mon joyeuLv d'une;
fianca qui emprunte ung pain sur la fournée, à radattre
sur le temps advenir, et mes lecteurs, habitués au langage
de ces écrivains, n'auront pas de peine à comprendre de
quel pain il est question. Ce serraon, comme tous les autres,
a un début sérieux et constitue la parodie des prédicateurs
de réglise. Le prècheur n'a pas une idée fort élevée de la
vertu féminine, et, dans son pessiraisme, il ne respecte pas
mème le souvenir de sa mère:
Il me souvient bien quand ma mère
Disoit qu'elle estoit prude femme,
Mais qu'il en soit, par Nostre-Dame
Je n'oseroy de rien jurer.
Un jeune homme, dit-il, a profitó de l'inexpérience d'une
jeune Alle, pour la séduire. La mère de celle-ci, fort fàchée
de l'aventure, déclare qu'elle ne perraettra jamais à sa Alle
d'épouser un tei fripon. La pauvrette, fort troublée, conte à
son amoureux la déclaration maternelle, le priant de défaire
leur engagement et l'amoureux trouve qu'il y a un remède
bien simple à tout cela:
') La farce du porteur d'eau se fonde, elle aussi, sur la mème donnée.
Il est question d'un gar9on, qui a promis d'épouser une jeune fille et
qui se sauve le jour mème du mariage, en emportant l'argent et les
cadeaux. Les conviés se trouvent contraints de payer le banquet et la
musique et finissent par venir aux mains. Rien n'empèche de croire
qu'il s'agit là d'une véritable aventure.
ÉTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE KRANCAIS DU MOYEN AGE 239
L'autre jour voua fustes dessubz
A present je seray dessoubz.
La chose se passe comme il dit et voilà le mariage défait.
Peu de temps après, le beau gargon se marie à une jeune fìlle
et la première nuit de son mariage, il lui conte cette aven-
ture. L'épouse rit aux éclats et déclare qu'il a dù avoir
affaire à une Alle bien sotte, car pour son compte, elle n'a
jamais dit à sa mère ses petits secrets galants:
Aussi nostre gentil varlet
Si me l'a fait plus de cent fois.
Le mari a beau se fàcher, encore une fois: « à trompeur,
trompeur et demy » dit le sermonneur, et c'est là la conclu-
sion édifiante de la pièce.
Il y a ici le souvenir d'un conte de Pogge et de TArienti,
reproduit raaintes fois en Italie et en France. L'aventure de
messer Ludovico Araldo, qu'on lit dans les Porreiane, est
tout à fait pareille. « Un jeune homme abuse d'une jeune fìlle,
qu'il devait épouser. La mère de celle-ci défait le mariage.
Le jeune homme en épouse une autre et se trouve moqué »
(XXX). La Repensa merces, de Pogge, insiste surlout sur la
seconde partie : « Aliquid suspicans mali, noctu rogavit virum,
ecquid ille sibi voluisset risus. Tergi versantem detundendo
compulit, ut fabulam referret, et simul illius stultitiam accu-
saret. Tum uxor: Gontristetur illam deus quae tam fuit amens,
ut id notura fecisset matri. Quid enim opus erat, ut mairi
vestrum concubitum referret? Me quidem noster famulus am-
plius centies cognovit, neque ullum unquam verbum a me
innotuit matri ». L'auteur des Cent nouvelles nouvelles conte
à son tour: « d'ung compaignon picart demourant à Brucelles,
lequel engrossa la fille de son maistre; et à ceste cause, print
cangie de haulte heure et vint en Plcardie soy marier. Et
tost après son partement, la mere de la fille s'apperceut de
240 PIERRE TOLDO
l'encoleure de sadicte fille, laquelle, à quelque meschief que
ce feust, confessa à sa mere le cas tei qu'il estoit: et sa mere
la renvoya devers ledit compaignon pour luy deffaire ce qu'il
lui avoit fait. Et du reffuz que la nouvelle mariée fist audit
compaignon, et du compte qu'elle luy compta; à l'occasion
duquel d'elle se departit incontinent et retourna à sa premiere
amoureuse ». La conclusion varie, mais le fond de la plai-
santerie demeure toujours le mème *).
Le pauvre Jolyet de la farce, qui porte son nom, doit at-
tendre quelques jours, avant d'apprendre les équipées de sa
femme. Il a toutefois le bonheur de ne pas coraprendre toute
la portée de sa mésaventure; son esprit on ne pourrait plus
borné, le fait rentrer au nombre de ces sots, auxquels on
fait accroire toute sorte d'absurdité. L'auteur présente notre
personnage en pleine lune de miei ; il ombrasse sa femme sur
la scène, il conte les détails de ses amours et la bonne femme
affecte une certaine retenue et la pudeur d'une nouvelle
mariée. Il n'y a en effet que quinze jours qu'elle a donne sa
raain à Jolyet; malheureusement ces quinze jours ont suffl
pour la mettre en condition d'avoir un enfant au bout du
mois. Le bonhomme n'a pas tort de s'en étonner:
Et comment? Je suis affollé
Qu'en ung moys j'ai faict ung enfant,
Et les aultres y mettent tant.
Peu à peu toutefois il s'épouvante de la fécondité extra-
ordinaire de sa compagne. Si la chose continue comme ga. il
aura douze enfants par an, une famille formidable, sur les
bras;
Ce seroit, au bout de six ans
Tout droit LX douze enfans.
Et le gibet seroit fournir
A les elever et nourrir.
') Nouv. Vili. Pour d'autres versions voy. mon Contributo, p. 13.
ÈTUUES SUR LE THÈATRE COMIQUE KRANCAIS DU MOYEN AGE 241
En prole à une inquiétude très vive, il se rend, avec sa
femme, chez son beau-père. Celle fecondilo prodigieuse n'est
pas dans le contrai de leur mariage et le beau-père voudra
bien avoir la complaisance de reprendre sa fille. Tout d abord
celui-ci ne comprend rien à l'affaire et va compromettre sa
Alle; mais celle-ci intervieni à lemps, donne des explications
à sa manière et Jolyet est rassurè sur la menace des soixante-
douze enfants.
Le beau-père. Nous ferons cest apointement,
Mon fìlz Jolyet, par ainsi
Que vous nourirez cestuy-cy.
Mais s'elle en a ne deux ne troys
Plus que (de) dix moys en dix moys
Je me submetz à mes despens
Los nourrir et (en) prens la charge.
Jolyet est trop rusé, pour se contenter d'une déclaration
verbale. Il oblige son beau-père de coucher cela par écrit et
il pari de là, bras dessus bras dessous avec sa femme, qui le
flatte à propos de son contrai:
Ha, que vous estes ung fin maistre!
Dans les farces d'Alione d'Asti *), on retrouve la mème
donnée. Sibrina, l'épouse de Nicora, est dans la situation
idenlique de la femme de Jolyet et le débat qui s'ensuit ne
varie que dans les délails. Mais le beau-père est remplacó par
une belle-mère et Nicora n'est pas si exigeant que Jolyet et
se passe du contrai écrit.
lei encore on a affaire à la mise en scène d'une nouvelle.
En effet dans les Novelle antiche^), on conte qu'un médecin
0 Voyez Bruno Cotkonei, Le farse di Aliane, ecc., Reggio Ca-
labria, 1889.
*) Édit. Biagi, Florence, 1880, pp. lxxx-83.
242 PIERRE TOLDO
épouse la nièce d'un archevèque, qui au bout de deux mois
lui fait cadeau d'un enfant. Le médecin alors se rend chez
l'archevèque et se plaint à lui de la fecondile de sa femme,
car si elle continue de la sorte il ne saura comment entre-
tenir une Ielle famille. L'auteur ne dit pas ce que l'arche-
vèque rèpondit au bonhomme, mais la réponse est tout à fait
naturelle et facile à ajouter. La mème historiette est répétée
dans les Cent nouvelles nouvelles (XXIX*) et le mari, dont
tout le monde se moque, fìnit par se séparer de sa femme.
On a affaire ensuite aux femmes, se vengeant des jeùnes
prolongés, que leurs maris leur font endurer. Telle est cette
dame, dont on parie dans la Farce nouvelle des chambrières,
et dont le mari règie ses devoirs coniugaux sur les vigiles
et sur le cours des astres:
M'amye, nous sommes en decours;
Attendre fault la pleine lune
Et le croissant.
G'est là aussi le sujet d'une nouvelle bien connue du Boc-
cace (II, 10), où il est question, de mème, d'un juge appre-
nant à sa femme un calendrier singulier, qui n'est nullement
à son goùt « et il voulait la persuader de respecter les quatre-
teraps, les vigiles des apótres et de beaucoup d'autres saints,
ainsi que le vendredi, le samedi, le dimancbe du Seigneur,
le carèrae et certains points de la lune ». Ce sujet est exploité
par Sercambi, dans sa nouvelle De prelato adultero, où le
vieux mari dit à sa femme: « Oggi è la festa di S. Patrizio,
domane si digiuna l'avvento; l'altro dì sono le quattro tem-
pora » et il passe en France, dans les Cent nouv. nouvelles
(86*), dans le Grand Parangon (175*), dans les Joyeux Devis
(XGV), dans les PlaUantes nouvelles (Lyon, 1555) et dans le
Calendrier des vieillards de La Fontaine. Il n'y a donc de
quoi s'étonner si les femmes, qui ont affaire à de tels maris,
ÈTUDES SUR LE THÈaTRE GOiUQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 24it
les trompent avec le premier venu. La rage érotique du sexe
ne saurait endurer de telles abstinences. Mais il arrive aussi que
les dames n'ont pas mème de ces circonslances atténuantes. La
femrae est vicieuse et elle tromperait son mari, quand il serait
plus fort que le dieu Mars, en personne. Le choix des amou-
reux est fait, d'ailleurs, le plus souvent au hasard. En general
on choisit un homme d'église, cure ou moine, car les reli-
gieux sont des amoureux toujours à la disposition de leurs
pénitentes, frais, dispos et au surplus ne logeant pas le diable
dans leur bourse. Dans les classes les plus élevées, les dames
préfòrent parfois des chevaliers, mais c'est toujours selon le
goùt ou selon le caprice individuel, car le débat entre celles
qui préfèrent les clercs et celles qui aiment mieux les gens
de guerre, est très vieux dans la littérature du moyen àge.
D'ailleurs avec ces femmes sensuelles et capricieuses, il faut
toujours s'altendre à Vheure du herger.
Un fabliau inspire la Farce du Poulier, à quatre person-
nages, dont la source que l'on a recherchée jusqu'à présent,
est au moins fort douteuse. C'est l'histoire, a-t-on dit, de
l'amant se cachant dans le poulailler, telle qu'on la Ut dans
le Decameron (VII, 6), dans les Facèlies du Pogge (X), dans
VHitopadésa, eie. *). Je crois que les critiques ont fait fausse
route. J'avoue, par exemple, que je ne saurais trouver en
quoi la farce ressemble à cette nouvelle du Decameron, où
il s'agit d'un mari battu et content. Un certain Ludovic, dit
Boccace, s'étant épris d'amour pour une dame, madonna Be-
ritola, lui fait une déclaration ardente, acceptée sans trop de
difficulté. La dame donne rendez-vous dans sa propre chambre
•) Voyez p. 228 de l'édit. de la Bibl. Elz. Voyez aussi, pour les
sources indiquées, le Répertoire de M"" Petit de Julleville et Romania
(1872, p. 20); cfr. aussi Bédieb, Les fabliaiix, p. 406 e sgg.
244 PIERRE TOLDO
à l'amoureux et lorsque le jeune hommi; sVst approché du
lit, où madonna Beritola repose à coté de son mari, la brave
dame, soit pour éprouver la valeur de Ludovic, soit pour se
délivrer de son mari, conte à celui-ci ce qui s'est passe entre
elle et Ludovic, en ajoutant quo le jeune homme l'attend dans
le jardin, où le mari fera très bien de le rejoindre. Le mari
se lève; Ludovic délivré de toute contrainte, passe quelques
instants délicieux auprès de Beritola, puis, d'après le conseil
de sa maitresse, se rcnd dans le jardin, feint de prendre le
mari pour la dame et l'accueille à coups de bàton, comme si
sa déclaration avait été une ruse, pour en éprouver la vertu.
On n'a qu'à lire le sujet de la farce, pour voir disparaìtre
toute ressemblance réelle. Celle-ci nous expose l'aventure d'un
bonhomme de mari, qui connaìt bien les torts que sa femme
lui fait, mais qui n'a pas l'autorité nécessaire pour la con-
traindre au devoir:
C'est pityé, je n'ay nul repos.
Encore sy j'en tiens propos
A ma femme, elle me veult batre.
Ce trait caracléristique d'un groupe de ces maris poltrons
et sots est confirmé par le dialogue entre les deux époux.
Le bonhomme voudrait bien dire ce qui lui cause tant de
soucis, mais à peine prononce-t-il quelques mots, sa femme
l'interrompt brusquement. Enfln il est obligé de se rendre au
marche pour y acheter des cochons, mais comme ses soupgons
lui empèchent de prendre une décision à ce propos, il va et
revient continuellement, ce qui fait enrager la femme, forcée de
cacher son amoureux, tout d'abord sous du linge, ensuite dans
le poulailler. Enfin le mari prend son coeur à deux mains,
s'approche de la cachette, furéte partout et à la femme, qui le
questionne là-dessus, il répond par un jaonais idiot et répété
si souvent qu'on soupgonne un accès de folle. La bonne femme
ÉTUDES SUR LE TUEATUE CO.MIQLE KUA.NgAIS ÙV MOYEN AGE 245
se dispose méme à entreprendre un pèlerinage, pour qu'il
reprenne sa raison et prie, en atlendant, sa voisine d'aller
quérir de l'eau bénite, pour l'exorciser. Mais le mari insiste
avec son jamais et découvre le mystère. La femme ne se
trouble point; elle invente sur le coup une historiette, qu'elle
débite avec beaucoup d'aplomb et que l'araoureux a soin de
confirmer en tout et partout:
DeuLs gros ribauldx, ses ennemys,
Le cachoyent a grans coup d'espee,
La teste luy eusent coupee
Sy ne l'eust gaigne en courir.
Et pour le povre secourir
Je l'ay faict entrer en ce lieu.
Le mari a bien l'air de n'y ajouter aucune foi, mais prò
bono pacis, il consent à reconnaìtre que ses soupgons sont
dénoués de tout fondement, surtout lorsque la voisine lui
donne un certain nombre de coups de poing. Il se décide
méme à prier l'amoureux de vouloir bien lui rendre visite
de temps en temps et la moralité de la pièce est renfermée
dans ces derniers vers:
Il n'y a homme, tant soyt fin,
Et tant est la teste fine,
Que fine femme enfin n'afine.
Et pour oster nostre meranclye.
Une chanson, je vous en prye.
Le conte du Pogge cité comme source n'a lui aussi aucune
ressemblance dircele, car ce n'est pas l'amoureux, qu'on ren-
ferme dans le poulailler, mais bien le mari, auquel la femme
fait accroire qu'il doit se cacher, s'il veut se soustraire aux
poursuites de la justice.
Les sources doivent partant se rechercher ailleurs. Il y a
tout d'abord l'historiette du jeune homme poursuivi par ses
Stu)ìj di filoloqia romamiu IX. jg
246 FIEKHE TOLUO
ennernis et que la ferarae dit avoir sauvé. Ce vieux conte, ré-
pété par plusieurs écrivains, forme partie aussi du Decameron,
comme nous venons de Tindiquer *). L'aulre plaisanterie du
jamais, jmnais du mari, qu'on finit pour prendre pour un fou,
se trouve répétée dans une nouvelle tout à fait ressemblante à
notre farce et faisant partie du Moyen de parvenir de Béroalde
de Verville ^). Comme ce Moyen de parvenir n'est qu'un
recueil de contes Iraditionnels, on n'aura pas trop de peine à
se convaincredu caractère traditionnel d'un tei récit. D'ailleurs
tout lieu est bon pour les femmes des fabliaux et des nou-
velles lorsqu'il s'agit de faire disparaìtre leurs araoureux; elles
les cachent sous une buche, dans un lardier, dans un tonneau,
dans une corbeille, sous le lit, derrière la porte; il y en a
mème une, qui le renferrae dans un étable à porcs et Tamou-
reux se sauve en parlant, ce qui fait croire au mari qu'il
a affaire à un cochon endiablé. C'est là le sujet d'un conte
de Ludovic Domenichi (p. 15, éd.deVenise 1590).
La source de la farce Le ì)on payeur et le sergent boiteux et
horgne a élé mieux déterminée par mes devanciers, mais seule-
ment en partie. C'est l'histoire du mari borgne, auquel la femme
ferme le bon oeil, en disant qu'elle vient de songer qu'il a re-
couvré entiòrement la vue. Cet essai permet à l'amoureux de
s'evader. Je cite les rédactions les plus connues, la Discipline de
Clergie de Pierre Alphonse, les Gesta Romanorum,\e Violier
des histoires romaines, le fabliau de la Mauvaise femme, VHi-
topadèsa (bibl. Elz., p. 217), les Cent nouvelles nouvelles (16«),
Vneptaìnéron (I, 6), Straparole (V. nuit 4®), etc. Pour d'autres
') Cette aventure se trouve de mème dans les Facéties du Pogge
(CCLXVl) et elle avait été déjà exposée dans le Castoiement d'un pére à
son fils (édit. Barbazan, IX); cfr. Romania, VII, 1, et Bédieu (ouvr. cité,
p. 418). Pour d'autres versions plus anciennes {Hitopadésa, ^ukasaptati,
Sindibad, Gesta Bomanorum) voyez aussi mon Contributo, p. 25.
O P. 253, édit. citée.
ÉTUDES SUR LE THKATRE COMIQUE FRANgAIS DU MOYEN AGE 247
rédactions, je renvoie à mon Contributo *). Mais celte aven-
ture n'est pas la seule qu'on rencontre dans la farce. Le
sergent boiteux et borgne, qui s appelle Lucas, a affaire au
Bon Payeur, qui ne veut pas payer une amende. Le sergent
se rend chez lui, le surprend au lit et déclare qu'il ne le
quittera point, s'il ne le pale. Le débiteur le prie d'attendre
au moins qu'il se soit chaussé et lorsque Lucas le lui proraet,
il déclare, qu'il ne se chaussera jamais de sa vie. Ameline,
la femme du sergent, intervient et donne à son mari le con-
seil d'employer un bon fouet :
Faictes le devant luy claquer,
Et puys, s'il ne vous veult payer,
Tailles luy chausses au long du cuyr.
La ruse de la femme donne un résultat fort satisfaisant.
Bon Payeur fait honneur à son nom, en répétant la vieille
sentence: « Tromperye tousjours retourne ». Get épisode se
lit, à peu près, dans les facéties de Ludovic Domenichi, à
pag. 47 de l'édition de Vènise 1590. Le débiteur d'un juif prie
son créancier d'attendre qu'il finisse de faire sa barbe. Le
juif consent. Alors le débiteur ordonne au barbier de partir;
il resterà avec la barbe, pour le reste de sa vie. On n'a pas
ici la revanche du créancier, due probablement à l'auteur de
la farce et qui ne demandait certainement pas un grand effort
d'imagination.
Dans les farces citées, aussi bien que dans la plupart de
celles que nous allons voir, l'accueil que la femme fait à
l'amoureux, pendant l'absence de son mari, est presque tou-
jours identique. On appréte un dìner, auquel l'amoureux, s'il est
riche ou prètre, contribue, lui aussi, pour sa part, et tandis
qu'ils sont en train de faire honneur aux poulets et aux vins,
') P. 16.
248
PIERRE TOLDO
le mari survient et dérange le festin. Ce banquet est suivi,
en general, par un bain et les amants n'ont pas toujours le
temps de faire leur toilette avant l'arrivée du mari. G'est là
le début aussi de plusieurs fabliaux:
Un l'our en sa chambre aveuc li
Avoit ung clerc cointe et joli:
Si mangoient et si buvoient,
Car viande et vin tant avoient
Com il lor vont à volente
chante-t-on dans celui du Clerc qui fu repus (terriere l'escrin^)
et dans le Vilain de Bailleul, la femme pour recevoir le
chapelain:
Bien avoit fet son appareil.
Ja ert li vins ens ou bareil,
Et si avoit le chapon cuit
Et li gastiaus, si com je cuit,
Estoit couvers d'une touaille.
C'est dans le bain que le Prestre qui fu mis au lardier
est attrapé après un banquet exquis, et c'est à la suite d'un
bain que Constant Buhamel se moque des galants de sa
femme. Le banquet et le bain chaud et parfumé appartiennent
donc aux coutumes de l'epoque et les exemples tirés des fa-
bliaux et que l'on pourrait multiplier facilement, se retrouvent
aussi dans les romans cbevaleresques. L'ambiant des farces,
aussi bien que celui des nouvelles, représente donc la réalité
et sert mème à ce point de vue à l'étude de la vie intime
de ce temps.
Colin qui loue et despite Dieu en ung moment, à cause
de sa femme reproduit aussi une nouvelle fort connue, bien
') Montaiglon, IV« voi.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE GOMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 249
qu'elle ait échappé aux crìtiques. Colin aime la bonne chère
et l'oisiveté, de sorte qu'il laisse trop souvent manquer le pain
à la maison. Sa femrae, dans une scène très enjouée, tàche
de le corriger de ce vice et de s'emparer de sa bourse, mais
le mari la repousse durement et arrète d'aller ailleurs, pour
vivre tranquillement, dans un bois fleuri, comme un berger
de VAstrée:
Je m'en voys autre part ouyr
L'oysellet par champs et par boys,
Ronger ma croustre atout des poys
Et besoigner de mon mesti er.
Ne noiis laissons pas imposer par ces déclarations poétiques
de Colin. Le dernier vers exprime le dernier des soucis de
ce fainéant. La pauvre délaissée s'assied sur une pierre et se
livre au désespoir:
Hélas! qua seray-je, meschante
De dueil et desplaisir meurtrie!
Plourer faut et que plus ne chante,
Puisque j'ai perdu ma partie.
Un jeune homme très riche s'approche d'elle, pour la con-
soler. C'est la scène éternelle de Tor qui tente la vertu aux
abois, vainquant peu à peu une résistance qui paraissait, de
prime abord, inébranlable. Elle compiend très bien la chute
qui l'attend, mais comment faire? L'affreuse misere bat à sa
porte et sa jeunesse requiert la joie et l'amour :
Prise suis d'estoc et de taille;
S'on le scet, je seray infame (elle regarde son argent)
J'ay pour avoir meublé et vitaille.
Il n'est celle qu'avoir n'effame.
Quelque teraps s'écoule et la vieille maison, gràce au galant,
se remplit peu à peu de tonte sorte de biens. Colin, après avoir
parcouru beaucoup de pays, revient à la maison, plus dégue-
- nillé qu'auparavant. Sa femme lui fait un fort mauvais accueil.
250 PIERRE TOLDO
A quoi bon ce gueux, qu'elle espérait ne revoir à jamais? Mais
le mari de ces farces a bien des droits que nous aurions,
de nos jours, quelque peine à lui reconnaìtre. Il est toujours
le maitre de la maison, quand mème il l'aurait videe etlaissé
aux autres le soin de la remplir. Colin est d'ailleurs d'un
naturel doux et pacifique, de sorte qu'il se borne à exprimer
sa vive satisfaction pour le bien-ètre qui l'entoure et se con-
tente d'entendre sa ferame lui répéter:
Colin, de la grace de Dieu.
Colin. E ce beau lict, ciel et cortines,
Simaises, potz, casses, bassines,
Dont vous est venu cest aveu?
Femme. Colin, de la grace de Dieu.
Après avoir entendu plusieurs fois ce refrain, qui suit l'é-
numération des trésors renfermés chez lui, Colin est assailli
par une vive tendresse envers son excellente femme, et tombe
à genoux pour remercier le bon Dieu. Mais voilà tout à coup,
paraitre un bébé, d'une paternité fort douteuse. Le bonhomme
s'étonne et se fàche. Sa femme a beau lui répéter : « Colin, de
la grace de Dieu ». Il trouve que le Ciel a tort « De soy
mesler de tant de choses ».
Ce canevas si joli, où il y a, chose très rare pour l'epoque,
un développement assez satisfaisant de situations comiques et
une action complexe et variée, se retrouve, tei quel, dans
la première des facéties du Pogge. Un pauvre raatelot, dit
l'auteur italien, après cinq ans d'absence s'en revient chez
lui. Il retrouve sa maison, qu'il avait" laissée dans le dé-
nouement le plus absolu, aussi bien montée que celle de
Colin. Le matelot énumère, de la mème manière, les meu-
bles, la vaisselle, etc, et sa femme répond à toutes ces ques-
tions que c'était là le résultat de la miséricorde de Dieu. Le
raatelot s'agenouille, remercie le ciel, mais la vue d'un enfant
de trois ans vient gàter sa joie : « la femme répondit qu'il
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 251
s'agissait toujours de la gràce de Dieu. « Alors le bonhomrae
ne put dominer son emportement. Je dois bien remercier le
Seigneur, s'écria-t-il, de ce qu'il ma voulu donner mème des
enfants. Il me semble toutefois qu'il prend trop de part à
mes intérèts ». Je ne connais aucune autre nouvelle, repro-
duisant si exactement la donnée de la farce, mais tout le
monde connait un autre récit, appartenant à la méme fa-
mille, celui de l'enfant qui fut remis au soleil. On le lit dans
les fabliaux (Recueil Montaiglon, V. 1, p. 162), dans les Nou-
velles de Sercambi, De malitia mulier'is adulterae et simili
maliita viri, dans le Libro di novelle antiche (Bologne, nou-
velle 35"), etc. ').
Le fabliau des braies au cordelier, dont le sujet se retrou-
vait déjà, à peu près, dans l'oeuvre d'Apulée, reproduit
maintes et raaintes fois ensuite par Boccace, Sacchetti, Sa-
badino degli Arienti, Poggio, Modini, etc. ^), inspire aussi la
Farce nouvelle de frère Guillebert. Le mari est vieux et le
frère vient sur la scène offrir ses services aux femmes mal
mariées, par une sorte de sermon où la Bible et un latin de
cuisine servent de texteaux plaisanteries les plusoutrées:
Foullando in calihistris,
Intravit per houcham ventris
Bidauldus, purgando renes.
Ncble assistence, retenez
Ces mots pleins de devotion;
C'est touchant l'incamation
De l'ymage de la brayette.
') Cfr. là-dessus Bédier, ouvr. cité, p. 416, les notes à Tédition
Montaiglon (II, 296), celles de M'' Rua. aux nouvelles de Sercambi etc,
et mes notes comparatives à la 19° des Cent nouvelles nouvelles {Con-
tributo, p. 17).
^) Voyez mon Contributo, p. 120; Duxlop-Liebrkciit {Geschichte der
Frosadichtung, pp. 207 et 333) et les notes de M"' Bédier au fabliau
cité (p. 407, appendice).
252 PIERRE TOLDO
Que les jeunes fiUes gardent le silence, et qu'elles ne disent
rien à leiirs mères des baisers qu'on leur dérobe et que les
femmes raariées se montrent généreuses envers tout le monde
et surtout à l'égard des moines.
C'est belle aumosne
Que faire bien à gens d'esglise.
Une femme, qui est en quète d'un amoureux, car elle est
« mise es lacz d'un vieillart » et ne veut voir son « beau
corps pourrir en vers » accepte, sans se faire prier, les offres
du vigoureux moine. Gomment éloigner le mari? Elle feint
d'ètre enceinte de « peu de chose », ajounte-t-elle pour que son
benèt n'en soit pas trop fier et le prie d'aller au marche lui
acheter de « la morue et du vin doulx ». Le mari sort et
Guillebert en prend aussitót la place. Mais le moine n'a pas
un coeur de lion. De mème que la plupart de ces amoureux,
surtout lorsqu'il s'agitdes gens deglise, il tremble au moindre
bruit et demanda fort prudemment:
Au moins y a-il point de fraulde?
Je crains la touche, sur mon ame.
Les femmes n'aiment pas les poltrons et celle-ci le re-
proche rudement:
Pas n'estes digne d'avoir dame,
Puisque vous estes si paoureux.
Frère Guillebert a toutefois ses bonnes raisons, pour se
tenir sur ses gardes. Le mari revient au logis, pour prendre
son bissac. La femme ressent une joie maligne à augmenter
la peur de son galaiit:
Muchez-vous tost en quelque lieu!
S'il vous trouve, vous cstes frit,
et le frère, tremblant de peur, invoque le ciel à son secours:
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 253
Ha, Pater noster et Ave!
Vertu bieu, je suis bien hoché.
Il prie le bon Dieii, en latin et en vulgaire, avec une co-
micité très vive et fort naturelle, qui rappelle Panurge au
milieu de la tempòte. Le mari, qui ne se doute de rien, fouille
gà et là, pour trouver son bissac et il finit par saisir le
hault de chaulses da moine, les quittant ensuite, sans s'aper-
cevoir de sa méprise. Mais la femme en est au désespoir.
Elle appelle sa voisine, lui conte son malheur et celle-ci lui
donne pour conseil d'apaiser la colere que son mari devra
éprouver en s'apercevant de ce qu'il tient en raain, en lui
disant: « Que ce sont les brayes sainct Frangois ». Ges braies
ont une vertu merveilleuse pour les femmes enceintes. La
conclusion est celle que tout les monde connaìt, d'après la
nouvelle du Decameron, et les braies sont rapportées au cou-
vent avec beaucoup de céréraonies :
boutez-vous tous à genouls
Affin que le sainct prie pour nous.
Ce n'est pas la peine de rechercher les petites dififérences,
qu'il y a entre les différentes versions de cette ruse fémi-
nine. Le conte de Boccace paraìt se rapprocher davantage
de la donnée de la farce, qui peut d'ailleurs avoir été tirée
directement de la tradition orale.
Un fabliau non moins connu, celui du chevalìer qui fisi sa
fame confesse (Montaiglon, VI, 178 et I, 178), passe lui aussi,
au moyen de la tradition orale, dans le Decameron (VII, 5)
et de là dans les Ceni nouv. noucelles % inspire en partie,
à mon a vis, la farce porta nt pour ti (re le Badin, la femme et
') Cfr. pour d'autres versions mon Contributo, p. 23, et Liebrecht-
Dunlop cité, p. 490. Voyez aussi ce qu'en dit M"" Bédier (p. 409).
254 PIERRE TOLDO
la charrìbriere. Cette farce assez coraplexe est une de celles
oìi les malheurs du mariage sont représentés le plus dureraent.
Le mari est malade, sa femrae lui souhaite, à tout moment,
la mort et la chambrière rapporte au bonhomme les prières
aimables de sa moitié:
Elle dit que cy vous estiez en terre
Que 8on coeur seroit hors de serre
Et son corps hors d'une grand'peine.
Lorsque la chambrière, en feignant pleurer, dit à la dame,
qiie son mari peut-ètre est déjà mort, celle-ci s'écrie toute
joyeuse:
Va, va, en pleures-tu? je te jure
Par saìnct Benoist, que si fut
Mort il y a dix ans il m'en
Fut de beaucoup mieux qa cil
N'est.
Le mari n'est toutefois pas encore au nombre des trépassés.
Déguisé en prétre, il se rend chez sa moitié pour en décou-
vrir lesintrigues galantes et ayant l'air de vouloir la consoler,
il apprend ainsi, que le prètre dont il a emprunté le nom et
l'aspect, lui a fait tort avec sa femme. Il est console aussi
par ce que celle-ci dit à propos de sa mort:
S'il estoit au parfond de Seine,
Nous n'aurions pas perdu un chou.
La différence substantielle entre cette sorte de confession
et celle du fabliau consiste en ce que, dans le fabliau, le mari
se fait connaitre et la femme doit avoir recours à une autre
ruse, pour lui faire accroire que tout ce qui sest passe n'est
qu'une pure plaisanterie. Ce déguisement de la farce n'est
d'ailleurs qu'un incident comique, car ce qui donne à la pièce
son cachet particulier c'est la scène finale, le mari mourant
ÉTUDES SUR LE THÉATRE GOMIQUE FRANC-US DU MOYEN AGE 255
assistè par cette perle de femme et le delire du nialheureux,
chargeant sa moitió de toute sorte d'injures. Mais l'auteur
déclare que le mari a tort. Il doit se soumettre à sa des-
tinée et la conclusion de cette situation repoussanto et lu-
gubre est toujours la mème des nouvelles et des farces :
Qu'il n'est finesse que d'une femme.
Un autre mari raourant, dont la femme se moque, paraìt
dans la farce du Memiierde qui le diable omporte l'àme. Un
meunier est malade à mort; sa femme le maltraite, l'injurie
et se plaint de tous ses torts:
Le tnunyer. Or suis-je en piteux desconfort
Par maladie griefve et dure;
Car, espoir je n'ay de confort
Au grand mal que mon coeur endure.
La femme. Faat-il pour ung peu de froidure,
Tant de fatras mectre dessus?
A quoi bon un mari sans vigueur? Les femmes n'aiment
les hommes, que pour ce que vous savez et il peut faire son
grand voyage tout de suite, car elle a déjà pourvu à ses
besoins. Le mari tout d'abord s'excuse, ensuite se fàche, mais
sa femme lui donne des bourrades. Elle va lui faire pousser
le dernier soupir à coups de poing :
Qui se marye,
Pour avoir un tei contrepoinct ?
Au moins, s'écrie le malbeureux, ne me laisse pas mourir
comme un chien, souillé de tous mes péchés; et la femme
appelle, pour leconfesser, le prétre, qui est son amoureux. Ce
prètre est accueilli on ne pourrait mieux et la femme entre
un baiser et l'autre lui explique qu'elle l'a dèrangé:
Par ce que mourir
Veult mon mary, dont j'en ay jo^'e.
236 PIERRE TOLDO
Le mari, qui s'apergoit de tout ce qui se passe, exprime son
Tessenti ment, en soupirs et en mots prononcés à demi-voix.
Son refrain mélancoiique «Hélas! pourquoy se marie-on?»
sert de coramentaire à la pièce. Mais le pauvre homme n'osa
révéler ce qu'il pense. Sa terrible compagne est là pour le
raenacer et pour le Trapper. Elle l'oblige de faire bon accueil
au prètre, déguisé pendant quelque temps en cousin, et le
prètre dine avec sa belle sous les yeux du mourant. Getta
scène, qui tourne au tragique, est interrorapue, par un inter-
raède comique, la confession du mourant, une de ces con-
fessions burlesques, dont nous venons de citer plusieurs exem-
ples. Et la conclusion n est pas moins enjouée. Le diable
Berith épie le moment solennel pour emporter l'àme du mau-
nier, et bien que la confession soit entrecoupée par des in-
cidents de ventre, Berith croit convenable de lier son sac à
la partie postérieure du" corps du malade, car c'est de là que
sortent, à ce qu'il parait, les àmes des damnés. Tout CL4a
tourne à sa confusion. Le sac se reraplit d'une matière rien
moins que spirituelle et lorsqu'il l'ouvre devant Sathan, Lu-
cifer, Proserpine et Astaroth, le palais du roi des ténèbres se
remplit d'une puanteur horrible. Proserpine, en dame delicate,
s'en plaint vivement à son Seigneur et le roi des Enfers or-
donne qu'on apprète les étrivières pour le malheureux Berith.
Enfìn Lucifer, pour éviter désormais de pareils incidents, or-
donne qu'on ne regoive plus, dans son royaurae, l'àme d'aucun
meunier: «Car ce n'est que bran et ordure».
Il y a évidemment, dans cette pièce, une sorte de satire
aux meuniers, auxquels on attribuait, au moyen àge et on
leur attribua mème ensuite, la famine et la misere. Le public
devait rire aux gros éclats, en entendant la sentence de Lu-
cifer, mais on devait rire plus encore de la méprise de Berith.
Dans le fabliau dou pet au vilain de Rutebeuf, la satire est
dirigée contre les vilains en frenerai:
ÈTUDKS SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 257
Onques à Jhesu Crist ne plaise
Quc vilainz ait herbergerie
Avec le fil sainte Marie.
La farce reproduit à la lettre tous les incidents de ce fabliau.
Les diables, dit Rutebeuf;
Chapitre tindrent lendemain,
Et s'accordent à cel acort
Que jamais nus ame n'aport,
Qui de vilain sera issue
Mais tandis que, dans la farce, il est question d'exclure les
meuniers seulement de l'enfer, Rutebeuf est plus logique et il
prétend qu'on ferme aux paysans aussi les portes du Paradisi
Ainsint s'acorderent jadis,
Qu'en enfer ne en Paradis,
Ne puct vilains entrer sans doute
On ne doit pas pourtant prendrè au sérieux cette sorte
d'exclusion. Dans les critiques des états, on volt que les portes
du ciel se ferment à bien des gens et d'ailleurs le paysan
saura gagner son paradis, par sa ruse traditionnelle. G'est le
cas de celui qui conquisi Paradis p«r plait, à la grande con-
fusion de Saint Pierre, de Saint Paul et de Saint Thomas.
Et les troraperies des femmes continuent. Fernet qui va
au vin est un benèt de mari, auquel sa femme s'impose. Il
a beau avoir Tceil au guet; madame Pernet se moque de lui
et l'oblige, comme la femme du meunier, de faire bon accueil
à un cousin d'emprunt. D'ailleurs on a su retrouver le coté
faible du bonhomme. Le faux cou'^in se donne des airs de
gentilhomme et lui promet de démontrer qu'il est noble, tout
autant que lui. Pernet, fils d'un vacher, est très flatté de cette
découverte, qui va lui faire tirer le chapeau de tout le
village :
258 PIERRE TOLDO
Je ne craindroy plus les gendarmes
Cornine avoys de coustume,
Su, su, que je m'acoustume,
A porter le bonnet sur l'oreille.
Et la piume sous l'apareille
Tout à Tentour de mon bonnet.
Il faut donc faine bonne chère à ce cousin qui vient de lui
apporter les quartiers de sa noblesse et le mari regoit l'ordre
d'aller acheter ce qu'il faut pour le banquet. Fernet toutefois
n'est pas trop persuade du cousinage. A tout moment et
sous tous les prétextes, il revient sur ses pas, pour voir ce
qui se passe chez lui. L'amonreux et la femme endurent, à
contre gre, cette méfiance du mari, qui les gène, d'autant
plus que le banquet apprèté, il a l'air de vouloir garder sa
place. La femme alors médite une ruse:
Sans le batre, meurtrir ne occire,
Nous luj ferons chauffer la ciré,
et Fernet doit se renfermer dans la cuisine, pour chaufifer
de la ciré, dont il va composer une image contre tonte sorte de
raalheurs, y-compris bien entendu celui qui lui arrive, pen-
dant son absence. Dans la nouvelle de Sercambi, De pigrUiat
un amoureux envoie, de la mème manière et dans le mème
but, un bonhomme de mari dans la cave, mettre en perce
un tonneau ; mais cette ruse de la ciré fondue je ne l'ai trouvée
nulle part.
Un autre mari est envoyé se proraener dans la farce d'im
amoureux, où le bonhomme Roger va consulter un raédecin,
sur la prétendue maladie de sa femme. L'examen de l'urine,
qui a lieu dans cette pièce, se retrouve aussi fort souvent dans
les nouvelles et répond aux habitudes de l'epoque. Dans la
comédie de l'art on voit, à' tout moment, un médecin occupé
de cette besogne et la scène se répète dans le théàtre fran-
gais de la Renaissance. Si Fernet nous représente, d'une
ÉTUDES SUR LE THÈ.VTRE COMIQUE FRANCaIS DU MOYEN AGE 259
manière très vague, le Bourgeois gentilhomme, George le
Veau nous rappelle plus de près les malheurs de George
Dandin. George le Veau a coramis la bètise d epouser une
demoiselle, issue d'une famille noble et orgueilleuse. La de-
raoiselle méprise le bonhomme et lui demande, à tout moment,
« qui es-tu? ». Le mari se désespère, il est enragé de genealogie
et il va consulter le cure (lamant de sa femnie) pour voir
si, par hasard, il ne tiendrait lui aussi à une noble famille.
Le cure fait cacher, par une ruse que nous avons vue s'ap-
pliquer à d'autres intrigues, son clerc Ganimède dans un coin
de réglise. Ganimède joue le róle de Dieu et répond aux
questions, que le bonhomme lui adresse. George recherche
donc ses origines. Il est issu évidemment d'Adam et d'Ève, il
se peut que quelqu'un des Patriarques soit son aìeul direct,
il se flatte mème à un cerlain moment de descendre de Glovis,
mais il ne se rappelle que trop que son pére était savetier
et sa mère la Alle d'un marchand. Le clerc interrompi son
raonologue, pour lui ordonner d'obéir en tout et partout à sa
femme :
Le clerc (faisant Dieu). George, se avoir veulx ma grace,
Croire te convient, sans diftame,
Tout tant que te dira ta femme,
Et obeyr à son vouloir;
Aussi tu feras ton debvoir,
A ton cure la disme rendre
De ton bestiai.
Cela disant, il lui donne pour habit la peau d'un veau, sous
laquelle il doit se présenter à sa femme. Celle-ci feint de ne
pas le reconnaìtre: elle crie qu'elle a affaire à une métamor-
phose infernale et appelle à son secours le cure :
La femme. De l'eau benoiste, mon amy;
Je croy que je deviendray folle.
260 PIERRE TOLDO
Le Cure. Ganymfedes, 9a mon estolle.
Le Clerc. Tenoris et conjurare.
Le Cure. Diabolis inficare
Super nivem dealbabor.
Ego volo, te prenabo.
Que quiers-tu en ceste maison?
Le destin de George est désormais arrèté. Il est devenu
veau de disme, ce qui, dans le langage de l'epoque, voulait
signifier un pauvre d'esprit. On le fait marcher sur quatre
pattes, on le berne, on le repousse et la femme déclare qu'elle
cède au cure cet animai, que le clerc aura soin de raener à
la boucherie. Le bonhomme, devenu tout à fait idiot, n'ose
prolester et il prie seulement qu'on lui donne à boire, avant
de le condaraner à la mort.
Il y a évidemment, dans cette pièce, au milieu des plai-
santeries ordinaires à la mise en scène des veaux des dismes,
réjouissant le théàtre de l'epoque, l'intention de se moquer
des mésalliances. On s'en était déjà moqué dans plusieurs
fabliaux, dans le Fabel d'Aloni, ce vilain riche qui « Fame avoit
assez bele et gente » et laquelle le trompe, de mème que celle
de George le Veau, avec le cure. On s'en était moqué dans
la Castelaine de Saint Gille, contrainte par son pére à donner
sa main à un autre vilain et les dames du moyen àge riaient
dèjà, depuis longtemps, de l'a venture de Berengier au Ione e.
Ce sentiment aristocratique dut se combiner, dans l'esprit
de l'auteur de la farce, au souvenir de la Gageure des trois
commères, représentant le triomphe de la ruse féminine, qui
fait croire à l'horame tonte sorte d absurdité. Le mari trans-
forme par sa femme en veau est un specimen non moins
étonnant de la bètise huraaine, que le mari auquel on fait
accroire qu'il est mort, ou qu'il est devenu moine.
Enfin, parmi les ruses les plus étonnantes des femraes, on
ne doit pas oublier celle qu'on lit dans la 72* des Ceni nou-
ÈTUDES SUR LE THÉaTUK CO.MIQUK FRANC-Als DU MOYEN AGE 2G1
velles nouvelles, reproduite dans la 82* du Grand Parangon
et dans la farce Le relraicU qui n'est qu'une autre nouvelle en
action. Un amoureux visite une dame, pendant l'absence de
son mari. Au moment où ils se préparent à faire honneur
au souper, le mari survient et l'amoureux, faute de mieux,
est obligé de se réfugier dans le lieu, qui donne le titre
à la pièce. Le mari soupe tranquillement avec les mets que
le valet Guillot, ce rusó compère dont nous ferons bientót
la connaissance, lui fait payer de nouveau, mais la tranquillile
du mari n'est pas partagèe par l'amoureux, assalili par une
toux opiniàtre et contraint, pour la cacher, de raettre la
tète dans un trou fètide. A. un certain moment le mari est
obligé de se rendre lui aussi dans le lieu, qui sert de re-
fuge au jeune homme. Celui-ci se voit perdu et sort de là
accoutré de telle sorte, que la femme n'a pas de peine à
persuader son mari, qu'il a affaire au diable en personne,
venant venger les injustes soupgons de sa jalousie. Le bon-
homme tombe à genoux et prie le ciel et le diable de vouloir
lui pardonner.
La méme ruse de faire passer l'amoureux pour le diable
forme le sujet de la Farce du Saveiier et d'Audette. Audin,
le savetier, renferme sa femme Audette, dans la maison. Il
espère par là d'en garder la vertu. Mais Audette appartient
à la lignee de la femme du fabliau renfermée dans la tour.
Elle fait entrer le cure, son amoureux, par la fenètre et lui
conseille de se faire passer pour le diable, lorsque le mari
reviendra à la maison et qu'il l'enverra au diable, selon son
habitude. La cbose se passe à soubait et le mari regoit en
outre des coups de bàton. Ce faux diable qu'on évoque à
point nommé paraìt aussi dans le Novellino de Masuccio
(2* p., nouv. 20"), mais ce qu'il y a de curieux, dans cette
farce, c'est de voir son ròle joué par un prètre.
Une autre dépendance des nouvelles parait encore dans la
StudJ (lì filoìoqia romanzi. IX. 17
2(52 PlEKKE TOLUO
farce à'Ung mary jaloux qui veult esprouver sa femme, bien
qu'ici la ruse bien connue de la bourgeoise d'Orléans, re-
produite par Boccace, soit modifiée, par le role que le badin
yjoue. Ce badin répond au nom de Golinet. Il a èté quelque
temps à l'ócole, sans en tirer, bien entendu, aucun profit, ce
qui ne l'empèche pas de se croire digne tout au moins d'un
évèché. Mais sa tante lui fait remarquer que les cbarges
ecclésiasliques se donnent seuleraent à ceux qui ont beau-
coup d'argent, pour les acbeter, de sorte qu'en attendant
l'occasion favorable, il pourvoira bien à ses intérèts, en cher-
chant de louer ses services. Pendant ce dialogue, le Mary
entre. 11 est fort soucieux, car il a pu s'apercevoir que sa
femme airae le cbapelain et il cache si peu Tétat de son
àme, que Golinet s'en apergoit aussitòt, en donnant par là une
preuve d'esprit, qui étonne le mari:
Par la foy de non corps, j'ay songé
Que vous pensez ung coqu estre.
Le Mary. A quoy le povez-vou8 congnoistre?
Jamais je ne parlay à vous.
Il s'ensuit un débat sur la manière, dont on peut garder
une femme, débat auquel l'auteur nous fait assister, avec une
ironie manifeste, car il est bien persuade, d'après une longue
expérience, qu'il n'y a rien, qui puisse contraindre une femme
à la vertu. Golinet propose tout d'abord certaines serrures
intimes, bien connues au moyen àge, mais en attendant, il
promet de monter la garde et de tomber, le bàton à la main,
sur le cbapelain, s'il ose pénétrer chez la belle. Le mari pari
plus tranquille, mais malheureusement il rencontre la tante
de Golinet, qui lui conseille, s'il veut éprouver la fidelité de
sa femme, de se déguiser en prètre, de manière qu'on le
prenne pour le cbapelain, et de se rendre ainsi déguisé auprès
de sa moitié. La bonne tante possedè un babit ecclésiastique.
ÉTUDES SLR LE THEATRE CO.MIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 263
dont il pourra s'affubler. Aussitòt dit, aussitót fait, et le mari,
oubliant la commission donnée au badin, tàche de se rendre
chez sa femme et est regu à coups de bàton par le gardien
fidèle. La femme accourue au bruit, s'apercevant du tour qu'on
veut lui jouer, donne main forte au badin et le bonhomme
battu doit se déclarer content de la vertu de sa dame.
Enfìn il arrive quelquefois aussi que la tromperie de 1 a
femme est causée par son obéissance trop aveugle et par une
équivoque, où le bon sens n'a rien à voir. C'est le cas d'Un
Curia qui trompa par finesse la femme d'un laboureur %
reproduisant un conte traditionnel. Le mari ordonne à sa femme
de préter une chose quelconque à un de ses amis. Celui-ci,
profitant du sens figure de l'expression, insiste pour que la
femme cède à ses désirs, et il assure que c'est là ce que le
mari mème lui demande. La femme consulte son mari, qui
répond que oui, sans savoir, au juste, de quoi il est question
et n'ayant pas par conséquent à se plaindre de ce qui lui
arrive ensuite. Ce conte se retrouve chez plusieurs novellieri.
Je rappelle entre autres la nouv. XXXVP du Doni: « La moglie
d'un barbiere per ordine del marito stesso presta la guaina
al compare ».
C'est toujours sur une équivoque, mais sans rapport direct
avec les nouvelles, que se fonde l'aventure d'un autre mari
trompé, dans la Farce de la Cornette par Jehan d'Abon-
dance. Le mari croit que tout ce que ses neveux lui disent
au sujet de la raauvaise conduite de sa femme, se rapporte
à son bonnet et il finit par les flanquer à la porte. Au mi-
lieu de ces farces, dont la valeur littéraire est fort sou-
vent au dessous du mediocre, celle de la Cornette peut
se considérer comrae un petit chef-d'oeuvre. La femme du
bonhomme n'a pas recours, comme ses pareilles, aux injures
') Édit. de Lyon, 1595.
264 PIERRE TOLDO
pour avoir le dessus. Loin de là elle le cajole, le dorlotte;
elle est là toujours aux petits soins auprès de lui et le bon-
homme vieux et flatté dans son amour-propre, croit receler
dans sa maison un véritable trésor. Mais des femmes, qui
vaillent un trésor, il n'y en a guère dans la littérature comique
que nous étudions, car les nouvellistes et les auteurs des farces
se chargent de faire rire et non pas certaineraent de próner
la vertu.
La revanche des maris.
Il y a tout d'abord les maris qui trompent leurs femmes.
Ce sujet est, pour plusieurs raisons, nioins amusant que le
précédent, Tinfidélité de l'homme n'ayant pas les suites fà-
cheuses de l'infidélité de la femme. L'idée de la foi réci-
proque appartieni à la conscience moderne; au moyen àge
la femme est une sorte de propriété, qu'on doit garder avec
soin, le propriétaire restant entièrement libre de son coté. Il
s'ensuil que le ridicule sattache aux gardiens trompés et la
femme, n'étant pas chargée de surveiller son mari, est à l'abri
des rires du monde, quand mème son seigneur oublierait parfois
ses devoirs. Le mari malheureux est berne, la femme délaissée
excite notre pitie. C'est là le point de vue des auteurs dra-
matiques de tout àge et de tout pays. La tromperie de l'homme
doit ètre partant fort plaisante en elle-mème, pour qu'elle
paraisse telle au public; il faut surtout que dans la femme
trompée on envisage sa sottise plutót que son malheur.
Telle est la situation de la farce Le médecìn et le badin.
La femme du badin est en pèlerinage et le mari, reste seul
à la maison, a jeté son dévolu sur la chambrière. Il suffit
d'entendre ce que la fiUe chante, au commencement de la
ÉTUDES SUR LE thiìatre comique krancais du moyen age 265
pièce, pour comprendre que sa conqiiéte n'est rien moins
que difficile :
Il estoit une fillete
Coincto et joliete,
• Qui vouloit scavoir le jeu d'amours.
Un jour qu'elle estoit seullete,
De Venus en sa chambrette
Je luy en aprins cleulx ou troys coups.
Apres avoir sentu du cours,
Elle m'a dit, en se riant,
Les premiers coups m'y sembloyent lours,
Mais la fin m'y sembloyt friant.
La chambrière craint, il est vrai, que sa condescendance pour
le badili, ne lui cause des ennuis, mais le cadeau d'un chaperon
la décide à jeter sa vertu aux orties. L'auteur, avec un excès
de pudeur, dont il faut lui savoir bon gre, fait retirer à un
certain moment les deux amoureux, ayant toutefois soin de nous
expliquer pourquoi ils se retirent. La rapidità des évènements
est tout a fait élonnante. On voit la bonne revenir peu de mo-
ments après, pour nous apprendre qu'elle se trouve enceinte;
le badin se serre dans les épaules et répète d'un air bète
« il est faict, il est faict ». La femme du badin, Crespinète,
revient ensuite tout à coup de son pèlerinago aggraver la si-
tuation, bien que la bonne femme soit si simple, qu'on com-
prend que ce n'est pas elle, qui dócouvrira ce qui se passe
dans son ménage. Le mari, après l'avoir, dans son coeur, en-
voyée à tous les diables, lui fait bon accueil et comme sa si-
tuation lui paraìt fort delicate, il se décide d'avoir recours à un
raédecin, de ses amis. Le médecin, connaissant le caractère de
Crespinète, retrouve, sur l'instant, un expédient qui sauve le
mari et la bonne. Il veut que le badin se couche, comme s'il
avait de grandes douleurs au ventre, puis, d'après l'examen de
ses urines, il déclare qu'il est enceint et il explique à Crespinète
266 PIERRE TOLDO
que c'est là la consèquence de la manière avec laquelle elle
a, à son retour, erabrassé son mari. Le badin est, donc, d'après
l'avis du médecin, un homme perdu, si Grespinète ne trouve
pas une jeune fiUe, qui se charge de sa grossesse. Il s'ensuit
que la bonnefemme, poursauver son mari, prie la charabrière
de vouloir accepter une mission si pénible:
Quant est à moy de ma richesse
Et des biens que Dieu m'a donnés,
A toy seront habandonnés.
La fiUe, pour sauver les apparences, se fait prier quelque
peu; enfin elle consent et Grespinète a le bonheur de les
mettre au lit et de monter la garde, pour que personne ne
les dérange. La conclusion du badin est fort édifiante, mais
ne s'accorde pas trop à la moralité de la pièce:
Je suplys Jesus de sa grace
Que nou8 decepvons l'anemy
Qui est sy remply de falace;
Que nul ne pregne en lui ennuy.
La source de cette farce n'est pas difficile à retrouver. Il
y a, tout d'abord, dans le Decameron (IX, 3), Galandrino
auquel on fait accroire qu'il est gres depuis quelques mois
et la raison que maitre Simone donne de ce cas assez rare,
est identique à celle que le médecin indique pour Grespinète.
Ensuite, dans le Grand Parangon des nouvelles nouvelles
(XXXV), compose par Nicolas de Troyes d'après la tradition
populaire, on lit l'aventure « d'une jeune femme à qui on flt
entendre qu'elle avait engroissé son mari et comme il remist
son engroissure à sa chamberière, laquelle il engroissa par
le consentement de sa femme ». Le conte ne diffère de la
farce en aucun détail. Le mari est un raarchand qui se prend
d'amour pour la chambrière et sa tendresse est payée de
retour. Le mari, au désespoir pour les suites de cette liaison,
suites qui deviennent de plus en plus visibles, se rend chez
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 267
son cousin, de profession médecin, et lui expose sa situation.
Le conseil que celui-ci lui donne, pour le tirer d'affaire, c'est
de proflter de la niaiserie de sa femme, et la manière est iden-
tique à celle de son savant confrère. Il faut, lui dit-il que vous
vous couchiez « et que faciez le malade, et ne plaingniez rien
que les rains et le ventre et me envoj'ez vostre orine par vostre
fomrae » et à la .femme qui lui apporto le liquide « Commenti...
ceste eaue, que vous m'avez cy apportée est d'une femme qui
est enceinte d'enfant ». C'est toujours la position gardée par la
femme, qui a cause Tétat du mari et la malheureuse prie sa
chambrière Jehanne de vouloir bien lui rendre le mème ser-
vice que Crespinète demando à la sienne. Ce qu'il y a de
plus comique dans la nouvelle de Nicolas de Troyes, c'est la
résistance que le mari feint d'opposer à sa femme, détail in-
téressant que l'auteur de la farce a eu le tort de laisser
de coté. Mais les ferames des fabliaux et du théàtre comique
de cette epoque ne sont que fort rarement si niaises. Nous
les avons vues trompant leurs maris de mille facons extra-
ordinaires, inventant des ruses coup sur coup avec un sans-
gène étonnant et sortant des situations les plus pénibles et
les plus embarrassantes, le sourire sur les lèvres et d'un
air innocent. Il n'y a que les valets issus de l'imitation du
théàtre latin, qui soient capables de ces coups d'audace. La
supériorité de la ruse féminine sur celle de l'homme est
donc dùment établie dans la littérature populaire de ce temps
et pour un mari qui trompe sa femme, il y a cent femmes qui
trompent leurs maris.
Nous avons jusqu'à présent envisagé la femme sous son
aspect le plus défavorable ; il nous est permis heureuseraent,
d'étudier, maintenant, dans cette seconde partie de la revanche
des maris, la revanche des maris sur les galants, le revers
de la médaille et de citer des exemples de fidélité et de dévoue-
ment. Ces exemples sont plus rares que les précédents, mais
268 PIERRE TOLDO
il y en a toutefois assez, pour que l'on puisse assurer qu'il
ne s'agit pas là de rares exceptions à la règie et que reslirae
qu'on avait de la femrae au moyen àge n'était pas si mau-
vaise, qu'on le croit généraleraent. Il y a tout d'abord la le-
gende du Segretain, telle que nous la lisons en plusieurs ré-
dactions d'un mème fabliau *). Ce sacristain s'est épris de la
femme d'un homrae de bien:
une borgoise
Qui moult estoit preuz et cortoise,
aimant son mari et sacbant resister aux offres et aux me-
naces du mauvais moine. Et le mari n'appartient pas à cette
engeance, qui exploite la beante de la femme. Celle-ci lui
raconte les poursuites du sacristain avec un vif ressentiment
et Guillaume proteste, de toutes ses forces:
Guillaume l'entent, si s'en rist,
Et dit que por tot le tresor
Otemen ne Abielor
Ne sofferoit-il que hom nez
Fust cliaruelment de li privez;
Mielx ameroit querre son pain
Par le paia, morir de fain.
La bonne femme voudrait bien se moquer des soupirs du
religieux, mais il arrive que le mari tombe en misere et
que le sacristain tire profit de cette occasion, pour renou-
veler ses offres. La tentation est trop forte pour une fille
d'Ève. La femme, après avoir consulte son mari, accepte cent
livres, que le moine trouve dans les
Boites et acmoires
Et les autex as sentuaires
Oli la gent ont l'ofirande mise,
') Voyez Barijazan, Fabliaux, contes etc, V voi.
ÈTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 269
donnant pour tout regu un rendez-vous galani. Le sacristain
s'empresse de se rendre chez la dame, mais Guillaume tombe
sur lui et le tue :
Si li espandi le cervel,
Et li Moiues chai avant;
Ainsi va fox sa mort querant.
Laissons de còte les pérégrinations de ce cadavre traine
de porte en porte et mis à la place d'un cochon et laissons
de coté aussi ce qu'il y a d'indélicat du coté de la femme
acceptant cet argent et de cruel de la part de son mari tuant
son rivai en traltre. La constatation que nous voulons faire c'est
que nous avons retrouvé enfin une femme fidèle à ses devoirs:
pour la moralité du récit, on n a qu'à lire la conclusion de
Tauteur, réfléchissant les sentiments de son temps, où la tra-
hison, la violence et le meurtre sont considérés commes de
simples plaisanteries.
Ainsi ot Guillaume son clroit
Du Moine qui par son avoir
Guida sa fame decevoir;
Le bacon ot les cent livres.
Le fabliau d'Estowmi, par Hugues Piancele, renouvelle
cette aventure, mais ici on a affaire à trois prètres.
Un caractère bien plus noble est celui qui nous est repré-
senté, par le fabliau de la boiirse pleine de sens. Nous y
voyons une dame vertueuse, gardant sa fidélité à un mari
épris d'une courtisane et le ramenant à son amour, au
moyen de la soumission ot de la bonté. Et cette bonté de
femme, s'inspirant au dévouement le plus absolu et à l'anéan-
tissement de sa personnalité, brille, d'un vif éclat, dans la
legende de Griselidis. Et avec Griselidis, à qui le Boccace sul
donner une vie nouvelle, nous trouvons, dans le Decameron,
la passion fidèle et profonde de Lisabetta et de la princesse
270 PIERRE TOLDO
Gismonda, la vertu conjugale de la marquise de Monferratry
et de la femme de Bernabò de Génes, et les femmes acquiè-
rent de nouveaux charmes de vertu et de tendresse, dans les
contes de la reine de Navarro. G'est dans VHeptaméron que
nous voyons paraitre Pauline et son malheiireux amant (XIX*),
la fide Rolandine (XXP), cette pauvre fille, préférant la mort
à la parte de son honneur (IP), l'épouse pallente, dont la dou-
ceur vaine la légèreté de son mari (XXXVIIP), la vierge re-
poussant les tendresses, les offres et les menaces de son sei-
gneur (XLIP) et la veuve protégeant des bètes féroces le corps
de son époux coupable (LXVIP).
Et la galerie des femmes de bien pourrait s'enrichir d'au-
tres portraits offerts par les auteurs des nouvelles, si le fabliau
de Constant Duhamel ne nous rappelàt au sujet de notre
étude. Le poète chante la beante de la femme de Constant,
non moins que ses mérites:
Qui moult estoit cortoise Dame,
Et preus, et sage et avenant.
Sa beante a, malheureusement, pour effet d'éveiller la
passion brutale d'un prètre, du prévót de la ville et du fo-
restier; elle les repousse tous les trois, mais les fripons s'ac-
cordent, pour persécuter sa famille:
Tant que besoing, poverté et fain
La face venir à reclaim.
Le prètre est l'àme de l'intrigue et les pauvres époux sont
bientòt réduits aux abois. Alors la femme, genie bienfaisant
cu malfaisant, selon les cas, mais toujours maitresse de ruses,
conseille à son mari une vengeance singulière, vengeance qui
n'a certainement rien à voir avec les moeurs de nos jours,.
mais où le mari donne des preuves d'une vigueur remarquable
aussi bien que sa femme d'une patience et d'un désintéres-
sement très rares.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 271
La ruse de la femrae consiste à donner un rendez-vous
galani aux trois compères, mais à Tinsu l'un de l'autre.
Le prètre est le premier, comme de droit. La femme l'ac-
cueille de manière à lui faire espérer son bonheur et le prie
de se déshabiller, pour le bain. Le prètre voudrait profìter
tout de suite de son bonheur, mais on frappe à la porte.
G'est le prévót qui arrive, et le prètre, croyant avoir affaire
au mari, tremble de peur et prie la femrae de le cacher
quelque part. Celle-ci lui indique une cachette bien sùre:
En cest tonnel desoz cest van,
Il n'i a rien que piume mole.
Le prévót, ne se doutant de rien, entre et veut embrasser
à son tour la belle dame. Meme histoire. On le prie de se
déshabiller, on frappe a la porte et il est contraint, lui aussi,
de ce cacher dans le tonneau. Gomme il y sauté dedans à la
hàte, il tombe sur le corps du prètre, qui maudit sa mau-
vaise destinée, mais fait bon accueil au compère. Celui qui a .
frappé est le forestier, contraint de sauter lui aussi dans le
tonneau, et d'enfoncer les còtes de ses deux camarades, lorsqu'il
entend l'arrivée du mari. Constant Duhamel n'a pas à se
plaindre de la ruse de sa femme; il retrouve dans sa maison
les cadeaux des trois galants et il a là sous la main ces
raessieurs, dont il pourra se venger à son gre. Et la ven-
geance qu'il accomplit est étrange.
Sa femme appelle l'une après lautre, sous le prélexte du
bain, la femme au prètre et cellus plus légitimes du prévót
et du forestier et le mari fait à elles ce que leurs seigneurs
voulaient faire à madame Duhamel.
Tout cela n'est pas sans quelque résistance, mais toute
résistance est vaine, car le bourgeois est là, la hàche à la
main. Quant aux maris, toujours renfermés dans le tonneau,
ils se moquent l'un de l'autre et boivent leur honte jusqu'à
272 PIERRE TOLDO
la dernière goutte. Les trois dames bornées sont obligées de
laisser, dans la maison du bourgeois, leurs habits, et Duliamel
finit par mettre le feu aux pluraes du tonneau, obligeant ainsi
les trois compères de s'enfuir, les plumes attachées à leur
nudile, ce qui fait que les chiens les prennent pour du gibier
étrange et que tous les paysans se raettent à leurs trousses.
Ges vengeances sont assez communes chez les autres no-
vellieri. L'auteur des Cent nouvelles nouvelles (IIP) nous
expose celle d'un meunier sur la fera me d'un chevalier, et
Marguerite de Navarre conte l'aventure du « roi de Naples
(qui) abusant de la femme d'un gentilhomme, porle enfin lui-
raème les cornes ». Dans le Moyen de parvenir (p. 257 de
réd. Jacob) un mari, se trouvant à bout d'argent, s'accorda
avec sa femme, pour avoir le blé d'un certain cure, sans lui
permetlre, bien entendu, de tirer aucun profit de sa générosilé.
En Italie Poggio, dans Talio, Gintio delli Fabrizii, dans son
XVP proverbe « Ghi non ha ventura non vada a pescar »,
Straparole (VI, 1), Randello (IV, 2), Fortiguerri, dans son Ric-
ciardetto (Gh. XXX), et d'autres encore nous font voir cette
sorte de lutto engagée entre les puissants et les faibles, en
appliquant toujours, bien que sous une autre forme, le vieux
proverbe: « à trompeur, trompeur et demi ». Et le folk-lore
répète, de nos jours, les mèmes historiettes qu'on retrouve à
foison dans la Kruptadia (IV, 210-213; 11, Der verstellie
Doctor, etc.) et qui représentent la méme idée, chez les
peuples les plus éloignés.
Nous avons résumé le fabliau de Constant Duhamel, avec
assez de détails, car c'est là la source, plus ou moins directe
et inconnue, de la Farce nouvelle à VI personnages, savoir
deulx Gentilzhommes, le 7nounyer, la meunyere et les deulx
fernmes des deulx Gentilzhor/imes abillees en Damoiselles.
Le héros de la pièce c'est le meunier, personnage auquel on
attribuait, avons-nous dit, à cette epoque beaucoup de finesse
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 273
et de méchanceté et sa femrae, la meunière, est digne en
tout et partout de lui. Les deux gentiishommes ont un faible
pour la belle femme et la poursuivent de leurs offres, mais
c'est de la peine perdue; cas étrange, elle aimc son mari et
se moque de tous ses amourenx. Notre meunier a toutefois
un procès sur les bras, qui peiit causer sa ruine. Gomme il
n'a pas l'argent nécessaire pour les frais de justice, car : « On
ne plaide poinct sans argent », il se livre au désespoir.
Heureuseraent la belle meunière relrouve, dans son esprit,
fertile en expédients, une ruse qui va leur procurer cet
argent bèni. Les maìtres de notre moulin, dit-elle à son mari:
Sont fort amoureulx de mon corps.
Sy vous faignyes aler dehors
Envyron vins jours ou un moys
Jamais un regnard prins au ny
Ne fust si peneulx qu'i seront.
Ainsi que dans le fabliau, le mari accepte l'offre de sa
femme, qui donne séparément rendez-vous aux deux gentiis-
hommes, sous condition qu'ils lui apportent beaucoup d'argent.
La somme est payée d'avance et le meunier fait tinter l'argent
que sa femme lui donne, en s'écriant:
Su! su! j'ay de l'or à plein poing.
Femmes sont fines à merveilles.
Les deux gentiishommes, venus chez la belle meunière,
ì'un après l'autre, et interrompus dans leur plaisir, selon
la donnée du fabliau, se sauvent dans le poulailler. Le pou-
lailler, abri bien connu pour les amants surpris, remplace,
avee peu de différence, le tonel des trois compères. Il y a
en outre l'incident du banquet, dont les gentilsbommes font
les frais et dont se réjouissent le mari et la femme, mais
la surprise des deux amoureux de se trouver ensemble est
274 PIERRE TOLDO
idontique à celle du cure, du prévót et du forestier. Et la
mèrae identité, sauf la réduction de trois fommes en deux,
se retrouve dans la troraperie du mari, qui fait appeler, par
la meunière, les deux femraes des deux gentilshommes, et ac-
coraplit sur elles sa vengeance. Mais ce qu'il y a ici de plus
comique c'est que la résistance des deraoiselles se réduit à bien
peu de chose:
Les mounyers sont tant amoureulx!
Y n'est finesse qui n'en sorte,
et la femme du prévót surtout est bien aise de Ta venture,
pourvu que le meunier garde le silence. C'est du fabliau que
semble tirée la scène entre les deux malheureux renfermés
dans le poulailler, se moquant et se confortant réciproque-
ment. Solatium miseris etc. La conclusion, au contraire,
varie. Le mari de la farce est plus prudent que celui de la
nouvelle et il sait éviter un scandale inutile. Les gentils-
hommes sortent du poulailler, font leur quittance et s'en
vont sans souffler mot, tandis que le madre compère s'écrie,
en riant: « à trompeur, tromperye ». Que l'on ajoute que,
pour rendre sa pièce plus plaisante, l'écrivain de la farce
suppose que les deux galants tàchent de se tromper l'un
Tautre, en cachant leurs amours.
Les noms comiques de monsieur de la Hannetonnière et de
monsieur de la Papillonnière, révèlent l'intention de l'auteur
de se moquer, jusqu'à un certa in point, de la noblesse de village.
Et c'est contre la noblesse qu'on composa l'autre farce Le
gentilhomme, Lison, Naudet, la Daìnoyselle, dont la donnée
est toujours la mème, bien que la vengeance du mari s'ac-
complisse d'une fagon differente. Gette farce n'est pas sans
importance pour l'histoire des moeurs de l'epoque et elle
paraìt aussi plus conforme à la réalité qne la précédente. En
effet le meunier, aussi bien que son prédécesseur du fabliau,
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 275
aura toujours à redouter la colere des gens haut placés, qu'il
vient d'outrager d'une manière si crucile, et il est memo éton-
nant qua deux ou trois hommes ne sachent se tirer d'affaire
contre un seul. lei, au contraire, la vengeance est plutot le
fait de la demoiselle que de Naudet, et le gentilhorame peut, si
cela lui parait convenable, avoir l'air de n'en rien savoir. Le
gentilhomme étant le seigneur du village, tout le monde lui
est soumis et le bonhomme Naudet doit aller ailleurs, lorsque
son maitre visite sa femme.
Je vous ai vu, dit Naudet à Lison, avec le gentilhorame et
celle-ci:
Je te prometz, ma foy, s'il te ost,
Qu'il te fera mettre en prison.
Naudet. Et je n'en parie pas, Lison ;
C'est tout ung se vous estes sa mye.
Da, pourtant ne luy dictes mye;
Il me feroit aussitost suyre.
Lison. Garde-toi dono de le plus dire,
Meschant! il nous faict tant de biens!
Ce qui se passe entre le gentilhomme et sa femme n'est
donc pas un mystère pour le pauvre Naudet, obligé de faire
ben accueil à son seigneur et de promener son cheval, lorsque
le gentilhomme daigne honorer sa maison. Mais Naudet n'est
pas si bonhomme, qu'il en a l'air. Trouvant sous sa mairi
l'habit de sun rivai, il s'en empare et se rend au chàteau
chez la demoiselle, à qui il fait comprendre, ayant l'air de ne
vouloir rien dire, de quelle manière son seigneur la trompe.
La demoiselle, par un caprice mèle de sensualité et de
dépit, provoque le paysan à la venger du gentilhomme et
elle n'a pas à se plaindre des preuves que Naudet lui donne
sur l'instant de sa vigueur, car, après une absence assez pro-
longée, la demoiselle revient avec lui sur la scène, pour dire
d'un air tendre:
276 PIERRE TOLDO
Pleust à Dieu que (tu) fusses monsieur
Et que monsieur devint Naudet.
Le genlilhomme comprend la venfreance et ne s'eii fàclie
pas trop:
Le gentilhomme. N'en parlons plus et nons taison,
Cecy est neufve nouvelle.
Naudet. Ne venez plus naudetiser,
Je n'iray plus seigneuriser.
Si les femraes veillent à la défense de leurs araants, il ar-
riva parfois que ceux-ci passent fort souvent le quart d'heure
de Rabelais. Au milieu du plaisir et de la joie, ils tressaillent
au moindre bruii et quittent la table, le bain et le lit, pour
se cacher, tremblants et honteux, dans les lieux les moins
propres, au grand danger detre découverts, battus ou pis an-
core. En cela la farce est moins sevère que la nouvelle; il
s'agit de faire rire et les punitions des amoureux, de méme que
certaines opérations chirurgicales, ne seraient pas trop conve-
nables sur la scène. Le fabliau, au contraire, n'ayant pas de
ces contraintes, aime à nous représenter les prestre crua'fìé
et mis en condition de ne plus faire tort à aucun mari, en
tirant la moralité que:
Cest exemple nous monstre bien
Que nus prestres por nule rien
Ne devroit autrui fame avoir.
Et le fabliau nous représente de mèrae le prètre qid fu
mis au lardìer, les aventures de Connebert, le Prestre ieint,
tandis que 1 epouvante de l'amoureux forme le fond du cj'^cle
des deuoc cìiangeors *).
') Voyez mon Contributo, p. 11. Ces punitions des amoureux pul-
lulent dans les nouvelles italiennes depuis le Boccace, Sacchetti, Ma-
succio, Poggio, etc, jusqu'à Bandello, et inspirent les conteurs fran-
9ai3 du XV" et du XVI« siede.
KTUDES SUR LE THÈ.VTRE COMIQUE FHANCaIS DU MOYEN AGE 277
Gette littérature populaire rit de tout le monde, et les
amants ne sont pas plus épargnés que les raaris. Il sufflt qua
l'aventure soit amusante, aussi les tromperies gardent-elles
des deux cotés une sorte d'équilibre où les gens mariés et les
parasites du raariage peuvent trouver également leur compie.
Autres types et snjets comiques.
Gens d'épée et gens d'église.
On a eu tort de déclarer d'une manière trop absolue, que
le théàtre du moyen àge ne présente que des abstractions
froides ou des symboles allégoriques. G'est là le cas de cer-
taines compositions, d'un genre particulier, où Peuple, No-
blesse, Commun, Chacim, le Monde, le Te7nps qui court et
pis encore deviennent des fantómes abstraits et parlent et
agissent ainsi que les bétes, les plantes et les rochers de la
fable.
Tout cela nous laisse certainement froids, mais le public
alors s*y amusait comme à un jeu d'esprit, où les plus fins
devaient saisir la porlée des allusions et ces personnages
étranges, le Peuple, le Monde, etc, servaient à expriraer ces
sentiments des masses, dont les Grecs chargeaient leurs choeurs.
Le tbéàtre comique proprement dit nous sait presentar parfois
des personnages bien vivants, aussi vivants au moins que ceux
de la nouvelle. Le prètre qui supplie sa maitresse de le
sauver, tout tremblant de peur à l'arrivée du mari, le paysan
se vengeant de ceux qui veulent déshonorer son ménage,
l'homme domptant la ferame, ou la femme se moquant de
l'homme, dans un duel de ruses plus ou moins spirituelles,
Studj di filologia romamn, IX. jg
278 PIEHUK TOLDO
ne sont, proportion faite des temps et de la puissance de
l'art, moins conformes à la nature humaine que les amou-
reux et les intrigants du Ihéàtre cornique du XVII* siòcle.
/On a remarqué que le caractère est reraplacé par le type,
mais le type étudié d'après nature n'est au bout des comptes
qu'une synthèse de caractères et je ne saurais retrouver,
par exemple, une différence sensible de vérisrae entre le
miles gloriosus de la comédie latine et l'archer de la farce
frangaise. Tous les deux représentent le soldat fanfaron, avec
cette exagération non seuleraent permise mais parfois néces-
saire au théàtre, où il faut grossir les traits pour les rendre
visibles, ainsi qu'on donne des proportions colossales à une
statue, sans qu'elle sorte pour cela du réel. Le symbole
commence seuleraent lorsqu'on s'apergoit que ce personnage
n'est plus qu'un mannequin et que, tout en diminuant ses
proportions, on ne saurait le retrouver dans la nature.
Ce soldat des farces frangaises, dont nous allons parler, est
bien celui de son epoque n'a3'^ant d'autre but que de piller les
villages et plus redoutable au pays qu'il devrait défendre,
qu'aux enuemis, qu'il devrait combattre. L'action de cespièces, ì^
sans développement de caractères et d'intrigues, simples ébau-
ches à peu de traits, devait étre complétée par l'iraagination
des spectateurs, revoyant là sur la scène l'archer qui avait
saccagé leur étable ou leur poulailler, caressé leurs femmes et
fouetté leurs épaules. G'était une sorte de vengeance où l'on
riait de ce dont il aurait fallu pleurer, commentaire impor-
tant aux moeurs et à l'histoire politique du XV* siècle.
Le miles gloriosus de la farce du moyen àge se présente
sous deux aspects bien distincts. Il y a, tout d'abord, l'archer
appartenant à cette sorte de milice bourgeoise quo le roi
Louis XI avait suppriraéé en 1480, et dont le prototype porte
le nom bien connu et redoutable (ì" Archer de Baignollet.
Frangois P voulut rétablir ce corps militaire et alors le
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 279
mécontenteraent populaire se flt entendre et protesta, vers
1524, par le Frane Archier de Cherré, de la souche de
celui de Baignollet. L'autre groupe en veut à tous les fan-
farons en general, qu'ils aient appartenu ou non à Tarmée
et peint surtout les nobles de la campagne, dont les violences
n'étaient pas moins redoutables que celles des soldats aven-
turiers.
Tout en s'agissant d'un simple monologue, le Frane Archer
de Baignollet a óté jugé, à bon droit, un véritable chef-
d'oeuvre, car il renferme plus d'action et de mouvement, plus
de finesse d'observation et de coraicité que la plupart des
pièces comiques à plusieurs personnages de ce teraps.
L'archer se présente « en cornant son cornet •» pour pro-
voquer au combat quiconque ose se moquer de lui :
Par le sang bieu, je ne crains paige,
S'il n'a point plus de quatorze ans,
et ce dernier vers explique le caractère de la plaisanterie.
On sait que dans la comédie latine il y a constamment un
esclave ou un parasite chargé de faire comprendre au public
le véritable caractère du 7mles gloriosus, caractère que l'e-
xagération mème de ses vantardises dévoile d'ailleurs d'une
manière assez evidente. Le parasite fait le reste. Il commente
tous ses discours, en présente le coté ridicule et oppose la
réalité des coups recus, des fuites honteuses et de la misere
aux vols épiques de la fantaisie de son seigneur.
Dans un monologue, ce contraste entre la vantardise et la
vérité doit se retrouver dans le discours mème du héros ; ce
seront des confessions lui échappant presque à son insù, ce
seront des craintes soudaines, qu'il ne saura maìtriser, chan-
geant en tremblements ses gestes héroiques. L'archer est
partant obligé de center à la fois ses entreprises et de les
commenter, de se louer et de se blàmer, de dire qu'il est
230 PIERRE TOLDO
bardi et de faire comprendre qu'il est poltron. La vérité hu-
maine n'est pas là certainement, car si l'on peut admettre
que certaines pensées contredisent au sens general d'un mo-
nologue, cette contradiction doit ètre rapide, comrae un éclair.
lei on appuie donc excessivement.
Le frane areher eonte, par exemple, avee trop de complai-
sanee, l'aventure qui lui arriva avee un certain anglais qu'il
fit prisonnier au siège d'Alengon et dont il eut bien de la
peine à se délivrer. Tout à coup un coquericoq le fait tres-
saiUir. Ce coquericoq. est le cri de bataiUe, qui ebarme le
plus son oreille:
Qu'esse cy? j'ay ouy poullaille,
et le souvenir des poules qu'il a glorieusement poursuivies,
et des poulaiUers, les seules forteresses qui aient cède à ses
assauts, vient interronipre, pour un instant, ses récits. Ce
coquericoq est une révélation ; les gens de campagne qui écou-
tent, sourient et comprennent; il aura beau conter ensuite
l'histoire étonnante de ses batailles, ces gens savent désor-
maisaussi bien et mèrae mieux que nous à qui ils ont affaire.
Mais pour le présenter, dans son véritable aspeet, il ne
sufflt pas de le montrer fanfaron et voleur, il faut le mettre à
la présence d'un ennerai ridieule, d'un ennemi qui sans parler,
sans ehanger mème le raonologue en dialogue, le terrasse et
le mette en fuite. Et l'auteur a eu la main heureuse en re-
trouvant ce dompteur de l'orgueil de son béros, dans un épou-
vantail à moineaux, qui paraìt de loin à notre areber eomme
un bomme d'armes, redoutable et inflexible dans son mu-
tisme. La peur s'empare de lui et le voilà prèt à faire bon
marcbé de son drapeau, de son roi et de son pays:
Dea, je suis Breton, si vous l'estes.
Vive sainct Denis ou sainct Tve!
Ne m'eu cbault qui, mais que je vive.
ÉTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 231
Le héros, qui nous a dit, avec tant de fierté:
Je ne craignois que les dangiers,
devient, dans cette scène, une créalion comique inoubliable.
L'épitaphe qu'il diete sur le tombeau, qu'il croit désormais
ouvert pour lui, épitaphe plaisante ainsi que sa confession
digne de Margulte et de Panurge, forment une diversion
assez agréable et nous préparent à la scène finale, la plus
huraaine de toutos, où s'apercevant à qui il a affaire, il
reprend son courage et (àclie par ses cris héroìques d'effacer
le souvenir de sa làcheté. Panurge après la tempéte, Dom
Abonde du Manzoni après la mort de Dom Rodrigue, agiront
de la^ sorte. L'archer s'approche peu à peu de l'épouvantail
tombe, se tenant bien sur ses gardes, mais lorsqu'il voit que
ce n'est autre chose qu'un mannequin, tire l'épée, lui donne
de grands coups et il le passerait, sans doute, de part à part
s'il ne croyait plus convenable de lui voler son habit. Le pol-
tron avait été bien peint, il fallait insister de nouveau sur
le voleur.
Le Frane Archie/r de Cherrè ') n'est qu'une imitation de
celui de Baignollet, et ce Piomiier de Soeurdres, que nous
ne connaissons que de nom, devait avoir lui aussi les raémes
moeurs et la méme physionomie. L'arcber de Baignollet entre
en scène au son du cor, celui de Gherré se fait annoncer
par les coups du tabourin ; l'un et l'autre content leurs
aventures, mais le héros de Gherré ne manque pas d'une
certaine originante dans les détails:
Je porty moy tout seuI le fays
Plus d'ung heure (de) la bataille;
J'en emorchoia bien, ne vous chaille,
') Cfr. le XIIP voi. de l'ouvr. cité de M. Montaiglon.
282 PIERRE TOLDO
Je croy, ung millier pour le moins,
Et passèrent dessoubz mes mains,
Dont jamais n'ouys mot sonner
J'en embrochoys sept en ma lance
Gomme endoilly en une gaulle
Et les vous portoys sur l'espauUe
Mais il faut que le récit lui-mème révèle ce qu'il y a de
faux, dans toutes ces vantardises, et l'archer nous conte,
partant, comment il aurait crevé un celi à un paysan, qui
avait osé Tassa illir, s'il ne s'était pas a pergu d'avoir affaire à
un borgne. Il ajoute que ce paysan le serra de près de sorte qu'il
fut obligé de jouer des jambes, mais à ce point s'apercevant
que le public pourrait faire ses réserves sur sa valeur, il a
soin d'ajouter une déclaration, d"un comique achevé:
Il s'en fuyt et moy devant.
Pour le reste il est voleur aussi bien que son devancier et
il jouit, encore mieux que lui, de la faveur des tètes cou-
ronnées.
G'est à cette famille qu'appartient, au mème titre de fan-
faron et de larron, Phlipot, le héros burlesque de la farce
des Trois galants. Tout sot qu'il est, aussitót qu'on l'habille
en aventurier, il se sent salsi de toute la dignité de son rang,
retrousse sa raoustache, met la main à l'épée et menace de
mort un feint paysan, qui ne se hàte pas trop de lui apprèter,
à ses dépens, un banquet soraplueux. Deux de ces galants
jouent, à leur tour, le ròle de soldats et le premier démontre
qu'il a toutes les qualités requises pour un archer légitime:
Sus vilain, sus, ales au vin
Et qu'on m'aporte du meilleur:
Et qu'il ayt belle couleur,
Ou je vous rompray la teste.
ÉrUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 283
Phlipot fait ensuite des déclarations, toiichant sa valeur. Je
vais vaincre autant d'ennemis que possible, s"écrie-t-il, pourvu:
que personne ne me bate,
En quelque lieu où je frape,
et il répète, en partie au moins, les récits glorieux. de ses pré-
décesseui's. On lui a dit que les ennemis portent, pour dis-
tinctif, une croix verte et que les soldats de son corps se
distinguent, au contraire, par une croix: bianche. Eh bien!
ajoute-t-il, cousez sur mes épaules les deux croix, ainsi au
moment du danger, je saurai me trouver toujours avec des
gens de mon parti.
Le fabliau avait déjà ri d'autres héros de la mème famille, des
paysans sans courage, se donnant des airs de chevaliers et de
Berangier au long e... domptant son héro'ique seigneur. La nou-
velle italienne s y était arausée à son tour, et au XIV" siècle,
Jean Sercambi nous avait présente deux membres respectables
de cette classe d'aventuriers, en deux nouvelles: De cattivitate
slipendiarj et De viltaie. Il s'agit de deux soldats de ven-
tura, grands mangeurs de macaronis, dont celui qui est
mis le plus en relief rèpond au nom burlesque de Folaga. Si
l'on veut prèter foi à ce qu'il dit, les troupes ennemies vont
tuurner le dos, rien qu'à le voir paraitre. Malheureusement,
les faits donnent bien tòt un dementi à ses rodomontades. A
la téte de ses soldats, il marche, après un copieux repas, qui
lui donne, tout d'abord, beaucoup d'enthousiasme, mais qui
l'oblige, peu de teraps après, de s'écarter de ses camarades.
Gomme il s'est conche sur l'herbe, il arrive qu'un ràteau se
prend à ses habits. Tout tremblant de peur, croyant avoir
affaire à un de ses ennemis, il s'écrie aussitót, sans oser
nième tourner la tète : « Je me rends prisonnier avec tous mes
soldats ». Le ràteau de Folaga et l'épouvantail de l'archer of-
frent des points de contact, et l'aventurier Tromba, du mème
écrivain, appartieni, lui aussi, de plein droit à cette famille.
284 PIERRE TOLDO
Les contes de Sercambi, ainsi que d'autres exemples qu'on
pourrait tirer en abondance des nouvelles de la France et de
l'Italie — Sacchetti lui aussi avait conte l'aventure d'Albert
(nouv. XIIP) Pendant ses armes à une branche de prunier —
démontrent les rapports d'inspiration, pour les types et pour
les sujets réunissant, dans un but comraun, la nouvelle et la
farce, bien qu'il n"y alt en tout cela que des rapports de genre.
L'autre groupe de fanfarons a lui aussi plusieurs représen-
tants sur la scène frangaise. Voilà tout d'abord raessieurs de
Mallepaye et de Baillevant, héros d'une farce, attribuée, sans
preuves probantes, à Villon, aussi gueux que fiers, se pavanant
dans leurs manteaux troués et se consolant réciproquement
des malheurs, qui les accablent. Que le siècle est corrorapu !
que le roi est loin de connaitre les meilleurs gentilshommes
de la France! Hélas! leurs rentes soni désormais «sur le
commun » et la splendeur de leurs arraoiries s'est transformée
en « trois poulx rampant en abois » sur leurs chemises.
Les seigneurs de Mallepaye et de Baillevant sont suivis de
près par deux autres seigneurs non moins illustres. Mar-
chebeau et Galop, dont une autre farce célèbre les mérites,
la valeur dans les combats et les entreprises galantes. G'est
là un autre trait commun aux fanfarons latins, italiens et
frangais :
Marchebeau. Je suis fort comme un Ercules.
Gaio]). Et moy vaillant comme un Achiles.
Marchebeau. Humble aulx coups.
Galop. Apre à la vitaille
Mais aulx femmes
Marchebeau. Bien combaton.
Malheureusement, Amour et Convoitise marchent ensemble
et se moquent des seigneurs de plate-bou7^se: « Amour sy est
quant argent dure ».
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANgAIS DU MOYEN AGE 285
Ailleurs, de mème que dans le thèàtre latin et dans celui
de la Renaissance italienne, nous trouvons ce contraste que
nous venons d'indiquer entre le fanfaron, se vantant de ses
exploits et le valet les réduisant à leur juste valeur. La farce
du Gaudisseur qui se vante de ses faictz et d\ing sot, qui
luy respond au contraire, nous présente un rodomont, dont
les entreprises héroiques l'emportent sur celles de Pyrgopo-
linices, de Thraso et de Gleomachus du thèàtre de Plaute et
de Térence. Il se présente sur la scène « jeune, gente, mignon
et gai », plus fier que le Dieu Mars, plus charmant que
Gupidon.
Le Gaudisseur. Quant sur ma teste ay ma salade,
Pour à coup faire une passade
Homme n'en crains dessus la terre.
Le Sot. Voire, pour battre ung malade,
Quant il a sa grande hallebarde,
Et pour cassar à coups ung voirre
Le Gaudisseur. Quant je me treuve en la guerre,
Je tue, je jette par terre
Gomme fait le boucher ung veau.
Le Sot. Voire, à jouster contro ung voirre,
Puis se laisser cheoir par terre.
Et s'endormir comme un pourceau.
D'ailleurs le Gaudisseur ne s'offense pas du comraentaire
que le sot fait à tous ses discours; il a l'air mème de ne
pas l'entendre, s'adressant, tous les deux, directement au
public. Il n'en est pas de mème du Gentil homme et de son
page, petit dialogue dramatique, où lon entend un débat très
vif entre ces deux personnages. Le page se moque bien de
la colere de son maitre, qui voudrait lobliger au silence, et
malgró ses menaces, il nous apprend que les ennemis tués
par son gentilhomme ne sont que des insectes, dont il est
inutile de répéter le nom. Il nous apprend aussi que les
286 PIERRE TOLDO
nobles amis, dont son maitre fait tant de bruit et qu'il vou-
drait faire passer pour des princes, ont fini sur la potence et
lours noms, monsieur Le Croc et Happe Gibet, sufliseni pour
nous faire comprendre au juste le rang qu'ils occupaient dans
la société. Le gentilhomme a beau déclarer d'avoir « porte
l'oiseau » à la chasse; le faucon devient une poule volée, ainsi
que son train splendide se réduit à une « chemise de louage ».
Pour ce qui est de ses aventures galantes, le gentilhomme
prétend qu'il n'a jamais eu d'autre embarras que celui du
choix; et de mème que le Tniles de Piante, il se plaint de ce
qu'il est trop beau et trop aimé. Malheureusement le page
se hàte de lui donner une legon de modestie:
Il est bien vray que je vous vis pretendre
En un soeir au cler de la lune
De coucher avec quelque une
Qui d'une main estojt manquete
Et vous onga d'une pouquete
La galande et revintes tout nu.
Dans la farce de V Avantureulx le défilé de ces types con-
tinue. L'Avantureulx et Guillot le Maire représentent deux.
nuances de la mème conception comique, les héros de jadis^
qui ont pris leur retraite, sans que Tancienne valeur ait pour
cela disparu de leurs coeurs.
Une querelle s'engage entre ces bons camarades d'armes,
pour une question d'intérèt de leurs enfants et ils s'emportent
et se menacent de loin, plus fiers que Roland, défiant tout
lo peuple de Mahomet. Ils ont toutefois soin de garder une
distance convenable et lorsque la necessitò de faire bonneur
à leur nom les pousse l'un contre Tautre, cette distance reste
toujours assez grande, pour qu'ils n'aient à craindre quelque
mésaventure.
ÈTUDES SUR LE THÉATUE COMIQL'E FRANC-US DU MOYEN AGE 287
L'Aventtireuìx. A ! dea, dea, ne me frape pas !
Combien que rien je ne vous crains.
Gxiillot. Sang bieu, se g'y bolte les mains,
Je m'en raporte bien à toy;
Ne t'aproche pas pres de moy,
Sy tu veulx que je me deffende.
L'Aventureulx. Vault y poinct mieux que je me rende?
Guillot. Y vault mieulx que nous apoincton.
Colin, les coups sont dangereulx.
Enfia l'aventureulx se plaint de ce que Guillot ne le laisse
pas assez reculer « pour prendre mieux sa visée »; il crie
« à mort, à mort » et il ne bouge pas de sa place.
Si, dans cette farce, les pères forment le sujet de l'admi-
ration de leurs enfants, dans celle de Colin fìlz de Thevot
le héros fait briller d'un vif éclat le nom de ses parents et
de ses aieux. Thevot a envoyé à la guerre son enfant et il ne
se sent oas d'aise lorsque celui-ci fait retour à la maison chargé
de lauriers et traìnant à sa suite rien moins qu'un prisonnier
aulhentique. Ce prisonnier parie un baragouin mystérieux, ce
qui ajoute ancore un nouveau prix à la conquète. Malheureu-
sement la joie du pére est troublée par les devoirs de sa
ebarge de maire et il doit écouter les plaintes d'une pay-
sanne, à qui un soldat inconnu, sorte de gentUastt'e, vient de
voler deux fromages et de tuer une poule. Mais la paysanne
a su se défendre. Elle a battu l'aventurier et l'a obligé de
prendre la fuite.
Thevot, à ce discours, se sent salsi d'un sens vague d'in-
quiétude. Le sang n'est pas de l'eau et les souvenirs de sa
jeunesse héroique ne le laissent pas entièrement tranquille,
sur les exploits de son enfant. Hélas ! la vieille n'a pas de la
peine à reconnaitre en Colin fils de Thevot, le voleur de ses
fromages, et le maire doit se hàter d'en apaiser la colere.
288 PIERRE TOLDO
Quelle honte pour sa maison, si l'on savait, dans le village,
que Colin a joué un tei rùle !
Mais les dèsillusions de Thevot ne s'arrètenl pas là. Colin
revient sans cheval et saus arraes; il les a penius
Pour fuir plus legerement,
et le prisonnier, lui-mème, n'est qu'un pèlerin, qui a trouvé
à son goùt de voyager aux frais du jeune homme. Pour le
coup Thevot commence à se fàcher, mais sons fils l'apaise,
en lui déclarant qu'il va épouser la Alle de Gaultier Gar-
guille et qu'il écrira, en attendant, le récit de ses batailles.
Le Resolu, monologue de Roger de Collerye, est une autre
variété du mème genre, le galani qui fait trerabler les maris
et affoler les femmes. On n'a qu'à Técouter un moment, pour
comprendre la véritable porlée de ses exploits:
L'autrier soir, mon oeil guignoit
Une mignonne fort humaine
Qui contve moi se desdaignoit,
Ou à tout le moins se faignoit,
D'une face assez mondaine
Devant son huys je me pourmaine
Soubz l'espoir de parler à elle.
Son mari vient, qui se demaine
Et me dit: Galani, qui vous meine?
De ce quartier tirez de l'elle.
Pour garder l'honneur de la belle
Je n'y feiz pas longue demeure.
Dans la représentation de tous ces types, dont nous venons
de faire la connaissauce, il y a évidemment un but à la fois
plaìsant et satirique et cette satire des conditions sociales
brille d'un éclat bien plus vif, dans un autre genre de pro-
ductions comiques, les vioralUés, où les états paraissent sur
la scène et font voir leurs vices et leurs abus. Cesi là que
ÈTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 289
nous voyons le Peuple essuyanl sa lessive, tandis que TÉ-
glise et la Noblesso raènent grand train et se moquent de
sa misere ; c'est là que le Temps qui court représente un
bien tristo présent, qui n'est pas pourtant meilleur du passe,
quoi qu'en disent les Gens nouveaux. Meme dans le do-
maine de la farce, on entend parfois, mais toujours avec plus
de retenue, de ces critiques aux conditions sociales. Rappelons
en passant la farce des Bdtards de Canio;, où l'on met en
scène les maux causés par les droits d'aìnesse. Henri vieni
d'hériter de son pere tout le patriraoine de sa famille; il
donnera, pour tout bien, à ses frères une charge de chapelain
et celle de faiseur d'allumettes. La mère elle aussi est des-
héritée complètement:
La mère. Mes enfans, c'est le coustumyer
Qui est faict passe trois cens ans,
Pour et afin que les plus grans
Vivent ensemble sans discors.
La fiUe. Il avoyt bien le deable au corps
Qui ceste loy institua.
A l'un tout le bien il donna,
Et les aultres n'ont rien tretous.
Tout cela est assez bien dit plusieurs siècles avant la Revo-
lution.
Nous nous sommes arrgtés longtemps dans la représentation
comique des gens de guerre et de la noblesse; il faut main-
tenant reprendre notre chemin, car d'autres sujets et d'autres
types se présentent à notre vue. Maisit^e Mìmin nous a fait
connaìtre les barbouilleurs de latin et les pédants; nous avons
vu dans la farce de Naudet et du gentilhomrae, celui-ci tourné
en ridicule, et la ruse du raanant l'emportant sur la puis-
sance du rang. En general la farce, aussi bien que le fabliau,
n'en veut plus aux paysans qu'aux gentilshommes ; devant le
rire les rangs disparaissent et les auteurs, appartenant, le
290 PIERRE TOLUO
plus souvent, aux classes inférieures, jouant parfois leurs
pièces devant le peuple, n'auraient su se montrer excessive-
ment aristocrates. La grossièreté du paysan devient donc une
source de plaisanteries, aussi bien que l'orgueil du noble, sur-
tout lorsque cet orgueil n'est pas relevé par l'éclat de la ri-
chesse ou de la valeur. Quant aux gens d'église, il y a une
distinction à faire, entre le théàtre qui precèda la Réforme et
celui qui la suivit.
Le fabliau du moyen àge, lout en respectant le fond du
catholicisme, s etait più à représenter Ics prètres, les raoines
et les religieuses, sous un aspect fort défavorable. Le con-
traste évident entre les moeurs réelles et celles que le chris-
tianisme iraposait à ses ministres, entre la chasteté, la pauvreté
et l'abnégation prònées de la chaire, exallées dans les vies
des saints et les vices inhèrent à la nature humaine, pènétrant
dans les cloìtres et dans les temples, devenait une source
continuelle plutót de plaisanteries railleuses que d'une véri-
table satire; si Fon se moquait des moeurs des gens d'église,
e etait parce qu'il paraissait étrange de les voir tomber dans
les péchés qu'ils défendaient aux autres, parce que leur habit
aurait dù leur prescrire une conduite toujours exemplaire.
Le sentiraent religieux, si vif au moyen àge et à l'aube
de la Renaissance, présentait donc un aspect parfois curieux
et contradictoire. Le dogme restait intact dans le coeur simple
des croyants, mais le eulte, dans son exlériorité, perdait, à la
suite d'un contact trop immèdiat avec le peuple, de sa gra-
vite et de son sérieux. Les plaisanteries se mèlaient, dans
les mystères, à ce que la vie du Sauveur, de ses disciples et
de ses saints offrait de plus pathétique; on avait contraete
une familiarité excessive avec la noire coborte de Sathan
aussi bien qu'avec les hótes du Paradis, et l'on s'amusait
avec une impiété inconsciente au récit du débat du paj'san,
se moquant des apòtres et s'installant, en tonte liberté, auprès
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 291
du tròne de Dieu. La lutte à coups de poings entre Saint-
Pierre et un jongleur n'offrait de rnéme rien d'impie pour
les imaginations et les consciences de celle epoque. Il s'en-
suivit que les prières, elles-mèmes, se prèlèrent au badinage
et sans comprendre ce qu'il y avait au moins d'irrévérencieux,
on parodia les serraons, les credo, les pater, la confession,
la bible et mèrae le martyre des saints. Rappelons les mo-
nologues burlesques des saints, Sainct Raisìn, Sainct Bil-
loiiart, Sainct Faulcet, Sainct Beliìi, Sainct Hareng, Sainct
Ongnon, Sainct Jambon, madame Saincte Andouìlle, Sainct
Fì^appe-Cul, Sainct Velli, etc, et les sermons plaisants,
dont celui de V Endouille, compose vers 1520, peut servir de
modèle.
La separa tion enlre les représentants de l'Église et l'Église
«lle-mème était dono dùment ótablie et Pierre Gringore pou-
vait tourner en ridicule le pontife Jules II et ses cardinaux,
sans froisser par là les consciences de ses auditeurs. Les
plaintes contro Rome et l'avidité du clergé pullulent dans
celle litlérature et l'on pouvait dire là-dessus librement
son avis, sans s'exposer aux peines de l'enfer, vu que les
Sainls-Pòres, eux-mèmes, avaient dévoilé et combattu tant
d'abus et de corruptions. Au XVp siècle, lorsque le vent
de la Réforme commenga à souffler, l'àme du peuple y était
déjà préparée et sans des considérations politiques l'autorité
du pontife aurait été, en France aussi, renversée pour tou-
jours. On sait quel róle le théàtre joua dans cette lutte et
l'on connaìt toutes les pièces depuis le Pape malade et les
Thèologastres jusqu'au voyage de frère Fecisti.
Dans le théàtre comique, cette lutte entre le catholicisme
et le protestantismo ne peut ètre considérée que par incident
et seuleraent en ce qu'elle contieni d'allusions aux nouvelles
idées. Pour les temps qui précèdent la Réforme, l'esprit domi-
nani les farces est toujours celui des fabliaux et la critique la
292 PIERRE TOLDO
plus vive des ordres religieux ne dépassc jainais le caractère
de celle de Rutebeuf et de ses contemporains. Le cure, le cha-
pelain, le moine, qui trompent la bonne foi de tout le monde
et surtout des maris, faisant porter en procession les culottes
qu'ils ont oubliées dans les lits de leurs pénitentes, tous ces
satyres chargés d'assouvir la luxure du sexe et qu'on trouve,
à tout moment, cachés sous la table, sous la buche, dans les
tonneaux ou dans les poulaillers, ne sont que les bons reli-
gieux de Rutebeuf, de Jean de Gondé, de Guillaume le Nor-
mand, etc, peints, sans doute, sous un fort mauvais jour,
mais sans qu'il y ait aucune idée de rébellion aux lois fon-
damentales du eulte. La femme au prètre elle-méme est ac-
ceptée, par la société de ce temps, sans trop de scandale; les
chefs de l'église n'avaient alors pas l'air de s'en apercevoir
et c'était là au moins une sauvegarde pour les maris.
On a exagéré, à mon avis, le sens de certaines invectives,.
qui n'avaient pas alors la portée qu'elles auraient certaine-
ment de nos jours. La critique la plus outrée de l'église ne
dépasse jamais celle de Dante et ne vise qu'aux ministres
d*une religion acceptée par tout le monde. S'il y a, dans les
fabliaux, des prètres punis sévèrement, il y en a aussi de
ceux qui triomphent et qui paraissent mème assez airaables.
D'un coté le Sacrisiain, Fr^ère Denise, le cure de Constant
Duhamel, le prestre c'on porte ou celui que Guillaume le
Normand nous présente, dans son conte du presire et cCAlison.
De l'autre les religieux triomphants, le cordelier que ses hraies
rendent célèbre, le prètre du Fabel d'Aboul et du fabliau du
prestre et de la Dame et mieux encore celui dont on parie
dans le conte de la Veuve:
En cele vile, si com sont estre,
Estoit un vicaire, un prestre,
Que fud prodomme en sa manere,
Ne fud ne glotu ne lechere,
ÉTUDES SU'R LE THÈATRE COMIQUE KRANCAIS DU MOYEN AGE 293
Bien ama Deu et seinte Esglise
E bieu sustint le sien servise ').
Quant à son clero « fiz de chivaler » il paraìt bien digne
de l'amour d'une princesse. S'il arrive qu'on se raoque parfois
des gens d'église, ceux-ci ont aussi leur revanche, témoin ce
prètre, qui se venge fort plaisamment des Deus ribauoo, qui
lui ont volé son cheval.
Il en est de mème du róle que ces personnages jouent dans
les farces. Frère Philibert est un médecin très aimable, que
toutes les femmes voudraient consultar, et il y en a plusieurs,
appartenant à sa faraille, qui jouissent de la faveur du beau
sexe. Mais il est parfaitement inutile de demander à ces frères
et à ces prètres de maìtriser leurs sens. S'ils étaient vertueux,
on ne les jouerait pas sur la scène. Le mot de prètre et d'amou-
reux deviennent partant des synonymes. La farce des brus
est là pour les peindre, dans leur vulgarité d'animaux en rut:
Dieu noiis a mys dessus la terre
Hommes roides, forts et puissans,
Et de nos membres joyssans
Gomme aultres en verité,
s'écrie l'un d'eux en avouant ses fautes et en les excusant en
mème temps. Mais l'accusation ne se borne pas à cela et il
y a déjà l'écbo des idées nouvelles.
V Hermite. Quant nous sommes aulx bonnes villes,
Nous faisons les freres frapars;
Mais aulx champs droictz dessus liepars
A poursuyvir filles et femmes.
L'autre. Quant nous alons par les maisons
Nous sommes pales ot deffaictz,
En disant salmes et oraisons
Pour ceulx qui nous ont des biens faictz,
') Montaiglon, ouvr. cité, fabliau n° 49.
Studj di filologia romanzn, IX. 19
294 PIERRE TOLDO
Mais aulx cbamps sommes contrefaictz,
Chantant chansons vindicatives
Avecques paroles lascives.
Mais quelle est après tout la moralité de cette pièce? Le
trioniphe de l'argent, car les moines repoussés, tout d'abord,
sont acceplós ensuite par les filles, lorsqu'ils raettent la main
à la bourse: « qui a argent, il a des brus ».
La mème passion pour ies plaisirs sensuels enflamrae les
religieuses de ce théàtre, dont la représentation est bien vive,
sans qu'il y ait, toalefois, d'autre but que celui de plaisanter.
La farce composée avec beaucoup de verve, sur les aventures
de soeur Fesne, trouve son premier raodèle italien dans une
des nouvelles du Decameron (IX, 2), où il est question d'une
abbesse, qui se lève à la hàte et sans lumière pour surprendre
une religieuse accusée de coucher avec son amoureux. Mais
labbesse, à son tour, ne dort pas seule et elle met sur sa téte,
dans la confusion du moment^ au lieu des voiles de chasteté,
les culottes d'un prétre, ce qui n'est pas du tout la mème
chose. L'abbesse surprend donc la sceur avec son amoureux et
convoque le conseil des femmes, pour punir la coupable; mais
celle-ci, qui élait tout d'abord très confuse et gardait le silence,
ayant remarqué l'étrange coiffe de sa supérieure, prend son
coeur à deux mains et répond tout à coup, au milieu de l'é-
tonnement general: Madame l'abbesse, nouez votre coifife.
L'abbesse, fort élonnée d'une telle réponse, lui adresse des
injures, mais la religieuse répète tranquillement sa demanda;
les autres soeurs regardent, l'abbesse entre en soupgon et s a-
percevant du témoin importun de ses fautes, cbange de langage,
pardonne à l'imputée et concède à tout le monde de chàtier
sa cbair, comme il bon lui semble. Ce conte avait déjà forme
en France le sujet du fabliau de la Nonnete, et plus tard
l'italien Morlini et ensuite La Fontaine devaient le répéter •).
^) Cfr. Bédier, Lea fahliaux eie, p. 421.
ÉTUDES SLR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 295
Toutefois la source directe, qui est restèe inconnue, appartieni
à Rabelais {Pantagruel, III, 19), car tous les détails y sont
reproduits, y compris le nom de la religieuse et celui du moine.
« Vous savez comraent, à Brignoles, quand la nonnain scBur
Pesine fut par le jeune brifant Roydimet engrossie, et la gros-
sesse cognué, appellée par labbesse en chapitre et arguée de
inceste, elle s'excusoit, alleguant que ce avoit été par vio-
lence et par la force du frere Roydimet. L'abbesse repliquant
et disant: « Méchante, c'ètait au dortoir, pourquoy ne criois-tu
à la force? Nous toutes eussions couru à ton aide », répondit
qu'elle n'osoit crier au dortoir, pource qu'au dortoir y a si-
lence sempiternel. « Mais, dit l'abbesse, méchante que tu es,
pourquoy ne faisois-tu signe à tes voisines de chambre? »
« Je, répondit la Pesine, leur faisois signes du cui tant que
pouvois, mais personne ne me secourut. » « Mais, demanda
l'abbesse, méchante, pourquoy incontlnent ne me le vins-tu
dire et l'accuser regulierement? » « Ainsi eussé-je fait (si
le moine ne m'avait baillé) en pénitence (de la confession) de
ne rien dire. »
Les caquets des religieuses de la farce sur la conduite de
soeur Pesne dévoilent leurs vices doublés d'hj^pocrisie. Le
péché n'est rien, pourvu qu'il demeure secret. La fante de
soeur Pesne est de se trouver en condition de ne pouvoir plus
cacher son état.
Ave Maria! (dit Fune de ces religieuses)
Et Jessus et je l'ay tant faict
Et a mon plaisir satisfaict
Sans estre grosse.
Ah! ce frère Redymet « Rouge comme un beau cherubin »
«t ce frère Lubin « tant doulx et aymable quant y s'y
met » méritent bien tout l'amour du couvent! Et qu'on a
tori de croire que leur temps se passe dans les jeùnes et
dans la pénitence:
2i)6 PIERRE T01.D0
Ceans il habonde
Autant de plaisir savoureulx
Gomme au monde!
L'abbesse, lorsqu'elle entend l'état de soeur Fesne, s'écrie
dans son beau latin, aussi pur que ses mceurs:
0! le grosson peccatores!
Tenamus chapitrum totus
Sonnare clochetas totas
Qu'el veniat.
Le 'benedicite est rerapiacé, dans ce couvent, par une cban-
sonnette très libre et l'interrogatoire de la nouvelle de Boccace
est développé d'une manière plaisante et tout à fait rabelai-
sienne. Pourquoi soeur Fesne n'a-t-elle pas crié au secours,
lorsque le frère la serra entre ses bras? Farce qu'au dortoir on
doit garder le silence. Pourquoi ne fìt-elle au moins quelques
signes? Oui, elle les faisait bien, mais de quelque chose qu'il
ne faut pas nommer. Pourquoi, enfin, n'a-t-elle conte ensuite
ce qui s'était passe? G'est que le prétre lui avait donne pour
pénitence de garder le silence là-dessus. La conclusion de la
pièce est dans ce latin de cuisine, dont l'abbesse nous a déjà
donne un essai.
La nouvelle venait de flétrir de mépris le commerce des
reliques, cause occasionnelle du grand scbisme et l'on connaìt
l'aventure de ce frère Cipolla du Decameron (VI, 10), qui faisait
voir une piume miraculeuse de l'ange Gabriel. Dans le Novellino
de Masuccio, un moine montre aux croyants le manche du
couteau qui tua Saint Pierre (p. I, nouv. 11), et dans les
comptes du monde adventureux un prètre vend « du foin de
la crescbe où nostre Sauveur et redempteur Jesus coucha le
jour de sa salute nativité » et un autre moine « la gaine du
cousteau de Sainct Pierre et la courroye de ses souliers »
(IX, XXXV). M' Francois Torraca, dans ses études sur les
ÉTUDES SUR LK THÈATRE COMIQUE FRA.NgAIS DU MOYEN AGE 297
<c farse cavaiole » *), nous parie d'une pièce ancienne cora-
posée en l'honneur d'un souverain, où l'on énumérait, d'une
manière plaisante, les reliques de Cava, savoir l'habit d'A.-
brahara, une oreille de l'ànesse de Balaam, la corde qui dut
servir à pendre Judas, le char d'Elie prophète, une plainte
de Jérémie et un óternument de Jesus enfant.
Le raème sentiment, à une epoque où la Réforme faisait déjà
entendre sa voix, anime la farce nouvelle d'un pardonneur,
d'un triacleur et d'une tavernière, sorte de défi d'ìmpudence,
entre un vendeur de fausses indulgences et un marchand de
thériaque. Le pardonneur célèbre le mérite de certains saints,
aux noms burlesques, sainct Gouillebault, protecteur des femmes
en mal d'enfant et saincte Velue, qui redonne le pucelage.
Au nombre de ses reliques, il présente:
Le groing
Du pourceau monsieur sainct Anthoine,
la creste
Du coq qui chanta cheuz Pylate;
Et la moytié d'une late
De la grand arche de Noe.
Il a, en outre, corame frère Cipolla du Boccace:
l'elle
D'un des seraphins d'emprès Dieu.
Le triacleur exalte, à son tour, ses oignements merveilleux :
Que j'ai prins sur le prebstre Jehan,
et l'oeuf d'un moine:
*) Cfr. Francesco Torraca, Studi di storia letteraria napoletana, Li-
vorno, 1884, p. 113. Cfr. aussi Benedetto Croce, I teatri di Napoli,
Napoli, 1891, p. 42. Voltaire, lui aussi, se moquera des reliques dans
sa Pucelle d'Orléans, là où il décrit l'arsénal du Paradis (II eh.):
l'armet de Débora, ... le caillou de David, ... la machoire de
Samson, le coutelet de la belle Judith, etc. „.
298 PIERRE TOl.DO
Qui fut ponnu en Barbarie,
Qui est plain, quand la lune est plaine,
Et tary quand elle est tarye.
Il possedè, aussi: « de la teste de Gerberus, de la barbe de
Proserpine, du pied de Hanibal, un petit caillou des murs du
Paradis, la dent de Geoffroy, la pierre dont David frappa le
géant Goliatb » et enfin « du bois du tabourin de quoy David
joua devant Dieu ». Les deux imposteurs se contredisent et
luttent entre eux. Le triacleur fait la remarque maligne qua
la piume de Tange pourrait bien étre celle d'une oie, mangée
à quelque dìner et le pardonneur, à propos du tabourin de
David, répartit à son tour:
Il a menti, par le sang bieu,
Car David jouoit de la harpe.
Enfin ils conviennent, comme larrons en foire, qua c'est
dans leur intérèt de se mettra d'accord, car « deux coquins
ne vallent rien à un huys » et a fin que cet accord soit sti-
pulò, en pleine règie, ils se rendent à un cabaret, boivent,
mangent, bavardent et laissent, en gagà, pour prix de leur
écot, « le beguin d'un des innocents ». La tavernière, femme
d'un arracheur de dents, les avait traités, en bons camarades
de son mari, sans songer qu'ils pouvaient bien se moquer
d'elle aussi. Mais les filous partis, elle regarde la relique et
n'a pas besoin des yeux, pour s'apercevoir qu'au lieu du
beguin, elle a regu « des braies breneuses ».
Dans cette sorte de satire, outre à l'abus des ventes des
reliques et des indulgences, on vise évidemment aux reliques
considérées en elles-mémes, se multipliant depuis longtemps,
dans tous les lieux sacrés, d'une manière prodigieuse et
consistant, assez souvent, en objets étranges ou ridicules. Tel
est aussi le sens de l'énumération des reliques de Cava, que
nous venons de citer et mème de nous jours la littérature de
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMtQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 299
colportage se plaìt à ces plaisanteries, où il y a toujours
une arrière-pensée de malice et de raillerie visant si non à
la religion en elle-raème tout au moins à ce qui en constitue
les dehors et qui en forme le prodnit le plus lucra tif, pour
les gens d'église.
Les sots et les badins.
Les tours, dont nous venons de parler, révèlent la lutte de
deux ruses où celui qui a le dessus doit se tenir sur ses
gardes, de peur que son ennemi ne prenne sa re v anche.
Il n'en est pas de mèrae pour certaines pièces, où lon met
on scène de pauvres sots, car, dans un combat inégal, la va-
leur et le mérite de celui qui vaine se rétrécissent en pro-
portion de la faiblesse du vaincu. Mais les sots de ce théàtre
ont parfois une certaine malice, qui leur sert de défense et
alors on rit du triomphe du faible, triomphe d'autant plus
reraarquable qu'on ne s'y attendait point.
G'est le cas de la farce de Mahuet Badin natif de Baignolet,
« qui va à Paris au marche, pour vendre ses oeufs et son
lait et qui ne veut ly donner qu'au prix du marche ». La
sottise de Mahuet est telle qu'il croit que le prix du marche
est une personne, qu'il rencontrera aux halles, et comme un
escroc s'est apergu de sa naiveté, le tour qu'il lui joue est
facile à deviner. « Je suis le prix du marche », s'écrie celui-ci
et le badin, sans se faire prier et sans toucher pas mème un
liard, le rend maitre de tonte sa marchandise. Mais la re-
vanche ne se fait pas attendre. Mahuet s'enquiert de ce qu'il
doit faire du pot à lait, maintenant vide. « Tu peux le briser
sur la tète du premier que tu rencontreras », lui répond-on
et le sot, toujours en bonne foi, voyant son escroc venir à
300 PIERRE TOLDO
sa rencontre, brise d'un seul coup le pot et la lète du mal-
heureux. Une bourgeoise, qui a èté spectatrice de tout ce
qui s'est passe, applaudii, en bonne connaisseuse de ces ex-
ploits, et donne le mot de la pièce :
C'est bien fait;
Trompeurs sont voluntiers trompez.
Le pauvre badin a toutefois encore d'autres malheurs à
essuyer. Il s'en revient à sa maison, en grand danger d'ètre
batta, ainsi que Perette de La Fontaine. Sa mère, poussée à
bout par le récit qu'il lui fait, déclare de ne plus le recon-
naìtre pour son fils et a l'air de rèver à quel pere elle
pourra en attribuer la responsabilité. « J'ai envo^^é mon enfant
au marche, ajoute-t-elle, il faut bien qu'on me l'ait changé ».
Mahuet, dans sa sottise extrème, prend tout cela au sérieux
et se désespère de crainte qu'à Paris on ne l'ait effective-
mente changé de pcrsonne.
Une intrigue à peu près pareille inspire l'auteur de la farce
La femme et le badin. La femme prie le badin, son mari, de
se rendre au marche, ce qu'il fait non sans opposer plusieurs
difficultés. Il est chargé de vendre une certaine quantité
de pois, mais l'attente l'ennuie et le badin est bien aise lors-
qu'un inconnu, un filou, se présente à lui, pour acheter sa
marchandise. « Je n'ai pas d'argent sur moi — déclare l'a-
cheteur — mais tu n'as qu'à te rendre à Rouen et do-
mander de
Zorobabel
Demourant desoublz le Risei.
Tout le monde t'indiquera nia maison ». Le badin, qui se
fie aussitót à l'inconnu, lui livre sa marchandise, mais il a
beau répéter à tout moment ce nom étrange de Zorobabel;
il finit par l'oublier. La femme fait à son mari le mème ac-
cueil que la mère de Mahuet avait fait à son enfant, et le
ÈTUDES SUn LE THÉATRlfi COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 301
pauvre homme, sur le conseil de celle-ci, se rend à l'église
Saint-Michel, pour prier le bon Dieu de lui rappeler au moins
le noni et l'adresse de son créancier. Le mème sentiment qui
a diete la vengeance inconsciente du sot de la farce de Mahuet,
inspire ici, au moins en partie, le poète. Le trorapeur, qui prie
dans l'église à coté de notre badin, a la mauvaise inspiration
de lire, dans son livre, le passage suivant:
Et post transmygracionem,
Jeconmai autem genuyt Salatyel ;
Salatyel autem genuyt Zorobabel.
Le badin, en entendant ce nom, se réveille de son en-
gourdissement, saisit le voisin par le bras; mais le trompeur,
après un moment d'embarras, proflte de la sottise du badin,
pour lui faire accroire de nouvelles bourdes. Il s'en délivre
dono, il est vrai, mais non sans avoir passe un fort mauvais
quart d'heure et dans la crainte qu'on ne le découvre ensuite.
Ces deux farces ont une origine bien populaire. L'histoire
d'un sot cu d'une sotte, qui prend une indication quelconque,
pour le nom d'une personne et qui lui livre, par conséquent,
une certaine marchandise confiée à ses soins, est très ré-
pandue mème de nos jours. On la retrouve tout d'abord dans
un vieux novelliere italien, Giovanni Sercambi *), sous lo titre:
De malìHa in inganno. Un mari dit à sa femme de ne pas
toucher à un cochon sale, qu'il a mis de coté pour mars.
Un moine qui vient d'entendre ce que le mari ordonne à sa
fcmme, se présente à celle-ci et lui dit: « Je suis mars», et la
pauvre sotte lui donne aussitót le cochon. Malheureuseraent
le mari revient sur ses pas, entpnd le tour qu'on lui a joué,
poursuit le religieux et le tue. La plaisanterie tourne ainsi à
*) Cfr. édition Reiiier, Turin, Loescher, 1889.
302 PIERRE TOLDO
la tragèdie, ce qui arri ve fort souvent dans les nouvelles
italiennes.
Le mème récit paraìt en Fra noe dans le Moyen de par-
venir de Béroalde de Verville, qui nous en offre deux ver-
sions '). Dans la première nous avons affaire à une cham-
brìère à laquelle le maitre a recommandé de garder un
jambon pour Pàques. Elle le donne à un intrigant, qui dit de
s'appeler corame ga. Dans l'autre la ressemblance avec la
seconde farce n'est pas moins evidente. Une femme vend des
noix à un homme, qui déclare s'appeler Jean Tenon. Lorsque
le mari revient à la maison, la femme lui expose ce qui s'est
passe, et bien qu'elle n ait pas touché cette somme, elle est
bien sùre de son affaire, car l'acbeteur s'appelle..., s'appelle...
Mais le nom lui écbappe. Le mari, dit le conte, tout fàché et
dépit de la sottise de sa femme, s'écrie: «Ha! je vois bien
ce que c'est. J'en tenons... » Elle qui entend ce mot, Jean
Tenon : « Oui, oui, mon ami — dit-elle — il est vrai ; c'est
lui; il m'a dit qu'il avait ce nom là ».
Dans les nouvelles populaires frangaises, réunies dans la
Kruptadia ^), il y a aussi l'aventure d'un prètre, qui met de
coté du cochon pour Janvier, Février, Mars et Avril. Sa nièce
le donne à trois compères qui empruntent ces noms. La mème
sottise, mais sans qu'il y ait des intrigants, inspire un conte
populaire lorrain, recueilli par M' Gosquin ^). Une femme
regoit l'ordre de ne pas vendre sa marchandise à un bavard.
Corame elle voit que tout le monde cause, exception faite
d'un Saint de bois, elle lui livre son cabas et croit avoir fait
une affaire exceliente.
Le sot est un personnage très cher au moyen àge, où la
') Édition Jacob, 1841, p. 278 et 352.
2) Voi. II, pag. 8.
^) Cfr. Romania, 1880, p. 389 sgg.
ÈTUDES SUR LE THÈATRE COMIQLE FRANgAIS DU MOYEN AGE 303
conception d'une soltise universuUe forma une littérature
tout entière, des sociétés nombreuses et puissanles et donna
son nom à un genre dramatique.
Nous laissons de coté les sotlies, qui ont été d'ailleurs le "^
sujet des études diligentes de M. M. Picot et de JuUeville,
pour nous borner à Texamen d'une variété du sot, le badin,
qui n'est pas toujours si niais qu'il en a l'air. Le badin est
doué en general d'un esprit borné tei qu'Arlequin de la co-
mèdie de l'art, dans ses débuts; mais de méme que ce per-
sonnage, il a aussi une certaine dose de malice et sa sottise
n'est parfois qu'un moyen dont il se sert pour attraper ceux
qui ont l'air de se moquer de lui. Le badin, dans l'état de
doraesticité, est un véritable fléau, pour ceux qui le regoi-
vent dans leurs maisons. Il découvre les mystères galants de
d maitresse du logis, il vend son silence à un prix élevé et
l'argent ou les cadeaux regus, il devient insolent, bavard et
finit par révéler à son maitre ce qui s'est passe chez lui,
pendant son absence. Son défaut principal est celui de la
gourmandise et tandis que l'amant et la belle se livrent au
désespoir pour le retour imprévu du mari, le badin mange
tranquillement le souper apprèté ou le vend au mari, dont
il se moque et qu'il exploite, à son tour.
Une autre variété du sot est celle du gargon, qui étudie
pour entrer dans les ordres. Les fautes qu'il dit, dans un
latin de cuisine et ses quiproquo devaient amuser le public
à une epoque, où la langue latine était plus accessible à
la foule que de nos jours, et il y a évidemment, je ne dis
pas une dépendance, mais une relation assez intime enlre
les pédants du théàtre et de la littérature italienne et les
écumeurs du latin des nouvelles frangaises et de tou!es ces
farces.
Voyons d'abord le sot parent de ce Calandrino de Boccace,
■qui descend le long du Mugnone pour retrouver la pierre
304 PIERRE TOLDO
à'eliotropia. Le sot dos farces rappelle le Pantalon de la co-
médie de l'art *) et la lignee de Graziano, ainsi que ce messer
Rovina de la Trinuzia du Firenzuola, qui se laisse persuader
qu'il a quatre jambes et que la fiente apprend l'art de de-
viner. Et ce sot est apparente de près à d'autres personnages
ridicnles du théàtre et de la nouvelle de la Péninsule; au
vieux Alesso de X Arzigogolo du Grazzini, à l'enfant idiot dont
parie Modini, « De matre quae filium custoditum reliquit »,
et à tonte l'engeance des pauvres d'esprit, qui avant tous
ces écrivains, avaient forme le sujet des contes de Giovanni
Sercambi {Be simplicitate, De simplicì juvano. De altro et
simplici mercadante, etc.) et de ceux du Sacchetti et du
Poggio ^). Les fabliaux pullulent de ces représentations de la
sottise humaine ; le jeune homme de Jouglet en est le proto-
type ^), mais il se verge, sans le savoir, du tour que Jouglet
le ménétrier lui a joué. Dans le Prò iondu, on parie d'un tei,
qui voulait brùler la mer; ailleurs les vilains, les prètres et
les bourgeois donnent tour à tour des exemples de sottise
doublée de ruse ; mais le sot, par excellence, cest toujours le
M Scala, Scenari, 3, 4, 6, 12, 25, 31, etc. Voyez aussi ce qu'en dit
M' D'Ancona dans ses Origini del teatro, p. 445 sgg., et A. Bartoli,
Scenari inediti della commedia dell'arte, Florence, 1880, p. xlix-lx.
2) Facéties LXVII, C, CI, CLIX, CLXXVIII, etc.
^) Recìieil Montaiglon, IV* voi.
Voyez aussi dans les Joyeux Devia (nouv. XLV®), ce que l'on conte
" Du sieur de Rascault qui alloit tirer du vin, et comment le fausset
lui eschappa dedans la pinte „, ce qui rappelle de près deux contes
de Morlini (2* et 49°), et la nouvelle De simplicitate de Sercambi.
Cfr. en outre les XXXVIIP et XLP des Comptes du monde adventureux.
Dans le folklore italien la legende de l'idiot se reproduit sans cesse,
et Phnpi ignudo (voyez De Guiìernatis, nov. di S. Stefano, 27*) en est
un exemple encore vivant. L'ignorance du juge d' Aiguesmortes des
Devis (LXVP) rappelle aussi un conte du Poggio (Fac. COL) et " maistre
Bertaud, à qui on fit accroire qu'il estoit mort , {Devis, LXVIIl'') n'est
paa sans avoir quelques rapporta avec le mortuus loq%iens du Florentin.
ÈTUDKS SUR LE THKATRE CO.MIQUE KRANCAIS DU MOYEN AGE 305
mari, auquel, comme nous allons voir sous peu, on fait ac-
croire les choses les plus étranges et les plus absurdes, savoir
qu'il est mort ou qu'il est devenu religieux.
L'ignorance des prètres ou de ceux qui aspirent à entrer
dans les ordres, forme aussi un sujet inépuisable de plaisan-
teries pour les anciens conteurs. L'ignorance des prélats est
bernée, dans une foule de dits et de satires sur les élats ; en
Ilalie le Poggio surtout (XXIII, GGL, etc.) et ses imitateurs
de tous les pays se sont amusés, dans ces peintures où il y
a fort souvent une arrière-pensée satirique. La sottise du
prètre de l'écrjvain florentin, qui ne savait si l'Épiphanie
était male ou femelle, a fait le tour du monde, aussi bien que
l'exemple de l'ignorance du prestre qui dit la passìon, tei
qu'on le lit dans un ancien fabliau. L'idée de la sottise est
dono déjà répandue dans la littérature du moyen àge et le
théàtre comique de ce teraps ne fait que puiser à une source
bien connue.
La farce des Trois galants et Phlipot me parait assez spiri-
tuelle. Elle renferme d'un coté la satire des faux braves, et de
l'autre la personnifìcation de la sottise. Phlipot cherche un
métier, qui ne lui donne pas trop de peine et sur le conseil des
galants, il se rend dans une église, pour prier le bon Dieu de
venir à son secours. Un des galants, se servant d'un expédient,
dont nous venons de voir plusieurs exemples dans les nou-
velles et dans les farces, se cache tout près de l'autel, parie
au noni de la divinité, et promet au jeune homme qu'il
pourra faire et savoir tout ce qu'il voudra rien qu'à le désirer.
Phlipot ne se sent pas de joie:
Je seray clerc, sans voir les lettres,
s'écrie-t-il, en entreprenant le pèlerinage que le ciel lui or-
donne. Les galants se déguisent en cordonniers et l'invitent
à apprendre leur métier, ce qu'il fait sans le moindre effort,
306 PIERRE TOLDO
car toute chose est prèparée d'avance. On le persuade en-
suite à se faire soldat et nous l'avons vu tout à l'heure, en
compagnie des archers célèbres, qui ne craignent rien ex-
ceptè les dangers.
Un autre gargon bien dépourvu d'esprit est ce Jenin filz
de rien, qui se désespère à la recherche de la paternité, mais
qui se tranquillise lorsque le devin lui assure qu'il est sans
contredit le fils de son pére. Fernet qui va ài' escolle ne lui
est pas inférieur, sous aucun rapport et il a mème une su-
périoritè dùment établie, dans sa connaissance du latin ; il
suffit de lire le début de la farce. Fernet commence:
Per omnia secola seculorum. Amen.
Sursum corda. Habemus a Domine.
Qu'en dictes-vous? Suis-je cure?
G'est le latin du Médecin malgré lui.
Sa mère est toutefois aux anges lorsqu'elle entend son fils
parler ce langage étrange, auquel elle a le bonheur de ne
rien comprendre.
Mon filz chante deja la messe
Je cuyde que d'icy à Eomme
Il n'y a ne beste ne gent
Qui ayt si bel entendement.
Tonte fière de ce trésor, elle se rend, avec lui, chez lo
maitre d'école et l'exaraen qu'il y subit n'est qu'une longue
plaisanterie fondée sur ses fautes et sur ses équivoques. II
emploie un bàton pour indiquer les lettres, qu'il épèle à
grand'peine et l'explication que le maitre lui donne sur les
voyelles et sur les consonnes n'est pas sans rappeler la scène
célèbre du Bourgeois geniilhormne.
A. propos de la voyelle a
Je le s9avoye desjà bien,
Quant je fuz batu de mon pere,
Je crioye : a! a!
ÉTUDES SUR LE TIlÈ.VTRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 307
Pour le ì), que le maitre lui répète plusieurs fois:
Je viens tout fin droict de boire:
Je ne puis boire si souvent
et la mère proteste, car elle craint qu'on ne fasse un ivrogne
<ìe son bien-aimé. C lui suggère l'idée de soif, li lui rappelle
la ìiache, h et cutu donnent lieu à des équivoques obscènes,
href toute la farce se passe à écouter ce genre de plaisan-
teries, d'un goùt fort douteux et l'ignorance de l'écolier n'em-
pèche pas au maitre, en vue d'un traitement satisfaisant, de
déclai"er qu'il va tirer de là un abime de science.
Tout ce débat rappelle de près celui d'une ancienne com-
position poétique, la Sénefìance de VA, B, C, publiée par Ju-
binal *), et qui n'a aucun caractère dramatique:
Ne puiz sana A nommer avoir
Par B commencent li bien fait
et l'éditeur a soin de nous faire remarquer combien, au
moyen àse, ce genre de facéties était en vogue. Nous avons,
en effet, une pièce latine du XIP siècle, en hexamètres, sur
l'A, B, C, avec le titre: Versus cujusdam Scothi de Abece-
dario et dans une note à l'édition citée on indique deux au-
tres compositions, sur le méme sujet, savoir VA, B, C Nostre
Dame et VA, B, C Piente lotte.
Fernet qui va à fècole pourra y retrouver un bon cama-
rade, dans le héros d'une autre farce Le fìlz et l'examyna-
tew\ mais celui-ci n'a pas le bonheur d'avoir affaire aujuge
indulgent de son devancier. Ce fils à la fois sot et badin veut
entrer dans les ordres, mais le vicaire, chargé de l'exarainer,
le renvoie durement. Le gargon de la Farce de la bouteille,
') Voyez le Nouveaii recueil de contes, dits, fàbliaux, etc, par Achille
JuBiNAL (pièce X^j, et la note à la p. 428 du second tome.
308
PIERRE TOLDO
appartieni lui aussi à la mème lignee, mais sous sa sottise,
plus apparente que réelle, lui-mérae laisse voir un but plus
sérieux que celui d'une plaisanterie. Le Voisin conseille à la
mère d'en faire un prétre:
Faisons en un homme d'eglise
Je n'y trouve aulire moyen.
La fetnme. Helas ! compere y ne sait rien ;
Ce ne seroyt que vitupere.
Le voesin. 0! ne vous chaille, ma commere;
Il en est bien d'aultres que luy
Qui ne sayvent ny ta ny my.
Mais qu'il sache son livre lyre,
Et qu'il puisse sa messe dire,
C'est le plus fort de la matyere.
Le gargon remarque, à son tour, que pour devenir prétre,
on peut se passer de toute étude. Il pourra nommer à sa
place un vicaire:
Qui prendra Je soin et la cure
Du benefice ou de la cure,
et le Voisin ajoute :
lls prennent donc le bien de Dieu
Sans en faire droict quelconques.
Le soufflé de la réforme paraìt animer cette pièce où le
badin dit en riant de dures vérités.
La farce do Maislre Mimin révèle, chez son auteur, un
esprit plus distingue. Composée au XVP siècle, lorsque les
pédants du théàtre italien étaient déjà connus en France ^),
') Cfr. mes études sur La comédie franraise de la Renaissance dans
la Revue d'hist. liti, de la France, 1888, p. 253 et passim.
KTUD£S SUR LE THEATUE COMIQUE FRANgAIS DU MOYEN AGE 309
elle offre l'aspect de quelque chose de plus important qu'un
siraple badinage.
Raulet a confié l'éducation de son fils Mimin à un pédant
qui le gorge tellement de latin, qu'il en devient presque idiot
et n'est plus à méme de se faire comprendre dans sa propre
langue. Et ce latin, il va sans dire, est celui des pédants et des
médecins des comédies que nous venons d'indiquer, c'est le latin
du Pedante de Belo (1529), du héros de la Calandra du Bib-
biena, et des gais étudiants des Universités du moyen àge.
Heureusement pour iMimin. tandis qu'il était chez le pédant.
on l'avait fiancé à une fille fort aimable. Les parents du
jeune horame et sa fiancée, après une absence très prolongée.
vont à sa rencontre pour conslater les progrès qu'il vient de
faire. Cette fiancée, qui joue encore à la poupée, ce gros
gargon parlant son charabia, avec une sorte de rage, la mère
qui est au désespoir et le maitre qui s'étonne de ce qu'on
n'admire pas assez son oeuvre, tout cela est fort bien pensé.
et assez bien écrit. Pour ce qui est du latin du jeune homme,
en voici un specimen:
Mundo variabilius
Avantiirosus hapare
Bonibus et non gaignare
Non durabo certanibus
Et non emportabilibus etc.
Or C'est là précisément le défaut de la pièce, ce latin in-
compréhensible, qui amène sur la scène nécessairement de
la Iroideur. En outre, cette peinture de l'innocence de ces
deux jeunes gens est gàlee par certains jeux de mots du
gargon, indiquant que ce n'est pas seulement le latin, qu'il
vient d'apprendre à l'école du pédant.
Un souvenir de Rabelais inspire la scène, où la mère con-
seille de mettre son enfant dans une cage et de lui faire un
traitement comme aux perroquets, qu'on entreprend de faire
SluàJ di Jilologta romanza, IX. 20
310 PIKRUE TOLDO
parler. C'est là aussi le conseil du Médecin malgrè luì de
Molière. Mais le triomphe de détruire les mauvais effels de
celle éducalion, rappelant de près celle de VEscolier limousin
de Rabelais, est confié à la jeune Alle. Celle-ci se tire d'af-
faire à merveille et il y a beaucoup de finesse dans la pelile
scène, où la jeune nriaìtresse apprend à Raulet comraenl il
faut sy prendre pour déclarer t^on amour en bon frangais;
Il n'est ouvrage que de femme,
s'écrie le magister, qui ne se montre pas trop fàché de ce
qu'on détruit ainsi son oeuvre, pourvu qu'on le paie.
Farmi ces sots il y en a un qui mérile un souvenir à part.
Cesi l'avocai d'une farce doni parie Louis Guyon *), qui se
croit mori et refuse tonte nourrituro. Sa femme, ses parents
et les médecins soni au désespoir; le pauvre homme hanlé
par celle fixalion, qui rappelle plutòl la folie que la sollise,
va mourir toul de bon. Un de ses neveux, chose singulière
pour les neveux de ce théàtre, medile alors un expédient
très curieux pour le sauver. 11 se feint mori lui aussi et
mange et boit, lout en n'appartenant plus à ce monde, car les
raorls, explique-l-il à son onde, continuent à manger dans
l'aulre vie. L'onde alors suit son exemple, et sa mélancolie
disparaìl peu à peu à la sulle d'une nourrilure reconsllluanle.
C'est là le sujet de Y Ilijpocondriaque de Rotrou et de la
Diète de Garmontel, mais ce que l'on ne sait pas c'est que Doni
l'avait déjà développé en Italie, dans une de ses nouvelles, celle
« di Girolamo linaiuolo fiorentino, che morì due volle e non
risuscitò nessuna » (n. VI). Ce Jerome se croit mori comme
l'avocat de la farce; deux de ses amis, voyant sa femme se
*) Voyez Petit de Julleville, Répertoire cité, p. 296, et L. Glyon,
Direrses lerons, Lyon, 162.5. Cette farce, dont le texte est perdu,
aurait été jouée à la présence de Charles IX.
KTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 311
livrer au désespoir, le suivent et préparent à Saint Laurent, où
il voulait et re enterré, une table surchargée de mets. Deus,
homraes masqués en morts s'assiéent alors à cóle de Jerome et
se mettent à raanger fort tranquillement. « Que faites-vouslà?
— leur dit le pauvre sot. — Est-ce que les morts mangent?
— Vous le voyez — répondent les deux compagnons. —
Alors qu'allons nous faire? — reprend le bonhomme. — Il
n'y a qu'à se rendre chez nous pour recommencer notre vie
ordinaire. » Et Jerome suit leur exemple.
Ailleurs, dans la Farce nouvelle de messire Jehan, on a
affaire à une intrigue d'une immoralité repoussante. La mère
de Jaquet alme à la fois le cure et un certain Jehan, et ce-
lui-ci tàche de gagner la sympathie de l'enfant, pour fré-
queuter librement la maison. Jaquet, malgré sa sottise, ex-
ploite la situation. Il donne avis à Jehan que son pére est
absent et qu'il pourra visiter sa mère pourvu qu'il lui donne
un bon diner. Quant à l'honneur de son pére, il s'en moque:
Car mon pere poinct ne me baille
Du vin à boyre comme vous.
Les recommandations afin qu'il garde le silence sont aussi
réitérées qu'inutiles, de sorte que pour s'en délivrer, la mère
et son amoureux l'envoient chez le cure, auquel il conte,
sans trop se faire prier, d'un air à la fois niais et malicieux,
ce qui se passe chez lui. Jaquet finit par ètre battu, mais sa
sottise et son bavardage ne cessent point pour cela.
Parfois le badin est doué d'une fantaisie Irès vive et
enjouée et il appartient alors à la société nombreuse des
fous, dont l'importance, dans la vie courtisane de l'epoque,
était devenue remarquable. L'esprit du Gonnella italien, de
Gaillette, de Triboulet et de Polite, frangais, tei que nous le
retrouvons chez Sacchetti, chez Des Périers et dans la lit-
térature populaire de la Renaissance, anime, par exemple, le
312 PIERRE TCLDO
héros de la farce Les irois galants et le badin. Rabelais et
les vieux poètes paraissent inspirer celte pièce, oìi la douce
philosophie du rire est prónée par tous les personnages. Le
badin se présente aux trois galants, comme un rayon de
soleil, qui réjouit leurs àmes. Il commence par plaisanter
sur les lettres de l'alphabet, puis il conte ses rèves extra-
ordinaires et glorieux. Dans son sommeil il est devenu roi,
mais ainsi que La Fontaine dit de lui-mème, en se réveillant
il se trouve: « Gros Jean comme devant. »
j'ay faict faire l'assemblee,
Des princes crestiens que menoye
Sur les Turcs, et le combatoye;
Et quant me resveillay au matin,
J'aperceutz que j'estoys Naudin.
Mais il se conforte bientòt de sa mésavenlure. Les princes
et le pape sont exposés aux coups, malgré leurs armures et
il alme mieux vivre désarmó que de mourir arme. D'ailleurs
les grandeurs de la terre sont bien peu de chose, pour une
àme aussi ardente que la sienne. Il voudrait planer dans les
espaces de l'air et devenir un Dieu mailrisant le Paradis.
Cette fantaisie s'empare bientòt de son esprit et le voilà trans-
forme en Dieu tout-puissant. Il envoie aussilòt à l'enfer les
gens de guerre et les sergents et il ouvre les portes de sa
maison divine aux ménétriers, aux francs buveurs et à tous
ceux qui représentent la paix et la joie. Un des galants, doué
d'un esprit démocratique, lui demande ce qu'il va faire des
pauvres laboureurs, toujours en butte à la misere et aux pil-
lages, mais le badin ne se mentre pas trop généreux, à leur
égard :
Je les metroys en purgatoyre,
Pour parfaire leur penitence.
Il exerce de méme sa rigueur contrelesboulangers, vendant
des pains trop petits, aussi bien que contre les hótes « qui
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANg.US DU MOYEN AGE 313
meslent le vin ». Daus son paradis on doit vivre dans une
gogaille éternelle:
Jambons, bonne poules, bouilys;
Et aux vendredys, samedys,
De bons pouessons par adventure.
Et puis:
Becaces, faisans, lapereaulx
Je feroys que les rivieres,
Sans en mentir poulce ny aune,
Seroyent du vin clairet de byaune,
Et le reste de vin francoys.
Pouf ce qui est des ferames, il leur permet rentrée dans
son royaume, pourvu qu elles ne dépassent pas le^ quinze
ans; il pense niéme de les rendre muettes; c'est là la manière
la plus siìre pour que son paradis ne soit point troubló. Tout
le monde enfìn jouira d'une jeunesse éternelle et comme dans
l'ile de Rabelais, les buissons se chargeront d'babits et de
joyaux et Garéme perdra pour toujours son empire. M"^ Four-
nier, dans ses notes •), n'a pas oublié de citer quelques des-
criptions de l'epoque de ce fameux pays de cocagne, célèbre
jadis dans un fabliau ^) :
Li paì's a à nom Coquaigne,
Qui plus i dort, plus i guaigne
Six semaines a en un mois
Et quatre Pasques a en Fan.
L'enfer et le paradis sont des lieux que l'imagination des
poètes du moyen àge visite très librement. Outre la Voie
de Paradis de Rutebeuf et la conquéte du paradis faite par
^) Recueil, p. 449.
*) Recueil Barhazan, IV^ voi.
314 PIERRE TOLDO
un paysan rusé, on lit le Songe d'enfer, le Salut cfenfer, la
Court de Paradis et toutes les descriptions divines des Contes
dèvois. On connait VAventure de Saint Pierre etdujongleur,
la bonté moqueuse de Saint Martin, les doux réves de la Fon-
taine de Jouvence; l'homme n'a jamais été si proche du ciel
qu'à cette epoque et il n'a jamais rèvé, corame dans cesjours
de fantaisie naive et de croyancé aveugle, un monde si mer-
veilleux et si féerique.
Lorsque le badin a quitte son aspect de sot, il devient un
bon compagnon enjoué, aimant le plaisir et les tours parfois
*^ fripons. Le héros de la Farce du raporteur est un dévancier
du Frèlon de Voltaire ou du Don Marzio de Goldoni. Pour
tuer son temps, il va trouver plusieurs personnes et rapporte,
coup sur coup, un tas de raédisances de son invention, qui
amènent nécessairement des querelles. Le rapporteur se frotte
les mains, se pàme de joie ; il se donne l'air de vouloir inter-
venir, pour apaiser la querelle, mais en effet, il soufflé dans
le feu et il ne se sent pas d'aise lorsqu'il réussit à faire venir
lout le monde aux mains. Malheureusement pour lui, aux
coups suivent les explications, on comprend, sans trop de
peine, qui est la cause de toute cette bagarre et alors la colere
de tous ces gens se renverse sur son pauvre dos. Tout cela
n'est pas mal imaginé. La colere des commères, la joie maligne
du badin et le contraste entre cette joie et la punition imme-
diate, révèlent une certaine connaissance de la vie des classes
populaires et du mouvement des passions.
Dans la Farce nouvelle des cris de Paris, nous voyons le
sot se moquer de deux galants, en faisant tomber à propos
certains cris, qui complètent et interrompent le discours des
ìnterlocuteurs. « Si un mari — demande un des galants
à l'autre — a le malbeur d'avoir affaire à une femme aca-
riàtre, que doit-il faire?» — «Busche! busche!» s'écrie le
badin.
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 315
Si le mary est sans cervelle
Et la femme toute enragée,
Que sera- ce?
Le sot. Bourrée sèche, bourrée!
Et si l'on a des enfants?
Le sot. Aportez le pot au laict.
lei encore une vieille composition poétique se présente à
notre souvenir. G'est le dit des Crieries de Paris, où l'on re-
trouve méme le mot « busche, busche » M, mais sans l'appli-
cation plaisante qu'en fait le sot de la farce.
Les valets et les charlatans.
Ils méritent bien un rang à part. Rien de plus commun, en
effet, dans ce théàtre, que les charlatans débitant leurs dro-
gues merveilleuses, ou les valets des deux sexes offrant au
public leurs services de toute sorte et leurs connaissances
sans bornes. Maitre Aliborwn, qui de ioui se mèle, peut étre
considerò corame le chef d'une nombreuse famille. Le Watelet
de tous mestiers, maitre Karahrelin, le Varlet à louer, le
Clero de taverne, la Fille batelière et la Charribrière à tout
(aire exaltent les mémes merites d'un air à la fois fripon et
enjoué. M' Picot ') rappelle à ce propos que le specimen le
plus ancien de ce genre est une petite pièce provencale,
n'ayant pas un caractère dramatique, due à la piume de
') Cfr. Fabliaux, contes, etc, édit. Barbazan, 1808, II* voi.
^) Voyez le Reciteil de farces frang. etc, publiées par MM. E. Picot
et Ch. Nyrop, Paris, 1888 (note au monologue de maitre Hambrelin).
316 PIERRE TOLDO
Ilaimon d'A.vignon *)• Un liomme y énumère tous les méliers
qu'il sait faire et la famille de maitre Aliborum fait elle
aussi plusieurs énumérations de ce genre.
En plein raoyen àge, Ratebeuf amusait dèjà son public par
le ditz de VErberie, où il est question — sans aucun caractère
dramatique — d'un charlatan, qui sait guérir tous les maux.
Il n'y a qu'un pas, comme on l'a fort bien remarqué, de ce
charlatan au valet qui sait lout faire du thèàtre et ce mèrae
type de charlatan paraìt encore au XIV"= siècle, dans une
ballade d'Eustache Deschamps. Enfin mème de nos jours,
dans les comédies populaires, on entend encore de ces pa-
rades de professions et de mérites singuliers.
Ix ditz de maistre Aliborum n'étant pas destine à la scène,
on peut dire que ce genre dramatique commence par le Wa-
telet de tous mesiiers, suivi par les pièces citées, maitre Ham-
hrelin, le Varlet à louer de Christophe de Bordeaux et la
Chambrière du mème auteur ^).
Maitre Aliborum a bien la conscience de sa haute valeur:
Je m'esbahis en moy très grandement
Du grant engin et grant entendement,
Du grant S9avoir, fantasie et memoire
Qui sont en moy.
11 est en effet, au moins si l'on veut ajouter foi à ses van-
tardises, médecin, astrologue, théologue, peintre, alchimiste,
voyageur, etc, et les professions les plus nobles ne lui em-
pèchent point de s'y connaìtre aussi en toute sorte de métiers.
Malheureusement il sait faire trop de choses et cette sorte
d'encyclopédie ambulante a bien l'air de mourir de faim. Le
Varlet de Christophe de Bordeaux, ainsi que Maistre Ham-
brelin son aieul, est à la recherche d'un maitre qui sache ap-
*) Cfr. Bartsch, Chrestomathie prov., 3® édit., p. 307.
^) Voyez, pour toutes ces pièces, le Recueil Montaiglon cité, I, 33-41;
I, 77-88; XI, 46 sqq.; XIII, 154 sqq., etc.
ÉTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 317
précier à leur juste valeur ses hauts mérites. Mais où trouver
un maìfre, s'écrierait Boanraarchais, poiir de tels valets?
Maistre Hambrelin arrive dans la ville, en fort mauvais
èqui page:
Sur une mulle a beaulx piedz nus,
et cependant il sail:
Forger monnoye en bonne foy;
plaider, alleguer loy,
et il Jone des farces « sans rolles », arrache les dents, saigne,
se connaìt en galanteries, parie plusieurs langues, chante la
messe, décore les églises, jpue de plusieurs instruments et il
est à méme aussi de:
Bruller voleurs, pendre larrons,
Et au besoing faire la corde,
ce qui ne l'empèche pas de loger
au Plat d'argent
Où se tient son train et sa court
Avec le seigneur d'argent court;
hòtellerie et seigneur que Gringore nous fait mieux connaìtre
dans sa sottie célèbre contro Jules IL
La Chambrière n'est pas moins adrairable que notre Ham-
brelin. Elle se déclare prete à tout faire et on n'a pas de la
peine à le croire. Christophe de Bordeaux n'a eu qu'à rem-
placer, en elle, les mètiers de l'homme par ceux de la femme
bien plus variés, surtout dans certaines matières. Il s'ensuit
que la chambrière sait filer, coudre, couper des habits,
broder, empeser, godronner, laver, etc, mais elle sait aussi
composer des vers « mieux encore que Ronsard », aider sa
maitresse dans ses couches, et la reraplacer en tout et par-
tout si cela est nécessaire, pour la tranquillile de son ménage.
Elle excelle surtout dans les secrets de la toilette, apprète
des pommades et des poudres, qui redonnent la jeunesse et
elle s'y connaìt aussi à :
318
PIERRE TOLDO
conjurer les esprits
Qui courent de nuict par la rue.
Il n'est pas difficile de comprendre de qufds esprits il est
question.
Le théàtre nous offre aussi un tableau tròs vif des moeursdes
chambrières, dans le monologue de la Chamhrière despourvue
du mal d'amour, de mème que dans Le debat de la nourrisse
et de la chamberière et dans la farce des Chamlìerières, qui
vont à la messe de cinq heures pour avoir de Veau leniste.
La première, dont le Sermon joyeux de la fille esgarèe n'est
qu'une variante, aspire à la vie libre et se déclare tonte disposée
à faire bon marche de son honneur. La nourrice et la cham-
brière s'injurient à leur tour de la manière la plus piate, au
grand plaisir d'un certain Johannes, qui les pousse à se donner
des coups. Pour ce qui est des bonnes qui vont à la messe, elles
s'amusent à conler les affaires des familles, oìi elles vivent, les
amours de leurs dam.es, l'avarice des mattres et écoutent aux
portes pour savoir tout ce qui se passe. Que leur dévotion ne
nous trompe point! Leurs visites aux différentes églises soni
en rapport direct avec les moeurs des moines et des prètres
qui les desservent et leur bavardage roule particulièrement
sur le plaisir et sur l'argent qu'elles peuvent tirer des gens
d'église.
Mais avant de paraìtre au théàtre ou au moins à la mème
epoque, cette sorte de plaisanteries avait déjà regu un déve-
loppement littéraire. En effet, dans les compositions de ce
temps, n'ayant pas un caractère dramatiquc, l'apologie plus
ou moins railleuse des bonnes est à l'ordre du jour. Rap-
pelons, toujours d'après le recueil Montaiglon (Il voi.) « L'a-
pologie des chamberières qui ont perdu leur mariage à la
blanque », « L'heur et guain d'une chambrière qui a mis à la
blanque pour soy raarier, etc. » et « Le banquet des cham-
brières fait aux estuves ».
ÉTCDES SUR LE THEATRE COMIQUE KRANCVIS DU MOYRN AGE 319
La Fille basteliere^) « monologue nouveau et fort recroatif »
n'est qu'une parade, où la jeune fille, qui a parcouru bien
des pays, au service d'un bateleur qu'elle oblige, « en toute
bornie affaire », nous apprend comment elle sait à merveille
les secrets d'amour et l'art de peler « les bonnes gens de
ces rillages ». Elle connaìt mieux encore que la chamhrière,
la composition des breuvages merveilleux et des onguents,
guérissant toute sorte de maux. A son discours elle unit
l'action; monte sur un escabeau , fait danser un chien et
vend à tout venant ses marcbandises niiraculeuses. Gette
batelière appartient donc à la grande famille des farceurs du
Pont-Neuf et est apparentée de près à Tabarin et au Baron de
Grattelard (Descombes), cbarlatan de la place Dauphine.
Le bateleur joue, lui aussi, un róle dans les farces propre-
ment dites. Celle du Bateleur, son varlet, Binete et deiix
femmes, raet en jeu une famille de charlatans et sert de pré-
texte à une longue énumération des sobriquets de certains
acteurs. Le maitre et le valet débitent leurs ròles , avec
beaucoup d'aisance, et se consultent et s'injurient, pour ex-
citer les rires gros du public. Le valet se plaint surtout de son
grand appétit que le bateleur a le tort de ne pas assouvir
et la femme du maitre ajoute sa note libertine. Les vers ne
sufflsent pas d'ailleurs, pour faire accourir les chalands. On
chante, on sonno et le valet fait probablement des tours d'a-
dresse. Au moins est-on porte à le croire en lisant ces deux
vers du bateleur, adressés à son camarade:
Or sus, faictes un sault, paillart,
Pour l'amour des clames, hault sus.
La gaieté de cette parade est très vive; mais les charlatans
font, malgré leurs efforls, de fort mauvaises affaires et il s'en
plaignent aux femmes.
') Recneil Lerotix de Lincy etc, V voi.
320 PIERRE TOI.DO
Vous ne voules rien acheter
Vous estes asses curieuses
De voir inventions ioyeuaes.
Mais quant vient a faire payement
Rien ne voules tirer, vrayment.
Rien de plus commiin que ces scènes de marche et de tapage.
11 sufflt de rappeler le Marchant de po7nmes qui est sourd et
qu'on nous présente entouré de femmes, criant à tue-tète et
venant mème aux raains. Et les valets, les sots, les badins, les
batelenrs se promènent au milieu de la fonie épiant Toccasion
favorable pour jouer des tours de passe-passe.
Que l'on prenne donc garde à tous ces valets, à la cons-
cience facile ! Au XIIP siècle, on rencontre déjà le GarQon
de Vaveugle *), nn fort mauvais sujet, qui se moque de l'in-
firmité de son maitre et s'amuse à le frapper, de mème que
Scapin de Molière, ayant l'air de le protéger contre des en-
nemis invisibles. Ses mains ne sont pas moins habiles à cogner
qu'à voler et l'aveugle aura toutes les peìnes du monde à se
délivrer de cet ennemi domestique. Dans une autre pièce de
beaucoup postérieure. Le Sourd, son Varlet et VYverongne,
le maitre aveugle est remplacé par un maitre sourd, mais le
valet demeure toujours le mème. 11 injurie le malheureux
qu'il sert, bien qu'il l'aide à battre à piate-couture un ivrogne,
qui les ennuie. La plaisanterie de cette pièce consiste surtout
dans les équivoques causés par le défaut du maitre, qui, ne
comprenant pas bien ce que son valet lui dit, prend cerveau
pour veau et se fàche sans raison et à tout moment.
Rappelons encore le valet de la farce le Relraict et Richard
le pelé, qui fait enrager son Mais tre Mùnin le goutteux. Le
premier est un malin, exploitant les amours de sa maitresse
et vendant au mari le souper payé déjà par l'amoureux;
'j Cfr. Jahì-buch fiir roinan. Literatur, 1865, VI, 165-72, article de
M. Paul Meyer.
ÉTUDES SUB LE THÉ.VTRE COMIQL'E FRANCAIS DU MOYEN AGE 321
l'autre s'amuse à lire les chroniques gar^gantuines au lieu
de soigner le pauvre inalade et corame il est sourd, il comract
des quiproquo, qui causent le désespoir de Mimin.
Une menlion à pari niéritent les valets niais, dont le nombre
est, comme nous venons de le dire, assez remarquable. Le
fabliau s'était déjà più à la représentation du valet sol et pa-
resseux; il sufBt de rappeler celui De Maimon le pereceus
et pour ce qui est de la nouvelle nous savons que les sols y
jouentbien souvent un ròle remarquable. Sercambi, dans son
conte De sìmplicitate et Modini, dans celui De maire quae
fiUwìn cusioditwn reliquit, nous en olTrent maints exemples,
que nous avons déjà examinés, dans le chapitre précédent.
La femme de la Farce nouvelle, où il y a pour person-
nages le mari/, la femme, le badin qui se loue et l'amou-
reux, doit se repentir amèrement d'avoir prie son seigneur
de lui louer un tei valet. Gelui-ci passe dans la rue, justean
moment où la femme s'en prend à son mari de ce qu'il ne
lui donne aucun aide, dans son ménage, et le badin crie.
comme ses prédécesseurs, de tonte la force de ses poumons:
Varlet à louer! Varlet à louer!
Varlet, de par tous les diables, à louer !
La sottise de ce lourdaud est doublée de malice et il tàcbe,
tout de suite, d'exploiter la situation, qu'il n'a pas grand'peine
à deviner. Il coramence par faire sonner haut ses raérites et
il prétend qu'on lui donne la clef de la cave et « du celier,
du lard, du pain et de l'argent ». L'amoureux, qui profile de
l'absence du mari, pour rendre visite à sa belle, se trouve
sous la surveillance maligne et intéressée de cet intrus, in-
lerrompant les doux entretiens et menagant de révéler tonte
l'intrigue à son maitre, si l'on ne paie pas son silence par des
préscnts, qu'il exige sur l'instant. Et les présents n'ont pas
mème la force de fermer sa bouche. Le mari rentré, il lui
conte ce qui s'est passe à la maison pendant qu'il élait absent,
322 PIKRRB TOLDO
de sorte quo le mari fait pleuvoir des coups de bàlon sur le
dos de la malheureuse.
On lil dans une autre farce, celle de Jenmot, \esquiproquo
d'un valet, qui veut mettre la selle et les brides à sa mai-
tresse, ayant été chargé de la raener à la messe, farce gros-
sière et sans aucun Irait d'esprit *). lei c'est le mari, qui
veut louer le valet pour passer sa vie plus à son aise et il
n'a qu'à se louer des promesses de Jeninot, qui connaìt toute
chose, y compris le latin, pourvu qu'on le lui apprenne.
Le maitre le charge de garder la maison et Jeninot est en
souci de peur qu'elle ne lui échappe. Il prétend que son
maitre l'aide à sa toilette, et qu'il le déchausse. Pendant la
nuit, il rève et il crie de sorte que toute la famille est sur
pied : href, tout ce que la sottise humaine peut commettre de
plat et d'étrange, se résumé dans ce type, qui devait égayer
sans doute le public très facile du XVI* siècle.
Il en est de mème de Guillaume « qui mangea les figues du
cure » ^), sorte de sot doublé lui aussi de malice, avec des
prétentions pédantesques.
Le Cure (commence). Guillermel
Guillerine. Placet, magistrum?
Le Cure. Tu es ung notable poltron.
D'où viens-tu?
Guillerme. Où? de foras
Ego fui duabus horas
Legendo epistolibus.
Le Cure. Que mauldit soit le lordibus :
Il n'a sens non plus que ung oyson.
Mais le cure doit s'apercevoir, à ses dépens, que Guillaume
n'est pas si sot qu'il en a l'air, lorsque celui-ci en dérange
') Recueil Viollet Le Due, V voi. * Jeninot qui fist un roy de son
chat, par faulte d'autre compagnon, en criant: Le roy boit! et monta
sur sa maiatresse, pour la mener à la messe. „
«) Ibid.
ÉTUDES SUR LE THEATRE COMltìUE FR.\NgAlS DU MOYEN AGE 323
les amours, met en soupgoii le mari de sa commère et ayant
deux figues à garder, mango l'une et après l'autre, pour
montrer à son maitre comment il a fait avec la première.
EnQn, à une epoque où dans une sorte de tragèdie bour-
geoise on avait représenté les amours d'un valet et d'une
dame, avec la punilion du coupable, où les nouvelles présen-
taient de nombreux exemples de dames surprises entra les
bras de leurs dumestiques *), le mariage d'une veuve ardente
avec son serviteur ne devait pas paraitre étrange.
Le valet de la Femme veuve s'appelle Robinet; beau
gargon, à ce qu'il parait, mais qui ne róvèle point un esprit
fort éveillé, ce dont la femme se réjouit, car elle pourra
Tester ainsi la maitresse absolue de sa maison.
Tandis qu'il est simple, novice,
J'auray tousjours de luy service,
Et sy feray mieulx à ma guise
Avec luy qu'avec un riche homme.
Elle consulte là-dessus une de ses voisines, dame très com-
plaisante et charitable, qui lui donne raison en tout et par-
tout, et Robinet n'a qu'à donner la benne nouvelle à son
onde, dont l'accueil n'est pas, de prime abord, fort aimable.
La vieille historiette de la consultation des cloches, réap-
parait ici, avec beaucoup d'à-propos. Que peut-elle faire une
pauvre femme, abandonnée de tout le monde? Elle voudrait
bien garder sa foi au regretté Roger, son premier mari, dont
elle ne cesse jamais de louer lesmérites, mais le ciel, lui-méme,
lui a indiqué la route à suivre:
') Voyez les nouvelles 54^ et 57® des Cent nouvelles nouvelles, le
21* des Comptes du monde adv., le 20® de ceux de V Heptaméron. Ces
aventures forment aussi le sujet de plusieurs nouvelles italiennes
Cfr., par ex., la 24* nouvelle du Novellino de Masuccio, et ce que
j'en dis dans les notes aux nouvelles frangaises citées dans mon 6'ow-
tributo.
324 PIERRE TOLUO
Car dès la premyere nuyctee,
Qu'on sonnoyt pour le trespassé
Dont le deuil n'estoyt pas passe,
Je ouys bien de nostre maison
Les cloches disant en leur son,
Insessament se me sembloyt
Pren ton valet, pren ton valet.
G'est ce qu'on lit dans le Pantagruel de Rabelais (III,
XXVII chap.) là où Panurge demande à frère Jean un conseil
sur son raariage. « Écoute — dit frère Jean — l'oracle des clo-
ches de Varennes, que disent-elles ? * — « Je les entends —
répondit Panurge — leur son est, par ma soif, plus fatidique
que des chaudrons de Jupiter en Dodone. Écoute: Marie-toy,
marie-toy; marie, marie. Si tu te maries, rnaries, maries
très Men Ven irouveras, ver ras, ver ras. Marie, marie ».
Mais Panurge ne se contente pas, ainsi que la benne veuve, de
cette consultation fatidique, et il entreprend un long voyage,
dont il ne tirerà pas d'ailleurs beaucoup de profit.
La nouvelle dans la comédie de la Renaissance
et du XVII' siede.
Dans raon elude sur la Com,èdie fr'ang. de la Renaissance %
j'ai tàché, autant que possible, d'en indiquer les sources et je
crois avoir déraontré, entre autres choses, le róle d'inspira-
trice, que la nouvelle y a joué. Je résumé donc tout d'abord
et en peu de mots les résultats de ces rccherches, pour in-
diquer ensuite d'autres sources inconnues.
*) Revue d'hist. Utt. de la France, 1897, p. 336 sqq.; 1898, p. 220 et
554 sqq.; 1899, p. 571 sqq., et 1900, p. 263 sqq.
ÈTUDES SUR LE thèatre comique francais du moyen age 325
Voyons avant tout les sources douleuses. Les auteurs co- "^
Diiques frangais du XVP siede multiplient, par exemple, dans
leur théàtre, les travestissements les plus étranges; des jeunes
fiUes habillées en gargons, des intrigants déguisés en pères,
en raessagers, etc. Toinette de Molière, empruntant l'habit
d'un médecin, sans crainte d'étre reconnue de son maitre, le
Malade imaginaire\ Scapin, jouant tous les róles et chan-
geant de figure à chaque scène; le corate d'Almaviva, déguisé
en écolier, en maitre de rausique, en soldat, ne sont après tout
que des variations postérieures de ce moyen comique des
débuts de l'art dramatique. Or ce moyen, je dirai mieux cette
rage de déguisements d'où naquit-elle? Est-ce de la comédie
classique, ou de l'italienne? Est-ce plutót des nouvelles? Les
exemples sont nombreux de toute part sur le sol de la
France aussi bien que sur celui de l'Italie et de l'Espagne.
La préexistence reste constatée, mais l'inspiration directe se
confond, dans la foule.
Les enlèvements et les reconnaissances sont aussi fort nom-
breux dans la nouvelle {Dèe. V, 5, 6, 7. Masdccio, Novell.
39, etc); les tours joués par quelque fripon qui fait accroire,
par ex., à un pauvre sot qu'il est invisible, avaient défrayé
la nouvelle, avant de paraitre sur la scène {Dèe. Vili, 3,
IX, 5), et l'on peut répéter la méme remarque pour d autres
plaisanteries de ce genre, ainsi que la substitution d'une
vieille à une jeune beauté, pour duper un amoureux sur-
anné % ou l'autre d'une jeune Alle remplagant un rivai,
contèe elle aussi par l'auteur du Dèeamèron (VII, 8).
•) Voyez le fabliau Du prestre et d'Alison (Montaiglon, V, 2, 8)
Decameron (Vili, 4), Sercambi (De prudentia et castitate, édit. Renier)'
Cornazzano (nouv. La ducale), Bandello (II, 47), les Comptes du monde
adv. (8), le Grand Parangon des nouv. nouv. (8), etc. Voyez en outre,
pour les rapports entre la comédie italienne et le Decameron, ce que
dit M. Gebbardt dans sa belle étude sur l'oeuvre du Boccace {Revue
des deux Mondes, Boccace, II, livr. du V dee. 1895).
Stu/ìj (li filologia romnmrt, IX. q,
326 PIERUE TOLDO
Nous nous bornerons parlant à déterminer les sources qui
paraissent évidentes ou au moins probables.
Un mariage secret compliqué par l'avonture de l'amoureux,
qui entre en qualité de domestique, dans la maison de sa belle,
forme le fond de la Lucelle de Louis le Jars (1576). C'est là
un sujet qu'on trouve dans YEunuque de Térence et dans
plusieurs comédies italiennes, savoir VOrlcnsia et V Alessandro
du Piccolomini, le PoUfìlo, les Parentadi àn Lasca, les Contenti
du Parabosco: la Cameriera du Secchi, la Cecca du Razzi, etc,
mais la situation tragique des deux amoureux sauvés tout à
coup par une reconnaissance, avait été exposée par les no-
vellieri, avant que la comédie s'en inspirai (Décam. V, 6).
Dans les Contens d'Odet de Turnèbe (avant 1581), un amou-
reux emprunte les habits d'un autre, pour pouvoir pènétrer
chez celle qu'il aime et lorsqu'il est compromis et surpris sur
le fait, il se tire d'affaire à l'aide d'une substitution, c'est-à-
dire mettant à sa place une femme quelconque. La première
partie de cette intrigue a été répétée fort souvent par les
conteurs de l'Italie et de la France et il suffit de consulter
le Novellino (nouv. 35'), compose à une epoque, où la scène
n avait rien dit là-dessus. Et le conte du Novellino n'est que
le premier annea'u d'une longue chaìne; Randello en Italie
(1, 16; III, 22), et en France l'auteur des Cent nouv. nouv. (31*),
de VHeptamèron {ÌA% des Coìnptes du monde adventureux
(53") reproduisent, à quelques changements près, cette mème
donnée. Il en est ainsi de la seconde partie des Contenis,
c'est-à-dire de la substitution formant de mème le sujet du
fabliau De la darne qui fisi entendant son may^i qu'il sonjoit
et de celui des tresces, aussi bien que du conte cité de Boc-
cace et d'une des Cent nouvelles nouvelles *).
M Voyez Recueil Montaiglon (V, 124; IV, 94), et l'étude de M. Bé-
DiER dans son ouvrage sur les Fahliaux (chap. VI, p. 133), Décam.
(VII, 8), Cetit nouv. nouv. [Zd,").
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 327
La comédie Les Neapolitaines de Frangois d'Araboise (1584)
s'inspire directement du Decameron (VII, 6), dans lepisode
de la dame qui voulant s'excuser d'avoir deux jeunes hommes
chez elle à l'arrivée d'un troisième galani, feint que l'un d'eux
soit poursuivi par l'autre. Isabelle, dans le conte de Boccace,
se trouve avec Leonetto et Lamìiertuccìo, lorsque son mari
parait tout à coup. La femme ne se perd pas pour cela de
courage. Elle fait sortir Lamliertuccio, un couteau à la main,
et présente Lionetto à son mari, comme un jeune homme
qui étant ménacé par unadversaire redoutable et trouvant la
porte ouverte s'est réfugió cbez elle. Le mari fait bon accueil
à Lionetto. L'histoire d'Isabelle est répétée par d'Amboise,
dans ses moindres détails.
Les Escolliers (1589) de Francois Perrin offrent, dans l'é-
pisode principal — un jeune homme qui cède sa belle à un
de ses amis, lui donnant ses habits pour la tromper — une
aventure très répétée par les novellieri, et le détail de la
cession est aussi bien connu *). Je rappelle, entro autres, la
quatorzième nouvelle de l'Heptaméron (1558), où l'on expose
la « subtilité d'un amoureux qui, sous la faveur du vrai ami,
cueille d'une dame milanoise le fruit de ses labeurs passés »
et le cinquante-troisième des Comptes du monde adventu-
reux (1558), où l'auteur conte le tour « d'un gentilhomme
longuement poursuivant, qui ne peut avoir satisfaction de sa
dame, si non par le moyen d'une affectèe chambrière et soubs
le nom emprunté d'un autre ». Le théàtre italien s'était, à son
tour, emparé de ce sujet ^).
Claude Bonet dans sa Tasse, comédie, dont les person-
nages parlent le frangais, l'italien et différents dialectes, em-
*) Novellino (CXXXV), Cent nouv. nouv. (XXXI), Bandelle (I, 16;
III, 22J.
^) Voyez les Escolliers de Larivey, la Milesia de Giannotti, etc.
328 PIERRE TOLDO
prunte le sujet general à une nouvelle italienne que nous
avons déjà indiquée et un incident épisoditiue, à ce cycle de
contes, touchant le mari battu et content, que celui de Boc-
cace a rendu si populaire {Dèe, VII, 71. Bravache et Ripaille,
deux soldats de fortune, qui reviennent de la guerre, dans un
état de dénoueraent complet, arrètent de vivre par des tours
de passe-passe. Gomme ils entendent que le docteur Jerosme
vient de recevoir une tasse d'argent, l'un d'eux se présente
à la fenime du docteur, madame Jacqueline, avec deux per-
drix volées et lui dit que son mari l'a chargé de lui donner
ces oiseaux, qu'elle fera cuire sur l'instant et de demander,
en mème temps, la tasse précieuse. La femme ne se doutant
de rien, prend les perdrix et consigne la tasse; le mari re-
vient à la maison, entend le tour qu'on lui a joué et fait
trotter le bàton sur le dos de la malheureuse. L'autre aven-
turier, voulant montrer à son camarade qu'il est à mème lui
aussl de briller dans ce genre d'exploits, attend la sortie de
maitre Jerosme et se présente à madame Jacqueline pour lui
annoncer que son mari vient de retrouver la tasse et qu'il
la prie de vouloir bien lui envoyer les perdrix destinées à un
certain banquet. Jacqueline les lui donne et la colere du
docteur ne connait plus de bornes, lorsqu'il entend qu'il a
été dupé encore une autre fois.
Nous avons eu précédemment l'occasion de citer le conte
que Franco Sacchetti expose dans son Novellino (CCXI) et
celui plus complet de Masuccio Salernitano (nouv. XVIP) qui
nous présente les deux tours, colui de la tasse et l'autre du
poisson, remplagant les perdrix. Nous avons ajouté aussi que
l'auteurdes Comptes du monde adventureux traduisit, presque
à la lettre, cette nouvelle de Masuccio (XXIV«). Tout cela est
évident, mais dans la Tasse il y a d'autres détails empruntés à
la nouvelle. Il est question, tout d'abord, de l'amant de Jacque-
line, Laure, qui aurait été surpris par le docteur, si Geor-
ÉTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANgAiS DU MOYEN AGE 329
gette, la servante, n'eùt pourvu au salut des deux amourcux,
par une de ces substitutions, dont nous venons de parler. Geor-
gette prend la place de Laure et le mari se trouve avec un
pied de nez lorsqu'il s'apergoit que ses soupgons paraissent
tout à fait faux. G'est l'aventure du cycle des Tresses. Au
dernier ade, Jerome regoli les étrivières de Jacqueline et de
Georgette et le bonhomme est bien aise, comme Egano du
Dèemnèron (VII, 7), de constater l'innocence de sa femme, et
de lui présenter ses excuses.
Et la nouvelle inspire fori probablement aussi la première
comédie que le XVIP siede nóus offre, c'est-à-dire les Cor-
rivaux de Trotterei, sieur d'Aves. Cette pièce se compose de
deux éléments principaux: un valet remplace son maitre
auprès d'une jeune fiUe à l'aide d'un déguisement et un jeune
homme, surpris enlre les bras de celle qu'il aime, reraédie à
sa fante par un mariage. L'auteur a du puiser son inspiration
à quelques comédies italiennes, ou aux nouvelles telles que
les Plaisanteries du Poggio (XXVI, XLI), le Mambriano (II),
les Cent nouv. nouv. (IX), VHepiaméron (IX), le Gran Pa-
rangon (XXXV), etc.
Ce fut vers cette epoque que le théàtre populaire eut en
France des acteurs et, jusqu'à un certain point, des auteurs
célèbres, qui formaient les délices du Pont-Neuf et de la place
Dauphine et ici encore on peut constater l'influence de cer-
taines données de la tradition orale. La Farce du sac de Ta-
barin reproduit, par exemple, une historiette qu'on lit dans
le Campriano et dans Bertoldo et qui égaya ensuite la muse
de La Fontaine {Les lunettes). « Lucas -^ dit Vargument de
la farce de Tabarin — va en marcliandise, donne sa fi Ile en
garde à Tabarin, laquelle lenvoie vers le capitaine Rodo-
mont. Ce capitaine donne une chaisne à Tabarin pour sa
maitresse; Tabarin le fait entrer dans un sac. Il veut garder
la fidélitè à son maitre. Lucas arrive de son voyage. Le ca-
330 PIERRE TOLDO
pilaine, enfermé dans le sac, pour sortir trouve une inven-
tion, qui est de persuader à Lucasqu'on l'a rais en ce sac, à
cause qu'il ne voulait se marier avec une vieille, qui avait
cinquante mille écus. Lucas, corame les vieillards sont ordi-
nairement avaricieux, domande la place du capitaine Rodo-
mont, et s'enferme dans le sac. Tabarin et Isabelle viennent
pour Trotter le capitaine, et, après Tavoir bien battu, trouvent
que c'est Lucas et deraeurent bien estonnez ». Dans le Cam-
priano il est question d'un tour pareli joué à des voleurs et
celui qui se laisse attraper est jeté à la mer. Ce récit passa
lout entier dans Bertoldo. Chez La Fontaine, le héros de la
nouvelle ne se trouve pas dans un sac, mais lié à un arbre.
Il se tire toutefois d'affaire, par la mème ruse, en persuadant
un meunier de se laisser garotter à sa place. Le meunier
regoit les coups de bàton destinés au jeune homme.
Le Baron de Graiielard (Descorabes), toujours d'après la
tradition populaire, exposa, sur les tréteaux de la place Dauphine,
lesujetdu fabliau bien connu du hossu, remanié si souvent par
les nouvellistes. Trostole, vieux bossu, selon cette farce, doit
se rendre au Palais. Il prie sa femme de ne pas recevoir ses
frères bossus corame lui. Sa femme désobéit, recoit les bossus
et lorsque le mari revient à la maison, elle les cache si étroi-
leraent qu'ils étouffent et meurent. Alors elle s'adresse à Grat-
telard, jouant le ròle du badin, et lui promet vingt écus, sous
condition qu'il jette à la rivière un bossu, qui est mort chez
elle. Grattelard s'en charge; en revenant il est fort étonné
de voir un autre bossu mort, à la place où il avait pris
l'autre; Grattelard croit qu'il s'agit de sorcellerie et le jette
de nouveau à l'eau. L'aventure se répète, de la mème ma-
nière, pour le troisième bossu et à la quatrième fois, lorsque
Grattelard croit avoir bien raérité sa récompense, il rencontre
Trostole en personne et le prenant pour le raème bossu re-
venant sur ses pas, le noie tout vivant qu'il est.
ÉTLDES SIR LK THÈATR£ COMIQCK FR.OCAIS DU MOTEN AGE 331
Xous avons étudié, jusqu'à présent, le thèàtre comique du
XV' et du XVP siècle, dont la nouvelle coustitue si souvent le
sujet tout entier de riulrigue. Dans la littéi-ature dramatique
qui suit, cette source d'inspiration n'est pas certaineraent né-
gligée, mais son ròle se berne à la partie épisodique et tend à
se rétrécir de plus en plus. Je me bornerai, d'après mes notes
et mes recherches personnelles. à la constatation des sources
principales. La uouvelle cht*z Molière et Regnard n'a d'autre
but que colui de faire re^sortir, par des situations coraiques, le
caractère des personnage^ et des passions, de sorte que luin de
constituer, comme auparavant, l'intrigue de la pièce, elle ne
sert qua l'égayer par des données populaires, qu'on pourrait
sopprimer sans que la phvsionomie generale de la comèdie
en restàt altérée.
Les galaiìierics du due d'Ossonne, comédie de Jean de
Mairet (1027), renferme, entre autre^, une vieille nouvelle
passée de l'Italie en France au XVI* siècle et qui s'y accli-
mata merveilleusement. Le due d'Ossonne, c'est-à-dire Don
Fedro Tellez-Gii\)n, vice-roi de Naples, s'est épris d'Emilie,
femme du noble Paolin et belle-sosur de Flavie, qui aime le
due, sans que celui-ci s'en doute. Le due d'0>sonne pénètre nui-
tammeut chez Emilie. Celle-ci, qui était en train d'aliar vi-
sitar son « favory » Camilie, supplie le due de vouloir prendre
sa place dans le lit où elle assure se trouver une vieille
femme à laquelle son mari a confiè sa garde. C'est un service
que le Due rend bien à contre-cceur; il se conche à còte de la
vieille, en se lenant < dessus le bord du lict », de crainte de se
trouver trop à contact de ce < vieux sujet de rhume et de
décrépitude ». Heureusement pour lui. il s'aper»^oit que celle
qui partage son lit est une fiUe douée d'une beauté surpre-
nante. C'est Flavie, la belle-sosur d'Emilie, qui soupire, en pro-
non^ant son nom, d'une voix mélodieuse, et le Due profite du
tour qu*Émilie lui a jouè et récompense l'amour de la belle.
332 PIERRE TOLDO
Masuccio Salernitano (nouv. 41') avalt conte depuis longteraps
comment une dame s'était nioquée d'un jeune homme le fai-
sant coucher auprès d'une jeune fille qui l'aimait et qu'il eut le
tort de prendre trop longtemps pour le mari. La méprise du
jeune homme est enfin, il va sans dire, fort bien récompenséo. Le
CXLIX'^ des contes du Monde adventureux reproduit la nou-
velle de Masuccio, répétée en Italie par le Parabosco (Journée 1%
nouv. II), et imitée à son tour par l'auteur des Joyeux Devis
(CXXVIIP). De là cette nouvelle passa tout entière dans la
Précaution mutile de Scarron, puis avec quelques modifica-
tions dans les caractères des personnages, et surtout dans le
chàtiment que l'on inflige à un fat, on la volt reparaltre chez
La Fontaine {Le Gascon puni), chez Francois Caillères {Des
ì)ons mots, etc, Paris, 1692, p. 226) et plus tard de nouveau
elle revit le théàtre, dans le Fat puni d'Antoine de TerrioI,
joué au Théàtre-Frangais le 7 avril 1739, avec le plus grand
succès. Mais Mairet fait subir à la nouvelle des changements
caractéristiques; il n'est plus question, comme dans les nou-
velles, de deux amis dont l'un « se présente au danger pour
faire planchette » comme dit Des Périers « à la jouissance »
de l'autre et au mari redoutable, qui devrait, selon les nou-
vellistes, se trouver dans le lit, il substitue quelque chose de
plus comique, une vieille femme, en anlithèse frappante avec
la beauté que le gentilhomme va découvrir.
Le Parasite de Tristan (1654) reproduit, à son tour, d'une
manière moins incidentelle, la nouvelle de Tamoureux (Ly-
sandre) pénétrant chez une jeune fille qu'il alme, sous un nom
emprunté. On découvre l'intrigue et le jeune homme y laisse-
rait la vie, comme le héros de la Lucelle de Le Jars, si le
pere de Lysandre ne se présentait sur la scène pour le déli-
vrer, apaisant ainsi le scandale par un mariage. Un capitaine
ridicule et le parasite Fripe-Sauces complètent l'inspiration
classique et italienne de cette pièce.
ÉTUDES SUR LE TlIEATRE COMIQUE KRANgAIS DU MOYEN AGE 333
Vers c^tttì epoque Rotrou reproduisait dans ses pièces dra-
matiques divers sujets puisés à l'Italie, où la nouvelle joue
aussi un ròle considérable, et le théàtre d'Alexandre Hardy
avait demandò à tout genre littéraire, la nouvelle y comprise,
son inspiratlon désordounée et débordante *).
Pichou, dans ses Folies de Cardenio (1629), développe un
épisode du Don Quichotte, épisode inspirant ensuite Guérin du
Bouscal, Destouches, Dufresny et Dancourt; le Jardin deys
musos provenQalos ^) compose, à peu près, à la mème date, raet
en scène lui aussi deux contes populaires. En effet la Co-
Tnèdie à sept personnages s'inspire de ce cycle de nouvelles
forme par la 24^ de Masuccio, par la 24* de Morlini, par deux
des Cent nouv. nouv. (54% 58*=), par la 20*= de VHeptamèron et
enfin par le XXI^ des Compies du monde adventureux, où il
est question d'une dame dédaignant l'amour d'un gentilhomme
et que Ton surprend ensuite entre les bras d'un valet, d'un mure,
ou de quelque monstre. Une autre de ces pièces du Jardin deys
musos provengalos présente une variante de la nouvelle con-
tenue dans le chant XXVII1'= de VOrland Furieux de l'Arioste,
nouvelle qui a pour but de prouver comment la femme est
corrompue et comment il est impossible de pouvoir la garder.
G'est vers cette epoque que se présente sur la scène fran-
^aise celui qui devait la dominer en maitre et sa première
inspiration est tirée des contes populaires et littéraires.
On peut dire en effet que l'oeuvre de Molière commenga
par la mise en action d'une nouvelle et que ce fut le Dèca-
*) Voyez RiGAL, Alexandre Hardy et le théàtre frangais à la fin du
XVI" et au commencement du XVIl" siede, Paris, 1889, et, pour le
théàtre de Rotrou, J. Jarrt, Essais sur les ceuvres dramatiques de B.,
Paris, 1858 ; J. Vianet, Deux sources inconnties de Rotrou, Dole, 1891
(extrait des Archives hist., art. et Utt.); Stiefkl, Unbekannte italienische
Quellen Jean de Rotrou's [Zeits. fiir franz. Sprache und Litt., 1890, mai).
^) Voyez mon étude sur la comédie de la Renaissance, p. 279 sgg.
334 PIERRE TOLDO
méron de Boccace, qui eut Phonneur de l'inspirer *). La jalousie
fle Baròouillè reproduit, corame on le sait depuis longtemps,
l'aventure de Tofano (Dèe. VII, 4) avec un simple changement
de noms et de détails secondaires. Angélique revient à une
hpure indue vers sa maison, après avoir couru une aventure
galante; soa mari Barbouillé ferme la porte et déclare qu'elle
n'entrerà pas. Mais Angélique feint de se livrer au désespoir
et de se tuer et Barbouillé alors sort pour en recevoir le
dernier soupir, ce qui permei à Angélique d'entrer et de lui
fermer, à son tour, la porte au nez. Les parents d'Angélique
arrivent pour constater les dérèglements de leur fille, mais
c'est à celle-ci maintenant de se plaindre et d'accuser son
mari d'ivrognerie et de tonte sorte de vices.
Cette simple donnée de la Jalousie de Barbouillé repré-
sente le premier degré de la conception dramatique de Mo-
lière. La nouvelle de Tofano sufflt pour remplir la pièce tout
entière; plus tard lorsqu'il reviendra sur ce sujet dans son.
George Danclin, la nouvelle passera à l'état d'épisode, qui ne
seri qu'à maitre en évidence la sottise da bonhomme, et le dé-
dain de sa femme et de sa famille. Mais cette famille des Soten-
ville et la position d'un mari bourgeois, qui vient de commettre
la sottise d'épouser une demoiselle, ne sont pas inconnues.
aux nouvellistes. Nous venons de voir la farce de George le
veau, dont le sujet vivait déjà dans les fabliaux. lei il faut
rappeler une autre nouvelle du Boccace (VII, 8), où il s'agit
d'un marchand, Arriguccio Berlinghieri, qui « pensa de s'ano-
blir par un mariage, suivant la solte coùtume de ses pareils et
') C'est le sujet du fabliau : " De celui qui enferma sa fame en une
tor „. Pour les variantes de ce conte, dont l'origine orientale ne pa-
raìt pas douteuse, voyez D. Comparetti, Ricerche sul libro di Sindibad
et les notes touchant la Discipline de Clergie, le Dolopathos etc. dans
la notice précédant George Dandin, dans l'édition des ceuvres de Mo-
lière (voyez Les grands écrivains de la France).
ÉTUDES SUR LE thèatre comique krancais du moyen age 335
épousa pour cela une noble demoiselle, monna Sismonda, d'un
caractère, qui ne s'accordait nullement avec le sien ». Ce Ber-
linghieri devint peu à peu l'homme le plus jaloux de ce monde,
ne quittant jamals des yeux son nid menacé. Mais monna
Sismonda, malgré toutes ces précautions, trouve le moyen de
le tromper avec Ruberto et lorsque le mari croit tenir les
preuves de son infidélité, les mèmes preuves du fabliau des
tresces, la noble demoiselle se sauve par une habile substi-
tution. Le Boccace nous présente ensuite le malheureux
bourgeois aux prises avec les nobles paronts de sa femme
qu'il a convoqués; avili, reproché et menacé de mort, il doit
reconnaìtre sur l'instant l'honneur que la demoiselle lui a fait
en répousant et lui demandar pardon de ses injustes soupgons.
Une troisième nouvelle concourt à la composition de George
Dandin aussi bien qu'à celle de VÉcole des femmes. Lubin,
valot de Glitandre, prend deux fois Dandin pour confident des
amours de son maitre et lui explique tous les tours qu'on va
lui jouer. Get avis ne suffit pas pour sauver le malheureux
mari, qui arrive toujours en retard et seulement pour cons-
tater qu'on s'est déjà moqué de lui. Telle est la situation du
mari du Pecoì^one (Journée 1% nouv. IP) et de celui du Stra-
parole (n. IV° et f. 14*^). Ghez ce dernier l'amoureux prend
directement pour son confident le mari de la femme qu'il
aime, lui donnant avis tout d'abord de sa passion, ensuite de
ses progrès et enfìn de sa victoire. Le bonhoinme làche de
jouer de ruse, mais il finit par rester comrae Dandin, avec
un pied de nez.
Et l'inspiration que Molière tire des nouvelles ne s'arrète
pas là. La femme de Dandin, pour donner avis à son amou-
reux de la manière dont il pourra s'approcher d'elle, feint à
la présence de son mari et de ses parents, de lui reprocher
vivement ce qu'il n'a pas encore fait et l'amoureux sait se
régler là-dessus (A. I, se. VI): « Je voudrais bien le voir vrai-
336 PIERRE TOLDO
ment que vous fussiez amoureux de raoi. Jouez-vousy, je
vous en prie, vous trouverez à qui parler, c'est une chose
que je vous conseille de faire. Ayez recours, pour me voir, à
tous les détours des aniants; essayez un peu, prenez plaisir à
m'envoyer des ambassades, à ra'écrire secrètement de petits
billets doux, à épier les raoments que mon mari n'y sera pas,
ou le temps que je sortirai, pour me parler de votre amour... ».
Ce moyen comique fort souvent employé par Molière *) n'est
après tout qu'une application d'une autre nouvelle de Boccace,
fort répandue elle aussi et dont on connaìt maintes rédactions
(III, 3). Une femme feignant de repousser l'amour d'un jeune
homme, lui fait comprendre ses tendres sentiments à son
égard et lui indique la voie à suivre.
Que l'on remarque encore que le tour qu'Angélique joue à
son mari, de le baltre au lieu de l'araoureux qu'elle déclare
vouloir punir, n'est que la mise en action d'un autre conte
de Boccace (VII, 7), Le mari battu et conteni. George Dandin
n'est donc, à tout prendre, qu'une sorte de conglobation
de plusieurs historiettes, touchant les ruses féminines, mais
cette contribution si large de la nouvelle ne sert qu'à mettre
en évidence l'idée qui appartieni en propre au poète, idée
indépendante de tous ces éléments accessoires. Le héros de
Molière est bien vivant avec la jalousie rongeant son àme et
ses regrets désormais inutiles sur les conséquences de sa me-
saillance. Dandin n'est pas si ridiente qu'il en a l'air et au mi-
lieu de tous ces maris bernés de la vietile comédie, il excite
notre intérèt non seulement par sa douleur si vive et si pro-
fonde, mais aussi par les violences dont il est la victime, les
violences d'un rang insolent et corrompu représenté, dans
toutes ses nuances, par la dynastie des Sotenville.
') Voyez VÉtourdi (I, 4), le Malade imagtnaire (II, 5), V Avare (III, 7),
VÉcole des maris (II, 9j.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 337
Un cycle de nouvelles, dont nous allons nous occuper bientòt
dans l'examen du théàtre de Hauteroche et de Regnard, ins-
pire la ruse la plus célèbre de Mascarille, le héros de VÉtourdi
de nutre anteur. Mascarille persuade Lélie de faire passer pour
mort son pére Pandolfe, dans le but de tirer de l'argent d'An-
selme, débitenr et ami du mort suppose. Anselmo donne l'ar-
gent demandò et il croit avoir affaire à un revenant lorsqu'il
rencontre Pandolfe, bien vivant et fort étonné de l'étrange
accueil. Mais la ruse de Mascarille échoit à cause de l'élour-
derie habituelle de son maitre.
On connaìt la source du Mèdecìn malgrè lui, vivant du
temps de Molière dans la tradition populaire, représentée en
plein mo3'en àge par le fabliau du Vilain mire. Le Petrillo du
Pogge (fac. ISQ'^) et il Medico Grillo appartiennent à la mème
lignee et représentent de mème la ruse des classes inférieures,
d'où naìtront, avec le temps, les valets du XVIIP siècle et Fi-
garo lui-mème.
L'étude de la jalousie inspira au poète frangais une autro
pièce, le Sicilien ou Vamour peinire, dont le héros n'est pas
certainement si intéressant que Dandin. L'auteur emploie lei
encore son système d'adaptation épisodiquc des nouvelles.
Nous y voyons en effet la substitution d'une femme à une
autre, comme dans le fabliau des tresces ou dans le conte du
Decameron, que nous venons de citer. L'aventure de messer
Lambertuccio (VII, 6) joue aussi un certain róle dans la pièce
de Molière, parce que Zaide, esclave intrigante, se feint pour-
suivie par Adrasto (amant d'Isidore) et se réfugie chez le
jaloux sicilien, de sorte que celui-ci lui fait bon accueil et
tàche d'apaiser le jeune homme, dont il ne soupgonne pas
les rapports avec celle qu'il alme ').
') Voyez aussi une des Facéties du Pogge (266").
338 PIERRE TOLDO
Dans V Avare, Molière tire de la comédie ou de la nouvelle
italienne, d'une manière plus ou moins directe, l'épisode de
Valére, qui entre en condilion de domestique chez celle qu'il
aime, et nous avons vu tout à l'heure plusieurs versions de
ce tour galant. Il en est de mème de tous les déguisemenls
du Ihéàtre de notre écrivain. Le Médecin volani, l'une de ses
premières pièces, commence par un travestissement en mé-
decin, et c'est par un travestissement en médecin queTécrivain
frangais conclue sa dernière comédie, le malade imaginaire.
Toujours d'après le théàlre ou la nouvelle de la Péninsule,
Molière présente dans son Dépii amoureux l'aventure d'une
fille habillée constamment en gargon par un pari de son pére
et cette situation si invraisemblable défraya longtemps le
théàlre frangais. Je rappelle, entre autres, la pièce d'Ouville
d'où Bois-Robert tira sa Belle invisible (1656).
Nous avons cité, tout à l'heure, le fabliau frangais et la
nouvelle de Boccace (III, 3) sur le Mari confident. J'ajoti-
terai un autre rapprochement.Fortiguerri, dans ses nouvelles
{Ed. Romagnoli, Bologna, 1882, VP nouv.), conte qu'un amant
prend, à son tour, pour confident le mari de celle qu'il aime
et le mari, malgré l'étourderie de son rivai, ne réussit pas à
protéger son honneur.
Or c'est évidemment dans le Decameron que Molière re-
trouva la source du IP acte de YÉcole des maris, source déjà
reconnue par les critiques. Isabelle ne sachant comment s'y
prendre pour faire connaìtre son amour à Valére, le fait
tancer par son tuteur Sganarelle, qui s'acquitte avec enthou-
siasme de cette commission, sans s'apercevoir qu'il est la dupe
de sa pupille. Lope de Vega avait profìté de cette nouvelle
du Boccace ou de quelque version similaire pour composer sa
Discreta enamorada et Dorimond, peut-ètre avant Molière,
avait conte l'aventure d'une autre Isabelle, La femme indus-
Irieuse, qui voulant avertir Léandre de la passion qu'elle a
ÈTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANC-AIS DU MOYEN AGE 339
congue pour lui, emploie le mèrae expédient. Il y a toutefois
une petite diffèrence de détail; le tuteur est remplacé par le
Docteur, précepteur de Léandre. La diffèrence entre le conte
de Boccace et la cornédie de Dorimond est encore moins sen-
sible. UÉcole des femmes de Molière, outre Tincident du
mari qu'on prend pour confident et qu'on trornpe malgré tout,
renferme une autre situation tirée elle aussi de la nouvelle,
l'homme qui élève une femme dans la solitude et dans l'inno-
cence la plus absolue, Tentourant de sottes gens et fìnissant
par se repentir de ce système d'éducation. La sottise d'une
jeune fille forme le sujet de maints fabliaux ') et c'est celte
sottise qui est la cause de sa fante. Sercambi, avant l'auteur
des Cent nouvelles nouvelles, avait conte lui aussi ce qui était
arrivé a un mari, ayant éduquó sa ferarae dans l'ignorance la
plus absolue % et Scarron dans sa Prècaution inutile avait
dèveloppé, à son tour, ce sujet. Je passe sous silence les détails
de ces versions, car il s'agit de sources bien déterminées; je
remarque plutòt que l'épisode de l'amoureux cache par Agnès
dans l'armoire, rappelle de près les amants cachés des nou-
velles et que l'agnition, qui concine la pièce, a été tirée de
la cornédie classique, aussi bien que de la nouvelle ou du
théàtre italien.
Monsieur de Pourceaugnac est, entre autres choses, pré-
sente à des médecins comrae salsi de folle; c'est là un sujet
lire de la nouvelle, dont le théàtre du moyen àge avait déjà
su, comme nous venons de le voir, proflter largement. Le sac
dont Scapin se sert, dans les Fourlteries, pour renfermer Ge-
rente, sous prétexte de le soustraire à ses ennemis, dont il
feint ensuite les menaces et les coups, a été rapproché, fort
à raison, du sac de Tabarin. Mais Straparule lui aussi, dans
') Cfr., par ex., la Gme, et VEcureuil du Recueil Montaiglon.
^) Voyez mon Contributo, p. 20, e note à la 41^ des Cent nouvelles
nouvelles.
3-JO PIERRE TOI.IiO
ses Facèlieuses nuiis (II n., 5 f.), emploii' ce moyen pour se
moquer d'un amoureux. La ferame que le jeune homrae pour-
suits'en plaint à son mari, lequel lui ordonne de le faire entrer
dans un sac qu'il bat ensuite à piate couture.
Les Fenimes savantes présentent à leur tour des inspira-
tions puisées à la mèrae source. Ce mari, tremblant de peur
devant sa femme et n'osant lui manifester sa volente, est bien
de l'engeance du baron du fabliau, dont la dame dut subir
une étrange opération, pour guérir de son orgueil *). Dans le
Malade imaginaire, la scène (III, 18) où Argan se feint mort
pour éprouver l'affection de sa femme, appartieni aussi.quoique
les commentateurs n'en aient rien dit, à un autre groupe d'his-
toriettes populaires. C'est de la mème manière, par exemple,
que le héros d'une des facéties du Pogge simule une mort
soudaine, dans le but de connaìtre les véritables sentiments
de sa femme. Celle-ci se livre à des démonstrations tout à fait
extérieures, quitte à manger et à boire tout son soùl lors-
qu'elle ne se trouve plus sous les yeux de témoins indiscrets,
Mais le mari est là, sous sa raideur apparente, témoin autre-
meni interesse, qui finit par se lever de son lit de mort et
lui adresser de vifs reproches (fac. CXV'=).
Enfin l'influence que la lecture de l'oeuvre de Rabelais put
exercer sur l'esprit de notre poète ne se berne pas seule-
ment aux constatations déjà faites par les critiques. Outre
les questions que Sganarelle adresse à tout le monde, pour
savoir s'il peut se marier, sans trop de dangers *), questions
rappelant de près celles de Panurge, dans un cas à peu
près identique et que nous venons de citer, on peut sup-
poser que les consultations contradictoires des membres de la
faculté, dans V Amour mèdecm, tirent aussi leur origine de
') De la dame qui fut escouillée, citée précédemment.
') Mariage force.
ÈTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS OU MOYEN AGE 311
là. Il s'agit toujours d'une personne, qui après avoir entendu
les conseils les plus disparates et les plus bizarres, ne sait à
quoi s'en tenir et se trouve erabarrassée plus ancore qu'aupa-
ravant. Ailleurs la scène de la Princesse d'Elide, où Moron
s'exprime par sip:nes (scène que les acteurs devaient déve-
lopper bien largement), rappelle le défi célèbre de Panurge, et
Moron qui fait le héros, lorsque tout danger a disparu, n'est
pas sans nous faire songer à ce mème personnage de Molière,
reprenant son courage et son aplomb, la tempète cessée.
Molière est entouré d'une foule d ecrivains, s'inspirant lar-
gement à ses pièces. C'est de lui que naissent les marquis,
les femmes savantes, les pédants, les maris ridicules de ses
contemporains, dont les intrigues comiques paraissent le plus
souvent modelées sur le patron du grand maitre. Tout le dix-
septième siècle est rempli de sa gioire et ses adversaires eux-
mémes, tout en le combattant, ne savent s'éloigner de la voie
qu'il vient de frayer. Hauteroche, né cinq ans avant Molière,
assez bon acteur, reproduit de mille manières les créations de
son maitre. h'Amani qui ne /latte point nous présente en Gé-
rasle et Anselme, les deux personnages les plus caractéristiques
du Misanthrope, Alceste et Pbilinte; malheureusement l'imita-
tion a parfois l'air d'une parodie. Ze^-ow^é malapprètè renferme
des souvenirs de Don Juan, de monsieur Loyal et de Scapin
et Crispin médecin apparlient à la nombreuse famille des
domestiques, empruntant le langage et l'habit des membres
de la faculté. Mais ce n'est pas de l'influence de Molière sur
ses contemporains que nous voulons nous occuper ici. Ce qui
nous importe de constater c'est que la nouvelle, qui inspira
le grand maitre, inspire aussi ses élèves et dans cette pièce
de Hauteroche, Cy^ispin mèdecin, nous voyons la mise en
action d'un conte traditionnel, l'bomme qui se feint mort, pour
se tirer d'une situation dangereuse. On connaìt le fabliau du
prestre crucifié, où un prétre surpris par un sculpteur, mari
StuSj di Jilohgin romanzn, IX. 22
342 PlERKb: TOLDa
de la femme qu'il aime, se tìent immobile, comme s'il était
une des statues de son atelier. Ce sujet répétè, sous des forraes
variées, trouve une autre application dans l'aventure de
Grispin de Hauteroche, car l'adroit valet, ne sachant comment
justifìer sa présence dans la maison du médecin Mirobolan,
feint d'ètre un des raorts que le docteur doit sectionner. La
comicité de cette scène est assez plaisante, car le médecin
s'apprète à lui faire subir une opération fatale et fait des
remarques désagréables sur la physionomie de Grispin, qui
étant obligé au silence, n'ose protester. G'est là une autre
situation de celui qui se feint mort, situation exploitée, par
exemple, dans le Mortuus loquens du Pogge. Les apparences
trompeuses de Hauteroche reproduisent (II, 7) la donnée que
Molière tira de la nouvelle, du mari confident des amours de
son rivai. lei, comme dans George Dandìn, c'est un valet sot
qui révèle au mari ce qui se passe:
Blesois (le valet). Surtout il ne faut pas que le mari le S9aclie.
Sturgon (le mari). He! nous syavons cacher ce qu'il faut que l'on
cache.
Blesois. C'est. sans doute, un fantasque, un fou.
Dans les Nohles de Province, le disciple de Molière nous
présente Grispin, auquel on fait accroire qu'il est fou et le mé-
decin, trompé lui aussi, veut le saigner, coùte que coùte. G'est
l'aventure de Monsieur de Pourceaugnac, avec un change-
ment de détails tout à fait insignifiant. Le Deuil a été, par dé-
claration de son auteur, tire des contes d'Eulrapel. Timante,
jeune homme amant le plaisir et ne recevant pas de son pére
Pirante, tout l'argent, dont ses vices ont besoin, s'accorde avec
Grispin et joue au bonhomme le tour de le faire passer pour
mort. Maitre et valet, habillés en deuil, se rendent chez le
fermier Jaquemin et se font donner le prix du bai! et lorsque
Pirante se présente, à son tour, on le prend pour un spectre
et tout le monde s'enfuit. Mais la ruse est découverte et
ÉrUDES SUR LE THÉAIUE COMIQUE FRAN'CAIS DU MOYEN AGE 343
Grispin passe le quart d'heure de Rabelais. Nous verrons plus
tard, à propos des sources du théàtre de Rognard, une autre
friponnerie de ce genre, tirée d'une nou velie.
lei nous pouvons constater quo l'historiette de Noci du Fai!,
d'wn fils qui trompa Vavarice de son pere, est imitée à la
lettre. Le faux orphelin se présente au fermier de la raènrie
manière, mais le pére raeurt de rage, en entendant la du-
perie, dont il est la victime *). L'immoralité de la nouvelle
est encore plus frappante que celle de la comédie. Une autre
piece, le Cocker suppose, du méme écrivain, nous présente la
vieille donnée d'un jeune fìlle trompée, poursuivant son sé-
ducteur et l'obligcant de tenir sa parole -), et le Feint Polonais
consiste dans un déguiseraent, qui permei à un araoureux
d'entrer dans la maison de celle qu'il aime, déguisement qui
forme le fond d'autres pièces du méme auteur ').
Monfleury était plus jeune que Molière, mais il mourut en
1685. Fils de comédien et coraédien lui aussi, il ressent parfois
de rinfluence du maitre qu'il combattit avec tant d'acharne-
ment, mais il a plus d'esprit que son collègue Hauteroche.
Dans VÉcole des filles, il a recours à cotte nouvelle du Deca-
meron (VII, 6) que nous avons eu l'occasion de citer si sou-
vent. De méme que Madonna Isabella, Léonor, pour tromper
la surveillance de son frère, ne sachant comment cacher Don
Juan et Don Carlos, qui se trouvent chez elle, feint que l'un
poursuive l'autre, l'épée à la main. Les besfes raisonnables
du méme auteur s'inspirent au sujet d'Homère tei qu'il avait
étè précédemment développé en Italie par Gelli dans sa Circe
et en France par Boyer (1648), dans sa tragi-comédie, Ulysse
dans Visle de Circe. Il est toujours question des compagnons
*) Cfr. Cotifes et discours d'Eutrapel, édit. elz., 1874, IP voi., p. 6-3.
*) Cfr. ma Comédie franeaise de la Renaissance, Revue citée, 1898,
p. 244.
3) Ibid.
344 PIERRE TOLDO
du héros grec, préférant l'état d'abrutisseraent où ils se trou-
vent à celui d'homme.
Vers la mème epoque (1663), Samuel Chapuzeau faisait jouer
sa Dame (Tintrlgue, renfermant l'historiette de Rufline, qui
pour pénéfrer dans la maison d'un avare feint que son mari
la poursuive. Plus tard Raymond Poisson, dans les Faux mos-
covites (1668), nous présente une forme particulière de dé-
guisement, rappelant de près celui du Feint Polonals de Hau-
teroche. Ce déguisement en faux moscovites, inspiré par
l'arrivée à Paris des ambassadeurs de Russie, conlient un
détail, qui n'est pas sans rappeler de près une nouvelle fran-
^aise. Un certain Lubin, crieur de noir, est chargé du róle
d'ambassadeur et il se rend avec sa suite chez Qorgibus,
maitre d'bótel, dans le but évident de vivre pendant quelque
temps à ses dépens et de le voler. Ce Lubin ne doit pas con-
naìtre le fran^ais, et pour démontrer qu'il est russe, il dira
seulement, pour réponse à toute question, le mot nyo. Un autre
fìlou, La Montagne, joue, auprès de lui, le róle d'interprete.
Or, dans les Conteset discours d'Eutrapel(ll voi, pag. 91) on
expose de la mème manière, comment quelques aventuriers à
bout de ressources, font passer « un vilain gueux » pour un
riche prélat et c'est avec lui, qu'ils se rendent à un hotel somp-
tueux, où ils s'en donnent à coeur joie. Le faux prélat, ne
connaissant pas le latin, répond toujours à toutes les questions
du traiteur par le seni mot Uà, ita. L'adaptation de la nouvelle
me parait fort probable.
Guillaume Marcoureau de Brécourt déclare avoir tire son
Jaloux invisible d'une nouvelle espagnole, El zeloso enganado,
que je n'ai su retrouver nulle part, mais le tour que le feint
astrologue joue au bonhomme Carizel de lui faire voir le
marquis embrassant sa femme, le persuadant en mème temps
qu'il s'agit là d'une sorte d'allucination, nous rappelle le cycle
du fabliau du presire hi abevete. Dans ce fabliau un prètre
ÉTUDES SLH LE THÉATRE COMIQL'E FRANCAIS DU MOYEN AGE 345
amoureux de la femme d'un paysan, se présente à la porte
de celui-ci, s'arrète, regarde et cric au scandale. Il dèclare
avoir vu, par le trou de la serrare , la femme entre les
bras de son mari. Le mari s'ótonne; il n'était occupé à autre
chose qu'à manger et pour voir si une telle allucination est
possible, il sort de sa maison, et laisse le prètre à sa place.
Ce (ju'il voit par le trou de la serrure le persuade que le
prètre n'avait pas tous les torts de crier au scandale, mais
il reste bien persuade qu'il ne s'agit là que d'une sorte de
sorcellerie. Tel est aussi le sujet d'une nouvelle de Boc-
cace {Dèe. VII, 9) et M. Liebrecht en a étudié plusieurs ver-
sions dans la Germania (XXI, 385 sqq.). Rien de plus popu-
laire que le bonnet qui est censé rendre invisible, comme le
chapeau de Fortunalus, l'anneau d'Angélique du Furioso, ou les
pierres dont le Calandrino du Boccace remplit ses poches.
Une pareille donnée inspira plus tard De Visé, dans sa Pierre
philosophale (1081), où il est question d'une pierre, qui doit
avoir cette vertu de rajeunir, dont nous nous sorames occupés
précédemment. Le faux négromant se charge de raème de
rendre invisible le valet Crispin et ces plaisanteries sur les
vieilies superstitions du moyen àge inspirèrent aussi le théàtre
de Thomas Gorneille.
Les intrigues amoureuses de Gabriel Gilbert (IV, A.) re-
nouvellent à leur tourla vieille intrigue de faire passer pour
fou un personnage incommode, et dans le Docieur de verre,
Quinault nous présente un cas de folle bien étrange, tire d'un
conte populaire. Ce conte, dont je ne connais aucune rèdaction
frangaise, préexistait déjà dans les nouvelles de Cervantes.
Je n'ai sous les yeux que la traduction de Louis Viardot
(Paris, 1871, p. 213). Le licèncié Vidriera, à la suite d'un
malheur qui lui est arrivé, se croit devenu de verre, ainsi
que son nom l'indique: « Le malheureux s'imagina qu'il était
de verre, et dans cette pensée bizarre, si quelqu'un s'appro-
346 PIEURE TOLDO
chait de lui, il jetait des cris pergants et suppliait dans les
meilléurs termes qu'on ne le touchàt pas, crainte de le
briser en mille piòces, et jurant ses grands dieux qu'il n'élait
pas fait corame les autres horames, mais qu'il était de verre de
la lète aux pieds ». Meme dans les détails, la ressemblance
entre la nouvelle et la comédie me paraìt evidente.
L'historiette d'un paysan ivre qu'un seigneur mene dans
son chàteau et qui se réveille au milieu des richesses, de
sorte qu'il croit rèver les j^eux ouverls et se persuadant ensuite
que tout son passe n'a été qu'un jeu de sa fantaisie, forme le
sujet des Songes des hommes éveillés, comédie composée en
1646 par Brosse, où il y a des souvenirs du berger Abu Hassan
et du calife Harum des Mille et une nuits. G'est là un sujet fort
exploité sur la scène. Dans le Nouveau thèdtre italien de Ricco-
boni (IV voi.) il y a un « Arlequm cru prince par magie, en
italien Arlichino finio principe, comè^VxQ italienne en 3 actes,
4juin 1716». EtRiccoboniajoute: « Ilya en Italie une comédie
en musique à peu près semblable, inlitulée II girello (le tonnelet)
parce que c'est par ce tonnelet qu'Arlequin est cru prince ».
G'est toujours dans le mème recueil (cfr. 1 voi., p. 177) qu'on
lit le sujet à'Arlequin toujours Arlequin, comédie frangaise
jouée en 1726. Arlequin est enivré et transporté dans le palais
d'Alphonse, roi de Naples. A son réveil on lui fait accroire
que sa vie précédente n'a été qu'un songe; il est le roi de
Naples et tous les courtisans, qui l'entourent, ont l'air de
n'avoir jamais connu d'autre souverain que lui. Mais Arlequin
craint la guerre et alme Golette et pour cela se sauve au
premier coup de fusil. Louis de Boissy s'inspire à la mème
donnée dans La vie est un songe (1732), comédie héroique>
comme il l'appelle. lei Arlequin joue pendant quelques instants
la róle de prince, mais il rentre bientòt dans ses fonctions de
bouffon.
Ce sujet que le danois Holberg remania en partie, dans son
ÉTUDES SUR LE THÉaTRE comique francais du moyen age 347
Jpppe paa Bierre, et d'où Plòtz tira une farce, Le prince
enchanté, inspira de nos jours une pièce désorraais célèbre,
l'Arlequin feint prince, -Sc/z^wc/t und Jau de Gherarde Haupt-
inann, pièce qui ne sera pas peut-èlre le dernier anneau de
cette chaìne dèjà si longue.
L'aveugle clairvoyanl du mème Brosse offre un remanie-
ment de la nouvelle citée tout à l'heure du mari qui se feint
mori pour éprouver la fidélité do sa femrne. lei au lieu d'un
mari nous avons un amant et au lieu d'un feint mort, un feint
aveugle, mais le fond de la plaisanterie demeure toujours le
mème. Raymond Poisson paraìt se souvenir de la legon de Boc-
cace du Pont de l'ole et des nouvelles sur la vertu du bàton,
dans son Lubin ou le sot venffé, où il mei en scène un mari,
dont la ferame se moque de la manière la plus effrontée. Un
de ses amis, ému de ce spectacle, arrète de corriger Lubin
de sa faiblesse et sa femme de son orgueil et fait présent au
bonhorame d'une certaine racine, qui a la vertu de guérir les
femmes désobéissantes et éhontées. Cette racine n'est autre
chose, Dien entendu, qu'un bàton solide, dont Lubin se sert
aussilòt pour punir sa femme et pour en chasser l'amoureux.
Dorimond, poète et comédien, publia, en 1C61, La feìwne
indusirieuse, qui offre un nouveau remanieraent de la nou-
velle du Boccace, exploitée par Molière. Isabelle ne sachant
comment révéler à Léandre la passion qu'elle nourrit pour lui,
dit au Docteur, pédant du jeune homme, que son élève l'en-
nuie par ses déclarations d'amour. Léandre qui n'en sait rien,
n'a pas trop de peine pour comprendre pourquoi Isabelle le
fait tancer par son maitre, qui apporte ensuite d'autres am-
bassades et devient, à son insù, l'entremetteur des deux jeunes
gens. Dans une autre pièce, YÉcole des cocus ou la précau-
tion mutile (1661), Dorimond met en action la 41"^ des Cent
nouvelles nouvelles « d'ung chevalier qui faisoit vestir à sa
femme ung haubregon quant il luy vouloit faire ce que
343 PIERRE TOLDO
scavez, ou compier les dens; et du clero qui luy apprint
aulire maniere de faire, doni elle fut à peu près par sa bouche
mesme encusée à son mary, se n'eust esté la glose quelle
controuva subiteraent ».
Sercambi ') avait déjà conte cette anecdote, avec quelque
différence, dans la conclusion. La niaise Cloris de la pièce de
Dorimond fait part à son mari, le Capitan, de la nouvelle legon
que Léandre vient de lui apprendre et dont sa sottise ne lui
permei pas bien de comprendre la portée. Philipin, le valet
de la comédie, se charge de la conclusion, qui est celle de
tant de nouvelles et de comédies :
AUez dire aux maris des champs et de la ville,
Que la précaution leur est chose inutile.
Ladèsolationdes filous{iQQÌ)àQC\iQvd\\Qv rappelle quelque
peu le sujel de la Tasse et Ghappuzeau emprunte au Moyen
deparvenir et aux contes de d'Ourville l'intriguede son Colin-
Maillard (1662). Un traiteur veut marier sa fìUe à son gargon
Colin, mais Isabelle lui préfère le vicomte de Brisebarre, sorte
d'aventurier, criblé de dettes. Gelui-ci, suivi de son cousin La
Roche, se rend au cabaret et comme ils n ont pas d'argent,
le baron persuade Colin de jouer au colin-maillard et de se
faire payer de celui qu'il saisira. Colin se laisse bander les
yeux; les deux filous se sauvent avec Isabelle et Colin ne
saisit que le traiteur, dont il ne déviendra plus le gendre.
Le théàtre attribué à La Fontaine, dont nous allons nous
occuper maintenant, erabrasse à peu près la seconde moitié du
XVIP siècle et l'on sait que dans plusieurs de ces pièces co-
miques, on ne saurait déterminer exactement ce qui est propre
à l'illustre écrivain et ce qui est du à la collaboration de
Champmeslé. Les rieiirs du Beau-Richard se présentent les
') C'est la première de l'appendice de l'édit. Renier.
ÉTUDES sua LE TUEATRK COMIQUE KRANgAIS DU MOYEN AGE 349
premiers en date (1659). Ce ballet met ea action une nouvelle
de La Fontaine, lai-mème *), mais cette nouvelle n'est pas
issue de la fantaisie de l'illustre écrivain, dont l'origina lite con-
sistait plutòt dans la forme et dans les détails, que dans l'in-
vention du sujet general.
L'intrigue de la pièce en question peut se résumer en peu
de mots. Un savetier, qui a une ferame bien charmante, achète
à credit un demi-muid de blé et donne en payement un billet
à tenne. Le marchand, qui lui a vendu le blé, se présente à
réclióance, mais comme il trouve que la femme du savetier
vaut bien l'acquit du blé, il le lui offre sans trop de fagons:
Vous me devez; mais, enti'e nous,
Si vous vouliez bien à votre aise
La femme se fàche tout d'abord :
Monsieur, pour qui me |3renez-vous ?
Voyez un peu frère Nicaise !
mais enfin, pour ne pas le pousser à bout, elle s'accorde
avecson mari, qui lui conseille.de jouer un tour au bonhomme.
De raème que dans les fabliaux et dans les vieilles farces, le
marchand et la femme apprétent un banquet et là la belle
commence à cajoler son amoureux, ne lui permettant de l'em-
brasser qu'après que le regu est déchiré. Puis elle se prend
à tousser; le mari entre, ayant l'air de ne rien comprendre:
Ah! Monsieur, quei vous voir chez nous?
C'est trop d'honneur que vous nous faites,
et le marchand est obligé de sortir sans argent et sans amour,
en grand danger d'ètre battu.
') Cfr. oeuvres de La Fontaine, édition des Grands écrivains, IV,
p. 108. Conte d'une chose arrivée à C. Cette pièce fut jouée par les
ainis du poète, auqucl elle paralt appartenir entièrement.
350 PIERRE TOLDO
Je suis bien aise de faire connaìtre à mes lecteurs la source
de cette farce si enjouée, où l'esprit de l'illustre écrivain brille
d'un éclat assez vif. On voit tout d'abord que nous avons af-
faire à ce cycle de la revanche des maris étudiè précédem-
ment, mais le noyau fondamental il faut le rechercher dans
une nouvelle du Moyen de parvenir *), où il est question d'un
mari, qui s'accorde avec sa femrae, pour avoir ^rató du blé.
Le créancier, qui reste berne ainsi que le marchand, est ici
le cure, personnage commun à cette sorte d'aventures.
Je glisse rapidement sur Ragotin ou le r^oman comiquey
mediocre adaptation du roman de Scarron; que l'on remarque
toutefois que l'aventure du pot de chambre arrivée au pauvre
Ragotin (ir, XI), appartient aux contes populaires les plus ré-
pandus et que l'autre du mème Ragotin, auquel on veut faire
accroire qu'il est mort (III, 7), fait part des tours joués par
les trois comraères à leurs maris. Ges tours du mort suppose
constituent un novellenhrets représenté par une foule de ver-
sions depuis les fabliaux De trois da7nes qui trouvèrent un
annel et Du vilain de Bailleul, jusqu'au Mambriano, à Mor-
lini, aux Joyeux Devis, aux Comples du ìnonde adventu-
reux, etc. ').
Le Florentin, qui eut l'honneur d'ètre mis par Voltaire
« au-dessus de la plupart des petites pièces de Molière » % en-
thousiasme que la critique moderne ne saurait partager, met
en scène la vieille donneo de garder une femme, considérée
en tout temps, corame l'entreprise la plus difficile de ce monde.
Le Florentin est un jaloux de la pire espèce, qui renferme.
') P. 253 de l'édition Jacob.
^) Cfr. LiEBRECHT, Zur Volkskunde, Heilbronn, 1879, pp. 124-141. et
mon Contributo, p. 124.
^) Conseils à un journaliste, tome XXIX, jj. 270 de ses (Euvres
complètes.
ÈTUDES SUR LE THÉATRE GOMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 351
sous clef, sa pupille Horfense, destinée à devenir sa femme.
Malgré ces précautions, Hortense se moque de lui, aussi bien
que la demoiselle du fabliau renfermée dans une tour. Son
amoureux Timante tàche de lui faire parvenir un billet congu
dans ces termes: « pour punir votre jaloux, je me suis rendu
maitre de la maison qui est voisine de la vòtre, où j'ai trouvé
le raoyen de me faire un passage sous terre, qui me conduira
jusqu'à votre chambre ». Ce passage secret n'est pas inconnu
aux nouvellistes. M'' D'Ancona, dans ses Note alle novelle del
Sercambi (Bologne, 1871), rappelle la XIII* nouvelle de l'au-
tour do Lucques, renfermant cette donnée {De furto unìus
mulieris) répétée dans la 1* des Cent nouvelles nouvelleSy
dans les contes de Nicolas de Troyes et par Brantóme, dans
son premier discours des Dames galantes ^).
Le Florentin, pour connaìtre l'ama de sa pupille, emprunte
aux fabliaux, ou pour m'exprimer plus exactement, à la tra-
dition populaire, une invention, d"un succès fort douteux,
celle bien connue du Mari confesseur, contèe, avons-nous dit,
entre autres par Boccace {Dèe. VII, 5). Dans la comédie de la
Fontaine, il y a un léger changement. Le prètre confesseur est
reraplacé par un soi-disant magistrat cousin du mari, mais le
déguisement du mari et l'interrogatoire qu'il fait subir à sa
femme n'ont d'autre but que celui du faux confesseur. La pu-
pille, qui n'est pas la dupe de ce déguisement, punit la curiosité de
son tuteur, en feignant de ne s'apercevoir de rien et en lui
disant des vérités bien douloureuses, qu'il est obligé d'écouter,
le coeur saignant. Un autre stratagemme employé par la belle
rappelle la donnée d'autres nouvelles. Le jaloux est averti
que Timante va pénétrer nuitamment dans sa maison. Alors
il s'arme de pied en cap et monte la garde devant la porte,.
') Cfr. mon Contributo, p. 23.
352 PIERRE TOLDO
pendant que les deux amoureux s'entretiennent tranquille-
raent aillours. G'est le cas, par exemple, du fabliau de la
Veuve, et mieux encore, du tour joué par une des femmes
du Bècamèron à son mari (VII, 5) « tandis que le mari ja-
loux, d'après un faux alarme, monte la garde à sa maison, la
femme fait entrer son amoureux par le toit et s'entretient dou-
cement avec lui ».
Enfin la ruse finale finit par donner gain de cause à la pu-
pille et à son amant. Le Florenlin a fait construire une sorte
de machine, pour emprisonner Timante ; mais on lui fait com-
mettre la sottise de lessaj-er et il reste là dedans corame une
souris dans une souricière, tandis que le beau couple s'en
va tranquillement et que la fringante Marinette s'écrie: « Adieu !
pigliate un peu de paltence ». Ce pigliate équivaut au «pi-
glialo su» de M'^de Pourceaugnac, et doit ètre tire de la co-
médie de l'art. La mère, qui, avant de tirer le Florentin de
cette situation pónible, lui fait subir un long discours, nous
fait penser à une fable du méme auteur (L. I, fab. XIX), dont
les sources sont dùment établies.
La Coupé enchantée s'inspire elle aussi à deux nouvelles,
dont La Pontaine nous présente des versions dans ses Oies de
frère Philippe et dans sa Coupé enchantée, versions recon-
naissant, à leur tour, leurs sources directes dans le préambule
de la quatrième journée du Decameron et dans le poème de
l'A-rioste {Ori., XLIII, octave 70). Les thélesmes, ayant la vertu
de découvrir l'infidélité et la vertu des femmes, ont forme le
sujet d'études diligentes de la part d'une élite de savants.
MM. Du Méril, Dunlop, Kòhler, Gomparetti, Rajna, etc, nous
ont fait connaìtre la fontaine des nouvelles indiennes de
Sucasaptati, celles de Floire et Bianche for et du Filocopo de
Boccace, La bocca della verità de la legende virgilienne, Le
serpent d'airain attribué de mèrae à Virgile, et d'autres ver-
sions de ces fantaisies du moyen àge.
ÉTLDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE :^53
La coupé de La Fontaine est identique à celle de l'Arioste;
« G'est une coupé qui est entre les raains du seigneur de ce
chàteau; quand elle est pleine de vin, si la feinrae de celui
qui y boit lui est fidèle, il n'en perd pas une goutte; mais, si
elle est infidèle, tout le vin se répand à terre ». La conso-
lation d'avoir des compagnons de inalheur, engagé le seigneur
à faire essayer son vin à ceux qui lui rendent visite, mais les
gens de bon sens évitent prudemment, corame Thibaut, une
épreuve, qui pourrait empoisonner leur vie pour toujours.
Maitre Josselin, cbargó de surveiller le jeune Lèlie et de lui
défendre tonte connaissance de la femme, est un homme doué
de doctrine et de bon sens, qui comprend, à l'avance, l'inutilité
de tous ses efforts. Il a beau dire à son élòve que les deux jeunes
femmes, qui se présentent, ne sont que des « carognes », qu'il
veut chasser sur le champ. La nature parie plus ha ut que lui et
le maitre, lui-mème, corame Aristote, précepteur d'Alexandre,
dans la legende si célèbre, finit par céder à leurs appas, en
se couvrant par là de ridicule.
Le veau perdu est une sorte de farce, attribuée plutót à
Gharapraeslé qu'à La Fontaine et que nous ne connaissons que
d'après l'abrégé donne par les frères Parfait *). Après deux
ou trois scènes nécessaires pour l'exposition du sujet, parait
Ricato, ce villageois, qui a cherché inutilement un veau, qu'il
a perdu, et qui monte sur un arbre, pour découvrir de plus
loin. Le gentilàtre arrivo, et se croyant seul avec sa servante,
lui conte des douceurs, veut l'embrasser et lui porte la raain sur
le sein ; à chaque mouvement il s'écrie: « Ah Ciel ! que d'appas !
que vois-je, que ne vois-je pas ? » Ricato, impatienté d'entendre
répéter toujours la mèrae chose, crie du haut de son arbre:
« Notre bon Seigneur, qui voyez tant de choses, ne voyez-vons
pointmon veau?» — « Je suis perdu — dit alors le gentilhomrae
*) Ristoire du théàtre fraìiQais, XIII, pp. 143-145.
354 PIERRE TOLDO
tout bas — ce rustre ne va pas manquer de raconter à ma
femme tout ce qui vient de se passer. Cours vite — ajoute-t-il
à sa servante — et va dire à madame qu'elle vienne en di-
ligence me trouver lei ». Le gentilhomme deraeure seul sur
le théàtre. Dans le moment la dame arrive. Le mari fait
l'empressé aupròs d'elle et recommence le mème jeu, qu'avec
sa servante. Ricato rapporte à la dame ce qu'il a vu du mari
avec sa servante, et la dame répond toujours: « G'était moi »
jusqu'à ce que Ricato, perdant patience: « Jarni — dit-il —
vous me ferez enrager; un mari n'est point si sot à l'entour
de sa femme». — « Gomment donc, insolent — reprend la dame
fort en colere — vous manquez ainsi de respect à monsieur
le comte? ». Dans une autre scène, la servante, songeant à un
établissement solide, et voulant épouser le fils du fermier,
parce qu'il est jeune et riche, trouve le moyen de lui parler.
Après quelques discours, elle fait en sorte, qu'il lui touche
dans la main. « Oh, dame ~ dit-elle alors — tu ne saurais
plus t'en dédire, nous voilà mari et femme », et c'est ainsi
que tonte chose s'arrange, malgré le bavardage de Ricato.
La Fontaine, si ce n'est Cbampmeslé, n'a fait que mettre
en action deux de ses contes, celui de la Servante Justifìée et
l'autre du Villageois qui cherche son veau *).
Ce dernier a été tire indirectement de VAsinus pevditus
du Pogge et directement de la douzième des Cent nouvelles
nouvelles, où Tane est remplacé par un veau. Je rappplle, en
passant, qu'une facétie suédoise Der Pfarrer, der niemals
gesehen halle (Kruptadia, II, p. 193) reproduit la mème aven-
ture. Quant à la Servanle juslifìèe, la source que Fon a re-
chercbée dans VHeptamèron (nouv. XLV*) n'est pas exacte.
Marguerite de Navarre nous conte comment un mari, sous
') Edition citée, conte XI* de ìa ir partie, tome IV, p, 373; ibid.,
p. 276, VP, IP.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE PRANCAIS DU MOYEN AGE 355
l)rótexte de faire lever de bon matin sa bonne paresseuse et
<le lui « bailler Ics innocents », trompa la simplicité de sa
femme.
La dernière des pièces comiques attribuées à La Fontaine,
Je vous prends sans verd, représente, avec plusieurs chan-
gcmenls, une sorte de version de l'historietle du mari qui,
voulant éprouver la vertu de sa femme, se feint mort, histo-
riette que nous avoiis déjà lue dans les facéties du Pogge (GXV).
[ci le mari annonce sa mort de loin, mais comme celui du
conte italien il n'a pas à se plaindre d'avoir fait répandre
trop de larmes à sa femme Juiie. Gelle-ci s'adressant à sa
servante Toinon, s'écrie:
De cette mort, Toinon, cueillons, goùtons le fruit,
Jouissons du bonheur que le ciel nous envoie;
Je u'ai plus de mari! quel plaisir! quelle joie!
Il n'y a rien d etonnant si La Fontaine, ou Ghampmesló sur
son conseii, ont exploité si largement les contes. On ne pou-
vait s'atiendre autre chose de celui, qui avait dédié son
activité liltéraire à la nouvelle non moins qu'à la fable. Ge-
pendant son exemple sufflt pour faire comprendre comment
une nouvelle est bien peu de chose pour remplir une comédie
moderne, qui ne saurait intéresser le public sans la complexité
de l'intrigue et la valeur psychologique de ses personnages.
356 PIERRE TOLDO
Les derniers échos de la nouvelle
au théàtre.
Les autres auteurs comiques ne dédaignèrent pas d'eraprunter
à la nouvelle leurs Inspirations. Nous en Irouverons plus d'un
écho au XVIP siècle et au début du siècle suivant, surtout
chez Regnard, Dancourt etc. et dans le répertoire des théàtres
populaires.
Houdar de la Motte (1672-1731) s'inspire , par exemple,
à Boccace et c'est de lui qu'il tire Minutolo {Dèe. Ili, 6; et
La Fontaine, Contes), le Magnìfique (Dèe. Ili, 5; La Fontaine^
Contes), le Calendrier des vìeillards {Dèe. II, 10; La Fontaine,
Contes), et le Talisman répétant l'a venture de Renaud d'Ast
célébrée elle aussi par La Fontaine {Dèe. II, 2; La Fontaine,
Voraison de Saint Julien). Le vieux conte du Saiyricotide
Pétrone, ou mieux encore la nouvelle de La Fontaine forme
le sujet de sa Matrone d'Éphèse. et l'inspiration qu'Hou-
dar tire de la nouvelle se mèle aux souvenirs du théàtre de
Molière et à des préoccupations d'ordre moral, surtout celle
de modifier les sujets pour leur óter toute sorte de licence.
Regnard puisa, avec assez d'originalité, le sujet de son Le-
gataìre umversel (1708) à une nouvelle italienne, restée in-
connue aux critiques du poète et qu'il vaut bien la peine
d'examiner de près. L'italien Marco Cademosto de Lodi avait
publiéen 1544 un recueil de contes, au nombre desquels on lit
le suivant, quej'abrège en peu demots (nouv. VP): Scipion San-
guinaccio de Padoue avant de mourir fait son testa ment et
laisse tous ses biens à l'église. Galeazzo, le valet affectionné
de la maison, voyant que les enfants resteraient sans le sou,
leur conseille de cacher le pére mort et de faire courir le bruit
qu'il est encore au nombre des vivants. Le valet Galeazzo se
couche ensuite dans le lit de Sanguinaccio, s'affuble d'un
BTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 357
gros bonnet, ordonne qu'on ferme les volets de sorte à ne
laisser pónétrer daiis la chambre qu'un demi-jour incertain, et
il fait appeler un notaire et des témoins, pour faire, au nom de
Sanguinaccio, un testament qui annule le premier. Tonte chose
marche à souhait. L'intrigant dispose de douze mille ducats en
faveur de ses enfants, mais il ajoute un codicille où il laisse deux
mille ducats à lui-mème, pour les bons services que cet excellent
Galeazzo lui a rendus constamment. Les enfants protestent à
demi-voix, car ils craignent que le notaire et les témoins ne
découvrent leur ruse, mais Galeazzo fait la sourde oreille et
déclare qu'il òtera son bonnet, s'ils osent se plaindre. Le notaire
et les témoins partis, on avoue la mort de Sanguinaccio et le
rusé compère jouit des deux mille ducats, tandis que les enfants
du défunt doivent le remercier de ce qu'il a fait pour eux.
Dans le Lègaiaire de Regnard il y a la méme donnée, seu-
leraent le vieux Géronte n'est pas encore mort. Il a, au con-
traire, assez de vi Ialite, bien que les médecins le déclarent en
fin de vie, pour songer à son mariage avec la jolie Isabelle,
amante de son neveu Érasle. Ce mariage nuirait partant de
deux manières aux intérèts du jeune homme, s'il n'y avait
Crispin, l'adroit valet dii théàtre frangais, qui a l'oeil au guet et
qui renouvelle l'intrigue de Galeazzo, avec le seul changement
dù au fait quo celui, dont il prend la place, est encore bien
vivant. Ce changement n'altère toutefois pas sensiblement le
sujet emprunté à Gademosto, car Géronte s'est évanoui et tout
le monde est persuade qu'il ne reverra plus le jour. Crispin, de
mème que son prèdécesseur, exige qu'on ferme les volets et
qu'on l'affuble « d'un grand bonnet fourré jusques sur les
oreilles ». Les deux notaires ne coraprennent rien à l'intrigue
et Crispin, après avoir dispose des biens de celui qu'il rem-
place en faveur d'Éraste, croit lui aussi convenable de se
donner une rente viagère de quinze cents francs et de disposer
de deux mille écus au profit de la soubrette Lisette, qu'il
St%idj di filologia romanza, IX. 23
358 PIERRE TOLDO
épousera bientót. Éraste proteste de mème que les enfants de
Sanguinaccio, mais tonte protestation demeure inutile.
Ce qu'il y a de bien nouveau dans la pièce de Regnard, c'est
cette espèce de résurrection de Gerente, qui met tout le
monde dans l'embarras, mais ici encore les héritiers se tirent
d'affaire, en employant un vieil expédient de la nouvelle, celui
de faire accroire au bonhorame qu'il a rèvé. La Demoiselle
d'un fabliau ') fait bien accroire à son mari que le cheval et
l'habit qu'il a vus ne sont qu'un rève de son esprit malade
et le chevalier s'en laisse persuader.
Les souhaits Saint Martin et d'autres nouvelles de ce genre
nous font comprendre l'inspiration de la comédie Les souhaits
du mème Regnard ^) et l'on pourrait retrouver comme l'écho
de la legende d'Aristote dans ce vieux philosophe de l'anti-
quité, ce Dèmocrite qui se moque de toutes les faiblesses hu-
maines et que notre écrivain, dans la pièce de ce nom, fait
devenir amoureux d'une jeune fiUe. Le retour imprèvu, outre
le sujet latin, renferme un expédient tire lui aussi de la nou-
velle. Merlin, à bout de ressources, fait accroire à M'"*' Bertrand
que le vieux Gerente est fou et il répète la mème chose à Ge-
rente, à régard de M""^ Bertrand. Gonnella, le célèbre bouffon
italien, aurait joué, d'après la legende, un tour semblable à la
marquise de Ferrare ^), tour répété dans le X* des Joyeux
Devis attribués à Des Périers: « De Fouquet, qui fit accroire
au procureur en Chastellet, son.maistre, que le bon homme
estoit sourd, et au bon homme que le procureur l'estoit ».
Tonte la différence consiste dans la folle remplagant la surdité
et pour laquelle je n'ai qu'à renvoyer à M' de Pourceaugnac
et à ce que j'ai dit là-dessus. Et un autre souvenir de ces
') Le chevalier à la robe vermeille.
^) Cfr. Bédier, ouvr. cité, chap. VII, et p. 427.
*) Cfr. les nouvelles de Bandelle (p. 4, nouv. 27*")
ÈTUDES SUR LE THEATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 359
contes populaires paraìt aussi dans le Bai, comédie du mèrae
auteur, où un amoureux est introduit dans une sorte de
caisse, chez celle qu'il aime. L'amant dans la caisse est un
sujet qui a été exploité bien des fois par les auteurs des co-
médies et des nouvelles *).
Du temps où Regnard composait ses pièces, le théàtre ita-
lien dirige par Évariste Ghepardi donnait nombre de repré-
sentations a soggetto, composées, en benne partie, par des
auteurs frangais, Regnard y compris. lei, de mème que dans
le théàtre du Scala et dans la plupart des comédies de l'art,
rinfluence de la nouvelle est fort considérable. Je me home
à indiquer que la Matrone d'Éphèse est tirée entièrement de
cette nouvelle du Saiyricon de Pétrone (eh. CXI, GXII) qui
fit le tour du monde et qui avait inspirò, comme nous venons
de le voir, La Fontaine lui-méme. Une comédie italienne de
Pier Jacopo Martello, Che bei pazzi, est fondée elle aussi
sur la mème donnée. '
Je rappelle en outre que dans VOpèra de campagne du recueil
Gherardi un mari s'arme de pied en cap, comme le héros du
Sacchetti, pour s'imposer à sa femme, mais celle-ci se moque de
lui. La Fontaine de sapience appartient au cycle des fontaines
raerveilleuses, qui donnent une jeunesse éternelle et rempla-
cent l'arbre de la science, *tandis que dans la bluette Atten-
dez-moy sous Vorme, on a une autre épreuve de la vertu fé-
minine. Les femmes coupables qui entrent dans le creux de
Torme y restent étouffées, ainsi que celles de Naples, intro-
duisant leur tète dans cette bouche de la vérité, due aux
arts magiques de l'enchanteur Virgile, et que M"" Gomparetti
nous a fait déjà connaitre.
Enfin dans Le tombeau de maistre André, on a une adap-
*) Décam., II, 9; Giraldi, Ecatomnithi, III, 10; Mambriano, nouv.
Cfr. RuA, Novelle del Mamhriano, etc, Turin, 1888, et pour le théàtre
la Cofanaria de rran90is d'Ambra etc.
360 PIERRE TOLDO
tation de la table de l'iiuìtre et des deux plaideurs. Arlequin,
nommé juge d'un différend entra Mezzelin et Scaramouche,
differend cause par une bouteille de vin, vide pour son compie
la bouteille en question et se moque des deux zanni.
Dans le théàtre italien à Paris connu sous le nom de nou-
veau thèdtre et compose lui aussi généralement par des écri-
vains frangais, on a eu bien souvent recours à la nouvelle
pour l'intrigue des pièces. Le Catalogne alphabétique de Ric-
coboni cite une Adultere innocente « tirée de la nouvelle de
Boccace intitulée la Gageure des trois florentins (?). W Do-
minique l'a mise en cinq actes et en vers frangois sous le
titre de la Femme fidèle, ou les apparences trompeuses ».
Les amans icjnorans (1720) de d'Autreau ont été tirés, d'après
le mème Riccoboni, du roman célèbre de Daphnis et Cloe;
La hagiie magique (1726), due à la piume de M"^ Fuselier, n'est
que VOraison de Saint Julien de La Fontaine: « Gette pièce
fut faite à l'occasion de celle du Talisman, que représen-
toient les Frangais et qui roule sur le mème sujet ». En 1720
on joua un Panurge à mariey\ s'inspirant évidemment aux
exploits du héros de Rabelais et en 1718 on avait mis en
action, toujours d'après Riccoboni, un conte des Mille et un
jours, sous le titre de La vengeance comique. L'aventure cé-
lèbre de Belphagor, connue en France surtout par la nou-
velle de Machiavel et par l'imitation de La Fontaine, forme
le sujet de Belphagor, comédie par M' Le Grand (ed. 1728)
et on n'a pas de peine à retracer l'inspiration d'Autreau,
dans sa pièce Le besoin d'aimer (1723), lorsqu'on se souvient
que son amoureux timide, ne sachant comment s'y prendre
pour révéler sa passion à celle qu'il aime, lui présente un miroir
et lui dit qu'il soupire pour la dame dont elle verrà là dedans
l'image réfléchie. G'est l'épisode de Ghiarino dans V Arcadia *).
*) Cfr. mon Contributo p. 78, et pour Thimon et le figuier auquel
les femmes se pendent voyez ibid., p. 103.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 361
Dans une autre coraédie de De L'Isle, Thimon le misanihrope,
on rópòte la plaisanterie bien connue entre autres par la ré-
daction du Cortegiano du Castiglione. Le héros de la pièce
offre à ses flatteurs des branches d'un flguier auquel plusieurs
de ces gens se sont déjà pendus. Il croit que ce figuier a vrai-
ment recu du ciel le don merveilleux d'inviter les mauvais
sujets à se pendre.
Le méme écrivain (cfr. Nouveau ih. ztaL, t. VII) donna en
1725 une autre production dramatique, dont le titre, Le
faiicon ou les oijes de Boccace, sufflt pour en indiquer la
source directe, et la nièrae année D'AUainval publiait sa co-
médie, L'embarras des richesses, reproduisant la nouvelle
de La Fontaine, Le saveiier et le financier. lei, au lieu du
financier, nous avons affaire à Plutus en personne, qui des-
cend du ciel ou monte des enfers pour troubler le repos
d'un jardinier pauvre et heureux. Mais le jardinier restitue
son trésor au dieu de la richesse et des soucis: « ainsi — dé-
clare-t-il — je vais retourner à mes jolies chansons ». La
moralité du conte de La Fontaine est là tout entière.
Dans le HI* voi. du recueil cité de Riccoboni on trouve une
Griselda, dont l'auteur paraìt italien et dans le Scelto teatro
inedito italiano, tedesco e francese (voi. 17"), on lit l'histoire
des trois bossus reproduite sous le titre: Il califfo di Bagdad
ossia i tre gobbi di Damasco. L'auteur est indiqué comma
francais; on aurait pu tout bonnement en ajouter le nora.
Une certaine partie des pièces composant le Thédtre de la
Foire ') s'inspirent a la parodie des dieux de l'Olympe et au
merveilleux surnaturel aussi bien qu'aux contes et aux ro-
mans les plus répandus. Arlequin roi de Serendib, pièce en
trois actes, par M. le S**, représentée à la foire de Saint Ger-
main en 1713, reproduit une partie des aventures de Sancbo
') Le thécitre de la foire ou l'opera comique etc. recueil par MM. Le
Sage et D'Orneval, trois voi., Paris, Ganeau, MDCCXXL
362 PIERRE TOLDO
Panga dans son royaume éphémère. Cet Arlequin devenu roi
voudrait faire bornie chère et il ordonne qu'on lui serve ies mets
les plus exquis. Mais, dit l'auteur de la pièce: « Un médecin,
sans avoir égard à ce qui peut plaire ou déplaire à Arlequin,
fait òter les plats à mesure qu'il y porte la main, sous pré-
texte que ce sont des mets nuisibles à sa sante ». Arlequin
se fàche et « outré de colere se saisit d'un plat de crème et
l'applique sur le visage du docteur » *).
Arlequin invisible du mème anonyme, pièce jouée à la foire
de Saint Laurent en 1713, reproduil en parlie Le diable boiteux
de Gleofas et l'invisibilité du héros de cette bluette est en-
tièrement du ressort des légendes populaires et da folh-lore de
toute epoque. On n'a qu'à se souvenir d'Anffélique de TA-
rioste. Dans la Ceinture de Venus, pièce en deux actes, due
toujours à la piume de M. le S**, il y a « la bourse de For-
tunatus » que la Fortune présente à Arlequin, en lui disant :
A peine tu l'auras videe
Qu'iin nouvel or la remplira
et la ceinture de la déesse des amours qui fait
plaire
Aux plus orgueilleuses beautés.
Tèlèmaque forme le sujet d'une autre comédie de M. le
S" (1715), qui dans ses Eaux de Merlin ^) s'inspire à la le-
gende des poèmes chevaleresques des deux fontaines mer-
veilleuses dont « l'une qui s'appelle la Fontaine de la haìne,
a le pouvoir d'éteindre la fiamme de l'amour en qui en boit
et de changer son amour en aversion, l'autre appelée la Fon-
taine de l'amour, allume cette passion dans les coeurs indiffé-
rents et l'augmente dans ceux qui aiment déjà ». L'inspiration
tirée du Furioso de l'Arioste me paraìt Irès probable. G'est dans
M 5 voi., pag. 30.
') IP voi., p. 38.
ÈTUDES SUR LE THÈATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 363
ces Eaux de Merlin que nous avons la reproduction de la
plaisanterie bien connue du moine de Rabelais dans son Pan-
tagruel :
Pierrot. J'ai pris en mariage,
Depuis fort peu de tems,
Une fille gentille,
D'assez bonne famille,
Et qui n'a pas vingt ans.
Arlequin. Cela est bon.
Pierrot. Pas trop bon.
Arlequin. Pourquoi ?
Pierrot. C'est qu'au logis à tous moments
Arrivent des amans.
Mezzetin. Ah ! cela est mauvais.
Pierrot. Pas trop mauvais.
Mezzetin. He, d'où vient?
Pierrot. Je fais bonne chère chez moy
A leurs dépens, ma foy.
Arlequin. Oh! cela est bon.
Pierrot. Pas trop bon.
Arlequin. He, pourquoi cela?
Pierrot. Hom! c'est qu'il vient une personne,
Un homme de condition,
Qui, pour me renvoyer, me donne
Toujours quelque commission.
Mezzetin. Cela est mauvais *).
Belphégor, ce diable que le Machiavel et La Fontaine
avaient mis à la mode, joue un ròle assez important dans
Arlequin traitant par M. D'Or** (1716) et dans le Pharaon
de monsieur F*** (1717) ^), il y a Olivette suivante de la com-
tesse de Sept-Et-Le-Va, qui fait accroire à sa maitresse que
M' Maussadinet est sourd et à M"' Maussadinet que c'est là le
*) n* voi., p. 118. Rabelais, Pantagruel, V* livre, chap. XXVHl.
') IP voi.
364 PIERRE TOLDO
défaul de sa maitresse, ce qui fait que les deux dupes crient
sur la scène à tue-tète.
Les anìmaux raisonnables, pièce d'un acte par Messieurs
F*"et Le G' (1718), reproduit la legende de Circe et d'U-
lysse *), et le Jugement de Paris nous transporte en pleine
raythologie.
Enfln plus tard d'autres écrivains du Théàtre de la foire,
ont recours aux mèmes sources ^). En 1752 Vadé fait jouer
à la foire Saint Laurent le Poirier, comédie ingénieuse où un
vieux tuteur du haut d'un arbre assiste, comrae le villageois
du Poggio ou de La Fontaine qui a perdu son veau, à des
scènes araoureuses bien pénibles pour lui. G'est à La Fontaine
que le raéme Vadé emprunte le sujet de ses Troqiieurs et
Seda ine après Panard met à la scène un autre conte de La
Fontaine: On ne s'avise jmnais de tout. Enfin Jaconnet
s'inspire lui aussi à La Fontaine dans son Baiser rendu ; Fa-
vart tire sa Fèe Urgèle d'une nouvelle de Voltaire, remaniée en-
suite par Nodier dans sa Fèe aux miettes, et V Aonhigu-Comique
d'Audinot attire beaucoup de monde à la foire Saint-Laurent
par un spectacle à machines intitulé Les quatre fils d'Aymon.
Piron, qui, fut un des coUaborateurs les plus constants de ce
théàtre, eut recours à son tour aux mèmes inspirations. Son
Fàcheux veuvage (1725) n'est que la mise en action d'une
des nouvelles les plus fantastiques des Mille et une nuiis, celle
du mari ou de la ferame condamnés à finir leurs jours dans
le tombeau renfermant leur moitié et l'imitation est aussi
dans les détails, la montagne creusée, les trésors retrouvés, etc.
Dans les Chimères (1726), Piron répète la très vieille histo-
riette des Braies au cordelier, mais ici le cordelier est rem-
placé par un autre amoureux changement dù à l'epoque;
») III« voi.
*) Cfr. M. Albert, Les théàtres de la foire, pp. 197, 199, 213, 231,
272 (Paris, 1900).
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANCAIS DU MOYEN AGE 365
dans le Faux prodige il est question du manteau magique,
pour éprouver la vertu des femmes et dans YAne d'or on
reproduit la donnée d'Apulée.
On volt donc qu'en plein XVIII* siècle la nouvelle n'a pas
encore perdu sa valeur inspiratrice.
Pouf revenir à la comédie littéraire, rappelons aussi qu'une
pièce de Dancourt, Le tuteur, met en action l'ancien fabliau
du mari battu et content, tei qu'il a été reproduit par Boccace
dans l'historiette d'Égane {Dèe. VII, 7). Dans la comédie de
Dancourt, on feint de prendre le tuteur Bernard pour un
galant qui en veut à la vertu de sa pupille et on le bat à
piate couture. Le bonhomme est heureux de ce qu'il a regu
une telle preuve de la fidólité de celle qu'il alme, tandis que
le vrai amoureux pénètre dans sa maison et se raoque de sa
jalousie.
G'est à la nouvelle qu'un jésuite anonyme deraande le sujet
de sa comédie Conaxa ou les gendres dupès (1710) '),
pièce qui i3t un certain bruit lorsqu'un académicien, Etienne,
un siècle plus tard, s'avisa de s'y inspirer dans sa production
dramatique Lefi deux gendres (1810). L'histoire de Conaxa se
trouve dans VEsprit des conversattons agréaUes de Guyol
de Pitaval, qui l'avait tirée d'un ancien conte; on la lit aussi
dans Éraste ou fami de la jeunesse et dans la Morale en
action. Il s'agit d'un pére assez sot pour céder entièrement
ses biens à ses fiUes et par conséquent à ses gendres et qui
ayant été tout d'abord traité avec beaucoup d'égards, est ensuite
maltraité, bafoué et chassé, à peu près corame le Roi Lear de
la tragèdie de Shakespeare, ou le malheureux pére de la Terre
de Zola. A bout de ressources, le bonhomme s'adresse à un de
ses amis qui lui conseille de se feindre riche et cette fiction
donne des résultats on ne pourrait plus satisfaisants.
') Cfr. édit. de Paris, 1812.
366 PIERRE TOLDO
Un écho de vieilles légendes paraìt aussi dans les Deux
tonneaux de Voltaire, qui renouvellent le conte cité tout à
l'heure du Furioso, celui des deux fontaines, dontl'une inspire
l'amour et l'autre la haine. Une méprise peut changer par-
tant la passion la plus vive dans une antipathie indomptable.
G'est la condition oìi se trouvent les deux fiancés Glycère et
Daphnis, par la substitution maligne du grand sacrificateur
de Bacchus.
Enfin, en plein romantisme, un des esprits les plus aima-
bles de la France, Alfred de Musset, demanda fort souvent
ses inspirations dramatiques à ces vieilles nouvelles. Mais il
n'y a rien en cela, qui doive nous étonner. Un des préceptes
de l'école romantique était celui de rechercher ses inspira,
tions dans les traditions du moyen àge et de la Renaissance
et Alfred de Musset suivait en cela une voie bien tracée. —
M' D'Ancona nous a fait déjà connaitre comment le drame
Carmosine est tire du Boccace (X, 7) et BarbeìHne du
Bandelle (1 partie, nouv. Sl-^) *). A ces sources indiquées, je
puis en ajouter quelques autres. Le sujet des Caprices de
Marianne n'est que l'histoire de celui qui se fait remplacer,
dans un rendez-vous galant, par un de ses amis. Nous avons
déjà entendu Marguerite de Navarre conter cette aventure,
dans son Heptaméron (nouv. 14^): « Subtilité d'un amou-
reux, qui sous la faveur du vrai ami, cueilla d'une dame mi-
lanoise le fruii de ses labeurs passés » et cette nouvelle, ré-
pétée en France dans les Comptes du monde adventureux
(53«), se retrouvait déjà en Italie, dans le Novellino (GXXXV)
et dans les contes de Bandello (p. I, 16; p. Ili, 22). Rien de
plus commun que le versions postérieures. Plusieurs déguise-
" ») Voyez Alfred de Musset et l'Italie, dans les Varietà storiche e let-
terarie de M. Alessandro d'Ancona, V serie, Milan, 1883. De Musset
tira aussi du Boccace les deux nouvelles de Silvio et Simone.
ÉTUDES SUR LE THÉATRE COMIQUE FRANgAIS DU MOTEN AGE 367
ments constituent le fond de Fantasia de l'aimable roman-
tique. Son Chandelier nous présente un amoureux cache dans
une armoire, de méme que les hóros galants des fabliaux
mis au lardier ou repus derrière Vescrin et dans les May'-
rons du feic, De Musset répète la substitution de ses Ca-
prices. On peut dire que toute l'intrigue de ce drame char-
mant consiste dans le tour joué par Rafael Garuci à la belle
Garaargo de lui envoyer, à sa place, l'abbé Annibal Desiderio.
Mais la vengeance de la femme offensóe modifie singulière-
ment cette première inspiration et jette un sombre voile sur
ce que l'ancienne nouvelle présentait d'enjoué. Il y a dans
ce dénouement un souvenir de Bandello.
La Belcolore, du poèrae dramatique La coupé et les lèvres,
n'est pas sans nous rappeler la Matrone d'Éphèse des nou-
velles milésiennes. Belcolore a beau pleurer celui qu'elle croit
mort. L'argent d'un nouveau venu sufflt pour lui faire oublier
le défunt, qu'elle s'apprète à offenser, sur son tombeau raème,
transformé en couche affreuse de ses nouvelles amours. Enfin
le capitaine Frank, assistant de son vivant à ses funérailles,
reproduit une page célèbre de la vie de Charles Quint ; mais
l'histoire elle aussi, en ce qu'elle présente d etrange ou d'ex-
traordinaire, contribue au patrimoine des traditions populaires.
Bien des légendes sont issues de là, et méme de nos jours, où
l'histoire est à la portée de tout le monde, Napoléon en France,
Garibaldi en Italie, et bien d'autres personnages illustres,
vivent chez le peuple, sous un aspect tout à fait particulier, où
le merveilleux se mèle à la vérité et où le coté épisodique
et douteux l'emporte sur l'exactitude des évènements réels.
Peut-étre la plupart des nouvelles inspiratrices des farces,
qui nous ont occupò jusqu'à présent, ne sont-elles que le re-
sultai de cette altération inconsciente (jue le peuple fait subir
à des faits qui se sont vraiment passés, et cette altération est
devenue de plus en plus profonde, en passant de pays en pays
368 PIERRE TOLDO
et de bouche en bouche. Ainsi les pèlerins revenant de la Pa-
lestine transformaient à leur insù, poussés par leur fantaisie
excitée, les faits réels qui s'étaient passés sous leurs yeux.
Dans tout ce que l'on coraprend sous le nora de créalion ou
d'invention littéraire, l'artiste ne fait après tout que repro-
duire ce qu'il a recu de ses prédécesseurs, s'inspirant en mème
temps à l'observation de ce qui l'entoure et à l'étude des
passions, agitant son àmé. La création populaire nait d'un pro-
cède semblable, mais moins psychologique et profond. Le coeur
humain ne parie si ce n'est à ceux qui sont à mème de le
comprendre, mais les grands évènements de l'histoire, les
guerres, les famines, les pestilences, les victoires et les défaites,
ainsi que les anecdotes comiques de la vie de tous les jours,
laissent une trace parfois très profonde dans les souvenirs des
peuples. Le passe arrive ainsi aux générations nouvelles, avec
tout le charme de l'inconnu, agrandi par la fantaisie des
masses, altérées du merveilleux, faussé par l'ignorance, adapté
d'une manière étrange à l'intelligence de tout le monde et des
nouvelles générations, changeant d'habit et de moeurs, mais
gardant, malgré tout, quelques traits de la vérité primitive.
L'histoire de la Grece et de Rome, la vie des empereurs
latins et des saints du Ghristianisme ont subi de ces altéra-
tions profondes, mais plusieurs de ces légendes, que la critique
avait repoussées, avec le scepticisme dédaigneux des esprits
éclairés, sont revenues au jour, dévoilant leur fond historique.
L'Iliade renferme certainement des inventions poétiques, mais
le trésor de Priam est là pour nous attester que tout n'est
pas issu de l'imagination du poète.
Pourquoi donc, à une epoque quelconque, n'y aurait-il pu
y avoir des femmes rusées, trompant leurs maris, par des tours
semblables sinon identiques à céux que les anciennes nou-
velles nous ont transmis et que la tradition populaire répète
encore dans nos cabanes? Gés tours se renouvellent peut-ètre,
ÈTUDES SUR LE thèatre comique francais du moyen age 369
à quelque diffórence près, dans la société de notre epoque, et
c'est cette véritè humaine, qui a donne à tous ces contes une
vitalité et une plasticité merveilleuses, qui leur a permis de
revivre, sans un air trop vieilli, dans la littérature de tous
les siècles et chez tous les peuples.
Gbangez quelques détails, modifiez les moeurs, et le mari des
fabliaux et des farces, la femme acariàtre et lascive, le prètre
libertin et le sot dont tout le monde se dupe apparaitront à
nos yeux tels que nos ancétres ont su les concevoir. C'est
que l'homme est toujours égal à lui-méme et les raèmes pas-
sions, les mèmes vices et les raèmes sujets du rire ont remué,
ému, réjoui les siècles passés, ainsi qu'ils exciteront la douleur
ou la joie de l'huraanité à venir. Et la gaieté comique est
encore ce qu'il y a de mieux ici-bas, car au moins d'après
Rabelais:
" Mieux et de ris que de larmes escrire,
Pour ce que le rire est le propre de l'homme.
En cela la nouvelle et la comédie ont été toujours d'accord,
ce qui sert aussi à expliquer leurs étroits rapports et la
source si souvent commune de leurs inspirations.
P. TOLDO.
ERRATA-CORRIGE.
Pag. 43, riga 21 me nage corr. me
» 66, » 19 davanciers » devanciers
» 89, » 15 commes » conime
» 125, ^ 1 allons voir sous peu » venons de voir
» 132, » 8 ainsi que La Fontaine dit > ainsi que plus tard dira
1 NOMI DEGLI UCCELLI
NEI DIALETTI LOMBARDI
Introduzione. — I nomi dialettali degli uccelli si vennero
formando secondo parecchi criteri Pag. 374
PARTE PRIMA
Nomi 0 g g e 1 1 i v i.
Gap. I. — Specie a nomi indicanti il colore o la disposizione
delle i^enne 377-387
a) Di tutto il corpo , 377
Accentor modularis — Alcedo ispida — Cannabina
linota — Cypselus apus — Emberiza citrinella —
Fringilla chloris — Lagopus rautus — Lanius auri-
culatus — Lanius minor — Motacilla alba — Mo-
tacilla flava — Muscicapa atricapilla — Muscicapa
grisola — Philloscopus Bonellii — Philloscopus si-
bilator — Ficus viridis — P3'rrula europaea — Pra-
tincola rubicola — Ruticilla tit3"S — Serinus hor-
tulanus.
b) Di parte del corpo , 382
Aegiotus linarius — Carduelìs elegans — Cyanecula
Wolfi — Cyanistes cocruleus — Emberiza cirlus —
Ei-ithacus rubecula — Galerita cristata — Hirundo
rustica — Hirundo urbica — Merula torquata —
Monacus atricapillus — Monticola saxatilis — Parus
ater — Parus caudatus — Parus maior — Pica
rustica — Picus maior — Regulus ignicapillus —
Ruticilla phoenicurus — Saxicola oenanthe — Turdus
iliacus — Upupa epops — Vanellns capella.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 371
Gap. II. — Specie a nomi indicanti la forma del becco . . Pag. 388
Caprimulgus europaeus — Coccothraustes vulgaris
— Loxia curvirostra — Scolopax rusticola.
Gap. III. — Specie a nomi indicanti il cibo „ 389
Alcedo ispida — Budj'tes flavus — Gaprimulgus
europaeus — Carduelis elegans — Goccothraustes
vulgaris — Golumba palumbus — Grysoinitris spinus
— luns torquilla — Ligurinus chloris — Miliaria
projer — Monacus hortensis — Muscicapa grisola
— Passer Italiae — Passer montanus — Philloscopus
rufus — Pratincola rubicela — Sylvia cinerea —
Tichodroma muraria — Turdus musicus — Turdus
pilaris.
Gap. IV. — Specie a nomi riflettenti il canto „ 395
Abanda arborea — Anthus pratensis — Gannabina
linota — Gorvus frugileus — Coturnix communis —
Guculus canorus — Emberiza eia — Emberiza hor-
tulana — Erithacus rubecula — Fringilla coelebs
— Fringilla montifringilla — Gallinago coelestis —
Garrulus glandarius — Hipolais poliglotta — Hirundo
rustica — Miliaria proyer — Motacilla alba — Mo-
tacilla boarula — Parus coeruleus — Parus maior
— Parus minor — Passer montanus — Philloscopus
rufus — Pratincola rubicela — Pyrrula europaea —
Regulus ignicapillus — Scops giù — Sylvia cinerea
— Troglodytes parvuhis — Turdus musicus —
Turdus pilaris — Turdus viscivorus — Upupa epops
— Vanellus capella.
Gap. V. — Specie a nomi indicanti qualche particolare moto
0 abitudine , 402
Alcedo ispida — Anthus pratensis — Gaprimulgus
europaeus — Gerthia familiaris — lunx torquilla —
Monticela cyanus — Motacilla alba — Motacilla
boarula — Muscicapa atricapilla — Passer montanus
— Picus maior — Podiceps fluviatilis — Pratincola
rubetra — Pratincola rubicela — Strepsilas interpres
— Troglodytes parvulus.
Gap. vi. — Specie a nomi formati su quelli de' luoghi di pre-
ferenza abitati dagli uccelli ^ 408
Accentor medularis — Acrocephalus arundinaceus
— Alauda arvensis — Anthus aquaticus — Anthus
pratensis — Ginclus aquaticus — Golumba livia —
Emberiza eia — Emberiza citrinella — Emberiza
372 G. BONELI.I
hortulana — Fringillu montifringilla — Miliaria
proyer — Monticela cyanus — Monticela saxatilis
— Ruticilla titys — Saxicola oenanthe — Sylvia
cinerea — Ticliodroma muraria — Turdus iliaeus —
Turdus menila — Turdus musicus — Turdus pilaris.
Nomi so^gettui.
Gap. vii. — Specie a itomi accrescitivi e diminutivi . . . Paq. 415
Acrocephalus arundinaceus — Alauda arborea —
Alauda arvensis — Alauda calandra — Alauda me-
lanocorypha — Anthus arboreus — Anthus arvensis
— Anthus pratensis — Asio otus — Athene noctua
— Cypselus apus — Emberiza eia — Emberiza cirlus
— Gallinago coelestis — Garrulus glaudarius —
Hipolais poliglotta — Hirundo rustica — Hirundo
urbica — Lanius minor — Lanius rufus — Monacus
hortensis — Monticela saxatilis — Motacilla alba
— Motacilla flava — Parus caudatus — Parus maior
— Parus minor — Passer Italiae — Passer mon-
tanus — Ruticilla phoenicurus — Scolopax rusticola
— Sylvia cinerea — Turdus iliaeus — Turdus mu-
sicus — Turdus pilaris — Turdus viscivorus.
Gap. Vili. — Specie a nomi a base latina 419-429
Alanda arvensis — Alauda calandra — Anas boscas
— Aquila chrysaetus — Giconia alba — Gygnus olor
— Goccothraustes vulgaris — Golumba palumbus —
Corvus ater — Crysomitris spinus — Falco — Frin-
gilla coelebs — Fulica atra — Clrus communis —
Hirundo rustica — Hirundo urbica — Lanius col-
lurio — Lanius maior — Lanius minor — Lusciola
luscinia — Oriolus galbula — Phasianus colchicus
— Passer Italiae — Passer montanus — Ficus maior
— Monacus hortensis — Regulus ignicapillus —
Serinus hortulanus — Starna perdix — Sturnus vul-
garis — Syrmium aluco — Turdus merula — Turdus
musicus — Turtur tenera — Upupa epops - Va-
nellus cristatus.
a) A base francese „ 427
Athene noctua — Pyrrula europaea — Turdus pi-
laris — Turdus viscivorus.
h) A base tedesca „ 428
Cannabina linota — Garrulus glandarius — Loxia
curvirostra.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DL\LETT1 LOMBARDI 373
Gap. IX. — Specie a nomi ironici o scherzo^ Pag. 429
Accentor modularis — Cypselus apus — Erithacus
rubeeula — Muscicapa atricapilla — Oriolus galbula
— Ruticilla titys — Strix flammea — Troglodytes
europaeus.
PARTE SECONDA
Capitolo unico. — Considerazioni intorno al genere dei nomi
ornitologici 434-451
In alcuni nomi bergamaschi e bresciani sembra che
la denominazione femminile sia propria degli uc-
celli dei quali non si rileva il sesso, almeno con
facilità; la maschile degli altri.
Elenco di questi uccelli :
e dei primi „ 437
e dei secondi , 444
Alcune eccezioni „ 448
APPENDICE
Nota I. — Neppure nel Folignate la caccia ha la grande
importanza che ha in Lombardia .... „ 452
, II. — Gli stessi nomi ornitologici paion dimostrare
poco diffusa e poco sicura la conoscenza del-
l'avifauna nella Sicilia e nella Sardegna . „ 453
, III. — Il passero è assai timido e sospettoso in Italia;
altrove molto meno perchè efficacemente tu-
telato , ,
, IV. — I nomignoli di merlo e di cuco „ 454
, V. — Le otto voci del fringuello. — Interpretazioni
del suo canto d'amore „ 458
, VI. — L'epiteto di compare dato al rigogolo è proba-
bilmente nomignolo di famigliarità ... „ 460
„ VII. — I Francesi, aiutati dalla lingua molto armo-
niosa, hanno con assai grazia e fantasia ri-
tratto gorgheggi e abitudini di parecchi uc-
celli. Due esempi: l'allodola e l'usignuolo . , 461
, Vili. — Il tordo e il chioccholìo - 463
Studj di filologia rotnama, IX. 24
374 G. BONELLI
Introduzione.
Per poco che si prendano a considerare i nomi coi quali
il popolo ha, per cosi dire, battezzato gli uccelli, si scorge
tosto come nella formazione di essi intervengano parecchi
criteri, tra i quali principalissimi quelli del colore delle
penne, del canto, del cibo preferito; che se poi l'uccello
presenta qualche strana caratteristica, questa il popolo ha
colto e fermata nella denominazione.
Tale fatto non è certo anormale, poiché, se perfino la
lingua colta serba evidenti e numerose traccie del processo
oggettivo, è ben naturale ch'esse pure si riscontrino nella
volgare. — Non è però a credere, per quanto riguarda il
caso nostro, che i criteri cui sopra s'è accennato siano
qualche cosa di rigidamente fisso e che in modo neces-
sario e quasi fatale s'impongano alla mente del popolo;
no; pur in questo fatto della formazione dei nomi ornito-
logici il popolo s'è sentito libero, e, senza obbedire, se
posso COSI esprimermi, a nessun schema mentale, ha giu-
dicato puramente secondo l'impressione che riceveva, e
laddove, ad esempio, di un uccello era piti che altro colpito
dal colore delle penne a questo informava il nome; lad-
dove invece ciò che maggiormente faceva impressione su di
lui era una qualche particolarità, vuoi della nutrizione, vuoi
dei moti dell'uccello, questa rilevava o direttamente o per
mezzo di un paragone.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 375
Ma pui' di un medesimo oggetto l' impressione varia a
seconda dell'indole fisiologica e psicologica di chi lo avverte
0 considera; di qui avviene che mentre da una popolazione
o parte di popolazione, un dato uccello — per venir tosto
e mantenerci sempre nei limiti di codeste nostre osserva-
zioni — è denominato con una voce che, mettiamo il caso,
rileva il cibo dall'uccello preferito, un'altra invece lo de-
signa con un nome che del volatile ritrae non piìi il cibo
ma un moto particolare.
Adunque i criteri non sono fissi e, per così dire, presta-
biliti, poiché non solo variano secondo l'oggetto (l'uccello)
e secondo il soggetto (la popolazione)^ ma anche tra loro
s'incrociano, come allora che un medesimo uccello ha pa-
recchi nomi dei quali alcuni ritraggono date caratteristiche,
altri, altre ^).
Questa l'avvertenza che c'è parso di poter fare, avver-
tenza che a noi sembra accettevole e perché naturale e
perché confortata, anzi in noi prodotta da un esame piut-
tosto minuto che abbiamo fatto dei nomi in questione.
Diamo ora i risultati di cotali nostre ricerche, e cioè,
avuto speciale riguardo alle denominazioni lombarde, a noi
per uso e affinità di dialetti più famigliari e meglio note,
verremo discriminando le diverse specie ornitologiche ^)
secondo i criteri che intervennero nella formazione dei loro
rispettivi nomi dialettali, e si vedrà così, poi che parecchie
') Tale fatto del variare del criterio direttivo riscontrasi special-
mente considerando di un dato uccello i nomi coi quali le divei-se
popolazioni lo sogliono indicare; ma talora anche, e non è raro il
caso, in quelli stessi di una medesima popolazione.
") Tralasciando però in generale, come meno importanti per il com-
pito nostro, quelle acquatiche.
376 G. BONELLI
si dovranno numerare più d'una volta, ciò che pure s'è già
accennato, vo' dire l'incrociarsi e il variare dei criteri
fra loro ^).
^) Dei nomi dialettali ornitologici che nelle presenti pagine sono
citati, solo quelli bresciani, alcuni bergamaschi e i pochi milanesi
riferisco per diretta cognizione e sapienza. Devo invece alla squisita
cortesia di benevoli persone i cremonesi, i vicentini, i genovesi ; al
— Saggio di un vocabolario bergamasco ornitologico — del reverendo
prof. Caffi (vedasi l'appendice del giornale L'eco di Bergamo, nu-
meri della 2^* quindicina del mese di dicembre, a. 1898) buona parte
dei bergamaschi; ai dizionari dei dialetti mantovano e pavese (Arui-
vABENE, Gambini) ì nomi di tali dialetti, e ai vocabolari zoologici del
Gusumpaur e del Costa quelli napoletani, pugliesi e calabresi; gli
altri quasi tutti all'opera, in proposito ornai di capitale importanza,
del prof. GiGLioLi, Avifauna italica e primo resoconto dell'inchiesta or-
nitologica in Italia, alla quale, per quanto con prudenza, attinsi a
larga mano.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 377
PARTE PRIMA
Nomi oggettivi.
Capitolo I.
Nomi indicanti il colore o la disposizione delle penne
a) sia di tutto il corpo; b) che di parte del corpo.
a)
Accentor modularis. " Ha le penne della testa e della
schiena color castagno, e il petto azzurrognolo „ (Savi,
Ornitologia italiana, ediz. pisana, 1827, 1 voi., pag. 299).
Brescia muritlna, Vicenza moréta, Ven. hrunéta, Bel-
luno neyróla, Viem.. carbuné, Cuneo grizarol, Nizza bruna,
Cogoleto rùhenénto, Trent. mora tota ^). — Si rilevò di
') Come si vede, cercando di attenerci, nei casi nei quali la pro-
nuncia può essere dubbia, agli additamenti Ascoliani (cfr. Archivio
glottologico voi. 1°, pag. XLIII e segg.), segniamo su di ogni nome
l'accento, e indichiamo col segno ( che la vocale cui esso si riferisce è
una vocale aperta; col punto, invece, che la vocale è stretta. 11 segno '
indica che la gutturale alla quale è sovrapposto è palatizzata, come la
e di celare eia, g di gelare; mentre il segno » indica che lo stesso fo-
nema conserva il suono gutturale. Il segno ~ sulle liquide -l, -n,
indica che vanno pronunciata come gì, gn in egli e ogni ; la s corri-
sponde al scia. Le due forme di sibilanti, sorda e sonora, furono rese,
rispettivamente, per 5 e i^.
(Non essendo l'intento di queste nostre pagine esclusivamente lin-
378 G. BONELLI
questo uccello anche il colore degli occhi onde il nome
novarese insolitamente lungo : uzél d'iéux culùr ciél.
(Cfr. i nomi francesi: brunette, buriche, morette. Eugène
Rollano, Faune populaire de la France, II, pag. 252,
Paris 1879).
Alcedo ispida. " Il pileo e le ali sono punteggiate di verde
mare, il dorso e la corta coda di color azzurro „ (Les-
SONA, Salv ADORI, StoHa illustrata del regno animale).
Cuneo serenai^), Lucca u'c'cel bel verde, Palermo acéddu
celèsti.
Cannabina linota. " Dorso lionato-fosco o castagno, mac-
chiato di scuro „ (Savi, II, pag. 126).
Nov. briuiél.
Cypselus apus.
Br. rundti néger, Rmg. rondón néger, Rover, zézla
néra, Girg. rinninùni niùru. E infatti egli ha nero il
becco, scura l'iride, nero-scuro il corpo, nero-verdone
il dorso (Savi, op. cit., I, pag. 321).
Emberiza citrinella. " Vertice e addome giallo zolfino vi-
vace; sottocoda giallo „ (Savi, II, pag. 112).
Cuneo giauné e ambra (dal colore dell'ambra?),
Pad. ortolàn zàlo, Sav. sta yiàna, Como yialdón, Lucca
zirla gialla, Grosseto gialletto, Ancona verzàina, Mes-
guistico, per non moltiplicare le difficoltà di lettura alle persone meno
colte, non abbiamo creduto necessario di seguire rigidamente le norme
dell'Ascoli. Così, ad esempio, abbiamo reso col semplice e la guttu-
rale sorda, per la quale avi-ebbe, a rigore, dovuto valere il ^•; e ab-
biamo trascurato — sempre per non riuscire troppo irti di segni dia-
critici — le minori sfumature dei suoni vocalici).
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 379
sina ziiilii yialinu, Caltaniss. ziulu ffiàrnu, Belluno-
Cadore verda.
Fringilla chloris. Colore suo dominante il verde (Savi, II,
pag. 134).
Berg. verdù, Mant. verdér, Piacent. vardón, Genova
Verdun, Reggio verdtini, Sicil, viridduni, Sardo vardarólu,
birdarólu.
Lagopus mutus. Cuneo pernis bianca.
Lanius auriciilatus. Piem. sinùga róssa, dérna ^'ussa^ Bresc.
gah^t marti, Boi. buffarla róssa, Siena vèlia róssa, Vi-
cenza regestola róssa, Rovigo re'zéstola da la tèsta róssa,
Gen. caiùrno fèsta russa, Pisa averla capir ossa, An-
cona gastrigótlo tèsta-róssa, Mess. tèsta rùssa.^
Lanius minor. Dal colore bianco del suo corpo ; gola, sot-
tocoda, petto e fianchi (Savi, I, pag. 96).
Brescia gahet molener, Mant. gdka molinèra, Pav. sga-
zirola mornèra, Fir. vèlia cenerina, Anc. gastrigotto ce-
nerino, Nap. quèrola cennerina, Mess. tistàzza grisia.
Motacilla alba. Due soli colori , bianco e nero , che ap-
paiono anche sulla testa, la cui parte superiore è nera,
le due laterali bianche; la coda nera (Savi^ II, pag, 28)
(onde, con nome scherzoso, è chiamata a Napoli mo-
nacélla. Cfr. Savoia religieuse).
Piem. ballarina grisa, Rmg. huarèna bianca, Ven. boa-
róla bianca, Feltre koakàssola negra, Friuli pastorèle
bldnke, Valsug. spazzacóa bianca, Gen. biancóla, Casen-
tino batticóda néra, Sicil. pispisa vrànca.
Motacilla -flava e motacilla boarula ^). Piem. ballarina vérda,
') Domandiamo tante scuse se qui riuniamo due specie, per quanto
380 G. BONELLI
Tort.-Novi huarinna giana, gian^tta, Boi, huaréina zàla,
Ver. hoarina gioia, Friuli pastoréle zàle, Nizz. peràga
giàuna, Valt. cuatrémida giàlda, Roma codétta gialla,
Mess. giallinédda, etc.
Muscicapa atricapilla (Savi, II, pag. 4). Berg. alet nl^er,
Pad. batiale mòro.
Muscicapa grisola (Savi, II, pag. 2). Brescia grik^t, Pa-
dova gri'zeto.
Philloscopus Bonella. Fascia sopraccigliare biancastra ; tutte le
parti inferiori bianco-sericeo-candide (Savi, I, pag. 294).
Piem. cincm hiànk, Bresc. tui hiànk, Vie. ciuin bianco,
Sav. boin giànco, Fir. lui bianco, Mess. virdéddu iàncu.
Philloscopus sibilator. Fascia sopraccigliare, penne cigliari,
gote, gola e lati del petto color giallo canarino ten-
dente al verdognolo (Savi, Sylvia silvicola, I, pag. 290).
Brescia e Berg. lui verd. Ver. verdehin, Belluno zalet,
Lucca kiuino verde, Pisa, Fir. lui verde, Mess. virdéddu,
Calt. virduliddu.
Ficus viridis (Savi, I, pag. 140). Bresc. becasgk vert, Man-
tova pigos véri. Vie. piggzzo verde, Boi. ppk véird.
affini, diverse, poi che davanti ai pentimenti del grande naturalista
Paolo Savi (il quale nella Ornitologia Italiana chiama &Mrf^<es ci-
nereocapillus la specie che nella Ornitologia Toscana avea detta
motacilla flava, denominazione dal Brisson usata per la motacilla hoa-
rtila), e alle sconcordanze dell'opera pur pregevolissima 1' ' Avifauna
italica'' dell'illustre professor Giglioli (al quale dovettero pervenire
relazioni riguardo i nomi bresciani certo inesatte, giacché, come nomi
a Brescia corrispondenti alla motacilla alba, invece dell'unico vero e
usato boarota, pone quello di spassacli e quello di boarina, che spet-
tano ad altre specie), il nostro povero corredo di cognizioni d'orni-
tologia scientifica fa naufragio; e noi, non vedendo con precisione
quale sia la specie che s'ha a dire m. flava o hudytes cinereocajnllus,
dobbiamo riunire i nomi d'essa con quelli della hoarula.
I NOMI DEGLI UCCELU NEI DIALETTI LOMBARDI 381
Pyrrula europaea. Becco nero, pileo, gola e gote di color
nero violetto. Cervice, schiena, scapolari, e piccole e
medie cuopritrici delle ali color cenerino piombato ;
groppone, regione anale e sottocoda candide; soprac-
coda e coda di color nero violetto ^) (Sa\^, II, pag. 142).
Mant. monagin, Vere, canónik, Yen. menegln, Brà|?ajp-
pagdl d'muntàna, Nap. monakino, Mess. pdssaru ame-
rica mi.
Pratincola rubicola. " Becco nero; testa e gola di color nero
puro, 0 solo con qualche piccolissima macchia gial-
liccia; penne della schiena e scapolari nere nel mezzo;
coda nera, piedi neri „.
Udine grisiHt, Pavia moret, Ver. negrisól, Ven. batiale
moro, Empoli prete, Sen. fornaiolo.
Ruticilla titijs. Dalla tinta nerastra delle sue penne (Savi,
I, pag. 234)
Brescia caross/ rie^er, Berg. moràt carbiìner, Como co-
rossolet neger, Valt. ciiróss fere, Varzi citarùssa niura,
Mod. covróss neger, Boi. murett, Ver. sqiieróssolo spaz-
zacamin, Ven, coarósso mòro, Gen. cuarussa mga (mora),
Roma codirósso di pància nera, Lecce falaetta fumata,
Mess. ci'ida russa cu piettu niùru, etc.
Serinus hortulanus. " Penne della schiena e scapolari verdi
olivastre con larga macchia nera sullo stelo; groppone
*) Videro i francesi qualcosa di tozzo nelle forme di questo uccello,
onde i nomi hoeiif, bouvard, bouvVeuil, e tanti altri, ai quali, tranne
il novarese buvreul, non crediamo si possa riscontrare nessun nome
italiano, neppure quello fiorentino, come invece parrebbe al Kolland
(op. cit., II, 166). poiché ci sembra che anche la parola ciuffolotto deva
far capo al verbo zufolare.
382 G. BONELLI
giallo-canarino , macchiato di verdastro ; penne del
sopraccoda olivastre verdi „ (Savi, II, pag. 132).
Boi. gialUno, Ossola verzeUhi, Bresc. verdari, Ber-
gamo sverzerl (?), Cremon. verdulen , Piacent. e Par-
mig. vidarén, Valt. e Como sverzerin, Sardo verdolin.
à)
Aegiotus linarius. Per la stella rosso-sangue sul pileo la
quale sembra fare alla testa corona (Savi, fringilla
linaria, II, pag. 126).
Berg. cardinali, Brescia fami de la regina, Istria
re de fag aneli.
Carduelis elegans. " Maschera rosso-cremisi „ (Savi, op.
cit., II, pag. 117).
Fiesole capo-rósso.
Cyanecida TFolfi. " Gola e gozzo d'un bel colore azzurro
lucente, con una macchia grande nel mezzo d'un bianco
purissimo „ (Savi, I, pag. 236).
Novara gorz-hló, Cuneo stòmi bla, Berg. mordi d^ la
stela, Mil. pett'azur, Belluno codaróss dal péto turJcin,
Udine e Cividale petaróss turkin, Tir., Arezzo, Siena, etc.
pett'azzùrro, Anc. petto turkino, Mess. péttu hru, Calta-
nisetta péttu blu.
Cyanistes caerideus (Savi, II, pag. 15). Br. molinerl, Ber-
gamo monegina, Mant. molinarin, Rover, molinarella,
Pieni, tèsta blo, Fies. cincia turkhia, Rovigo celestin,
fratì'n, Bell. frarQtol (fraticello?). Bari, càpo-torkino,
Nap. par r élla blu.
Emberiza cirlus. " Pileo e cervice colore olivastro, con strie
I .NOMI DEGLI UCCELLI NEI DLA LETTI LOMBARDI 333
longitudinali nere. Una fascia larga, nera, parte dal-
l'angolo del becco, passa attraverso l'occliio, e ricuopre
l'orecchio. La gola è di color nero, etc. .„ (Savi, II,
pag. 81).
Cuneo barhiza, Padova piónsa mòra, Lucca zirla n§ra,
Fir. zigolo néro, Siena nizzola nera, Sard. orgiàli de is
)mistdssus{?).
Erithacus rubeciila. " Pettirosso „ (Savi, I, pag. 243).
Cuneo piciti-rùs, Berg. pecia-róss, e pìcidl, piciali
(molto probabilmente da "Special, voce che, al pari delle
rimanenti, rileva dell'uccello la parte che più delle altre
spicca — cfr. i nomi della Saxicola oenante, il cui bianco,
Ven. culéto, Ud. culétt — , come la voce bresciana petarz
che m'ò avvenuto di sorprendere sulla bocca di vecchio
uccellatore), Bass. betùsso, Veron. pitàro, Genov. peceto,
Bell, bet, betiiz, betarel, Crem. pett-rùss, Mant. e Pavia
pet-róss, Rover, pitter, Valsug, pettùzzo, Vie. petar^lo,
Boi. 2)^iér, Nap. pietto-rùsso, Mess. pittirri, Sard. bar-
barriìbia, etc. Cfr. in frane, roche gasse, gave rouge,
roudge gueule, rouge bourse, pit rotje, etc.
Galerita cristata. " Le penne del pileo sono molto più lunghe
delle altre e formano un ciuffo erigibile „ (Savi, II,
pag. 53).
Ven. capelim, capeluga.
Hirundo rustica. Dalla coda forcuta per le due lunghe
penne timoniere (Savi, I, pag. 162).
Ancona róndine dalla forketta, Rmg. róndine dalla
furzéla, Roma forcinélla, Nap. rennennella taliafiigrfece.
Hirundo urbica. " Parti inferiori e groppone di color bianco „
(Savi, I, pag. 164).
384 G. BONELl.l
Piem. ci'd-biànk, Pav. cil-biank, Gen. cu-gkìnco de téito.
Merlila torquata, Bresc. ìnerlo del colar, Vie. merlo dal co-
làro, Bell, colà ina, Feltre tórdo dalla colàna, Cadore
tórdo da la colàina, Udine niiérli de golàine, Rovigo
mèrlo dal petto bianco, Gen. mèrlo gidhco, Lucca mèrlo
col petto bianco, Arezzo mèrlo col vézzo, Nap. mièrolo
a piastre, Mess. mérru péttu icHìcu, o a collana, No-
vara mèrla du collarit, meri del stómik biank.
Monacus atricapillus. Bresc. capo-neyer, Berg. capu-ni'ger ,
Crem. Mani. Pav. cap-nèger. Vie. cào-négro, Gen. capo-
nègro,yL2iWÌ.cap-nègere\2iìemm.. cap-negar, Piera, capnér,
Com. co-neger, Boi. cap-nèiger, Rm. kep-nè^er, Pisa capi-
néra, Nap. capa-néra, capo-foskola, capo-fóska, focétola
capa-néra, Caltaniss. capu-fusku. — Solo però i maschi
hanno il pileo nero; le femmine lo hanno di color
rosso-tabacco, onde le denominazioni, apposite per le
femmine, pisana cappi-bigia, veneta cao-rósso, messin.
tèsta russa e quella di Terra d'Otranto di tabaccósa,
le quali, o noi c'inganniamo, sono in modo speciale
significative, poiché ci mostrano come il popolo nel
formare i nomi degli uccelli — forse si potrebbe dire
degli animali in genere — , piìi che altro si sia preoc-
cupato degli individui maschi, probabilmente come
quelli che meglio lo interessavano, vuoi per la spic-
cata colorazione delle penne, vuoi per il canto ; e perché
ci indicano che il popolo già quando le foggiava, sa-
peva che esse convenivano alle femmine, non ai maschi.
(Altrettanto si può dire dei due nomi merlo négro, per
l'individuo maschio, e ìti^rla per quello femmina, essi
pure appieno conformi alla tendenza del popolo di non
I NOMI DEGLI UCCELLI iNKl DIALETTI LOMBARDI 385
mai denominare con sole voci femminili uccelli dei
quali si conosca facilmente il sesso).
Moìiticola saxatilis. " Petto, fianchi, addome, cuopritrici infe-
riori delle ali e sottocoda di color fulvo acceso „ (Savi,
Sylvia, I, pag. 218).
Bresc. caróssol, Berg. caróss, cuaróss, Mant. coro-
solón, Vie. curussolo, Gen. cuarùsso, Nap. codarnsso
gruósso, codarùsso bastardo, Sard. cidurùhiìi, Lucca cul-
rossolóne.
Parus ater. Piem. tèsta mura pcita, Valt. monegin, Boi. fra-
tezzéin, Arezzo cincia nera, Fir. cincia mòra, Sav. mu-
negétta.
Parus caudatus (Savi, II, pag. 20), Bresc. speransi de la
cua Unga, Mant. molinarin d'ia cua Unga, Sondrio cua
lunga, Cogoleto parissuin cua lunga.
Parus maior. Becco nero, iride nera; pileo, collo, parte
media del petto e dell'addome d'un bel colore nero
lucido leggiermente cangiante in violetto (Savi, II,
pag. 14).
Chiari mùritina, Piem. té2ta mura, testa néira, Nizza
lardiéra inunegétta, Gen. tèsta negra, Siena perlónza
capi-néra, Caltan. munakèdda.
Pica rustica. Testa, collo, petto, schiena, sopraccoda e
collo del piede di color nero; coda lunghissima (Savi,
I, pag. 258).
Br. Crem. gaza de la cua lóo'iga, Ven. gaza negra,
Trent. gazza mòra, Pav. berta d'ia eoa Unga, Mod. gazza
cUdóna, Piac. sgdzza dalla eòa, Boi. gazza nèigra,
Rm. argàza dalla còda lunga.
Picus maior. Addome tinto in rosso fiamma (Savi, I, pag. 142).
386 G. BONELLl
Piem. pik dal cui ross, Tort. ^;ìA- ross, Ossola pik cui
russ, Berg. picgt ross, Vie. pigózzo rósso, Cadore beca-lfn
ross, Viterbo kulo-rósso, Montefiascone p>lkkjo focàro,
Nap. caca-fuQCo, fugco'n culo, Sinig. pikkjo cardinale.
Begulus ignicapillus. Per la stellina rosso-gialla che ha
sul pileo (Savi, II, pag, 11).
Brescia stili, Berg. steli, Cremori, stelen, Nap. riginiello
(cfr. il fr. prince), cardinale, Piem. stéile d'or, stellétta,
Vere, stéila ffiduna, Vie. stelin, Gen. reginéta, Tortona
Novi testin d'gr, Como fiorancin, Aless. testhi d'oiì,
Feltro cao d'qro. Spezia testin d'gg.
Buticilla phoenicurus. Parte superiore dell'addome, fianchi
e sopraccoda di color fulvo acceso ; coda rossa (Savi, I,
pag. 232).
Bresc. cua-róssa, ca-rossi ^) (Berg. per la testa nera
nel maschio, morat), Cremon. cua-russa, Mant. cua-róga
e cill ross, Como co-róssola, Rav. cill ranz, Valt. cil-ross,
Bell, squa-rùsola, Pontebba scoda-róss, Pav. codi-róss,
Vicent. coa-róssa, Gen. cua-rùssa, Veron. scue-róssolo,
Piac. ca-rùssla, Lucca currósso, Nap. coda-russiello,
Umb. codi-ràncio, Sard. coa-rùbia, eòa de fógu, etc.
Saxicola oenanthe. " Parte media dell'addome biancastra;
sopraccoda bianco „ (Savi, I, pag. 221).
Fiem. cù-biànk de tfra, Bresc. Berg. Mant. cill-biank,
Fsiv. cii-biànk d'ia segla (segale). Vie, cul-biaùco, Ve-
nezia cid^to, bianketón, Gen. cu-giànco de prao, Roma
') Dove il ca sta certamente per cita, e l' intero nome carassi
non è che un diminutivo fatto in confronto dell'accrescitivo caróssol
{*cuaróssol = codarossolone\ nome della monticola saxatilis.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 387
codo-bidnco, Nap. coda-bidnco, coda-iànco, Reggio culi-
biànco, Sicil. cuda-vrànca, etc. Cfr. il n. fr. quiil blan.
Turdus iliacus. Ha i fianchi colorati d'un bel rosso sangue,
nei maschi più specialmente vivace.
Pieni, griva russa, riiss^Ma, Mod. tgrd d'I' ala róssa,
Anc. tordella yaggiàra dall'ali rósse, Roma tórdo roHglo,
tordo rg ssolo, Pai. tùrdu ri'issu, Girg. malvizzu pettu
rùssu. Cfr. i nomi fr. rossétte, rouge aile, ala rotj.
Upupa epops. Ha le penne del pileo lunghe, disposte in
due serie, e formanti un bel ciuffo, che a volontà s'alza
e s'abbassa (Savi, I, pag. 335).
Tort.-Novi galet d' mars, Val Taro gali marzol, Ve-
rona galeto de muntdna, Yen. galeto de bósko, gàio del
paradiso, Sav, gallétto de marzo, Friuli gialétt (o uciell)
de biéle créste, Fir. gallétto di maggio, Elba gallétto mar-
zolino, Campobasso; gallo di sélva. Cfr. i nomi fr. coq
de bois, coq sauvage, capulado, etc.
Vanellus capella. Nella parte posteriore dell' occipite gli
nasce un ciuffo di sedici o diciotto penne, bianche e
verdi, ripiegate in alto, tre assai lunghe, che fanno
alla testa assai grazioso ornamento.
Piem. paondssa, Como yavunzm, Cremon. pavunzina,
Piac. Istr, pavonzélla, Mod. pavunzena, Ver. paonzma,
Bell., Trent. paoncm, Roma, Nap. paonc^lla, Anc. gal-
lùzza, Cat. paunéddu. Cfr. il n. fr. paon celeste ^).
*) Già il Belon, Histoire de la nature des oiseaux (1555), pag. 209,
ebbe ad avvertire che dev'esser questo l'uccello stato chiamato da
Aristotele a!£ (cfr. il latino capella probabilmente perchè i suoi gridi
possono assimigliarsi a belati; cfr. il n. fr. dix-huit e l'italiano-bre-
scìano-sgucUna), ma che volgarmente i Greci dissero pavone selvaggio,
388 G. BONELLI
Capitolo II.
Nomi indicanti la forma del becco.
Caprimulgtis europaeus. Ha il becco piccolo, compresso,
debole, ma ad apertura larghissima, giungendo quasi
al di là dell'occhio (Savi, I, pag, 301).
Crem. bucdssa, Varzi buccdssa, Mod. ingoia-vpit, buàzza,
Ven. bocds, Ver. bocdza, Friuli bogàss, Fir. boccalóne,
Rmg. boccàccio, Marche bocca-larga.
Coccothraustes vulgaris. Dal robusto becco, grosso quasi come
la testa.
Piem. bek-di^r,M.od.testón,bek-grgsSjRoyìgo bécco-grosso,
Umb. Jpacca-Qsso, Pugl. spezza-fer, Sardo, pizzu-gróssu,
Corsica pizzigóne.
Loxia curvirostra. Bresc. bek-stórt, Berg. ^) e Cremona bek-
appunto come noi Italiani lo diciamo ' piccolo pavone ', in quanto,
e per la cresta, e per i riflessi metallici delle penne, al pavone pa-
recchio si assomiglia. (Il nome suo milanese [vanett) farebbe anch'esso
forse capo a un *pavanétt'ì).
^) Notiamo, a proposito di questo uccello, che a Bergamo è anche
detto, con nomignolo probabilmente a significato furbesco, ' todfsk ',
in relazione forse colla sua grossa testa (anche ai primi tordi del
passo d'autunno si affibbia da uccellatori tale soprannome appunto
per questo motivo), o, ancor più, col suo grido d'appello monotono
e quasi incessante di "tok, tok, tqk, . . . „ che sia stato dal popolo
assomigliato a un discorso di tedesco del quale nulla esso comprenda.
0 forse perchè annidi in Germania? Cfr. il nome suo cadorino oa^l
todésko.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 389
in-crus, Sondrio beker, Pav. b^k-in eros, Vie. bécco in
eróse. Gen. bécco-stórto, Boi. bek in erdus, Nap. pizzo
stuórto, becco-cróce, becco'n-cróce, becco-stórto, becco'hgro-
ciàto, Sard. biccu-trótu.
Scolopax rtisticola. Dal lungo becco (Savi, II, pag. 304):
Cuneo becdssa, Ossola beccàsia, Parma becàzza, Tose,
Nap. beccàccia,Bol. pizzàcra, Varzi, Gen. becedssa, etc.^).
Pure dallo stesso motivo del lungo becco il gallinago
caelestis ripete i nomi beccassin (Piem.), beicela (Vicen-
tino), becangt (Bellunese), becadfl (Bresciano), beccaccino
(Toscana), etc.
Capitolo III.
Nomi indicanti il cibo.
Alcedo ispida. Cibasi d'animaletti, piccoli pesci cioè, vermi
e insetti acquatici (Savi, I, pag. 178).
Como martin peskadór, Piem. mèrla pesquera, mèrlo
peskadùr, Berg, beca-pes, Crem. e Mant. pia-pess, Son-
drio martin peskadu, Mil. martin pesku, Arezzo becca-
pesi, kiappa-pési. Cfr. i nomi frane, pécheur, pacìiou,
pechuz (Rollano, op. cit,, II, pag. 70).
Bxidytes flavus. " Vola fra i piedi delle vacche e de' ca-
') Per il colore grigio-terra delle penne che, unito alla dimensione
del corpo, fa ricordare la gallina, a Bergamo è detta j9?^«, a Cremona
gallinàzza, a Mantova, Belluno, Feltre, etc, galinàza, a Pavia galli-
nassa, e in Sardegna puddci de mata (cioè, probabilmente, in quanto
mata vuol dire albero, pollo di foresta. Cfr. Tingi, ivoodcock e il greco
XiXópvK).
Studj di filologia romanza, IX. 25
390 G. BONELLI
valli dando la caccia agli insetti che sempre in quan-
tità vi si trovano „ ^) (Savi, motacilla, II, pag. 36).
Nap. pappa-moska.
Caprimulgus europaeus. E opinione generale nel popolo che
tale uccello succhi il latte alle vacche e alle capre,
cosa che può sembrare provata anche dalla stessa
denominazione tecnica. A noi tuttavia riesce tanto
strana che poco vi prestiamo fede, e ai testimoni ocu-
lari che assicurano d'aver visto il caprimulgus attac-
cato alle mammelle di capre o vacche, andiamo insi-
nuando non abbia esso, piìi che il latte, colà cercato e,
da buon insettivoro quale è, beccati i moscerini e i
piccoli tafani che, attratti dal dolciume del latte di
cui le poppe delle vacche sono sempre più o meno
bagnate, trovano tra i viscidi peli del ventre di queste
sede opportuna. Ma, comunque stia la cosa, ciò che a
noi qui interessa è che nel popolo è diffusa la cre-
. denza che questo uccello succhi il latte alle capre e
alle vacche, del che appunto ne fanno fede i suoi nomi
dialettali :
Ossola tetta-vdk, Pav, tetta-cràv, Bresc. teta-àke, Ven. la-
ta-cavre, Trent. teta-cdure, Valsug. tetta-caore, Val di
Ledro tetta-cdvri, Val di Non lata-ciàure, Gen. tetta-crdve,
Nap. zinna-vdkke, bocca-lattàro, Bari ' nganna-pastore ^),
') È probabile che sia ancora questa sua abitudine la ragione per
la quale è chiamata in francese hergerette (cfr. la denominaz. friulana
pastoréla e la novarese vakkerina), in quanto che tale cutrettola segue
volentieri le mandre ai pascoli.
') Questo nome richiama quelli francesi della motacilla: " engane
pastre, engano pastré,, che vengono spiegati dal Rolland (pag. 227)
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 391
Roma sukkia-capre, Tose, succia-càpre. — Cfr. i nomi
francesi tette chèvre, tela cabra.
Cardiielis elega?is. Cuneo ciardoUnna, Bresc. raari (rape-
rino = uccello delle rape. Non è però raperino il
nome suo toscano, ma cardellino; e raperino è invece
il nome del serinus horttdanus, detto pure altrove dal
cibo suo preferito rapalin (Spezia), rapparéddu (Mes-
sina), etc), Berg. raari, reveri, Cremon. lavarpi (*ra-
varén), Mant. gardlin (*cardlin = uccello dei cardi),
ravarin, Pav. ravarei, Vie. gardelin, Savona cardàina,
Gen. cardelin, Nap. cardillo , Molf. cardiéddu, Reggio
cardinnu. — E invero codesto uccello si ciba di pre-
ferenza di semi di rape e di semi di cardi, si che non
rare volte gli orticoltori allontanano gli stormi di tali
uccelli dai seminati con appositi spauracchi ^).
Coccothraustes vulgaris. " Le mandorle de' nocciuoli piìi duri,
come di ciliegie, olive, etc. molto piacciono ad essi „
(Savi).
coll'osservazione che la motacilla va a cercare i piccoli insetti perfino
sul dorso dei buoi, onde il pastore spesso allunga la mano per pren-
derla, ma indarno, ch'essa lesta sempre gli si sottrae. Tale spiega-
zione bì potrebbe avanzare anche a proposito del caprimulgtis'ì Certo
che sì; invece lo stesso Rolland ^ricorre ad altra che, lo diciamo
schietto, ci sembra assai men buona. Suppone egli infatti che i nomi
abuso pastou, enganija-pastors siano venuti a questo uccello perché
il pastore corra ove l'ha visto posare : " il croit pouvoir le prendre
sans peine ; il s'en approche, il avance la main pour le saisir et, au
mème instant, l'oiseau s'énvole; . . . n"a fait que simuler le sommeil ,.
Ma dov'è, diciamo noi, quel pastore sì ingenuo che crede di poter
rincorrere e prendere colle mani un uccello che appena s'è posato?
') Anche il Savi (II, 118): " Ha tolto il nome quest'uccello di Car-
dellino, Carderugio o Cardello dalle piante spinole dette curdi, sulle
quali spessissimo si vede posato. Egli ama molto i semi di tali piante „.
392 G. BONELLI
Spezia skgssa-nuci, Caltaniss. skaccia-ménnuli (schiac-
cia-mandorle).
Columba palumbus. Dal cibo prediletto, le fave, deriva i
nomi. Cun. ctdùmb sarvdi o fave, Verana favdzo, Bo-
logna clumh favdzz, Lucca favdccio.
Crysomitris spinus. Molto notevole perché oltreché esatta,
in quanto verissima, forse l'unica che ricordi il cibo
preferito — i semi di ontano o onice — di questo uc-
cello; la novarese onicerécc.
lunx torquilla. Cibo suo favorito le formiche ^). Aless. pitta-
furmige, Spezia formiguin, Nizza fùrniigie, Berg. b^ca-
furmige , fùrmiger, Friuli funnidr, Napoli formicóne,
pizzeca-formicole, Capri furmiculdru, Lecce furmicalQray
Reggio furmicoliere, Grirg. furmiculùni, Cat. mangia
formiculi, Sard. papa-formiga.
Ligurinus chloris. " Amano molto i verdoni mangiare i
semi „ (Savi, II, pag. 135).
Val di Ledro pizza-cdnef (becca-canape), Civid. se-
menzarùl.
Miliaria projer. Bergam. t^ta-rais. — A noi veramente non
consta che cotale uccello ami succhiare le radici ^),
come la denominazione bergamasca, quando non si
') Al Savi, come ad altri ornitologi, è forse sfuggito che tale uccello
ha la lingua, oltreché leggermente vischiosa, assai lunga (in appa-
renza normale, perché contrattile); d'essa si serve per prendere in un
colpo solo parecchie formiche. Ma si direbbe che anche il popolo non
l'abbia tanto presto notata, poiché appena la ricordano il genovese
léngua-luhga e il sicil. lihgua-lohga.
^) Savi, II, 80 : " Il loro (detto degli strillozzi) cibo consiste in semi
e bacolini che essi cercano fra la terra ove quasi sempre son posati ,.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 393
voglia vedervi che un valore onomatopeico, sembra
indicare; ma il conico suo becco, tanto piìi robusto in
quanto provvisto nella parte superiore di un dente ^) —
come un'escrescenza calcarea — , cui risponde, quasi
incudine, nella inferiore una rientranza del becco stesso,
mercé il quale può rompere semi assai più grossi e
duri del miglio, ad es., il riso, certo gli deve permet-
tere di stritolare e, in mancanza d'altro ^), cibarsi
anche di radichette.
Monacus hortensis. " Si trovano i bigioni in tutta la nostra
pianura, ma negli orti, in cui son pedali di fichi, ci si
trovano in maggior quantità e vi si trattengono un
tempo maggiore ; e subitoché tali frutti son terminati,
i bigioni spariscono, e vanno a svernare in Asia e in
Africa „ (Savi, I, pag. 249).
Brescia, Berg., Cremona, Mant., Pav. heca-fik, Vie,
Gen. hécca-figo, Piner. pitta-fig.
Muscicapa grisola. Mod, pia-mósk, Mant. heca-móre, Giudi-
carie pizza-móske, Nap, moskdrdo, Otranto muskalóra,
Mess. appdppa-muski, Catania ammucca-muski, Savona
cidppa-móske.
Passer Italiae. Come indica l'altra sua denominazione tec-
nica — fringilla domestica — è questo il passero, che,
petulante, scende nell'inverno persino nelle rumorose
vie delle città a beccare nello sterco dei cavalli i semi
') Cfr. il nome sardo éinéirri a déntes.
-) E invero la stagione durante la quale più particolarmente si
ferma nel Beroramasco è la invernale.
394 G. BONELI-l
d'avena o altro che in esso si trovano. Da tale sua
abitudine trae i nomi :
Berg. passerà merd§r, passera smerderà.
Passer niontanus. Vi cent, megiaróla = l'uccello del miglio,
Piem. miarina, miaróla, Pad. e Rovigo spiega megiaróla^
Lucca miliarina.
Pliilloscopus rufus. Yen. papa-mosJcm, Mess. moskitu,'mhùcca-
mùski.
Pratincola rubicola. Cat. piggia-muski, Tose, pilia-móske.
Sylvia cinerea. Bresc. èec«-móre, Spezia ^issa-w<'<e(beccamore).
Tichodroma muraria. Bresc. beca-ràn, Udine randr.
Turdus musicus. Varzi turdren da l'uva, Ver. tórdo da uà,
Bell, tórdo d'uva, Rover, tord dall'uà.
Tnrdus pilaris. Dal fatto che si ciba fra l'altro di bacche
del vischio {viscum album) e di quelle del ginepro:
Berg. visterà, viskdrda, visera, Friuli zenevrón, Istria
zanevrón. Cfr. i nomi frane, grive du gui, villiettaz.
In nota, quasi a dire con esitanza, segno i nomi del huteo viilgaris,
poiché anche in essi, e precisamente quando si ritenga che la radice
a lor tutti comune pò voglia significare pollo, sembrami di veder
dichiarato il cibo prediletto del rapace in questione.
Ossola, Como, Brescia, Berg., Piac, Parma, Ver., Anc, Tose, poiana
(a Berg. anche paia che è tal quale il nome della gallina), Crem. puiàna.
Boi. puiàna, Ven. jjogiàna, Sard. stori (^astori) de pudda.
Non mi dissimulo però che quasi tutti questi nomi possono forse
significare, anziché " insidiatore dei polli ,, " pollo grosso ,, nel
qual caso converrebbe registrarli fra gli accrescitivi.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 395
Capitolo IV.
Nomi riflettenti il canto (vedi Appendice, n. VII).
Alauda arborea. " Quando vola manda un fischio che si
esprime assai bene con il di lei nome " tottavilla „,
giacché continuamente ripete tottavi, lottavi „ (Savi, II,
pag. 66).
Tose, tottavilla, Terran._, Caltan. tuvittula. Cfr. i nomi
francesi turlutoire, coutouliou, couterliou, etc, e l'inter-
pretazione del suo canto come avviso al contadino di
coprire il grano e prepararlo al riparo dalle immi-
nenti piogge invernali: cuhri, ciihri.
Anthus pratensis. Assai probabilmente dal grido suo quasi
incessante di vit, vit o vie', vie', ebbe i nomi. Trent. vii,
Gen. vicia, Pad., Rovig., Bell, fista, Feltro zit, Udine,
Civid. Ulte, Arenzano sihi de monte. Tose, pispola, Tort.,
Novi sisi, Cat. zinzincula. — Forse qui si potrebbero
noverare anche buona parte di quelli deWanthus ar-
horeus; ad es., il bresciano aiguina, il lucch. agnina,
il bergam. guina. Infatti, se a tutta prima codeste de-
nominazioni sembrano accennare, come ad abitudine
dell'uccello da esse indicato, il costume di frequentare
i luoghi acquosi {acqua nell'antico bresciano suona
digua, onde il nome aiguina dal quale, per aferesi,
quello bergamasco), quando poi si rifletta che non è
nelle abitudini di tale uccello il praticare i luoghi ricchi
d'acqua più di quello che non sia per gli altri, anzi
che certi altri (come, ad es., le cutreitole " motacillae „)
veramente, e assai più delle lordine, si trovano sulle
396 G. BONELLI
marcite, lungo i fiumi e gli stagni, sorge il dubbio
delle denominazioni, la originaria non sia già la bre-
sciana, ma la bergamasca " guitta „, che, in qualche
modo, indicherebbe col gui ^) il grido di passo proprio
e frequentemente emesso da tutti gli individui di tale
specie. Onde la voce bresciana aiguina non sarebbe, a
nostro avviso, che la bergamasca cui si sia venuto
dai parlanti inconsciamente cementando la vocale del-
l'articolo, tra la quale e il nome, forse a sempre
meglio facilitare la pronunzia, sia sorto un i, cosiché
la voce, scomposta, sarebbe Va-i-guina ^). Cfr. il nome
francese pipit generico per tutti gli anthus, e vedasi
lo Chenu, Hist. naturelle, IIP partie, pag. 208, ove
dice che il grido del pipit des buissons (a. arboreus)
" peut étre exprimé par la syllabe pi^ prononcée très
distinctement et d'une manière trainante „ (Bell, pita-
réla, Cad. pitaróla), e, poco appresso, che il pipit des
près — tal quale l'alessand. sisi da prii — (a. pratensis)
" pousse le méme cri, mais plus faible, plus href, et
plusieurs fois de suite „.
Cannabina linota. Dal grido di passo il nome suo novarese
cicik.
Corvus frugileus. Sondrio, Berg., Brescia, etc. corf, Bell, ero.
Pad. gróla, Gen. góa, cróvo, Pisa, Fir., Arezzo, etc.
còrvo, etc.
*) Tale radice gui ricorre nel linguaggio d'uccellatore anche ad in-
dicare un particolare grido delle tordelle (turdus pilaris) ove si dice
che alcune d'esse " le sguina „ o " le gui'na ,.
') Altro esempio però di i sorto per simile cagione non saprei tro-
vare, onde l'ipotesi suaccennata non può certo pretendere a forte
probabilità.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 397
Anche la coturnix communis o dactilysonans (Savi, II,
pag. 200) si può qui registrare, qualora si veda nel
qua che incontrasi in tutte le sue denominazioni.
Pieni., Piac. , Bres., Berg., Cremon. qudja, Mantova,
Pav. qudi, Friuli qudje, Yen., Gen. qudgia, Nap., To-
scana qudlia, Pugl. quagyia, Calab. qudckia, etc, e già
nella voce del basso latino quaquila — l'espressione
del canto suo che per l'appunto, come è noto, consiste
in una cadenzata ma pur sempre monotona ripetizione
di un qud, onde la. frase italiana " il quacquarà delle
quaglie ^) „ (In Francia si fa dire alla quaglia " paye
tes dettes, paye tes dettes „, frase che richiama la nostra
bresciana " capei pagdt, pagdt capei „).
Cuculus canorus (Savi, I, pag. 151). Brescia e Berg. cuco
e cók, Cremon. cacti, Bell., Friuli, Mant. cuk, Pavia
coca, Nap. cucii, cuculo, cà-cu, Sondrio ciicul, Vie. ciico,
citi, Gen, dico, Brà ciùk, Reggio d'Em. cig.
Emberiza eia. Come alla meglio onomatopeica la denomi-
nazione tecnica, lo sono le dialettali.
Sond. zipp, Berg. zéa, zia, Bell, cipp, Padova sia,
Lucca zirla, il nome generico toscano zigolo, Nap. zin-
zella, Lece, ziula.
') Secondo il Dal Pozzo (Dizionario Piemontese) sarebbe detta in
Piemonte c'rlik-c'rlak, o, meglio, questo sarebbe il verso, e il nome
quello di piuncsa; ma qui probabilmente si fa una confusione, giacché
la quaglia non è punto l'allodola pantarana, e il nome di piiirèsa va
probabilmente accostato a quelli francesi pleureuse, breade (da breaire=
lamentarsi) e tutti e tre attribuiti aWanthus campestn's, nel canto del
quale pare appunto di sentire una nota di tristezza.
398 G. BONELI.I
Emberiza hortulana (Savi, II^ pag, 88). Bresc, tirahils, Ber-
gamo filafii.s ^).
Erithacus rubecula. Sard, ziddi.
Fringilla coelebs (Savi, II, pag. 110). Dal grido suo di passo
che dicesi dagli uccellatori finòidre ^) — onde fìnciaroi
i giovani fringuelli dell'anno — è chiamato a Cuneo
cincin, Vie. finco, Susa qiiinquin, Regg. spinco, spin-
zéro. Cfr. i nomi francesi qiiinquin, qui qui, pini,
huit, etc. (vedi Appendice, n. V).
Fringilla montifringilla. Feltre-Cadore, dal grido suo d'ap-
pello, kek.
Gallinago e Scolopax. Milano hip, snip, shep, shepa, shepin,
shepun.
Garrulus glandarius. Piem. gè.
Hipolais poliglotta. " Ha una voce piacevole, delicata e va-
riabilissima, e canta quasi continuamente posata sul-
l'estremità d'un ramo mediocremente alto „ (Savi, I,
pag. 288).
Piem. ciarléttua, Bresc. go'zitina, Chiari ciribiciàcola,
Aless. ciarlettuinna.
Il suo canto consiste in una dolce imitazione di
quello di altri uccelli; onde i nomi: ital. (bresc.) in-
gànola, ted. spottvogel, spotterl, francese contrefaisant,
moqueu.
^) Felicissime tali espressioni; che però a rendere proprio tal quale
e per intero il canto della hortulana andrebbero nella loro prima
parte raddoppiate itira-tira-bus).
^) Anche il Diez {Etym. Worterbuch, pag. 589) a proposito della
voce frinfjuer: Mutmasslich aus einer Wurzel die auch in lat. frin-
ffutire zwitschern, fringuilla, fringilla, pnk, etc.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 399
Hirunclo rustica. Bell, zirla, Udine cibile, Ven. hizila, se'zila,
Friuli bizilei'^).
MUiaria proyer (Savi, II, pag. 80). Dal grido d'appello il
feltrese piók; dal canto d'amore
Berg. tartarais, Civid. trentacihgliris, Tose, strillgzzg^
Nap. slrilluózzo, Ano. strillo, Mess. jcicirùni, Sard. cin-
cirri. Cfr. i nomi francesi cincerizi, tartari, teriteri ^),
Motacilla alba (Savi, II, pag. 30). Mess. pispicia, Calt. vi-
spiha, Regg. pispiha (?),
Motacilla hoarula. Pisa cutti, Roma aizzi.
Parus coeruleus. Brescia, Berg. berebebe.
Parus maior. Piem. ciribibi, ciribiri, Tesino peruzola finca,
Fir. cincipQUola, Nap. trentacinque, trentacinke, Girgenti
cirlincÌQ 2).
Parus minor o ater. Berg. ciuici, fjigid.
Passer montanus. Piem. cirik.
Philloscopus rufus. "... ora battendo le ali e la coda sal-
tella di rametto in rametto, o s'attacca a' tronchi degli
alberi ; ora agile come una farfalla insegue gli insetti
a volo, sempre ripetendo in tono lamentevole un pic-
colo fischio che assai bene s'esprime col suo proprio
nome lui „ (Savi, Si/ivia rufa, I, pag. 292).
*) Savi: " Canta di continuo quel suo verso stridulo tri, tri, tri,
tririri, che acutissimo rompe l'aria anche a grandi distanze „. —
Così, in certi luoghi della Francia, nella quale è generalmente detto
preyer, ha il nome onomatopeico teriz: " car il se met sur jour [sic:
passa il giorno?) dessous le bout d'un palis, e chante " tirtertirteriiz „
réitérant souvent telle voix „. Bellonius, St. d. nat. degli uccelli,
pag. 267.
^) A Milano il suo canto è interpretato, non senza una punta di
birichina malignità: Ki l'è ke fa la rQbba? i poveritt - ki l'è ke gQd
la róbba? i rik, i rik.
400 G. BONELLI
Piem. tuik^ boin, boén, boenélto, Gen. tùio, Como buzt,
Bresc, Berg. tiii, Bassano fui'n, Cremon. tui'n, Novara
zuit, Trent. tuit, Roma piti, Tose, lui, luikfcio. Anche
in Francia tui, huit, puit.
Pratincola rubicola e rubetra. Mendr. vitcecf. E il grido loro
tale e quale, reso quindi un po' meno bene dai nomi
comaschi cik-ciak, ciup-tek, e dal roveret. cibezek. —
Francese vitree, huiktrac, rikchek.
Pyrrula europaea. Bresc. sobiot, Berg. siflgt, si'glót, siiilgt,
Crem. sifùlgtt, Mil. cifulgtt, Mant. subigt, Pav. sufici,
Vie, finco subigto, Friuli sifìlott, Gen. sigiiriin,Tosc. ciuf-
folotto. Dall'espressione, che par lamentevole, del suo
canto, i nomi francesi fKìteur, pleureux.
Regulus ignicapillus. Spezia fri-fri.
Scopsgiu. Manda un " fischio, che assai bene s'imita con la
parola chiù, etc. „ (Savi, I, pag. 75).
Cuneo citi, Aless. ciò, Nov. ciiik, Bell, zuf. Boi. cimi,
Valli di Sopa kiùrlo-in kig, Fies. kiù, Caltan. kiùppu.
Sylvia cinerea, " Si fa sentire nei campi coltivati con il suo
verso corto e monotono che di continuo ripete „ (Savi, I,
pag. 252).
Bresc. gozeta, Mant. ciciarela, Arenzano ciarletta.
Troglodijtes parvulus. Ossola re-re, Berg. c'err. Spezia kra-kra,
Gen. recece, Tose, skric'ciolo, Bell, tre-tre. Cfr. il nome
francese cretcret.
Turdus inusicus. Dallo zillo, grido suo di passo. Ven. tóì^do
sigarài, t. cik, t. zik, Bell, tórdo zit.
Turdus pilaris. Dal canto o, meglio, grido di passo, che
ricorda l'abbaiare dei cani. Bell, tórdo ciak, Bresc. gar-
dena baiarola, cidcola, Cuneo ciacidra, Vie. baiar^la,
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 401
Tort., Novi ciak-ciak. Cfr. i nomi francesi fidtid, tsdtsd,
kidkid, chackchack.
Turdiis viscicorus. Mil. dr^ss, Ossola dr^s^ Piera, sgerr,
Bresc. tr^,sa, Berg. dréssa, Vogh. diysla. Cfr. i nomi
francesi draine, tree, tret.
Upupa epops. Piem. pupu, Novi bohó, Ossola hùhxda, Mod.
pupùlla, Bari huhù, Sard. pupùza, Tose, bùbbola ^).
Cfr. i nomi francesi houpp hoiipj), boiitt boutt, boud boud,
put put, etc,
Vanellus capella. " L'un l'altra si chiamano mandando con-
tinuamente il loro solito fischio acuto e stridulo, col
quale sembrano pronunziare gì gi „ (Savi, II, pag. 258)
e da esso, è probabile, si devono ripetere
Bresc. sguaina, Spezia pm^ Lucca fz'fa, Fucecchio mi-
ciola (quasi a dire gattina).
') Savi, I, 326. 11 nome di ' bubbola ' è stato dato a questo uccello
a cagione del grido che manda in primavera. (Anche se lo si fa de-
rivare, anziché da hiibo, da upupa — * puppola, * tipupola — non es-
sendo probabilmente il latino upupa che una i-eduplicazione del suono
up, si ha pur sempre un nome a radice onomatopeica). Stando na-
scosto dentro gli alberi, continuamente ripete bu bu bu, bu bu con
voce sonora e forte di modo che ne risuona la campagna anche a
distanza assai grande. — Pierre Belon dd Mans (opera cit.), chap. X',
De la huppe, pag. 293: " Nous luy donnons ce nom, à cause de sa
creste (la cosa però è vera al rovescio, in quanto il nome huj)pe e
stato dato all'uccello per il suo canto, e se significa anche cresta, lo
si deve all' uccello che ha appunto la cresta), mais les Grecs l'ont
nommée Epops à cause de son cry. Nous la nommons un imput „,
canto che Ai-istofane più a lungo svolse nella frase 'HiroTTuùe, ironoTiù»,
irOTTUic, uoTTi&e, lo, ìò, txuj, trai.
402 G. BONELLI
Capitolo V.
Nomi indicanti qualche particolare moto o abitudine.
Alcedo ispida. Dal modo ratto e veloce col quale, mentre
svolazza sui fossati, se vede a fior d'acqua un qualche
pesciolino, a ghermirlo si lascia tosto cadere a piombo
su di esso, è detto a Brescia piàmbi; Creraon. piumbéen,
Vie. piombin, Boi. plumbéin, Udine piombili, Siena piom-
binello ^).
(Questo fatto poi d'un uccello che si ciba di pesci
era troppo curioso e, per cosi dire, stravagante, perché
potesse sfuggire a que' pazienti osservatori che sono
i contadini -} — e le denominazioni ornitologiche pro-
babilmente in buonissima parte dovettero essere co-
niate da loro — , onde che tale uccello sia stato anche
detto, come già si vide, nel bergamasco b^ca-pess, nel
mantovano, cremonese pkt-pess, ad Arezzo kiappa-pesi ,
a Nap. martiniello — (ove forse s'ha a vedere un'in-
fluenza 0 un riscontro del nome toscano martin peska-
tóre — e Nicola peskatóre, a Mess. martinéddii, a Calta-
nisetta martinu piskaturi ^) ).
') È però completamente da escludere che tali uomi non siano
anche stati indettati dallo splendore e luccichio metallico delle penne
di questo uccello?
-) " Les oyselcurs sont si duicts de bien observer les oyseaux . . .
qu'ils n'en laissent aucun „ Belon, op. cit., 1. VII, cap. XVI.
^) Quanti nomi, per così dire, religiosi ebbe anche quest'uccello !
A Pisa, ad esempio, quello di uccd scinta Maria, santa Maria, a Te-
ramo uccello s. Nicóki, e in molti luoghi della Sicilia, dove ucéddu
vale uccello, acéddii s. Giuvanni. Così in Francia aonzel de Saint Martin,
oiseau de saint Jean, oiseau de saint Nicolas.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 403
Anthus pratensìs. Il volo calmo e regolare di questo uc-
cello ha fatto sovvenire il guizzare del pesce ^), onde
le denominazioni
Bresc, Berg. sguiss^ta, Cremon. guizzetta, Mant. sgui-
setina, Vicent. sguìzéta, etc.
Caprimulgiis eiiropaeus. " Di giorno sta posato sulla terra
fra i cespugli e prende il volo se gli si passa d'ac-
canto; soltanto tramontato il sole esce dal suo nascon-
diglio e insegue le farfalle crepuscolari „ (Savi, I,
pag. 303).
Ossola nocciola (quasi a dire l'uccello della notte ?),
Rmg. cova-tèrra, Fir. nottolóne, Siena piaitaióne, Casent.
cova-in-térra, Valdich. piattóne, Lecce suónnu (l'uccello
del sonno ?), Otranto duórmi (l'uccello che dorme, anche
di giorno ?).
Certhia familiaris. " S'arrampica sulla scorza degli alberi
continuamente percorrendoli ed esaminandoli per cer-
care i ragni, afidi, e gli altri insettini che sono il suo
cibo „ (Savi, I, pag. 187).
Bresc. rampigi, Berg. rampar i, Mant. rampgin, Ro-
vereto ranipegétta, Pav. rampe§m, Vie, Bass., Valsug.
rampegarglo, Tose, rampikino. Cfr. i nomi francesi grim-
peaux, grimpé, grimpion, rampa, rampinette, rate, ratatè,
ratera.
lounx torquilla. La qualità piìi curiosa di questo uccello
è quello di muovere il collo da tutti i lati e celeris-
') " Pare che voghino „ mi ebbe a dire un cacciatore l'anno scorso,
parlando appunto dell'impressione che gli facea il volo delle prispole.
" Ont une démarche lente et gracieuse„. Chenu, op. cit., IIP partie,
pag. 208.
404 G. BONELLI
simamente ; pare che sia attaccato da convulsioni, gira
e rigira la testa da tutte le parti in modo stranissimo
e sorprendente ^) (Savi, I, pag. 146).
Pieni, torsa-cóll, Bresc, mena-cQ, Berg. cgl-tgrt, Cre-
mona mena-có, Bell, coda-tórcol, Mant. mena-có e stort-c'qll,
Vie. cao-stgrto, Gen. torsi-cl^lo, Friuli cuel-stnart, Pisa
girasóle, Nap. capo-tortiello, Lecce tranc'ollo, Abb. tor-
ciàra, Arezzo cgllo-t^rto, Caltaniss. c^ddu-tórtu.
Monticola cyanus. Bresc, Pad. poserà sulitdria, Rovigo pas-
sarci solitaria, Tose, passera solitaria, Anc. passero so-
litario, etc. Cfr. i nomi francesi le merle solitaire, l'in-
glese the solitari/ Thrush, etc. E invero essa ama 1
luoghi pili inaccessibili delle montagne, nei quali vive
solitaria quasi fuggendo la compagnia degli altri uccelli.
Motacilla alba. Dal modo col quale leggiera passeggia sul
terreno, e quasi vi sussulta, la troviam detta a Ber-
gamo balargta, sul Genovese e in Toscana ballerina.
Si potrebbe dire che questa motacilla cammini con
tutto il corpo, poi che tutta si dimena, e sempre agile
e lesta saltella; alla lunga coda poi imprime di con-
tinuo un movimento dall'in giù all'in su — probabil-
mente per ragione di miglior equilibrio — , onde che a
Feltre, Belluno sia stata chiamata coa-cdssola, a Udine
skassa-códe, a Cividale code-bdndule, a Padova batti-
') Pensava il Savi che questi moti della testa della Jounx non
fossero dello stato normale dell'uccello, ma effetti dello spasmo ner-
voso del sentirsi preso. Ma lo Chenu, trattando appunto del torcicollo
(op. cit., Oiseaux, P partie, pag. 248), là dove osserva che " lorsqu'il
est pris, et qu'on le tient, il ne cesse pas de se donner ce mouvement ,,
soggiunge anche : " mais il l'exécute aussi très souvent en liberté, et
les petits ont déjà la méme habitude dans le nid,.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 405
eoa, ad Arezzo batti-códola, a Firenze cutréttola (*koda-
trepida, Zambaldi), a Siena codi-tr'emola , etc, e che i
Calabresi l'abbiano detta coda'nzinz'era, e cioè para-
gonata al* turibolista che rende l'incenso al sacerdote
0 all'altare col suo incensiere detto appunto dagli
abbruzzesi zinzero ^).
Motacilla hoarula. Mant. squassa-cóa, Pav. trema-cóva, Ge-
nova coa-trémola. Calabr. codijdttola. Cfr. i nomi fran-
cesi hochecaive, bassequoette, bat-queue, vouttekua, bran-
lequeue, yuigneqìioye, billecul, etc.
Muscicapa atricapilla. Dallo sbattere frequente delle ali è
chiamato a Brescia alt, a Berg. alet niyer, sul Pavese
al'et, Gen. sbatti-de, Bell., Feltro bati-dle, Lucca aliuzza.
Passer montanus. Maravigliosa , sorprendente è l'abilità
colla quale tale passero sa nascondersi nei buchi dei
muri 0 nei crepacci del terreno, sguisciare di mano
anche al più esperto uccellatore, o, attraverso a un
foro qualunque della gabbia in cui stia rinchiuso o
della rete in cui si trovi viluppato, ricuperare allegra-
mente la libertà. È un demonietto! — Si direbbe poi
^) Savi, II, 28. " Hanno le Motacillae una figura snella ed elegante,
e vivaci ed allegre sono le loro mosse. Di continuo con gran lentezza
alzano e abbassano tremolando la coda, dal che esse han preso il
nome di hatticode, coditremole „. E forse per lo stesso motivo questa
cutréttola è detta in francese la lavandière ; infatti anche il Belon
(op. cit., cap. X) osserva ch'essa deve aver avuto tale nome o " pource
qu'elle tient compagnie aux lavandiers sur les rivages des eaux, ou
pource qu'elle est fort familiere aux ruisseaux, ou elle remue tousiours
la queue en hochant le derriere, comme un lavandière qui bat ses
drapeaux , ; e il Rollano (op. e voi. cit., pag. 226) : on les voit souvent
à coté des laveuses ; elles mèmes semblent faire leur petite lessive
avec leur queue en guise de battoir; d'où les noms: batte lessive, la-
vresse, lavandière „. Sp. lavandera, ingl. tvasher.
Sludj di filologiti romanza., IX. 26
406 G. BONKLLI
che i buchi, o ciò che gli si presenta sotto tale forma,
lo attraggano ; e se lo sanno invero gli uccellatori, cui
non di rado capita di vedersi annegare sotto gli occhi
qualcuno di tali passeri ch'essi tengono in gabbia,
poiché questi, per qualsivoglia causa atterriti, cercano
talora scampo gettandosi a capofitto nell'orciuoletto
dell'acqua, ove, naturalmente, incontrano invece morte
immediata. Ed ecco omai chiarito l'adiettivo che, quasi
ad unanimità, il popolo ha aggiunto al nome di questo
uccello, come mostrano le seguenti denominazioni:
Bresc. passera bukerma, Berg. passera buherola, Cre-
mona passera huzarina, Mant. pdsara hozarina, Napoli
pdssaro de perttiso, Marchig. passero bucaiglo.
Significativo il nome che ha a Fucecchio: passera
strega !
Ficus niaior. " Abita nei boschi, e quasi di continuo ne
turba la quiete o con i suoi urli forti o con il romor
risonante del becco che va battendo negli alberi affine
d'intaccarne la corteccia, sollevarla, e mettere quindi
allo scoperto le uova d'insetti di cui si ciba „ (Savi, I,
pag. 141).
Bresc. e Berg. b^ca-sgk, Rover, beca-zoke, Yen. batti-
lano, Bass. beca-rdme, Cadore beca-len, Pad. bati-leno,
Tose, pikkio. Cfr. i nomi francesi becca-bò, begue-bois,
pigue-bois, togue-bois, perce-bois, etc. Rollano, op. cit.. Il,
pag. 58.
Podiceps fluviatilis. " Abitano i tuffetti ne' fossi e nelli stagni ;
per pochi momenti stanno alla superficie dell'acqua,
subito si tuffano, e ricompariscono a una certa distanza „
(Savi, III, pag. 18).
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LO.MBAHUI 407
Piem. suttacquhi, Yen. sottarglo, Tose, tuffetto, etc.
Pratincola. Se ne hanno due specie: rubicola e rubetra;
l'una nidifica anche da noi, l'altra ci viene solo di
passo, e la prima, come quella che più specialmente
vive su pei monti ed è alquanto più piccola della se-
conda, è detta in bresciano makitz nostra, e in berga-
masco maketi d' montana, a differenza della seconda
che invece chiamasi a Brescia e a Bergamo mafc^t de
pasdda o semplicemente makk i). — È però costante
abitudine d'entrambe quella di posarsi sulla punta del
ramo più alto degli alberi o sul cocuzzolo delle pan-
nocchie, per trovarsi nella posizione più favorevole
per prendere i moscherini che si trovano a ronzare;
onde efficacemente rappresentativi i nomi loro: antico
Bresciano smansitz 2), Pav. zima-brgk, Pis. spùnta ca-
Igckie, Tose. saWin-pùnta, Gen. salt-in-vétta,'Raveiìn. selt-
in-p'el, Varzi puntaro, Rover, zwia-erbe. Romano salta-
bastóne, Napol. miett-em-pùnta, Sard. punti-palo, Sicilia
caca-si-pdli, salt'in-pizzu, caca-pdlu.
Siccome poi l'una, la rubetra, fa da noi suo pas-
saggio nella stagione calda, così a Napoli essa è detta
miettem-ptinta di state, e l'altra, la rubicola, che s'in-
contra nelle nostre campagne anche d'inverno, miette'm-
punta d'inverno ^).
') Potrà rientrare, per questa distinzione del makét dal makitl
anche nella serie degli uccelli a nome positivo e diminutivo.
*) Cfr. V Elenco dell' ornitofauna bresciana compilato dal prof Luigi
Erra, riordinato e cresciuto dal prof. Eug. Bettoni (nei Commen-
tari dell'Ateneo di Brescia, 1900).
■ ') Così la ruticilla titys che, a differenza à%\\^ phoeuicurus, solo coi
freddi scende al piano, è a Parma chiamata covróss da Vinv'eren.
408 G- BONKLLI
titrepsilas interpres. " Cibasi di vermi e piccoli molluschi,
di crostacei, che va a cercare sotto i sassi gettandoli
all'aria mediante il suo becco corto e duro „ (Savi,
op. cit.. Il, pag. 261).
Gen. vòlta-prie. Tose, v^lta-piélre. Cfr. il nome fran-
cese le tournepierre.
Troglodytes parvulus. Berg. bilh-séss, re de s^ss, Mant. sòm-
ka-sess, Novar. sauta-hócc, re di bdcc, Como fora-H'ess,
Valt. fora-bócc, Veron. sbuha-séhe, Siena, Fiesole fora-
rndkkie, Kom. sbuca-f ratte, Nap. speréia-sepe, Mess. p'^rcia
ruvettu (Bene appropriata e graziosa la francese compte-
fascines).
Capitolo VI.
Nomi formati su quelli de' luoghi di preferenza abitati
dagli uccelli.
Accentor modularis. Più che gli alti alberi ama esso le
siepi, i cespugli, le piccole boscaglie '); ed ecco che lo
troviamo chiamato ad Aless. buskin, a Sondrio passera
buskrna, Boi. passera d'mdcia, Lucca, Pisa stipaióla,
Fiesole passera sepaióla, Arezzo skopina, Anc. passera
frattaróla, e nelle Romagne buskaiol, buskarol.
Acrocephalus arundinaceus. Poi che s'incontra di preferenza
nelle paludi e nei canneti % è detta a Padova sélega
n Cosa questa tanto più notevole in quanto, essendo Yaccentor un
buonissimo volatore, anche sugli alti alberi potrebbe posarsi senza
veruna difficoltà. -, ,- ^ ,
') Savi, I, 285 (Silvia turdoides): ' ... si trova ne paduli tra le can-
nelle alte; qualche volta si stabilisce anche ne' cespugli che pendono
sulle correnti de' fiumi ,.
I NOMI DEt'.Ll UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 409
palugdna, canevarolón, Mod., Boi. cannaról, Ven. cana-
ro'ìia, Bresc. passera cauflera, Cremori, passera canera,
Mil. cannette, Vie. zélega palugdna, Bell, canelón, Feltre
canaról, Nap. focetolóne (beccafico grosso) d'dkua, ru-
sinuólo d'dkua, Cuneo ransinol d'ie canne. Cfr. i nomi
francesi rossignol de rivière, rossignol de marais, rous-
signoou d'a'iguo, paisse de marais.
Alanda arvensis. È noto che tale uccello non si posa sugli
alberi '), ma o spazia volando per l'aria, o a terra sta
posato. Probabilmente per questa sua abitudine ^) è
detto a Sondrio odola de campana, nel Napoletano cvc-
cidrda ^), a Lecce terranóla.
*) Quelle rarissime volte che vi si appollaia lo fa quasi a gioco.
Una sola volta io mi ricordo di aver visto allodole appollaiate:
erano panterane nostrali (le cosidette ciqrle), e, poi che correva il
mese di settembre, — e l'allodola, si sa, come è tra i primissimi
uccelli ad aprire col canto la stagione degli amori, così è l'ultima ii
chiuderla (ancora in novembre bene spesso accade a chi esca per i
campi di sentire il suo " adieù Dieu „), — trillavano argutamente a
distesa i lor canti d'amore, ora inseguendosi, ora quiete ognuna al-
zandosi a librarsi nell'aria, quando una di esse, un maschio, abbassa-
tosi sulla prateria, quasi per capriccio, o, forse per meglio far risaltare
e far intendere la potente sua voce, rattenne il volo su di un piccolo
gelso selvatico, e, dopo qualche esitanza, si posò sul ramo più grosso
orizzontale e tosto riprese il canto. Quasi subito gli comparvero d'at-
torno le altre allodole dello stormo e, quale piroettandogli da vicino,
quale volteggiando poco al disopra della pianta, tutte sembravan mo-
strare il desiderio di appollaiarsi esse pure, e invero, l'una appresso
dell' altra, quasi tutte — saranno state sei o otto — si posarono.
^) Portata forse non tanto dalla ragione del cibo quanto proprio
dalla speciale conformazione del piede suo che non gli permette di
abbrancarsi a un ramo, ma soltanto di sostenersi e camminare sul
terreno ; a meno che non si voglia spiegare codesta particolare strut-
tura del piede come un risultato dell'abitudine dell'allodola di posarsi
soltanto sul terreno, poi che solo su di questo, non su gli alberi, ri-
trova il cibo.
^) Da acciiccidre, onde c/(CCjar(^«^= uccello che s'accovaccia (e non si
410 G. BONELLl
Anthus aquaticiis. Tortona-Novi sibi d'dkiia, Pieni, vainéta
d'éva, Arezzo fossd'ccio.
Anthus pratensis. Tortona-Novi si'hi da pra, Piem. vainéta
d'i camp, si:2i da prv.
Cinclus aquaticiis. Cuneo mèrlo da èva, Lomb. m^rlo d'dkua,
Cividale miérli d'dge, Gen. mèrlo peskii, Boi. mérel akudr,
Lucca merlakduccio, Tose, merlo akiiaiólo, Nap. mièrolo
d'dkua, Mess. memi d'dkua, Caltan. addtlzzu d'dkua.
Columha livia. " Tutte le torri, tutte le alte fabbriche
anche delle città, se han buche o spacchi, sono abi-
tate dai piccion torraiuoli „ (Savi, II, pag. 162).
Cuneo ciiUhnh tùrèr o toré, Ancona coparólo (?).
Emheriza eia. Bresc. spiónsa de moni, Berg. sponsi de rgcol,
Cogoleto sia montanina, Ancona ziola montandra, tutte
le quali denominazioni — anche la bergamasca, poi che
il roccolo è l'uccellanda propria della montagna —
indicano che questa spionsa è, a differenza della cirluSy
quella che nidifica e fa il passo in montagna ^).
Emheriza citrinella. Berg. pajeróla, paerdna, pagardna, paja-
rdna, pajargta, Gen. paliarma, Cuneo pajarma, Pia-
cenza spajard, Vergato pajariz, Arenzano sta paggèa,
Parm. spagidr, Aless. sia pagéa, etc, denominazioni
che dell'uccello significano l'abitudine di frequentare
e pasturare nelle sterili lame bene spesso di null'altro
produttrici che di paglie.
Emheriza hortiilana. Crem. ùrtnldn, Mant. ortolanìn, Pavia
appollaia). A Napoli si suol dire cuccidrda la donna bassotta e grassa
precisamente come in Francia s' usa 1' espressione gras comme une
mauvieUe, nella quale mamnette significa appunto allodola.
*) Savi, II, 86: " Abita particolarmente i colli „.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 411
ortoldn, Tose, ortolano, Gen. lùturdn, Messina ortuldnu^
Caltan, iardindru; di tutte le quali denominazioni è
evidente che il significato è uccello degli orti ^).
Fringilla montifringilla. Bresc. monta, Berg. montan'el, Parma
frdngol montandr, Crem. muntdn, Mant.-Vic. montdn.
Pad. montanélo, Gen. frenguéllo montamn, etc; e invero,
come ne insegna la tecnica denominazione di Linneo,
è questo il fringuello piìi specialmente proprio dei
monti ^). A Savona fringuello córso o barbaresko.
') Se però a chi scrive qui si domandasse se pienamente gli sod-
disfino tali nomi, forse egli risponderebbe che non ne comprende
troppo bene la ragione, poiché non gli consta che tale specie di e>n-
heriza davvero frequenti orti o giardini, anzi stazionaria solo l' ha
trovata nelle aperte campagne coltivatela frumento, e, meglio ancora,
in quelle ad avena.
^) Savi, II, 114: "... cova sui monti ,. Opportunamente accosta il
Belon i nomi di questa specie, = lat. montifringilla — gr. ó òpoaitiZ^ric;
— fr. pison mountain, e ne ammira la giusta e perfetta corrispondenza.
Sbaglia però, a nostro avviso, quando sembra voglia vedere in essi
un legame di successione [on trouve que noz paysans retiennent les
dictions telles, que les anciens Grecs ont laissé par escrit, sans s9avoir
dont cela leur vient], vo' dire quando crede che l'uno sia derivato
dall'altro, quasiché ai nostri contadini, di Francia o d'Italia, i nomi
ornitologici possano mai esser giunti attraverso i manoscritti greci
e latini. No, con buona pace di tutti i nostri eruditi, che in ogni cosa
volean vedere la continuazione di filoni unici, anche questo fatto della
corrispondenza dei nomi volgari ornitologici non è strano, e non ci
deve quindi maravigliare. Non è forse infatti palmare che la gran
somiglianza e, talora, identità fonetica e di significato che si rileva
nei nomi ornitologici è una necessaria conseguenza dell'essere cotali
nomi nella loro maggior parte prettamente oggettivi? Poi che le popo-
lazioni nel foggiarli ad altro per così dire non s'ispiravano che agli
uccelli stessi che volevano denominare, altro cioè non riguardavano
che le qualità e i caratteri di questi; qual meraviglia se in quasi tutti
i nomi delle rispettive specie, singolarmente considerate , tornano,
quasi con insistenza, gli stessi concetti, si accennano le stesse proprietà?
Forse che gli uccelli, col cambiar paese, cambiano abitudini?
412 G. BONELLI
Miliaria projer. Mil. pradiró, Bresc. predér, Berg. pradér,
Crem. pradéer, Pav. prión, Parm. prdddr.
Yoglion dire cotali nomi, come sembra, che l'uccello
da essi indicato frequenta le praterie? Può darsi ^);
però, per parte nostra, sospettiamo essi non accennino
meglio che ai prati, alle pietre; poiché, se è vero che
la specie in discorso preferisce ai luoghi boscosi le
radure, è anche vero ch'essa ama non già gli erbosi
prati, ma le sterili lame, le risaie, i greti dei fiumi,
e i luoghi insomma, più ricchi di pietre che non di
verdeggianti erbe. — Ne ci sembra che questa nostra
interpretazione urti contro difficoltà linguistiche; giac-
ché, come, volendo dare alle denominazioni surriferite
il significato di " uccello dei prati „, occorre allargare
in un originario a Ve della voce bresciana e l'i della
pavese, cosi volendo ad esse dare invece quello di
" uccello delle pietre „ , si potrà forse supporre che i
loro a altro non siano che e allargati. E si avrebbe
in cotal guisa, nel significato, uguaglianza perfetta
dei nomi suddetti con quello di petrone da qualche
autore italiano stato dato appunto allo strillozzo (Gi-
GLioLi, Avifauna italica^ pag. 46), col modenese petrón,
col bolognese ptrdun, i quali certo, e crediamo di non
ingannarci, non alludono a prati, ma a pietre (Sar-
degna petarón *petraron).
') Il Bellonius, a pag. 267 della sua Storia della natura degli uc-
celli, trattando di questo, scrive : " Il voit dedens les prez: dont il a
gaigné ce noni francoys Preyer „ ; così pure il Rollano, op. cit., II,
pag. 197 : " On trouve frequemment cet oiseau dans les prés, d'où
363 noma: pradier, proyer, pruyer, prier, etc. „.
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 413
Né ci si opponga che, con questa nostra supposi-
zione, bisogna ammettere che nella mente del popolo
si sia oscurato e mutato l'antico valore del nome, poiché
tale fatto non sarebbe nuovo ne strano ; e invero : chi
mai dei parlanti un dialetto si rende più ragione delle
denominazioni di cui si vale? Forse che alcun bre-
sciano o bergamasco sa cosa voglian dire — passera,
machet — , nomi d'uccelli comunissimi, e dei quali
quindi gli ricorre sovente di menzionare? — Del resto
nulla di necessario, nulla di esclusivo. Noi per i primi
conveniamo che può benissimo darsi che, mentre alcune
popolazioni concepivano la " Miliaria „ come " uccello
delle pietre „, altre la chiamassero già fin d'allora
" uccello dei prati „.
Monticola cyamis. Abita nelle parti piìi riposte degli alti
monti, e pone il nido fra i dirupi.
Cuneo pàssra siditnria bla, Spezia mèrlo rokaé, Mes-
sina memi di rocca, Pisa mèrla tettaiuóla.
Montico' '^ saxatilis. " Abita i colli sassosi e nudi; ordina-
riamente sta posato sulla cima de' massi piìi elevati e
inaccessibili „ (Savi, Sylvia, I, pag. 219).
Boi. merci sdssol, Friuli codaróss di montane, Siena
tordo di rgcca, Nap. e Roma merlo de rqcca, Capri
passavo montanaro, Rovigo eòa rossa de monte.
Ruticilla titys. Mentre la phoenicuriis, detta semplicemente
carossi o cuaróssa, pone suo nido sugli alberi o negli
spessi cespugli, questa invece si compiace di porlo nei
muri ^), onde le denominazioni bresc. carossi de mUrdja,
') I, 234 (Sylvia): Nidifica nelli spacchi de' massi, ne' muri rovinati,
e qualche volta su i tetti, o ne' campanili.
414 G. BONELLl
piemont. bucidrd di rgk, milan. russino de miiràja,
sicil. cuda-rtissa di rgcca.
Saxicola oenanthe. Mentre pressoché dapertutto è chiamato
cììl-hidnk, a Pavia sembra meglio determinato, poich'è
detto cil-hidnk d'ia s'egla (segale); ma in realtà codesta
aggiunta specificativa ha ragion d'essere solo per Pavia,
giacché qui e nel Piemonte soltanto s'incontra la de-
nominazione cii-hidhk usata anche per un altro uccello
e precisamente per Vhirundo urbica ^); a distinguere
le due specie occorreva adunque per la saxicola o
lasciar da parte la denominazione generale cU-bidnk che,
se era già convenuta ad altro uccello, ora non meno
s'addiceva a questo, o specificarla con un'aggiunta, ed
ecco il nome cu-hidnk d'ia s'egla 2).
A Lecce è detto caca-pariti; vorrebbe forse tal voce
indicare la bizzarra abitudine di questo uccello di
vivere in prossimità a' ruderi, muraglie, case, e svo-
lazzare e posarsi su di esse, sulle roccie, sui sassi ?
(vedi i nomi suoi novaresi uh'el di sass, steinvogel). —
Confrontisi anche la denominazione barese pagignica
di parete e la francese rechiretto ^).
Sylvia cinerea. Come quell'uccello che piìi particolarmente
') Detta altrove comunemente dard o durder, denominazione certo
felice se significa, come sembra, dardo (questo uccello è invero nel
volo una freccia; cfr. la denominaz. tose, balestruccio) ma che non si
potrà però dire di conio popolare.
^) Nel Piemonte, ad Alessandria, il nome cùgiafico ricorre quattro
volte, ma pur sempre specificato; per la saxicola: cugiànco de tp-a,
per la hirundo: ciigiàhco d'àja, per la cUvicola riparia: ciigidhco de
riva, per il totanus ochropus: cugiànco d'dkiia. Così, sul Genovese, ad
Arenzano, la saxicola, cugiànco de bósko, la h. ufbica, cugiànco d'àja.
') Anche il Savi nota che nidifica sui monti nudi e sassosi.
I NOMI DKGLI UCCELU NEI DIALETTI LOMBARDI 415
vive nel folto dei boschi, in mezzo ai rovi e agli sterpi,
a Belluno è detta boskardela, in Toscana sterpazzola.
Tichodroma muraria. " Si ciba particolarmente di ragni,
che va a cercare sopra i muri e sopra i massi „ (Savi,
op. cit., I, pag. 186).
Savona rampegm de miMggia.
Turdus iliacHS, Aless. cqrsin{?)^ Gen. tordo corsesko{?), Siena
tórdo alpif/ino.
Turdus merlila. Reggio merlo de sepula — e invero i bo-
schetti, le piccole siepi, non gli alberi, sono i luoghi
ov'egli di preferenza dimora.
Turdus musicus. Cremona dùrden de muntdna, perché, a
differenza del viscivorus, che a Cremona è pur detto
duri, nell'Italia settentrionale non annida che nei
monti delle alte valli (Trompia, Camonica, etc). Vedi
anche Savi, I, pag. 212).
Turdus pilaris. Per distinguerlo dal viscivorus, che, siccome
annida si al piano che ai monti, è detto semplicemente
grivds, è in piemontese chiamato grivds d'muntdna, e
per la stessa ragione a Nizza tiirdù muntane, a Siena
tordéla alpigina, a Roma tordiccia di montdìla.
Nomi soggettivi.
Capitolo VII.
Specie a nomi accrescitivi e diminutivi.
Posit.: Alanda arvensis. - Bresc. sarloda, Berg., Mantova,
Pav. lódola, Crem. lodala, Gen. lóudura, Pie-
monte lódua.
416 G. BONEI.LI
Dimin.: Alanda arborea. - Bresc. liidiik, Berg. loduU, roduli,
Cremon. lodiiviik, Piac. lodlénna, Mod. ludUn,
lodlétta, Istr. lodoUna.
A.CGTQSC.: Alanda melanocorypha. - Gen. lodolùn, Ver. lodolón,
Bresc. sarlodii (Pieni, re d'ie lóduè).
Posit.: Alanda calandra o cristata. -Ven., Sicil., Sardo, etc.
calandra.
Dimin.: Alanda arborea. - Ven. calandrin, Mass., Sard. ca-
landr'edda.
Posit.: Anthus pratensis. - Bresc, Berg. sguiss'eta, Cremona
sgiiizzetta, Mil. giizetta, etc.
Accresc: Anthus aquaticus. -Bresc. sguissitu, Berg. sgtiisseUl,
Crem. guizzettón, Mil. guzetùn, etc.
Posit.: Athene noctiia. - Ossola Svetta.
Accresc: Asio oius. - Ossola svettón.
Posit.: Emberiza eia. - Bresc. spiónsa.
Dimin.: Emberiza cirlus. - Bresc. spionsi de rl/col.
Posit.: Garridus glandarius. - Br., Berg.^ Crem., Mantova,
Pav., Spezia, etc. gdka, Mil. gdsffia, etc.
Dimin.: Lanius collurio. - Bresc. gabét, gazareta, Berg. ga-
zala, Crem. sgarzet, sgarz^tta, Pav. garzaróla,
sgazirijla, Mil. gasffetta, Spezia gazuéla.
Funge poi da positivo per i nomi accrescitivi del
Lanius excubitor. - Br. gaietti (Berg. gazala frizù-
nera), Crem. sgarzetón, Mil. stragazzun.
Posit.: Hirundo rustica. - Bresc, Berg., Crem. róndena,
Mant. rondila, Pieni. rUndùla, Pav. rondanéna.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 417
Vie. rondi na.
Dimin.: Hirundo uròica. - ì^siv. rondonzhi, Boi. rundéccia,
Mod. rundek, Mant. rondanina, Yen. rondikkio.
Accresc: Cypselus apus. - Bresc. rondù, Berg. rondu d'mon-
t
tana, Piem. rundun, Mant., Pav., Vie. rondón.
Posit.: Monachus hortensis.- Rower. beccafik , Roma, becca-
figo, Nap. fuckola, Bari facédua, Sic. heccaficu.
Accresc,: Acrocephalus arundinaceus. - Rovereto beccafigom,
R. becca ficóne, Nap. fucetolóne, B. f acedua
grgss, Sieil. re de li beccafiki, etc. (Nizza riis-
sinidun, Ane. rossinolóne, etc.).
Posit.: Motacilla alba. - Bresc. boarota, Berg. balargta,
Crem. buar^tta.
Dimin.: Motacilla flava. -Br. e Berg. èoa/7, Crem. hUarina.
Posit.: Farus maior. - Bresc. speransina, Berg. parassóla,
paissóla, Gen. parissóa, Mil. paraSÓla.
i Parus caiidatus. -Bresc. speransi de la cùalóhga.
Dimin.: Parus wmor.- Berg. parassoli, Gen, parissolétta,
' Mil. parasiolin.
Posit,: Passer ,montanus. - Br. passera bìùerina, Berg, pàs-
sera bilzeróla, Crem. passera buzarina, Man-
tova pdsara bozarina, Civid. pàssere niinude,
Cuneo passargt d'rdsa pcita.
Accresc: Passer Italiae. - Bresc. pàssera grossa, Berg. pas-
serai., passertl, Cuneo j^^^ssarc/t d'ràsa grossa.
A Genova invece è denominata questa con un
positivo pàssùra (così a Belluno zélega) e la
prima con un diminutivo passUreta (Bell, zi-
418
G. BONELLl
ligéta) ; ad Arenzano l'una col diminutivo jyas-
suétta, l'altra col positivo passua, riservandosi
r accrescitivo passuùn alla specie petronia
stulta.
Posit.: Ruticilla phoenicurus. - Br. carassi, Mantova e Vi-
cenza coarossa, Gen. ciiariissa, Nap. codarus-
siéllo, etc.
Accresc: Monticola saxatilis. - Br. caróssol, Mant. corosolón,
Piem. ciiaruss gróss, Ver. skuarussolón, Vi-
cenza curussolo, Nap, codarusso gruósso.
Posit.: Scolopax rusticola. - Piem. hecdssa, Mod, pizzdcra,
Tose, beccdccia, Bari biccdccia.
Dimin.: Gallinngo caelestis. - Piem. bekassin, Mod. pizza-
cdret, Tose, beccaccino, Bari biccaccina.
A Brescia beccadel, evidente diminuzione di be-
cdsa, nome colà del gallinago maior. A Milano
snepa questo, snepiin quella.
Posit.: Sylvia cinerea. - Br. gobeta, Cogoleto ciarlétta.
Dimin.: Hippolais poliglotta. - Br. gositina, Cogol. ciarléttua.
Posit.: Turdus miisicus. - Berg. durt, Crem. durt, Man-
tova dord, Mod., Pav. tord, Vie. tórdo, Ge-
nova turlo, Friuli dordéi.
Dimin. femm.: AntJms arboretis.-Berg. diirdina, Crem. dUr-
dina, Mant. dordina, Pav. dordéna, tordéna,
Gen. ter dina.
Dimin. masc: Turdus iliacus. - Berg. sdàrdi, Vie. tordéto,
Mil. dressin, Mod. tord peznén, tùrden, Civi-
dale dordéi pizztd.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 419
Accresc: Turdus viscivorus. -Cvem. dUrddssa. Mant. dordàs,
Grosseto tordo maggiore.
Posit.: Turdus pilai'is.- Br esc. gardéna, Piem. ^rzm.
Accresc: Turdus viscivorus. -Bresc. gard'^ia grossa, Piem.
griv&n, etc.
Dimin.: Turdus iliacus. -Fìem. grivéHa.
E in realtà tutti questi uccelli che siam venuti ora
noverando non si differenziano tra loro, a due a due
considerati, che per la grossezza maggiore o minore.
Capitolo Vili.
Specie a nomi a base latina.
Alanda arvensis. Evidenti sue derivazioni sono certo, per
tacere del nome toscano allodola, la voce milanese,
bergamasca, vicentina, mantovana e pavese lódola,
piem. lódua, valt. ódola, parm. lódla, la cremon. lódula
e la sicil. lónora. Ma probabilmente anche la voce
bresc. sarlóda ne è un derivato, forse attraverso a un
primitivo *alóda, passato in seguito, per maggior faci-
lità di pronunzia, ad *arlo'da, dal quale, da ultimo,
l'odierno sarlóda. (La voce latina fa capo, secondo
alcuni, alla bretone alc'houeder che significa uccello
dell'armonia. Cfr. Diez, Etym. Worterbtich, pag. 13.)
Alanda calandra^ detta anche cristata. Bresc, Berg., Mod.,
Ven., Gen., Fir., Lecce, etc. calandra, Calt. caldnnira,
calanniruni, etc.
Anas boscas. Aless. dnia sarvdega, Ossola dnida selvddiga,
Lomb. nedra, nedrqt. Tose, dnitra, etc.
420 G. BONELLI
Aquila chnjsaetus. Piem. dcula^ diyia, Com., Bresc, Berg.,
Crem., Parm., Mod., Ven., Gen., etc. Tose, aquila,
Friuli dkuila, Nizza digla, Sicil. dcula, Cagl. dkili,
Sass. dbila. Già il lat. aquila è propriamente il fem-
minile di aquilus = " oscuro, nero „ , onde il nome
vorrebbe dire uccello nero (Cfr. Zambaldi, op. cit.).
Ciconìa alba. Piem. zig<^Tia, Mil. sigma, Tort. , Friuli, To-
scana cicóna, Bresc. siggna, Parm. zicgua, Spezia si-
gtina. etc.
Coccothraustes vulgaris. Per il fatto che, grazie al robustis-
simo e voluminoso suo becco, schiaccia con facilità,
mastica — frendit — anche semi assai duri, ebbe i nomi :
Aless. frixiun, Bresc. sfrihu, Berg. frizu, Cremon.,
Mant. sfrisón, Pav., Vie. frizón, Gen. fresun, Nap. fro-
solo'ne, Lece, frahune, Regg. frihthii. — Anche il Diez,
infatti, nel suo Dizionario etimologico delle lingue ro-
manze testé citato (pag. 275): " Frusone wird aus
f rendere, fresus hergeleitet „.
Columba palumbus. Bresc. colombdss, Pav. piìviùn, Valt. pe-
vión, Crem. culómp , Carpi clomb, Rmg. clumbdzz,
Ven, colombdzo, Nizz. piffeón, Tose, colombdccio, Roma
palómbo, Nap. palzlmmo, Sav. cUmbo sarvdègo.
Corvus ater. Br. e Berg. cgrf, Vie. e Tose, c'grvo, Gen. crgvo,
Nap. cu'grvo. Cuneo crgv, Oss. corv ^).
') Devesi però avvertire che tutti codesti nomi, come già, del resto,
la stessa base latina, hanno un valore onomatopeico, poi che la sil-
laba cor 0 ero, che è, per così dire, il nucleo della parola, ritrae in
qualche modo il gracchiare del corvo. — Quanto alla nerezza pro-
verbiale di questo uccello ricordinsi le espressioni dialettali lomb.
" n'eger come'n skurhàtt ,, tose. * non vedrebbe un corvo in un sec-
chio di latte „, e l'uso del nome suo a indicare, sempre però in tono
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 421
Cygnus olor. Piera, sia, Bresc. eia, Crem., Gen., Tose,
Nap. cino, Mod. zeTi, Sicil. cinnii.
Falco, falk'et, falk, etc. Secondo lo Zambaldi, che s'attiene
alla vecchia etimologia Isidoriaca (Cfr. Ethhn., XII,
Vn, pag. 57), dagli artigli a falce ; secondo altri, dalla
forma falcata delle ali.
Fringilla coelebs. Bresc. frdiiyuen , Berg. e Mant. frdnguel,
Spezia franyuéo, Udine frdnzell, Crem. frdnyol, Genova
fringudo, Rav. frangvell, Nap. frongillo, frungillo ^).
Fulica atra. Pieni, fola, Tort.-Novi fulaga, Pav. fulga,
Crem., Br. fàlega, Varzi, Tose, folaga, Parm., Mant.,
Mod., Rmg. fólga, Ven., Berg., Trent. fólega, Valdich.
fólcola, Roma f alcova , Nap. fólleca , Lecce fóddaca,
Terra d'Otranto fóddreca, Sard. pùliga -).
Grus communis. Spezia, Tose, Piem., etc. gru.
Hirundo rustica. Br., Berg., Crem. róndena, Mant. rondna,
rondamna, Pav, ronddnena, Nap. rennen^lla (*rende-
di disprezzo, il prete. (Quest'uso è probabilmente derivato solo dal
color nero della veste; però è a notare che forse anche il costume
dei corvi di accorrere ove siano delle carogne — cfr., il prov. ital. :
Dove son carogne, son corvi. Strafforello, La sapienza del mondo — ,
e cibarsene, può aver fatto pensare ai preti, i quali pure, per il loro
stesso ministerio, tosto accorrono ove sia qualche morto. Certo queste
abitudini del corvo lo han fatto concepire come un animale molto
sporco, avido e di malo augurio, come ne attestano perfino i proverbi
indostani: " Il corvo, se trovasse anche un lago pieno fino all'orlo,
pure desidererebbe di bere in un vaso di terra — Avete mai scacciato
un corvo colla mano sporca di cibo? — Il corvo gracchiò e il gufo
ululò „. Vedi Tagliabue: Proverbi, detti e leggende indostani).
') " Stark aus fringuilla ist it. filunguello „. Diez, op. cit., pag. 590.
^) E la base latina va forse connessa con la radice greca (paX (cfr.
fpaXapóq, qpaXióq) indicante splendore, che invero la folaga, pur es-
sendo tutt'altro che bianca, anzi nerissima, come di solito gli uccelli
acquatici, ha le penne assai unte e quindi alcun poco rilucenti.
Studj di filologia romanza, IX. 27
422 G. BONELLI
nella) taÙaful^rfece, Vicentino róndina, Gen. rondala,
Reg. rindina d'dkua, Piem. rùndiila, riàndàla^YaMeì-
lìna rundena, Piac. róndana, etc. \).
Hirundo urhica. Ancora dello stesso nome generico scen-
dono il nome napoletano di questa specie, il semplice
rennenflla, i sicil. l'inninédda, rinnina, etc, e i nomi
accrescitivi, cioè quelli del cìjpselus: rondu, rondón,
rondóne, etc.
Lanius minor, maior, coUurio, in Toscana e sul Napoletano
velia, verla, averla da ^avelia, *avkula, avis (Cfr. Zam-
BALDi, op. cit.).
Ligurinus [Chrysomitris spinus). Bresc. lugeri, Berg. logarz,
Belluno lugret, V dine lujar, Crem. liigar'^M, Pav. legor'^l.
Vie. nogarm, Gen. liìgarin (pi. lugari). Basso Nov. W-
^M^/w, Mil. regorin, Piem. lugaén, Ossola rigorin, Ca-
dore Zu^er, Mil. regorin, Civid. Ziyer, Nap. Zé-cora,
Reggio lùgaro, Mess. Zwarw ■^).
') Quanto poi alla stessa voce hirundo, essa forse fa capo alla ra-
dice ghar, in relazione al fatto che le rondini cacciano, ghermiscono
gli insetti-
*) Avvertiamo però che nessuno dei lessici che abbiamo consultato
(Freund, Diction. de la l. latine; Du Gange, Glofìsarium m. et infimae
latinitatis ; Forcellini, Totius latinitatis lexicon) ci offerse la parola
ligurinus in questo significato di uccello ; e che presso gli stessi na-
turalisti, a es. Linneo, tale nome è usato non già a indicare l'uccello
che oggi volgarmente chiamasi lucherino, ma il verdone; onde si può
forse sospettare essere la voce ligurinus di origine popolare, abba-
stanza recente, e aver dessa indettata quella scientifica.
Altri nomi che il popolo adopera a designare specie che non sono
quelle allo stesso nome corrispondenti nella scienza, sono, ad esempio,
calandra, che, mentre volgarmente indica Vaiando cristata, presso i
naturalisti serve a designare l'allodolone {melanocorypha calandra), e
reattino (reéiHo, recàcco, etc.) che, se pare debba indicare il regulus,
corrisponde invece al troglodytes.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 423
Lusciola luscinia. Br.. Berg. rosinol, Mil. rosnó, Cuneo arsimi,
rausinól, Crem. liìsinóol, Mant. rosnó, Pav. rosonó, Vie, ros-
sinnólo, Gen. rossinó, Nap. rusiMólo, Reg. rusinolo, etc.
Tose, uhimiólo (Qui tali nomi noi registriamo, poieliè
siamo d'avviso ehe in essi tutti s'abbia a ravvisare
la base latina ^) e non già l'allusione al colore ros-
siccio della specie, come un po' ingenuamente voleva
il Bellonius 2)).
*) Anche lo Zambaldi li deriva dal latino, e precisamente da una
forma * htxi-cinia che vorrebbe dire " uccello che canta nel crepu-
scolo „, denominazione certo assai propria, poiché l'usignolo, come
è noto, ama cantare non già nelle calde ore del giorno, ma in quelle
della sera fino a notte avanzata. Cfr. le denominazioni ingl. the night-
ingaìe, ted. der Nachtigall, alle quali, da noi, risponde la siciliana
nottuldnu.
') I francesi, ei dice, lo chiamano " rossignol en pai-tie pource qu'il
est roux : lui voyant la piume rousse, tirant quelque peu à la couleur
enfumée „ (cap. Du rossignol, lib. VII, op. cit.).
A proposito del Bellonius : quando egli tratta del rousserole in un
capitolo, e del rossignol, è cosa certa che avrà inteso designare col
primo nome una specie e col secondo un'altra; ma se non v'ha dubbio
che nel capitolo ' Du rossignol ' del libro VII si riferisca al vero usi-
gnuolo (infatti vi discorre deiretimologia latina di liicinia ' uccello che
canta all'oscuro ' da Incus ombra), non si può però affermare ch'egli
nell'altro capitolo parli sempre d'un diverso uccello, e perché vi cita
la frase colla quale Aristofane intese probabilmente di tradurre il
canto appunto dell'usignolo (essa, negli 'OpviBe^, è messa in bocca
all'upupa, èiToip, che chiama a consiglio le diverse specie d' uccelli
imitandone i diversi canti; suona così: Topo Topo Topo Topo TÌ5-KiKaPaO
KiKKoPaO- Topo Topo Topo Topo XiXiXiì), c perché, scusandosi di non
trascrivere i motti francesi foggiati a proposito dei melodiosi gor-
gheggi del rousserole, dice che i contadini, soliti a udirlo cantare,
" ont tellement retenu son chant, qu' ils en ont fait des chansons si
impudiques à la pronontiation, qu'il ne seroit licit les écrire, non
seulement les penser, sinon à gents effrenez,,; notizia questa che ci
fa ricordare come anche da noi, in Lombardia — ve' combinazione
— corra sulla bocca del popolo una frase che, senza essere proprio
* à la pronontiation impudique ' è certo poco pulita (camizi cùrt curt
ciirt . . . mostr' i ciàp ciàp cidp ciap . . .), e la finale, pronunciata con
424 G. BONELLI
Oriolus galbula. Dal nome generico ^) il piemontese loriól,.
il nizzardo awiù, il toscano rigogolo (da auriyalbulus?);
dallo specifico, il bresc, galheder, il beig. gallar, il
crem. galpéder, il sondr. gard'e, il pav. galb'e, il nova-
rese mèrlo garhél, il lucchese góbulo, l'abbruzzese grà-
volo, etc. Di colori verde e giallo chiassosi — le ali del
maschio nere — quasi lucenti ; onde forse che nel
gergo bresciano si usi tale nome -) a indicare i con-
tadini, come quelli che amano nei loro vestiti, quasi
sempre appunto di color verde, la tinta vivace e sgar-
giante. Per verità, atteso il colore giallo e il nome
una certa cadenza, ritrae felicemente, inutile dirlo, appunto il cauto
dell'usignolo. Si deve dunque sospettare che il Bellonius in quei due
capitoli, credendo di trattare di due diverse specie, abbia in realtà
sempre discorso del vero usignuolo, o ritenere che sotto il nome roìts-
serole abbia indicato la Sylvia turdoides (uccello che pure in dialetti
italiani è detto usinuólo d'acqua, Napoli; usinolo di canne. Cuneo;
e che il Savi dice in francese la rausserolle) ma che l'abbia qua e là
confusa colla luscinia^ Pensi ognuno quello che meglio gli pare; a
noi ci basta aver rilevato che anche il vecchio Bellonius si occupò
dell'etimologia del nome usignuolo, e che, probabilmente, anche il po-
polo francese tradusse il canto di questo squisito cantore in arguta
frase onomatopeica.
'j La stessa voce latina oriolus è però già una derivazione dalla
piena aureolus, alla quale quindi vanno ricondotti i nomi italiani come
i francesi, ai primi tanto somiglianti, talvolta perfettamente uguali.
(Cfr. auriol, oriol, uriot, loriol (nel qual nome 1' l non è altro che
l'articolo cementatosi al sostantivo), gloriot, etc. (Rolland, op. cit.,
pag. 230); e, quanto al significato, il nome che ha a Sondrio: merlo
aduró).
^) Accanto a quello di persele (pesca): nomignolo che non riusciamo
a bene spiegarci, giacché, se in qualche modo può sembrare che sia
stata l'ingrata pelurie della pesca il motivo che lo suggerì per de-
signare scherzosamente il sempremai ruvido e rozzo contadino, è pur
vero che a proposito della pesca corre appunto sulla bocca del po-
polo — e chi sa fino da quando — un proverbio che fortemente scon-
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 425
latino galbuliis o gahjulus ^) non tornano difficili a spie-
garsi i nomi volgari di questo uccello; tuttavia, non
vi si potrà in nessun modo sospettare una radice te-
desca gelb? -) (Savi, op. cit., I, pag. 190).
Phasìanus colchìcus. Lomb. fcóà, fa'zan, Tose, fagiano, Cor-
sica fasici nu.
Passer Italiae. Bresc. pàssera grósa, pàssoyt, Mant. pdsara
nostrana, Gen. pdssura, Savona passila^ Lucca, etc.
passero.
sigila dal pelare la pesca : " all'amico pela il fico, al nemico pela la
pesca ,. — 0 si dovrà forse intendere il suddetto nomignolo come
risultante di due parole ' per sek ' insieme, coll'andar del tempo, in
siffatta guisa cementatesi da aver perduto colla vera pronuncia l'an-
tico significato di ' pera secca ' e cioè di cosa buona a nulla ?
Anche questa seconda spiegazione non avanziamo che molto timi-
damente ; poiché a noi stessi sembra non poco arrischiata, e pensiamo
non sia qui forse da interpretare la detta parola nel significato di
frutto, ma di pianta, e voglia così appunto ricordare — poiché il
pesco è una pianta di solito storta, tutta ad angoli, gommosa — la
proverbiale ruvidità contadinesca.
') Plinius, Naturalis historia, XXX, 28: " Avis icterus vocatur a co-
lore, etc. Hanc puto latine vocari galgulum „.
-) Sarebbe cosa curiosa a conoscere per quale ragione mai codesto
uccello venga scherzosamente detto in parecchi luoghi del Piemonte
e del Veneto compare (compare péreu, barba perù, compare piéro,
barba piéro (Trev.)); ma in proposito il Savi nulla ci dice e neppure
il Belon, benché non solo da noi, ma eziandio in Francia, ricorra per
il golo l'epiteto di compare. Vedasi infatti la frase che molti cam-
pagnuoli francesi s' immaginano di udirsi cantare da esso : " c'est le
compero loriot, qui manges les cerises, et laisse le nojaux „ (a gu-
stare il quale scherzo occorre sapere che i rigogoli sono delle ciliege
ghiotti in modo straordinario, come però anche dei fichi, onde che,
a riguardo di questi ultimi, i contadini toscani credano, secondo il
Savi ne avverte (I, 357}, sentirsi chiedere dal golo " 0 contadino,
è-matùrolofi'co? ,). Solo il Rollandne discorre; ma della sua ipotesi,
che noi non crediamo di poter condividere, vedasi nell' Appendice,
nota li.
426 G. BONELLI
Così pure, sempre dalla stessa base passer, i nomi del
Passe)' montanus. Bresc, Berg., Cremori, passera hiùerlna^
Mant. pdsara bosarhia, Pav. passaréi, Gen. passUr'^ta,
Sav. passuéta, Tose, passera mattùgia, Nap. passavo de
pertuso ^). *
Ficus maior, *piculiis, ^pic'lus, pikkio (Tose), Mil. picds^
Crem., Mant. pik, Pav. picoss, Vie. pigózzo, etc.
Monacus hortensis. È quest'uccello il beccafico o bigione dei
Toscani, e quindi la ficedula degli antichi abitatori del
Lazio, al quale nome latino tornano esattamente tutte
tre le denominazioni ch'esso ha a Napoli : ficétola, fo-
cétola, fucétola.
Regulus ignicapillus. Gen. reginéta, Nap, riginiello.
Serinus hortulanus. Aless. siaén.
Starna perdix. Piem._, Com., Crem., Bresc, Friuli pernis^
Ven. per uzze, Tose, Ossola, Boi. starna, Novi pernis
stèrna, Parm. permea, Nizz. perdis, Gen. sterna.
Sturnus vulgaris. Bresc, Berg. stornel, Crem. stiirléen, Man-
tova stórlo, Pav. stóren, Vie storlm, Gen. strunelo,
Spezia sturnéo, Bassano stridio, Pad. strialo, Nap. stùrno.
Tose stórno.
Syrmium aluco. Bresc, Berg. lok, Gen, ùko, Nov. oluk, Mi-
lano tirli'ik, Pad. alóco, Spezia anco, Tose allocco.
Turdus merula. Bresc, Berg., Crem., Mant. m'irlo (così pure
') Alla base latina passer (la quale, a nostro avviso, più che al
tema ^Jrtrf-guizzare-, deve far capo a quello di /)a^volare-; efr. TréroiLiai,
petere, etc.) si riducono anche i nomi iva^ncesi: prasse, prache, eparse,
passe, etc, mentre gli altri come moine, moineau, moneau, moinnof, etc.
e i femminili moiniche, etc, trovano lor ragione nel colore delle penne
dell'uccello, colore che ricorda il vestito de' monaci {moines). Cfr.
Rollano, op. cit., II, 154.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 427
a Vie, Gen., Fir., etc); Pav. nizral, Piac, Parm. mérol,
Mod., Boi. mérel^ Nizz. mérlu, Nap. miérolo, Sicil. m^rrw,
Catanz, miédduru, etc.
Turdus miisicus, Bresc, Berg., Crem. duri, Novara tàrod,
Mantov. e Pav. lord, Vie. e Tose, tórdo, Gen. tnrlo,
Nap. tiirdo, Sard. tradii.
Turtur ^) tenera. Pieni., Crem., Bresc. turtura, Novi tiirdua,
Varzi tùrdra, Parm., Mod. to'rtra, Gen. ttirtua, Piae.,
Ven., Tose, tortora.
Upupa epops. Bresc., Berg., Crem. boba, Ossola buba, Parma
bùbla, Boi. pópla, Rmg. pi'ippa, etc.
Vanellus cristatìis. Mil., Boi. vanetta. Cfr. i nomi francesi
vanneaiix, vaguoz, vanéou, banèou, vanela, etc. ^).
Uno dei pochi uccelli i cui nomi italiani hanno a base
una voce gallica è Vathene noctua. Essa infatti è chiamata
in piemontese Hiiétta, a Novi saétta, a Ossola svétta, in
pavese ziveta, in Valtellina, a Milano sigu'eta, a Brescia,
Berg. si'^ta, nel Cremon., Mod. ziveta, Boi. zìiétta, Venez.
zoétta, etc, Tose, civetta, nomi tutti facenti probabilmente
capo, come nota lo Zambaldi, al francese chotiette, diminu-
tivo dell'antico choe, provenz. cJiau, che pare il medio te-
desco choich ^).
*) Voce onomatopeica.
^) Il Rollane! vede la ragione di tali nomi nel rumore che questo
uccello fa colle ali quando vola, che molto somiglia, secondo lui, al
rumore del vaglio in moto quando staccia il grano.
^) Il DiEz, op. cit., pag. 547, ne connetterebbe la radice per mezzo
del provenzale con quella di bubo, voce però che sotto upupa più non
ricorda.
428 G. BONELLI
Però anche nel nome piemontese della tordella (grira) ^)
si dovrà vedere l'influenza francese ; giacché, come è noto.
la grive è appunto il nome col quale i francesi indicano
in genere i tordi (turdus musicus) e specialmente le tor-
delle {tnrdus ptlaris, turdus viscivorus), in quanto questi
uccelli, sullo stomaco, bianco, son picchiettati di nero :
" Il est manifeste que la grive à ainsi esté appellee de sa
couleur; car encor, pour le iourd'huy diron une chose gri-
velee, quand nous la voyons estro tachee de noir sur le
gris, ou autre telle couleur. Aussi n'y à il oyseaux plus
madrez devant l'estomach, que sont les grives, etc. „
(Belon, op. cit., XXXI); e così pure nel nome novarese del
ciuffolotto {buvreul) che, come già s'è avvertito alla nota 1,
pag. 381, strettamente connettesi ai francesi bouvard. bou-
vreuil, etc.
b)
Parimenti in alcuni riscontrasi una radice tedesca, e cioè
nel nome comunissimo del yarridus glandarius, gazza {gaza,
gdda, gasgia, argdza, etc), che infatti pare risalga all'an-
tico alto tedesco agalstra (al qual nome certo fa buon
riscontro appunto quello latino di garrulus); in quelli della
cannabina linota (la fringilla cannabina del Savi), Brescia,
') E siccome questo uccello fa il suo passo autunnale ad inverno
inoltrato, così il nome suo è diventato sinonimo di freddo; cfr. le lo-
cuzioni ciap§ 'l griv, ]ìi§ 'l griv, che significano intirizzire, e il pro-
verbio francese " quand on entend la grive chanter, cherche la maison
pour t'abriter ou du bois pour te chauffer ,. — Una specie poi, che
se i dialetti indicano come schiettamente invernale, in qualcuno
ebbe per nome quello stesso di " freddo , "e la monti fringilla nivaU.i:
Cuneo frahguél dia fiocca, nevarol. Novara frangxel dia iief, frec'c', etc.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 429
Berg., Cremon., Mantov. fan'el, Mil., Pav. fan^f^ Sondr. fìnl't;
Vie. faganélo, Gen. fanéto, etc. nei quali pare, poiché lo si
afferma per la denominazione piemontese fmim (vedi il
Dal Pozzo, Glossario etimologico piemontese), si debba ve-
dere l'influenza della voce hanfling, essa certo derivata da
quella di ìuoìf, canape (cfr. i nomi francesi linot, linette,
linotte, ninotfe, linegez, liniéron, etc.) ; nel bellunese krosnohel,
udinese krosnoU, della loscia curvirostì'a, derivanti certo dal
tedesco krumìnschnabel; e nel novarese steinvogel, che è tal
quale la voce tedesca, della saxicola oenanthe.
Capitolo IX.
Nomi ironici o scherzosi.
Un'ultima categoria si potrebbe ancora aprire, e questa
dirla dei nomi ironici. Uno solo però è, ch'io mi sappia,
l'uccello che ha avuto di tali denominazioni, ed è il troglo-
diftes parvulus.
Esso, che è chiamato dai toscani skn'cciolo, a indicare
il grido suo che può somigliarsi ad uno scricchiolìo ^), è di
tutti gli uccelli il pili piccolo, sì che lo si potrebbe dire
l'uccello mosca dell'Italia, e ricorda assai da vicino per il
colore delle penne, e la forma, e la proporzionale lunghezza
della coda, la beccaccia, la scolopax rusticola.
Orbene: questi due fatti, della piccolezza e della somi-
glianza alla beccaccia, hanno ispirato, per così dire, quasi
tutti i suoi nomi dialettali, e invero noi lo troviam detto
a Brescia reati, Berg. regiisi, Mil. reotin, Mant. reatin ; a
') Cfr. il nome frane, cretcret.
430 G. BONELLl
Verona irnperatór, Vere, r^ di iUéi, Parm. re d'joslin, Cuneo
re pcit, recùcala, Pisa recdcco, Bell, regiìz, Pad. rebéto,
Roma r§ di uccelli, Messina rizddu, Regg. rullìi; e, ancora
a Bergamo, ove, ricordiamoci, la beccaccia è detta pala
(quasi la gallina del bosco), è pur detto palina, e anche
addirittui'a re di poh, precisamente come a Cremona e a
Belluno, ove la beccaccia è detta gallindzza, egli è chiamato
galinazén, galinazéta. E taciamo del modesto nome man-
tovano granin d' fava, e del messinese pidicikkiii, come dei
due iperbolici bresciano e bergamasco trenta pes e trenta
pis ^), vogher. cent-rubb. Cfr. i nomi francesi nozeta (ben
*) 11 peso vale, come misura, otto chilogrammi. — Questa piccola
esagerazione dei duecento quaranta chili fa ricordare 1' antichissima
favola del Neckam, particolarmente, credo, stata illustrata dal Meyer,
e viva tuttora oggidì, del reattino che all'aquila avea dichiarato di
saper volare piìi alto di lei; essa per tutta risposta batte l'ali, s'alza,
si leva, si perde nelle nubi, solo però tanto da poter ancora al basso
far sentire la sua voce, che grida sdegnosa al piccolo prosuntuoso :
" Chi è ora più alto di noi? Ove sei che neppur ti vedoV „ — " Qui,
e piìi alto di te „ le grida egli saltandole dalla testa sulla schiena.
L'avea essa portato fin lassù senza accorgersene. (Al pari di tutte le
favole varia alquanto e secondo i luoghi; come l'abbiamo accennata
si narra in Lombardia). — E sempre pare che il popolo abbia nel
reattino impersonata , a così dire , l'astuzia , quell' astuzia che sa
districarsi con piccoli accorgimenti anche da gravi impicci, poiché
scorrendo quell'inesauribile miniera dei prodotti della fantasia e co-
scienza popolare che è la " Biblioteca delle tradizioni siciliane , del
Pitré, troviamo subito (voi. VI della serie Novelle, fiabe e racconti,
pag. 188) la fiaba Vaciduzzu (nome che" certamente deve aver ser-
vito a indicare appunto lo scricciolo, poiché ancora oggidì lo scric-
ciolo è chiamato a Messina acidi'izzu muska), nella quale si racconta
che essendosi, a cagione d'un temporale, " cumpàri aéidùzzu „ ripa-
rato nella tana d'una volpe, questa poi lo voleva mangiare, ma egli
se ne scampa domandandole la grazia, poi che proprio pietà non
avea di lui, di farlo morire almeno a suo piacere " e senza sinti'ri
tantu duluri „. Avendo infatti consentito la volpe, il reattino le dice:
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 431
ricorda il nome arenzanese castanétta), fabarelo, e i sa-
voiardi pei/ dr hou e pet de boii.
Forse però, oltre il harhagidnni [strix flammea), per il
nome suo ossolano bèlla dònna, anche il rondóne {cypselus
apiis) si potrà qui noverare, e cioè qualora nella denomi-
nazione genovese sbirr ^), invece di vedere in qualche ma-
niera ritratto il suo grido, si volesse scorgere l'intento
scherzoso di chiamarlo " sbirro „, in quanto tutto nero,
grosso, dal volo velocissimo e tortuoso ^) s'aggira, in pic-
coli stormi, quasi ronda, attorno alle alte torri, ai vecchi
" Avt'ti a fare accussi; vi kiùditi l'ocki, e vi gràpiti (vi aprite V) la
viicca bédda grànni, e quànnu io vi pózu'nta la lingua, mi dati un
skacciunéddu e m' aggiùttiti. — Resta fatta! — rispiizicci la vurpi;
e ddicu si kiùdi l'ócki, e si mitti cu la testa all'aria e cu tàntu di
yucca aperta. Cumpàri Acidùzzu allura ppir „ via se ne scappa
" comm 'na saitta di dda gratta ,. — E come ha saputo minchionare
la istessa volpe, tanto meglio un'altra volta si sottrae al cane cui si
era in una passeggiata, da spensieratello qual' egli è, imprudente-
mente accompagnato, e il quale, nel ritorno, trovandosi ad aver fame,
pretendeva, cosa da nulla, di mangiarlo {" 0 mi duni a raanciihi, o
ti manciù! „). Che fa lo scricciolo? pensa e ripensa, ma davvero non
trovava scampo veruno; come infatti avrebbe egli mai potuto, po-
vero uccellino quale era, procurare da cena a quel bestione di quel
suo compagno di viaggio? Quand'ecco che vede venire alla lor volta
un " picciutéddu „, un ragazzetto cioè che teneva tra le mani un te-
game di " pasta 'ncaciata „. Questa potrà ben servire e meglio di
lui a sfamare il brutto cane ; ma come fare ad averla? — Niente
paura; cumpàri acidiizzu è d'ingegno molto pronto: eccotelo d'un
volo sul tegame, sulla pasta istessa: " lu picciutéddu vidennusi
st'Acidiizzu pi davanti, jétta cu 'na manata pi akkiappàrulu ; e ddócu
tiritùppiti 'n terra teànu e pasta 'ncaciata. Cumpàri Acidùzzu va
sùbbitu mii cumpàri cani, e ci dici: — Va, saziativi, a ca io vi
saliitu — „ che anche questa volta il ripiego l'ha trovato.
') Belluno, Feltre, Cadore sbiro, Corsica sbira, splrlo.
^) Cfr. il nome frane, coupoven.
432 G. BONELLI
edifizi, ai castelli \) ; così pure lo stiaccino per il suo nome
umbro di predicatóre — probabilmente stato suggerito al
popolo dalla costante abitudine di questo uccello di posarsi
sulla vetta dei rami più alti, e di là, quasi da pulpito,
fare il suo gorgheggio -) — , e Valiùzza per il nome di bàlia
che le vien dato non nel solo Volterrano, per il costume
" d'andar visitando i nidi degli altri uccelli, per cercare i
piccoli insetti che vi si rifugiano ., (Savi, II, pag. 5).
Tuttavia, se altre denominazioni che si possan dire ironiche
forse non si danno, ricorrono invece piuttosto frequenti i
nomignoli scherzosi, con significato, per vero dire, più o
meno esplicito, come, ad esempio, quelli sardi di consiliére
e frate gavinii del pettirósso; quello di petegola affibbiato
dai Veneti aìVaccentor — forse perché questo uccello quasi
di continuo emette il monotono grido suo di passo " giii „ — :
quello anche di compare pi'ero pur dai Veneti dato al rigo-
golo; e quelli infine della ruticilla tytis che dal colore ne-
rastro delle penne è detta a Como covaróss ferree, Mo-
dena mananèn, Rover, parolgt (calderaio), Nizz. cuo-rùss
pinatie, Capri codirósso prevetariéllo , Girg. cùda-rùssa car-
bonara.
Ma — tornando ancora allo scricciolo — notiamo come
*) Nel caso, la denominazione la si potrà suppoiTe voce dotta pas-
sata nel popolo.
*) Ricordiamo, non tanto però per ironia che contenga, quanto per
la stranezza sua, il nome pavese rik e pgver indicante Vacrorephalus
arundinaceus (la sylvia turdoides del Savi) o canareccione. E strano
lo diciamo, giacché per quale trapasso logico o ideologico siasi esso
mai potuto dare a questo uccello non si vede, onde bisogna ammet-
tere con C. Cattaneo {Noi. sulla Lombardia, I, 366) che tal nome gli
sia stato dato perché sembra ripetere le due voci. Cfr. il nome frane.
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 433
dei dialetti che abbiamo preso a considerare a riguardo di
questo uccello riesca particolarmente notevole il berga-
masco, come quello che gli assegna ben otto nomi ^) ; e ci
duole di non potere, ora almeno, riunire tutte le denomi-
nazioni di questo uccello nelle singole regioni d'Italia, come
altri fece, ad esempio, della lucciola ^), poiché, crediamo,
tornerebbe interessante vedere da quanti punti di vista,
e quanto imaginosamente sia stato dal popolo considerato
questo " piccolo re „ ^). Forse però nessuna città ci offri-
rebbe otto nomi come Bergamo; ma ciò pur servirebbe a
chiarire che di tutte le regioni italiane, per questo rispetto
dei nomi ornitologici, la più interessante sia la settentrio-
nale, e, delle città sue, Bergamo, la montanara.
') Onomatopeico : cerr
Dalla stagione : oseli del frecc
Dall'abitudine di volare tra le siepi :
buza-séss, sbiiza-séss, re de séss.
<
Ironici : regusi, polina, re di póle, trenta pis.
*) Salvioni, Lampyris italica.
^) Anche in Francia : voi des oiseaux, petit roi, reipeti, retalet, rehet,
rehetin, récouchet, etc. (Rolland, op. cit., II, pag. 288).
'434 G. BONELLl
PARTE SECONDA
Considerazioni intorno al genere
dei nomi ornitologici.
E ora che dei nomi abbiamo terminato la rassegna — la
quale, a chi per poco la studi, mostra come la maggior
parte delle denominazioni ornitologiche rilevi il colore del-
l'uccello, una minore il canto, e come, per conseguenza,
dei criteri direttivi nella formazione dei nomi ornitologici
s'abbia a ritener principale quello dell'indicazione del co-
lore ^) — ci si permetta d'avanzare circa la diversità del
loro genere, un'ipotesi che a noi sembra degna d'appoggio,
perché in nulla contraria a verun principio linguistico, anzi
tale che si può confermare con un discreto numero di casi
favorevoli che noi oseremmo chiamare prove.
S'è visto come le denominazioni ornitologiche non siano
tutte di un medesimo genere, ma alcune maschili, altre
femminili ; del quale fatto se in certi casi ci possiamo ren-
dere facilmente ragione col nome istesso — laddove, ad
esempio, esso è un composto, cioè risulta dalla somma di
due, un sostantivo e un aggettivo, il quale ultimo è ben
naturale che concordi col primo — , in molti altri casi invece
') Mentre i nomi indicanti il canto sommano — per restringerci^
s'intende, a quelli soltanto da noi considerati, che, per altro, se non
sono proprio tutti gli usati, sono almeno, crediamo, i principali — a
circa 200, quelli ritraenti i colori sommano, essi soli, quanto com-
plessivamente tutti gli altri indicanti il cibo, le abitudini, i luoghi,
e cioè a circa 330.
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 435
non lo comprendiamo, giacché non si sa proprio vedere il
motivo della denominazione femminile piuttostoché maschile
0 viceversa. Così, ad esempio, se di leggieri si comprende
perché il monaciis atricapilhis sia stato detto con nomi
maschili cdpo-neger, capo-niger, cap-néger, cdo-négro, capo-
négro etc, e d'altra parte la ruticilla phoenicurus con nomi
femminili cùa-róssa, cóa-róssa, etc, non si vede con altret-
tanta chiarezza il perché VantJms arboreus, Vaccentor ino-
dularis, il buteo vidgaris, etc, etc, abbiano denominazioni
femminili, mentre degli uccelli, possiamo dire la maggior
parte, ha nomi maschili.
Ora: noi crediamo di poter sostenere che in tali casi
questo fatto della varietà del genere dipende dalla evidenza
del sesso delle singole specie d'uccelli, e precisamente che
la denominazione maschile è propria agli uccelli dei
quali si rileva con facilità il sesso;
la femminile a quelli — invece — che è difficile, — o
addirittura impossibile, se non ricorrendo all'esame anato-
mico, — stabilire se maschi o femmine. — Ciò almeno ci con-
ducono a credere le denominazioni lombarde, che, quante
ci è stato possibile, abbiam cercato di raccogliere e studiare.
ISIè, del resto, crediamo che tale criterio si possa allar-
gare sì da comprendervi anche i nomi usati nelle altre
parti d'Italia^ giacché in essi piìi non ci pare di ravvisarlo
sì bene come nei Lombardi; fatto questo che, se da prin-
cipio rese noi stessi dubitosi della nostra congettura — sem-
brandoci cosa strana che un criterio linguistico potesse
presentarsi, quasi sporadica apparizione, solo in qualche
luogo d'uno stesso distretto — , appresso però, riflettendo
come il criterio che noi sosteniamo presupponga nelle pò-
436 G. BONELLI
polazioni che lo devono aver applicato una diffusa e sicura
conoscenza dell'avifauna, anziché strano, trovammo naturale.
Infatti, per non parlare delle isole e dell'Italia meridio-
nale, dove ancor oggi, fortunatamente, sono scarsissimi i
modi ben organizzati dell'aucupio, in tutta l'Italia nordica
la passione per la caccia minuta — e quindi la conoscenza
del mondo ornitologico — non è veramente radicata e diffusa
se non in Lombardia, ed in questa di gran lunga in modo
pili spiccato a Bergamo e a Brescia ^). Già nella stessa
') E a documeutare con qualche esempio, se possiamo così espri-
merci, che tale tendenza non è cosa solo dell'oggi, ma risale sino a
tempi assai remoti, non avremmo che a far nostra la nota n. 28
dello Zamboni, Memorie intorno alle i^ubhliche fabbriche 2yiìi insigni della
città di Brescia, Brescia, 1778 (" Non si può negare che presso ai
nostri lombardi fino dagli antichi tempi l'aucupio non fosse un eser-
cizio per cui essi avevano della passione, poiché etc. „), o riferirci a
qualche documento bresciano, come, ad es., a quello della prima metà
del sec. XIII del monastero di s. Giulia (Arch. di St. di Milano), nel
quale atto si parla appunto di un dominus Petrus preshyter ecclesiae
de Gotenengo ch'era stato visto più volte euntem ad venationes cum
sparaveriis et canibus, o ad altri, pur dello stesso fondo archivistico,
del sec. XIV, nei quali ricorre frequente menzione di caccie " vena-
tiones „ e vi s'incontrano spesso nomi di persona e di località ricor-
danti l'aucupio, ad es., Otto, Johannes da la teza — ubi dicitur sub
durdario, etc, o agli stessi Statuti della città. Ma, per non attar-
darci in simili riflessioni, qui a noi di importanza secondaria e che
pur vorrebbero, nel caso, ricerche piìi estese di quelle che non siano
state le nostre, ci basterà richiamare piuttosto l'attenzione di chi
legge al fatto che gli stessi nomi delle due forme fondamentali di
uccellanda le indicano sorte prima che altrove a Bergamo appunto
e a Brescia: paretaio o bergamasca, e brescianella. Vedansi anche i
libri di LoDov. Bettoni, La caccia nella riviera benacense, e di Gius. So-
LiTRo, Benaco, nei quali pure si discorre dell'antichità e importanza
delle caccie e uccellande della provincia di Brescia; e, riguardo ai
primi anni del 700, nei quali si può dire che nella provincia di Brescia
le uccellande pullularono, vedasi la storia del Cazzago, il quale quasi
a riprova dello straordinario aumento, nota che già nel '722 si cominciò
a lamentare la diminuzione degli uccelli, segnatamente dei fringuelli,
dei tordi e delle allodole.
1 NOMI DKGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 437
Milano, ad esempio, il popolo conosce pochissimo gli uccelli;
sicché non è raro sentirlo chiamare, indifferentemente, "" pas-
seritt „ fringuelli, calenzoli , lecore, etc. , etc, e stimare
d'ugual valore i cardellini e i fanelli.
Gli è perciò che non ci fa meraviglia che nelle altre re-
gioni d'Italia, tra i criteri direttivi nella formazione dei
npmi ornitologici non sia entrato questo che abbiamo enun-
ciato e che c'è parso di sorprendere nei dialetti lombardi.
Tuttavia nel Piemonte, nel Veronese, nel Veneto e in
qualche altro luogo troviamo bene spesso i nomi d'ugual
genere dei lombardi, benché di questi a diversa base; tan-
toché non crediamo inutil cosa, pur restringendo la nostra
affermazione ai dialetti di Brescia e di Bergamo, aggiungere
nella rassegna che ora facciamo delle varie specie e loro
nomi bresciani e bergamaschi, anche quelli di tali regioni.
Non tutti, a ogni modo, a cagione del loro vario scopo
e significato, si possono considerare come governati dal
suesposto criterio, ma soltanto quelli di circa venticinque
specie per il genere femminile, e di una dozzina d'altre
per il maschile, numeri però questi non insignificanti
quando si considerino in riguardo a quello di ottanta, che
è, all'incirca, il complessivo delle specie da noi studiate.
Ma vediamo la cosa più per minuto, cioè consideriamo
codesti nomi popolari tra loro accostandoli e in rispetto
alle specie da essi indicate.
Accentor modularis. Bresc. niùrithia, Berg. matela, Crem.
passera matélla, Vie. moréta, Ven. briméta, petegola,
Bell, negróla ^).
*) Solo i peritissimi sanno riconoscere dalla maggiore accentuazione
" del colore azzurrognolo del petto quali siano di questa specie gli in-
dividui maschi. Il Savi direbbe che non si distinguono affatto.
Studj di filologia romanza, IX. 28
438 G. BONELLI
Acrocephalus anmdmaceus. Bresc. pàssera can^lera, Crem.
pàssera canéra, Vie. zélega palugdna, Ven. canaróssa ^).
*) A Napoli è detta con nomi maschili " focetolóne d'acqua, rusi-
nuólo d'acqua ,.. — Per verità noi, come già abbiamo avvertito, cre-
diamo che, in questa nostra ricerca del criterio che le popolazioni
possono aver seguito nel foggiare maschili anziché femminili le de-
nominazioni ornitologiche, più che altro interessino i nomi in uso
nell'Italia superiore, e, ancora piìi specialmente, i lombardi, come
quelli della regione che non solo ora pivi di tutte le italiane è por-
tata da naturale tendenza alla caccia, ma già fino da tempi passati
(vedi nell'Appendice la nota I); e perciò siamo d'avviso che assai
minore importanza convenga attribuire a quelli delle altre parti di
Italia, come a dire la meridionale e le isole, poiché in queste l'at-
tenzione del popolo fu piuttosto rivolta, vuoi per la postura gene-
ralmente a mare, vuoi per altro, alla pesca che non alla caccia, o, se
a questa, alla grossa selvaggina non a quella de' piccoli uccelli (vedi
lo studio del signor B. Puntoro, Usi venutovi in Italia, che ben può dirsi
un'abbastanza ampia ed esatta descrizione delle varie forme d'aucupio),
onde, di necessità, che più antichi e ineriti intenditori dell'avifauna siano
i settentrionali anziché i meridionali (vedasi nell'Appendice la nota II).
Ed ecco perché in generale poco ci curiamo delle denominazioni
pugliesi, napoletane, sarde, etc, sia che possano tornare a riprova
di quanto da noi si sostiene, sia che sembrino contraddirvi. Per
mostrare tuttavia come bene spesso anche tali contraddizioni siano
apparenti, ci basti osservare, ad esempio, in questo caso dell'a-
crocei)halus, che se, mentre dappertutto è chiamato, conforme al
principio da noi posto, con nomi femminili, a Napoli ha nomi ma-
schili, questi non ci devono fare difficoltà, poiché si spiegano benis-
simo quando si ricordi che esso nel colore delle penne somiglia un
po' al beccafico — che a Napoli è appunto detto focétola — e, più
ancora, all'usignuolo (tantoché nel Piemonte, a Cuneo, ebbe il nome
" re di ransinói „). Quale meraviglia quindi se, attesa anche la sua
abitudine di vivere vicino ai corsi d'acqua, v'è denominata " foceto-
lóne d'acqua „ e " rusinuólo d'acqua „? — Che poi da un positivo
" focétola „ (del quale femminile ci si può render ragione, anche la-
sciando da parte la base latina, col ricordarci che del beccafico il
maschio non distinguesi dalla femmina) siasi avuto l'accrescitivo ma-
schile " focetolóne „ detto dell' acrocejyhalus, del quale pure non si
distinguono i sessi, non crederemmo sia a maravigliare, poiché anzi
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 439
Alauda arvensis. Bresc. sarlócla, Berg., Maiit., Vie. lódola,
Crem. lodala, Gen. lóudum, Spezia viindrda, Tose, al-
lòdola, Nap. cuccidrda, Lecce terranóla i).
Alauda cristata. Bresc, Berg., Crem., Vie, etc. calandra,
Ven. capehia.
Authus arboreus 2). Bresc. «^5r?//wa, aivina, Berg. diirdhia,
guina, iguùia, Crem. durdina, Mant. dordiua, Pav. rfor-
ci sembra costante tendenza del popolo fare maschili gli accrescitivi,
quasi a meglio indicare la maggior grossezza del volatile (Cfr. per
i\ dialetto bresc. i generici " uzilu, barkù, fomnu' ,^. etc, e gli specifici
" becadelu, colombàss, passerót, gaz'itfi , sguissitfi' lùgerót, poianù,
rondù. sarlodù, tuinót „ etc). Infatti criterio generale nella distinzione
dei sessi è che nei maschi i colori sono più vivaci e la grossezza
maggiore che non nelle femmine; e pertanto qui, ad esempio, vo-
lendosi determinare una specie, che nel colore molto ad un'altra as-
somigliavasi, ma ne era più grossa, con un nome che questa ricor-
dasse, s'è foggiato l'accrescitivo, e, appunto perché tale, maschile
del nome suo. Cfr. anche " cua-róssa „ e " ca-rósso , (corossolone)i
ove s'ha perfino la sconcordanza grammaticale dell'aggettivo dal nome.
(Per verità anche non pochi diminutivi sono maschili che pure si
sarebbero potuti aspettare femminili, ma in essi forse intervenne a
determinare il genere maschile qualche speciale ragione, come, ad
esempio, quella della piccolezza che, secondo, per così dire, la co-
scienza linguistica del popolo, meglio sembra rendersi con denomi-
nazioni terminanti in i, onde necessariamente riescono esse pure ma-
schili; vedansi " ali, stili, reati, tui „, etc. e le comuni " spaciugi ,
accanto, ma preferita, a ^ spaéiugina „ per dire ' poca cosa, cosa pic-
cola fumni „, etc).
') Non si hanno criteri per distinguere i maschi dalle femmine di
questa specie, e forse perché all'uccellatore tale distinzione tornerebbe
mutile.
-) Pietra di paragone del discernimento e dell'esperienza dell'orni-
tologo potrebbesi dire questo uccello, poi che anche i più consumati
uccellatori rimangono talvolta dubbiosi e incerti nel ritenerne dati
individui maschi 0 piuttosto femmine. Vari sono i criteri che la
scienza, per così dire, venatoria, suggerisce in proposito, ma essi stessi
sono alquanto incerti e taluno empirico affatto, quasi staremmo per
dire superstizioso. Due, se non ridicoli, incerti, sono l'uno quello che
440 G. BONELI.I
déna, tordéna, Cuneo grassetta, Varzi sira, Gen., Tose.
tordina, Nov. vina, Bell, pitaréla, Luce, agnina, An-
cona favarella, Pai. linguinédda cantatnra.
Antìius pratensis. Brese. sguisseta, Berg. croata, Crem. guiz-
zetfa, Mant. sguiseiina, Piem. vaineta, Ossola cinasma^
Gen, Vida, Vie. sguizéta, Vere, skozzétta. Yen. fistaréla,
Mod. spipléna, Tose, pispola, Cat. zinzincula ^).
Aniìius Richardi. Bresc. pi'Qpa, piqssa, sahbiunina, Piemonte
piurìisa, Tose, sahhionina ^).
indica maschi le tordine aventi la seconda penna dell'estremo del-
l'ala d'una data lunghezza, l'altro quello secondo il quale, delle tor-
dine, maschi sono soltanto quelle che hanno il nervo della piccola
penna bianca centrale del sottocoda colorato in nero. L'unico invece
dei criteri che sembra di qualche serietà e meritare quindi che gli
si aggiusti fede, credo sia quello della lunghezza dello sterno, lun-
ghezza che nell'individuo maschio sarebbe di un centimetro e mezzo,
nella femmina di un solo ; ma siccome cogli anni lo sterno cresce, così
anche quello delle femmine adulte quasi tocca la lunghezza di quello
dei maschi, onde pur questo criterio, che a tutta prima può sembrare
semplice e decisivo, si chiarisce incerto.
') Attorno a questo anthus poco s'è industriata l'osservazione degli
uccellatori per iscovrire se e quali segni speciali abbiano i maschi, onde
ancor meno si sa giudicare in proposito. (Mai una volta in quindici
e più anni che attendo con amore, sin troppo, alla pratica ornito-
logia, mi riuscì di riscontrare in tale anthus le strie rosee di cui parla
il Temminck quali distintivi de' maschi; meno male che neppure il
Savi le ha mai potute verificare: sono quindi in buona compagnia.
Del resto lo stesso Temminck le asserisce solo per i maschi adulti
nel tempo degli amori). Tale trascuranza del sesso è derivata dal
servire all'uccellatore tanto la pispola f. che la pisp. m.; sta bene che
questa, quando venisse tenuta per l'anno successivo saprebbe gor-
gheggiare il canto d'amore, ma troppo delicati sono tali uccelli perché
si possa ordinariamente riescire a tenerli in gabbia piìi di qualche
mese ; e d'altra parte quelle di passo non volano mai sì alto che non
.s'arrivi ad attirarle e farle posare ove si vuole pur coi richiami gio-
vani dell'anno, qualche zimbello e il fischio.
2) Vedi nota 1, pag. 439.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 441
Buteo vulgaris. Bresc. poiana, Berg. pója, Crem. piijdna,
Mant. podna M.
Corvus pica. Bresc. gaza de la cm lónga, Berg. gdha Iddra,
Sacile cazzala, Basso Piem. Idja, Nov. gdlia , Feltre
gdda -).
Emheriza cirlus. Bresc. spiónsa, Berg. zéa, Mant. piónsa,
Nizz. siga ^).
Fidica atra. Bresc, Crem. ffdega, Berg. fólega, Mant. fólga,
Nap. fólleca, Lecce fóddaca *).
Garrulus glandarius. Bresc, Berg., Mant., Pav. gaza, k ca,
Berg., Pav. berta ^), Tose, Crem. gazza, Vie gaza,
Bell, gdda, Gen, gdzena, Nap. caidzza, cóla '^).
Hirundo rustica. Bresc, Berg., Crem. róndena, Mant. ron-
') Di esso l'uccellatore ben poco o nulla si cura, onde, probabil-
mente, che anche qui non si abbiano norme per distinguere i maschi
dalle femmine.
■^) Vedi nota precedente,
^1 I maschi hanno la stria della gola alquanto più nera di quella
delle femmine. Quanto poi all'altra emheriza, la citrinella, non si sa-
prebbe ben dire se torni facile la distinzione nel sesso (certo non evi-
dente, poiché alle volte occorre, per chiarire se un dato individuo di
tale specie sia o non sia maschio, alzargli le penne della testa e ve-
dere se di sotto sono gialle), giacché, se i maschi adulti molto dif-
feriscono per l'accentuazione dei colori dalle femmine, non così può
dirsi dei giovani, onde sembrano aver ragione d'essere e le denomi-
nazioni maschili bresc, cremon., mant., pav. squajàrt, smajàrt, sma-
jard, spajiird, e le femminili berg. spajarda, pajeròla, paenina, pa-
garàna, pajaràna, pajanjta.
*) Vedi nota 1.
") Anche in Francia " par familiarité „ — la gazza infatti è, come
lo storno, l'uccello che si lascia di solito girare per casa colle ali leg-
lermente spuntate — " on lui a donne différents prenoms d' homme
ou de femme : jaque, jaquette, dame jaicòtte, etc, „. Rolland, op. cit.,
Il, 132.
') Vedi nota 1.
442 G. BOXELLI
danlna, l'ondna, Pav. rónddnena, Vie. róndina, Genova
rondala, Rom. rhidina ^).
Lanius collurio. Bresc. ga:^arpta, Berg. gazala, Mil. (jasg^tta.,
Crem. sgazzetta, Mani, gaza ràbida, Pav. garzaróhy
sgaziróla, Piem. dérna. Vere, spagdssa, Siena cdstrica^
castrQkkia, Arezzo vdstrica, Rmg. ferlgtta. Tose, averla,.
Friuli gidrla, Nap. quérola, Leece paggigneca , Catan-
zaro grudra.
Motacilla alba. Brese. boarqta^ Berg. balargta, Crem. bua-
rotta, Mant. boartna, Pav. boaléna ^).
Fariis maior. Bresc., Mant. speranstna. Chiari muritina^
Berg. monegina, paraSÓla, paissóla, Crem., Pav. paras-
') Vedi nota 1, a pagina precedente.
') Grande difficoltà a distinguere in questa specie i sessi credo che
non vi sia ; onde i nomi suoi si dovrà forse spiegarli come sorti fem-
minili per il bisogno di non confondere questa specie con l'altra, la
flava, la quale, per affinità fisiologiche, per le comuni abitudini, etc,
ha nomi a base e significato uguali ai suoi (cfr. boari, buarén, boalén,...).
A Vicenza ci pare venga chiamata " sguazzaróto „, come a dire
" uccello dello sguazzo „ (e invero tale motacilla frequenta le praterie
irrigate, le marcite, i fossati, ogni luogo insomma ove sia dell'acqua),
nel qual caso crediamo si possa ritenere che a cotal nome vicentino
vada sottinteso quello generico à'uccello; giacché, piii della voce
latina — ricordiamoci della nota derivazione di attarda da avis-tarda
— l'italiana dovette esser presente alla mente del popolo; onde anche
potrà darsi che alcuni nomi siano maschili anziché femminili appunto
perché da principio essi altro non siano stati che aggettivi del nome
generico ' uccello ' — eie denominazioni ornitologiche sono eviden-
temente aggettivali — i quali siano andati a mano a mano sostan-
tivandosi.
(11 Rolland spiega i nomi francesi delle motacillae " boujeireto,
semeur , osservando che esse, siccome di solito cercano il cibo nella
terra appena smossa, si trovano nei campi " en méme temps que le
laboureur et le semeur „. Non varrebbe tale spiegazione anche per
i corrispondenti nomi italiani " boarótta, boari „, etc.V)
1 NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 443
sóla, Gen. pa7'issÓa, Piem. sinsula, Piner. lérda, Ver-
celli priìssa grossa, Ver, sperónzola, jpotaséca, Casent.
fiaskétta, Lucca cincipgtola, Fir. cingallegra, Nap. par-
rfJla, Pai. muna'cédda ^).
Parus minor. Brescia, Crem. duina, Mant. speransinéta,
Piem. speranzina d' montana, Gen. parissoléta.
Passer montanus. Bresc. pàssera biizerina, Berg. pàssera
hiizeróla, Crem. pàssera buzarma, Mant. passera boha-
rz'na, Vie. m^giaróla, Gen. passùrétà, Piem. passera
d'sdles miarina, miaróla, Tose, passera mattùgia.
Petronia stulta. Bresc. passera m,iintanma , Como passera
greca, Ver. pdssara montanara. Boi. pdssra maréina.
Tose, passera Idgia.
Scolopax rusticola. Bresc. drsia, Berg. póla, Crem. gallinazza,
Mant. pisdcara, Pav. gallindssa, Como pizza-lunga,
Parm. pizzdcra, Tose, beccdccia.
Sylvia cinerea. Bresc. goheta, Berg. ciarda, Mant. ciciarela,
Tose, sterpdzzola.
Turdus pilaris. Bresc. gardena bajaróla, cidcola, Berg. ésga,
viscéra, gardéna, viskdrda, Crem., Mant. gardéna, Vi-
cenza baiaréla, Gen. tordéla, Parm. columbén'na, Spezia
sturUnga, Rmg. sizéc'cia, Casent. ce'zéna, etc. ^j.
Turdus viscivorus. Bresc. gardéna grosa, tresa, Berg, dressa,
Crem, durdàssa, Voghera dressla, Piac. stordéla, Mod.
sturdéda. Boi. gerlada, Nizz. séra, Gen. turdéua, Fir.
') Il maschio si distingue solo per una maggiore ampiezza della
bolla nera del ventre.
*) " En general parmi les Grives, les màles et les femelles sont à
peu près de méme grosseur, et également sujets à changer de cou-
leur d'une saison à l'autre ,. Chenu, op. cit., Ili, pag. 4.
444 G. BONELLI
tordiéra, Roma tordiccia, Sinig. tordégola, Catanzaro
turda, etc.
Upupa epops. Bresc, Berg. boba, Crem. bobba, Ossola bii-
bola, buba, pupa, Valt. biìbola, Parra, bubla, Boi. pópla,
Trento pura, Nizz. pùtega, Tose, Kom. upupa ^).
Queste adunque le specie de' cui individui il sesso non
si riconosce con facilità, e che hanno denominazioni fem-
minili.
Veniamo ora a quelle con nomi maschili -), avendo cura
di notare quali esteriori differenze, e se facili ad avver-
tire, intercedano tra i maschi e le femmine loro.
Cannabina linota. Bresc, Cremon. fanel, Berg. ocan'^l, Pavia
fanet, Vie. faganelo, Gen. faneto ^), Pieni, linqt, giaiet,
Valt. fink, Verona fain'el, Rover, fadan'el (a Nizza però
') Non paia troppo naturale e quasi necessario che, ad esempio,
le basi fulica, upupa si siano conservate, e che quindi al solo fatto
della derivazione latina si deva far risalire il genere femminile dei
nomi citati; poiché allora femminili dovrebbero essere pur quelli,
ad es., del fringuello e del merlo, i quali invece anche nei dialetti
sono maschili.
^) Tali per propria natura, come, ad es., ocanél; e non per ragioni
di derivazione o altro, come l'accrescitivo ' sguissitù '.
^) Dal qual nome o, meglio, dal doppio senso che può avere, quando,
nel pronunciarlo, leggermente si stacchi la prima sillaba, trae ori-
gine il furbesco proverbio genovese " el fa-néto u ciù bèlo uzélo „.
— A proposito del dialetto genovese possiamo anche notare come
in esso il nomignolo di ìuerlo valga " uomo furbo, persona accorta ,.
(cfr. " el ze un merlóto , = non gliela si fa tanto facilmente), e ciò,
e a giusta ragione, perché i merli sono astutissimi e dalla vista molto
acuta, l'opposto di quello che significa negli altri dialetti e in ita-
liano. (Vedi Appendice, nota IV). E sarebbe certo interessante sjHegare
come mai il nome di cotale uccello abbia potuto, così a torto, venir
assunto quale sinonimo di minchione, e come, in pari tempo, siasi,
quasi nella sola Genova, conservato il valore che ben gli spetta.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 445
sembra sia detto con nome femm. lifìóta), Pisa ìuou-
tnnéllo, Siena grlcciolo, etc.
I maschi lianno il petto macchiato rosso sangue; le
femmine di color grigio. — Evidenti.
Carduelis elegana. Bresc. raari ^), Berg. Reveri, Cremona
lavarèn, Mant. gardlin, Pav. ravaréi, Vie. gardelin,
Cren, cardelin, etc.
I maschi hanno le piccole cuopritrici dell'ali nere
lucenti ; le femmine invece grigio-nerastre. — Si distin-
guono quindi con poca evidenza.
Coccothraustes vulgaris. Bresc. sfrikiì, Berg., Pav. frizn,
Cremon. sfrizón, Vie. frizón, Gen. fi'ezùn, Boi. spisón,
Rmg. farsón, Friuli frisótt.
Nei maschi il pileo — la parte superiore della testa —
è fulvo-castagna, nelle femmine olivastro. — Evidenti.
Crysomitris spintis. Bresc. Ingerì, Berg. logarl, Cremon. lu-
garen, Pav. legorél, Vie. nogarin, Piac. ligoréin, Parma
logar'pi, Ven. lugaro, Bell, liigro -).
Nel maschio il pileo è nero, e il petto giallo; nella
femmina sono grigi l'uno e l'altro. — Evidenti.
Fringilla coelebs. Bresc. frangiien, Berg., Mant. frànguel,
Cremon. frangol, Vie. finco, Gen. fringu'elo, Bell, zarà-
tolo, Roma spincióne, etc.
') Richiamiamo ancora qui l'attenzione di chi legge su questo nome
che, mentre pare che sia la forma dialettale del nome toscano ' ra-
perino ' (Serinus hortulanus), designa invece il cardellino.
^) Le due denominazioni napoletane lécora per la f., lécora capa-
néra per il m., rispondono forse l'una ad un primo periodo di tempo
nel quale, di tale specie, non si sapeva distinguere i m. dalle f , l'altra
ad uno posteriore, nel quale, avendo l'osservazione insegnato che i
maschi anno il pileo nero, si trovò naturale e opportuno distinguerli
anche nel nome.
446 G. BONELl.I
Il maschio ha il petto rosso ; la femmina lo ha bianco,
— Evidenti.
Fringilla mo)itifri)t(jilla. Bresc. monta, Berg. montami, Cre-
mona muntali, Mant., Vie. montdn, Gen, barbar^sko,
Tort. montanhi, Bell, montano, Friuli pacanóso.
Il maschio ha la testa giallo ruggine striata di nero ;
nella femmina è giallo - biancastra ^).
lAgurinus chloris. Bresc, Cremon. amaròt, Berg. verdù, Pie-
monte, Gen. verdim, Valt., Parm. verdón, Yen. cerànto.
Il maschio ha le penne del ventre e alcune delle ali
gialle; la femmina all'incontro di colore verdastro sbia-
dito. — Evidenti.
Oriolus galbida. Bresc. galheder, Berg. galber, Cremon. gal-
péder, Pav. galbé, Gen. garbé, Piem. skalombéo, ardsdn,
Piac. sgarber. Boi. argéib.
Il maschio ha la testa e il petto di color giallo
dorato; la femmina tutte le penne di colore verde
sbiadito. — Evidenti.
Passer Italiae. Berg. passerai, passerà, Vicent. zelegótto,
Bell, panegàss.
E cosa molto facile distinguere in questa specie i
sessi; giacché qui le femmine, oltre ad avere i colori
in generale ammorzati, mancano completamente della
') Di questa specie vi sono due varietà, una alquanto più gi-ossa
dell'altra, e nella piccola distinguere il sesso è un po' meno facile,
perché i colori pur ne' maschi sono ammorzati. Non si hanno deno-
minazioni speciali; però, sullo stesso territorio bresciano, alla pianura
il nome è monta, gli alpigiani invece chiamano tale uccello frazarol,
frazarola (probabilm. = " fag^iarola „ come a dire " uccello più spe-
cialmente proprio della regione dei faggi „).
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 447
stria nera sotto la gola, stria che hanno solo i maschi ^).
Pyrrula europaea. Bresc. sobigt, Berg. siflgt^ slglgt, siuÌQt,
Cremon. sifùlót, Mant. siibigt, Pav. suflQt^ Como fjemun,
Vie. finco subÌQto, Gen. sigiirùn, Valt. ciftil^t, Boi. stuflgt,
Ver. zionzolo, Friuli sifilgt, Rover, cimpel, etc.
Nei maschi i lati del collo, il petto, l'addome e i
fianchi sono colorati in roseo; invece nelle femmine in
cenerino. — Evidenti -).
Serinus hortulaniis. Bresc. verdarl, Berg. sverzeri, Cremona
verdulén, Pav. sgarhéi, Piem. snis, Novi serin, Parm. vi-
darén, Mod. raparén, Boi. verzaréin, Rmg. verzlin,
Ven. frisarin, frigorhi, Bell, sfredelin.
Mentre nel maschio la testa e il collo sono di color
') Pare in molti dialetti questo uccello ha nomi femminili, cosa
che sembra contrastare con quanto noi sosteniamo; senonché giova
forse osservare che tali nomi sono di solito in corrispondenza a quelli
dell'altra specie di passero (passer montanus), della quale altrove s"è
appunto detto che solo a stento e con incertezza si possono distin-
guere i maschi dalle femmine. Infatti il nome bresciano ■* passera
grósa „ risponde a quello pur bresciano della mattugia " pass, pic-
cola „ ; così — per tacere delle denominazioni piemont. ■* pàssra d'mu-
ràja, pàssra turéla „, pavese " passera de colombéra ,, etc. — il
" pàssra da cop „. modenese si deve al fatto che, mentre il p. mon-
tanus è più schiettamente salvatico (cfr. i nomi suoi " pàssra d'sàles,
pass, boskaiòla, pass, gabbarola, pass, di siàmp , pàsseru di cam-
pana ,, etc. e i frane. " moineau de bois, moineau des champs, moi-
neau sauvage „, etc), questo invece annida anche sui tetti, nelle co-
lombaie, nei crepacci dei muri, sui campanili, e, quasi con petulanza,
scende perfino nelle rumorose vi(f delle città. — Vedi nc\Y Appendice
la nota III. — (Però ne la mattugia è a tal punto propria dell'aperta
campagna che non se ne diano anche di quelle che pongono il lor
nido nelle città, ne la reale è esclusivamente sedentaria — come pure
la vorrebbe il Savi per la Toscana — che di settembre non se ne
vedano branchi di passo \
■) Cfr. anche Savi, Ornitol. ital., Il, 192.
448 G. B0NEM,1
giallo vivace, nella femmina sono bianco -giallicci *).
Turdus iliacus. Bresc, Crem. spinarti Berg. sdiircU, Milano
dressin, Vie. tordéto, Gen. tordo corsésko, Vere, ufìak,
Mod. ■sifiét, Boi. taiird sassa7', Ven. sikarin, Friuli sgrisul.
Nei maschi le cuopritrici inferiori delle ali e dei
fianchi sono di color fulvo acceso; nelle femmine smorto.
Turdus menda. Bresc, Vie, Gen., Mant. etc. m'irlo, Ber-
gamo nierel, Pav. mirai, Xizz. mérlu.
Il maschio ha le piume nero-lucenti e il becco giallo-
rosso (cfr. il nome leccese apposito per il maschio
" pizzi-giallo „, a fianco a " menda ,, per la femmina,
e i nomi veneziani " merlo négro „ e " méi-la „); la
femmina è bigia e il becco suo cenerino.
Ed ecco così segnate anche le specie che sono, come
dimostrano i loro nomi dialettali, generalmente considerate
maschili, ma ecco pure avvertite le marcate differenze che
intercedono tra i loro rispettivi individui, maschi e femmine.
Prima però di chiudere questa nota e ripetere quanto
già abbiamo insinuato, vale a dire che ci sembra non ca-
suale combinazione che i nomi dialettali maschili appar-
tengano in prevalenza a quelle specie ornitologiche delle
quali si ravvisa con facilità il sesso, le femminili a quelle
colle quali ciò torna, se non impossibile, parecchio difficile,
schiettamente confessiamo che alcune se ne danno, cinque,
le quali sembrano opporsi al criterio che noi vorremmo
stabilire. Infatti Verithacus rubetra, la hiriiudo urbica, la
lusciola luscinia, la pratincola rubicola e lo sturniis vid-
') Savi, op. cit., p. 175.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 449
gai'is ^) hanno generalmente nomi maschili, e pure d'essi
0 non è facile o impossibile stabilire il sesso ^).
Tuttavia, a nostro avviso, tali nomi non devono fare
eccessiva difficoltà, giacché, quali noi li conosciamo, sono
probabilmente alterati dalla loro forma originaria, onde
nemmen più scorgiamo cosa abbiano voluto significare, o
solo con grande incertezza. E invero : non è forse possibile
che i nomi bresciani dell' erithacus " sheset, sbiset „ voglian
porre in rilievo il costume di tale uccello di vivere nelle
siepi, entrarvi e sbucarne colla maggior facilità 3), preci-
samente come i bergamaschi " piciàl, peciaróss „ ^), quello
genovese " pe'cieto „, etc, notano dell'uccello, quale parte
che più delle altre spicca, il petto?
') Anche i nomi del tordo, del quale pure non si può, se non per
via anatomica, nemmeno dai più periti ornitologi, riconoscere il sesso,
sono maschili; ma è anche evidente che sono tali per la persistenza
della base latina, come altri, ad es. quelli della quaglia, per la
stessa ragione si sono mantenuti femminili. Troppo furono usati co-
desti nomi, tiirdus, quaquila, etc. — forse anche quello di sturmis —
perchè i dialetti potessero sottrarsi alla loro influenza.
^) Il Savi crede di poter distinguere anche nelle pratincole i maschi
dalle femmine; ma laddove dice che queste differiscono " solo per
avere il bianco un po' sudicio e il lionato meno vivace „, avverte
pure che tali diversità si rilevano appena negli individui adulti e in
primavera, quando cioè, essendo il tempo degli amori, maggiormente
si accentua la colorazione delle penne, o, per dirla con gli ornitologi,
quando gli uccelli sono in abito da nozze.
') Sarebbe quindi questo nome un appellativo nel quale tuttora,
benché impallidito, si dovrebbe scorgere il significato di shùzél da
" sbùzà „, bresc. per " sbucare „; e sai-ebbe sorto maschile, cioè
sbisét „ anziché " sbiséta „, forse per non confondersi col nome del-
Vanthus pratensis " sguiséta „.
*) Pur sul territorio di Bergamo, per es. a Clusone, è detto anche
mikeU, ma, probabilmente, perché le prime avanguardie di tale specie
nel passo autunnale arrivano circa la fine di settembre, e il 29 è il
giorno appunto di S. Michele.
4")0 G. BONELLI
Così pure ìldrundo urhica è chiamata dai Toscani con
felice denominazione " balestrùccio „, poi che questo uccello,
infaticabile volatore, rende appunto somiglianza, quando
vola, d'una saetta, d'una balestra, e per la rapidità sua e
per la forma delle ali e della coda; orbene: non si è quindi
tentati a vedere anche nel nome bresciano " dàrder „ e
nei bergamaschi " dard , dat^dl „ ^) l' influenza e , per
meglio dire, la persistenza della voce dotta '* dardo „ per
" freccia „ ?
Parimenti: la lusciola luscinia, l'usignuolo, ha in tutti i
dialetti nome maschile ^j, eppure è noto che non si distingue
l'usignuolo femmina dall'usignuolo maschio ; ma anche qui
forse si può trovare un particolare motivo per giustificare
il genere del nome. E infatti, pur lasciando da parte che
si potrebbe supporre un diminutivo lusciniohiin della base
latina, il quale avrebbe poi date le voci lombarde, etc.
" losinól, rosimi „, non è forse probabile e naturale che
la stessa coscienza, per così dire, linguistica del popolo si
sia ribellata a chiamare con un nome femminile l'uccello
*) Valt. dard, Como, Crem. dàrden; Piac, Parm. dàrdar, Ver. dar-
darin (secondo E. Arrigoni Degli Oddi, Materiali 2ier una fauna or-
nitologica veronese, " Atti del R. Istituto Veneto „, 1899, detto anche
sijyrióto'', Treviso, balestréllo.
-) Berg., Bresc. rosinol, Crem. lusinóol, Mant. rosnol, Pav. rosoùo,
/ ' ' /
Vie. rossinólo, Sav. rossinò, Tort. ursiio, Como lisiiìo, Valt. rusiùó,
Parm. lesnòl, Mod. lusiiól, Friuli rusiiìùl, Nizz. russimi , Nap. rusi-
nuólo, Regg. rusiiiólo, Sicil. nottulanu, Girg. risiiiólu, etc. (Il nome
generico siciliano " nottulanu „ che si riferisce al costume dell'usi-
gnuolo di cantare di notte, richiama i due nomi della emheriza hor-
tulana piemontese, Aless. nottuàn, Genov., Savona, nuttuan, i quali
pure ricordano essere abitudine anche di questo uccello di ripetere il
suo melanconico gorgheggio anche di sera tardi e a notte inoltrata.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMHARDI 451
cantore per eccellenza? — Doveva ripugnare troppo, sembra
a noi, trattare come femmina — e le femmine degli uccelli
non cantano: emettono solo i gridi di passo, non i canti
d'amore — l'usignuolo, ed eccolo quindi in tutti i dialetti
denominato con nomi maschili.
Sta bene che non altrettanto facili spiegazioni si potranno
avanzare per lo sturnus vulgaris e per la pratmcola, la
quale è detta a Brescia, Bergamo, Cremona, Ven. " maket „,
voce che proprio non sappiamo vedere cosa significhi i); ma
è pur vero che codeste, a ogni modo, sono eccezioni, che
però abbiamo voluto notare, non tanto perché delle ecce-
zioni si dice che confermano le regole, quanto perché ci
parvero quasi tutte spiegabili, e quindi anche meglio con-
validare il principio che ci sembra di poter porre: — essere
l'evidenza del sesso un criterio direttivo nella formazione
delle denominazioni ornitologiche dialettali.
•) A Cremona si suole usare tale parola anche per indicare la carne
che comincia a infracidire. Ma con questo significato e uso ha il
nome un rapporto? Non crediamo; tuttavia, mentre facciamo osser-
vare che l'uccello in questione è qualche volta infestato da pidoc-
chietti, ricordiamo che la carne, quando appunto prende a puzzare,
si viene tutta coprendo di vermi.
452 G. BONEl.LI
A PPENDIOE
NOTE
P. — Se il signor E. Filippini, nell'incominciare l'accurato suo
articolo sugli Usi venatorl nel Folignate {in Archivio per le tra-
dizioni popolari, anno 1899, p. 216), ci fa di primo colpo cre-
dere che anche laggiù sia la caccia tanto difiPusa e passionatamente
esercitata come da noi *), s'incarica però egli stesso, coi dati di
fatto che vi reca, di mostrarci come, pure nel Folignate, sia l'au-
cupio di gran lunga meno e meno bene esercitato che non quassù
in Lombardia. Infatti colà, egli stesso ci dice (pag. 218), non si
comincia ad uccellare se non in ottobre (invece da noi, se non
già ai quindici d'agosto, in settembre, e ai venti di tale mese al
più tardi; cfr. il prov. bresciano: " A san Mate la ret en pe ,);
non tutti coloro che uccellano, anche d'inverno mantengono i ri-
chiami, ma preferiscono la maggior parte prenderli a nolo al mo-
mento opportuno da appositi venditori (uso questo del nolo degli
uccelli in Lombardia affatto sconosciuto, poi che anzi con amore
e quasi con ambizione ogni proprietario di uccellanda e ogni cac-
ciatore " di capanno „ suole allevarsi i richiami che gli occoiTono).
Quei venditori si fanno pagare per il semplice nolo di pochi frin-
guelli sommette di gi'an lunga superiori ai prezzi d'acquisto normali
della Lombardia (un fringuello buon cantore, sulle piazze di Brescia
e di Bergamo si paga in generale tre lire ; a Foligno invece " il
prezzo di nolo è dalle cinque alle otto lire l'uno, quello d'acquisto
') " C'è nel Folignate un detto popolare che dimostra tutta la grande
importanza che ha in quel paese la caccia in genere: " Cruai a quell'uc-
cello che passa tra Foligno e Spello ,, ecc.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 453
quattro o cinque volte di più „); onde ben si comprende come la
caccia venga colà esercitata generalmente solo da alcuni signori.
II*. — Del resto, o noi c'inganniamo, o gli stessi nomi orni-
tologici di cotali regioni mostrano come in esse, s'intende nel po-
polo, sia poco svolta la conoscenza dell'avifauna, e ce lo mostrano
colla loro povertà di basi etimologicamente diverse, colla loro in-
certezza di significato, colla loro imprecisione. E infatti cos'altro
mai possono indicare se non quasi infantile povertà di lingua i
nomi — passero, canerino, tordo — usati nelle denominazioni si-
ciliane e sarde anche per uccelli che non sono né tordi, né cane-
rini, né passeri? — Vedansi i nomi sardi del fringuello: passareUu,
passareddn ; del fanello : x>assericii ; del lucherino: canariu de monti;
del verzelKno : canariu hirdu ; del golo : canariu aresti, can. sal-
vati cu ; quelli sicil. del ciuffotto : passeru americanu, del lodo! ino :
passareddn di voscu, ecc. — 0 non sembra, considerando tali de-
nominazioni, di assistere agli sforzi di un bambino, che, sapendo
pronunciare solo poche parole, pure s'industria, variamente fra
loro componendole, di esprimere pensieri, concetti, che, se egli
concepisce, esse in proprio non contengono? (Mostrate invero a
un ragazzetto, se già non li vide, un canerino e un fanello, dite-
gliene i nomi, poi, senz'altro, un verzellino e un luchei'ino, ed egli,
che delle varie specie non sa rilevare le molte e intrinseche diffe-
renze, anzi manco sogna vi siano più specie e generi degli uccelli,
c'è a scommettere che franco ve li chiamerà canerino verde, fanello
giallo — cfr. Lecce : lucher. = faninldru giàllu — ; insegnategli che
i canerini noi li abbiamo generalmente solo allo stato domestico,
nelle gabbie, e poi veda in campagna un rigogolo, che tosto ve
lo indicherà sclamando: ecco un canerino salvatico). E taciamo
dei nomi assunti per più d'una specie, come, ad es., di quello
leccese pispanta che vale per la tordina e per lo sguizzettone ; di
quello di turdu che in Sardegna indica tanto il tordo, che la tor-
della maggiore, che la tordella minore, che il canareccione ; di
quello pur sardo di passiriargia che pare serva indifferentemente
a indicare tutte quattro le specie di averle: Lanius maior, minor,
coUurio e auriculatus ; e di quello infine di peuda che in Corsica
designa e la calandra, e le due allodole, e i tre anthus\
IIP. — Non in tutte; non a Brescia, non a Bergamo, proba-
bilmente per l'accanita caccia che si dà in queste ad ogni uccello,
Siiiij di filoloqia romanza, IX. 29
454 G. BONELLI
onde che anche i passeri ') vi sono più rari di numero, e di gi-an
lunga più timidi e sospettosi. — Si ha qui una delle varie prove
della ereditabilità dei sentimenti negli ammali, confermata e ricon-
fermata dalle descrizioni delle interessanti caccie dello Scheibler
(Nuova antologia, giugno 1899), là dov'egli, al pari d'altri viag-
giatori, avverte come sovente, in certe regioni abbandonate^ e nelle
quali la caccia agli uccelli è sconosciuta, incontrasse palombelle e
molti altri volatili che si lasciavano avvicinare senza ombra di diffi-
denza (vedasi anche : L'esprit de nos bétes, par E. Alix, 1890), e
dalle relazioni apfiunto sui passeri, che nei parchi di Londra e negli
Stati Uniti sono, per la efficace protezione che la legge loro ac-
corda, tanto famigliari che non è raro di vederli posare sulle spalle
di chicchessia, e venire a beccar fuori dalle mani dei fanciulli il
pane o i dolci.
IV". — Per verità pare che anche a Siena il merlo sia tenuto
nel suo giusto conto, poiché d'un furbo di tre cotte vi si suole
appunto dire : Eh ! quegli è un merlo col becco giallo ! ^) ; e pa-
rimenti in qualche altro luogo della Toscana sembra sia " merlo „
sinonimo di " persona furba „ ^) ; ma gli è però anche vero che
^) Malgrado la loro grande fecondità, che già in marzo e ancora in
agosto cominciano e durano i loro amori sempre seguiti da numerose
covate, quegli amori così vivaci e ardenti che han fatto del passero,
almeno da noi e in Francia, il simbolo del lussurioso ; cfr., ad es., le
locuz. caldo come un x>asserino, chaud comme un moinean, e il proverbio
sardo furfurinic paga vida, che vuol dire " passerotto vita corta „ (Spano,
Vocabolario sardo italiano), dove furfurmu è usato metaforicamente ap-
punto per lussurioso. (In Inghilterra simbolo della grande fecondità è la
cingallegra, la quale pure, per vero dire, è assai prolifica. Vedi Chenu,
op. cit., 120, note : " en Angleterre... il a passe en usage de donuer le
nomme de Mésange à toute femme qui est à la fois très-petite et très-
féconde).
') La quale espressione letteralmente significa: merlo maschio adulto
(Vedi: Corsi Zoologia iwpolare Senese, in Archivio per lo studio
delle tradizioni popolari).
^) Zambaldi, Dizionario. — Così pure in Francia, ove le locuzioni " fin,
rusé comme un merle , o " c'est un fin merle „ si usano per " rusé,
adroit compère, fourbe „ . Cfr. Rollano, op. e voi. cit., pag. 248. Del
resto, fortuna delle parole ! in ligure la stessa parola ruffiano non è
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 455
nel linguaggio comune e nella coscienza popolare la parola merlo
ha un significato ben diverso, e suona qual titolo di derisione per
tutte le persone che, troppo ingenue, si lasciano facilmente ab-
bindolare.
Sarebbe forse questo un esempio di piìi di quelle tante esage-
razioni che per ironia significano l'opposto di quanto dicono (come
ad es. : vali un Perù, sei un Raffaello), avremmo cioè forse qui
una parola che dall'essere usata ad esprimere la furberia e l'ac-
corgimento, siasi poi tanto consacrata nell'uso di beffa da scadere
completamente dal suo originario significato? — Anche il nome
d'un altro uccello, il cucolo, viene assunto per ischerno, e forse
anch'esso si potrà spiegare con un trapasso affine.
Si sente infatti sovente, ad esempio, fra ragazzi che giocano,
quando l'uno pretende da un altro qualcosa di troppo, questi gri-
dai'e al primo: cùco, e accompagnargli la parola con il solito al-
legi'o gesto espressivo '). Ora, gli è evidente che la parola " cùco „,
pur nella sua indeterminatezza — onde non si saprebbe ben dire
se vada riferita a chi ascolta o a chi lo dice, — equivale in tale
circostanza a un :" Non mi becchi, non mi pigli , ; ma siamo anche
qui alla stessa domanda : Ciico ha im valore reale o ironico ? e
vuol dire furbo o minchione?
punto offensiva, ma lusinghiera, come appellativo di persona sveglia;
e, ad es., d'un ragazzetto furbo si dice senz'ombra di spregio : " Oh !
el ze un ruffianéto! ,.
') Cfr. l'espressione francese " jouer à coucou , che significa " giocare
a nascondersi , e che il Rolland (op. cit., IP, pag. 89) spiega colla dif-
ficoltà di avvicinarsi al cucolo ; spiegazione che ci richiama alla mente
una graziosa piccola poesia di Riickert, della quale ci permettiamo
di riferire i primi versi, per quanto possa sembrare leggerezza en-
trare nel campo della letteratura tedesca proprio a proposito del cu-
colo, uccello particolarmente caro alle popolazioni germaniche fino
dai tempi più remoti, e intorno al quale il materiale illustrativo è
perciò grandissimo.
Dieser kukuk, der mich neckt,
Tief im VValdgestrauch versteckt,
Rechts und links imd liberali
Hor 'ich seinen fernen Schall.
Wo ich komme, geht er fort,
Bin ich hier, so ist er dort.
456 G. BONELLI
Parrà forse cosa strana, ma pure, trattandosi del cucolo, ci tro-
viamo assai incerti nel decidere poiclié troppe sono le particolarità,
le stravaganze, i misteri, le leggende che avvolgono la vita di
questo uccello '), perché si possa con sicurezza affermare in pro-
posito alcuna cosa. — Esso infatti è quell'unico uccello che nido
non costruisce, ma le uova depone negli altrui ; esso è il privi-
legiato che, a riuscire nel suo intento, fa uova piccolissime e va-
riamente colorate secondo il colore di quelle dei veri proprietari
del nido nel quale prudentemente deporrà, non visto, il suo, to-
gliendone uno ; esso è il solo fortunatissimo che vede allevarsi e
con amore la prole da altri genitori (non ostante che il giovane
cucolo li ricompensi col gettare dal nido o schiacciarvi i loro veri
figli, e appena fatto grande, tosto li abbandoni per correre dalla
madre che nei pressi lo attende; onde la locuzione francese " in-
grate comme un coucou „ ben sarebbe giustificata , se invece il
Rolland, II, 96, non la facesse derivare dallo strano pregiudizio
che il cucolo nella sua voracità mangi perfino e il padre e la
madre) ; ^) esso infine è l'uccello cui da tempi immemorabili e in
latitudini diversissime si accorda fama di oracolo ^).
Tutte queste cose cui abbiamo accennato parrebbero, per vero
dire, persuaderci a considerare il cucolo, o, meglio, a credere sia
esso dal popolo stato considerato quale uccello accorto, assai destro,
e quindi il nome suo essere stato preso quale sinonimo di malizia.
Ma un'altra ve n'ha che diversamente consiglia, e cioè che gli
amori dei cucoli, quanto ardenti e impetuosi, sono altrettanto
brevi; onde i maschi — in questa specie di molto più numerosi
delle femmine — dopo due o al più tre giorni, si vedono abban-
donati dalle loro compagne che allegramente si volgono a con-
') E naturalmente intendiamo parlare del cucolo comune, non del
cucolo indicatore, che allora, per di piii, ci troveremmo in quel gine-
praio di questione: se il cucolo gridi perché l'uomo venga a togliere
il miele dai favi e farne a lui parte ; o non piuttosto perché vi viene,
e quindi lo disturba nella sua caccia alle api.
■^) Per non entrare nella serie delle citazioni, che sarebbe infinita, ne
basti una sola : Encyclojìédie d'histoire naturelle par le docteur Cheno
{Oiseaur, l' partie, pag. 266, etc).
^) Vedansi ad es.: G. De Giacomo, Pregiudizi calabresi (in Arch. cit.,
1894, pag. 221) ; e Lioy, Piccolo mondo ignoto, pag. 28.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 457
quiste novelle. — E non è forse questa una circostanza da aver
ben potuto nella fantasia popolare effigiare il cucolo quale em-
blema dello scornato, della delusione? ^) — Ecco il perché, tosto,
parlando del cucolo, ci siamo detti incerti, non abbiamo cioè sa-
puto affermare se il nomignolo di cuco voglia veramente dire destro
o malaccorto; e anche altri, noi crediamo, rimarrà dubbioso, poiché
non è già che manchino le ragioni per sostenere questa o quella
supposizione, sibbene che dall'una parte e dall'altra tali ve ne
sono che riesce impossibile nettamente persuadersi di questa an-
ziché di quella ^). Ci basti l'averle entrambe accennate.
[Anche intorno la data dell'arrivo del cucolo — mese d'aprile ^)
') Tra i parecchi significati che anche in Francia ha il nome del
cucolo v'è pur quello di marito ingannato. Però il Rolland non lo
spiegherebbe colla circostanza che ora abbiamo riferita, ma suppo-
nendo che sia stato vezzo comune schernire i mariti sfortunati col far
loro il verso del cucolo (come a dire: altiù ha posato nel vostro nido)
e coU'andar del tempo il nome dell'uccello, poi che grido e nome,
trattandosi del cucolo, sono la medesima parola, sia divenuto il no-
mignolo dei poveri turlupinati.
^) Naturalmente noi qui si cercava il significato metaforico primo
della parola, e non già uno qualunque ; poiché allora basterebbe ri-
cordarsi di qualche espressione nella quale esce talvolta il popolo (ad
es.:so mi'ga 'n cucu eh!) per crederla sinonimo di " minchione „.
^) Di qui la denominazione tecnica di lijchnis fios cuciili, cui fa per.
fetto riscontro l'italiana " fiore del cucolo „, a una delicatissima — se
lo sanno i botanici che la vogliono conservare negli erbari — diantea
o cariofilea che dir si voglia, la quale fa sua miglior fioritura ap-
punto nella prima quindicina del mese. (Bisogna dire che in Francia
questa corrispondenza tra la denominazione scientifica e la volgare
non vi sia, o non sia tanto chiara e precisa, poiché il Rolland, nella
Faune, indica quale pianta chiamata " fiore del cucolo „ una primu-
iacea, anzi la stessa primula veris, e, nella Flore, alla detta denomi-
nazione lychnis, fa egli pure corrispondere — oltre la spagnuola fior
del cuclillo e la galliziana frol d'o cuco — la frane, la fleiir de coucou,
pain de coucou, bohé d'coucou, nomi che ritornano poi, in forma ben
poco diversa [paens cucu, pò de coucou, herbe au coucou, fléur du
coucou, etc), quali denominazioni volgari della oxalis. Non li spiega
però come dovuti alla presenza del cucolo durante l'epoca della fio-
ritura, ma, citando il Grimm, dice : " ou pvétend que le coucou crache
sur cette piante.... La vérité est que l'insect appelé Cicada spumarla
j depose son écume bianche, vulgairement appelée chachat de coucou).
458 G. BONELLI
— s"è sbizzarrita la fantasia popolare dettando proverbi e sentenze
in prosa e in metro; onde, come il calabrese, pieno di serietà,
spiega che il eucolo non costruisce il nido per la semplice ragione
che, distratto com'è dalle cure di profeta — tutto il giorno deve
dare responsi, ora in un luogo, ora in un altro, — non gli rimane
tempo (cfr. Db Giacomo, Pregiudizi calabresi); così il veneziano,
per quanto con ragioni più alla buona, spiega gli eventuali ritardi
dell'arrivo del noto uccello:
" Ai 9to de aprii — El ciico a da venir ;
E se noi vien ai oto — Di ke l'è prézo o ke l'è morto;
E se noi vien ai diéze — L'è prézo per le siéze;
E se noi vién ai vinti, — L'è prézo in fi forminti,
E se noi vién ai trenta — El pastór l'à maiià co la polenta ,.
Cfr. Rollano, op. cit., IP, pag. 89].
V'*. — Ma anche il canto d'amore del fringuello fu studiato
e analizzato, e, poiché vario, se ne distinsero otto tipi fondamen-
tali, e in ognuno un preludio, un trillo, un finale, e perfino si
diede a ogni ripresa un nome particolare (vedi Chenu, op. cit.,
V, 294). Si cercò pure d'interpretarlo; e, ad esempio, a Orléans
si suol dire che il fringuello canta: " je suis le fils d'un riche
prieur », nella Lorena: " fi! fi ! les laboreux, j'vivrons ben sans eux „,
a Parigi invece, " oui, oui, oui, oui, oui, je suis un bon citoyen „ '),
frasi tutte che però, inutile dirlo, sono ben lungi dal rendere fe-
licemente il vibrato e rotondo gorgheggio del fringuello. Da noi *),
a Bergamo e a Brescia, certo con minor poesia, ma forse con
maggior verisimiglianza, i tre canti d'amore principali si rendono
colle frasi: clQ - 'do - ciQ, harha'ccibig — ciò -ciò- ciò, ci'ccisbéo
— cfo - ciò - ciQ, brid'ccio, delle quali quest'ultima, che è la meno
frequente, pare la piti graziosa, ed è certo nelFaucupio la più effi-
cace. — Efiìcace a sua volta l'espressione colla quale il popolo
indica ciò; usa del verbo credere, onde, ad es., dice che " a quel
fanello si crede, a quest'altro no „ ; oppure che a quel fanello —
') Vedasi il Rolland, op. cit., IP, 179.
^) Nel Piemonte (cfr. Pinoli, in Arch. per le tradiz. pop.) si dice
che l'irrequieto fringuello canti : sing, sing, sing, singsént-mi'la-li're
per mai'idè-mia-fi'a !
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 459
cioè al SUO canto — i fanelli vanno dietro, e a questo no, espres-
sioni, ripeto, felici e ben trovate, poi che in verità ne' gorgheggi
de' vari uccelli devonsi vedere altrettante manifestazioni de' loro
sentimenti, e, come a dire, piccoli discorsi.
Noi non crediamo, e avremo altrove occasione di ripetei'lo, che
gli uccelli abbiano grida imploranti aiuto, ma troviamo pur tut-
tavia, ne' loro vai-i canti e gorgheggi, particolari espressioni oltre
quelle che soglionsi dire " d'amore ,. Hanno infatti tutte le specie
que' fischi brevi e di solito tronchi che si chiamano voci d'ap-
pello o di passo, e che sono comuni, a differenza de' gorgheggi
d'amore, a entrambo i sessi. Quasi tutte hanno inoltre grida di
spavento e grida di dolore, e alcune, gli è certo, anche voci di
allarme e voci esprimenti particolare soddisfazione '). Il fringuello,
ad es., — e intendiamo ogni individuo di tale specie — ha per
lo meno sei diverse voci:
due d'appello (una più specialmente propria a quando spicca
il volo, e, in generale, a quando vola — l'altra a quando si posa),
queDa d'amore o, meglio, canto d'amore,
quella di dolore, tagliente (che nel fringuello pare uguale a
quella di spavento),
quella propx'ia del pulcino, cioè del fringuello appena nato
(la quale, molto somigliando al grido del passero, è detta pas-
serino),
e una sesta della quale non si saprebbe indicare con sicu-
rezza lo scopo "). Alcuni fringuelli poi hanno ancora due altre
voci, delle quali se una pare sia Finvito fatto dal fringuello ma-
schio e adulto ai piccoli ad uscir dal nido e seguirlo, l'altra si
'j Lo squittire delle tordelle, ad esempio, pare che sia appunto una
espressione di grande contentezza. Vedasi Chenu, op. cit., IIP, 7. Però
la dev'essere anche di dolore, poi che più volte la sentimmo emessa
da tordelle ferite.
'^) Alludiamo a quel mormorio che comunemente si crede essere il
canto di primavera gorgheggiato a voce bassa e non chiara, poi che
viene emesso almeno per una quindicina di giorni prima del vero canto
spiegato, ma che in realtà ha così poca somiglianza al canto che torna
lecito supporre abbia lo scopo, piìi che di risvegliare la memoria, di
ammorbidire e rendere agili le corde vocali, nel lungo silenzio del-
l'inverno fatte pigre e dure.
460 G. BONELLI
capisce ancor meno e può ritenersi tutt'al più come un grido di
ricerca e quasi di vaga interrogazione *). ' •
VI". — Non ci soddisfa la spiegazione del RoUand (op. e voi.
cit., pag. 230) : " on l'appelle ainsi parce qu'il est censé chanter:
compère loriot „ ; ci sembra impossibile che con tali due parole
si sia voluto rendere il canto del golo '^). Penseremmo piuttosto
che anche l'uso del nome compare quale adiettivo di questo uc-
cello si deva attribuire a quello spirito di famigliarità col quale
l'uomo considera e tratta le co§e che più da vicino lo circondano
come altrettanti suoi famigliari ^), Infatti se anche oggi indaghiamo
quale preciso sig^iificato abbia il nome di compare quando non è
usato nel senso di padrino, troveremo che esso indica sempre qual-
cuno che sta dietro, che vien dopo, passato il pericolo o la fatica,
a godersela generalmente alle spaUe altrui ; ed ecco che allora si
offre spontanea la supposizione che al contadino o, meglio, all'or-
tolano, deva essere uscito di bocca quale adiettivo al golo il no-
mignolo di compare, come a quell'ospite che, senza avere nessun
diritto, non manca mai di capitare, quasi a mensa imbandita, nel
di lui campo, tosto sian mature le ciliegie o i fichi.
') Un mio fringuello sovente smette il canto d'amore e attacca questo
altro (che vien pure emesso solo nel periodo dell'amore) se colla voce
gli imito il grido di passo. Però tale osservazione, per quanto più volte
ripetuta, non può avere molta importanza, perché fatta in condizioni
artificiali, cioè su di un fringuello prigioniero, in uno stato quindi
nel quale va perduta la genuina rispondenza del canto al sentimento.
— Infatti, per continuar a parlare dei fringuelli, non è raro che essi,
mentre che dalla loro gabbia allegramente sfringuellano, senza nes-
suna ragione, d'improvviso sospendano il canto per attaccare i più
sgradevoli sibili di spavento e insistervi per qualche buon minuto.
— (Intorno al linguaggio degli uccelli vedi anche la traduzione te-
desca dell'opera di Gaexer, The speech of Monkeys fatta da Marshall).
^) Tale spiegazione non si può accettare non foss'altro perché fa-
rebbe credere che anche la parola " loriot „ sia stata foggiata a ri-
trarre il canto dell'uccello, mentre, come lo stesso Rolland conviene
e spiega, non è che una derivazione della voce latina aureohis.
') Si ricordi l'uso della parola " amico „ per indicare " furbo che
se la gode ,, e la locuzione " è qui l'amico „, dove l'amico è il gatto
0 il cane che si fa avanti e vuol qualcosa da rosicchiare.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 461
YII''. — Uno sguardo all'opera del Rolland, e subito si ri-
leva quanto imaginosamente i francesi abbiano ritratto e, come si
suol dire, interpretato i canti degli uccelli; le nostre poche locu-
zioni e aneddoti, a confronto delle loro poesie, ritornelli, proverbi,
leggende, sono ben misera cosa.
Ora, che la causa di questo fatto sia proprio da vedere tutta
in una maggiore spigliatezza della fantasia del popolo francese non
crederemmo, poiché ci pare che anche la stessa lingua francese
vi abbia non poco cooperato. Chi infatti vorrà negare che a petto
dell'italiana non sia la francese co' suoi numerosi e frequenti dit-
tonghi e colle sue parolette brevi di gran lunga più armoniosa ?
Gli è quindi, secondo noi, per questo motivo che i nostri vicini
d'oltr'alpe, se colla fantasia hanno saputo sì graziosamente rica-
mare attorno alle abitudini e costumi degli uccelli, hanno anche
spesso tentato, e non sempre infelicemente, di renderne il canto
con argute frasi onomatopeiche.
Chi, ad esempio, non conosce l'allodola, quella musicista dei
campi, che, tranne i giorni più cupi del più freddo inverno e, nella
state, l'ore della maggior canicola, sempre li allegra di sue vibranti
note; che comincia il melodioso canto nel) 'alzarsi lentamente a volo,
per non cessarlo se non quando, d'improvviso, quasi da folgore
colpita, a terra ritorna? Ebbene l'allodola, mentre in Italia, che
noi almeno si sappia, a nessuna ben diffusa leggenda ha dato ori-
gine, né col suo volo ardito, né col suo armonioso canto, in Francia
invece trova graziosamente e iu varia guisa quello spiegato e questo
reso e in racconti e in locuzioni e in proverbi. Si pretende infatti
colà, ad esempio, che l'allodola cominci il suo canto pregando Dio
di lasciarla salire e promettendogli di non più bestemmiarlo —
jìirara'i jm, jurarai pìi, Dioìi — ma che appena arrivata in
alto, acciecata dal suo orgoglio, torni al peccato antico, onde Iddio
sdegnato di nuovo la precipita al basso: — coìitre ! coutre ! —
Così pure, perché mai, quasi unica eccezione, mentre tutti gli
uccelli dormono, l'usignuolo rompe colla sua potente voce gli alti
silenzi della notte? — Nessuna spiegazione trovo data di questo
fenomeno naturale dal popolo in Lombardia *); nella Francia in-
') Una, per verità, vi è, ma pochissimo ditt'usa ; ed è quella data
dalla frase bresciana a intento, per così dire, onomatopeico, poi che
anche vuol ritrarre il canto dell'usignuolo : camiza curta, braga lónga,
462 G. BONELLI
vece ecco la fantasia popolare creare o almeno appropriarsi la gra-
ziosa Tavoletta che spiega la veglia dell'usignuolo narrando conae
questi una notte, essendosi esso pure addormentato, l' insidiosa
vitalba ') lo abbia crudelmente allacciato nelle sue spire, ed ecco
anche la favella duttile prestarsi a renderne il lamentevol canto :
Dormirai pu, dormirai pu, p)u, pu me toursonna'io ìa vi.
(Né si creda per quanto siamo ora venuti dicendo che i fran-
cesi conoscano bene l'avifauna e meglio di noi, che, al conti'ario,
i nomi stessi, coi quali indicano le varie specie, lasciano ben ca-
pire come superficiale non solo, ma confusa e incerta sia nel po-
polo di Francia la conoscenza degli uccelli. Quanti nomi indiffe-
rentemente usati per indicare specie diversissime! Che enormità
dire beccafico — becfigue - Yanihus arboreusl)'^).
donnarés antèra (volentieri), tua go póra di bis, bis, bis..., nella quale
(che riteniamo posteriore a quella altrove ricordata — camizi cUrt,
ciirt, ecc., — poi che pure in questa, ma senza verun nesso logico, ri-
corre il pensiero della camicia corta) è certo a notare, come suppo-
sizione felice, il timore dell'usignuolo di cader preda di qualche biscia
insidiosa, giacché, se dobbiam credere a quanto si narra, la stessa
vipera, leggermente tremolando la propria lingua, riesce a trarre a
sé l'usignuolo, che, credendo di scendere a beccare un verme, le si
getta e caccia in gola.
*) È questa pianta una rampicante, e precisamente la ranuncolacea
clematis, detta " erba dei poveri „ poi che per un principio caustico
della sua clorofilla, se viene sfregata sulla pelle, in breve tempo vi
fa sorgere vesciche che s'aprono in piaghe, le quali senza essere molto
dolorose, dispongono a compassione chi le vede ; e alcuni poveri la co-
noscono bene (bresc. idàse *viddse = ritaccie).
^) Così pure non crediamo di poter condividere il giudizio di
H. CoupiN(in Revue scienti fi qu e, Le chant des oiseaux, ìslsc. 20 a\)vi\e
e 4 maggio), che solo in Francia si sia tentato d'imitare il canto
degli uccelli. Esso ci sembra un po' troppo esclusivo, e qualcosa son
pure — per tacere dei ritornelli e delle frasi colle quali anche da noi
si tentò di rendere alcuni gorgheggi, frasi e ritornelli, per conoscere
i quali il detto studioso non ha che da scorrere l'opera dell'illustre
folklorista di Francia, il Rolland, che quasi di continuo noi abbiamo
citata — qualcosa son pure, diciamo, le espressioni dialettali bresciane
baia e guind delle tordelle, binda del verdone, ciopezd e fincià del
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 463
Vili"'. — Di tutti gli uccelli uno dei più noti è di sicuro il
tordo; già Marziale e Orazio, per non dire che di due soltanto,
ne parlavano con compiacenza, e meritamente sentenziavano in suo
favore :
Inter aves turdus, si quis me iudice cevtet,
Inter quadrupedes gloria prima lepus.
(Marziale).
Obeso nil melius turdo.
(Orazio).
Eppure è proprio il tordo uno degli uccelli che si conoscon meno,
giacché, oltre a non esservi per lui, finora, nessunissimo criterio che
insegni a distinguere gli individui maschi da quelli femmine, ci offre
un particolare grido, del quale quanto bene conosciamo gli effetti,
altrettanto è difficile spiegare la causa. Tale grido è il chioccolio
che il tordo emette quando, prigioniero, gli si mostri la civetta
0 gli compaia improvvisamente dinanzi alcuna persona, quando
insomma qualche spauracchio gli si appresenta ; onde parrebbe di
dover subito concludere essere tale grido la sua espressione del
timore, se due considerazioni non facessero difficoltà; l'una che già
un altro è veramente suo grido di paura, la seconda che al chioc-
colìo i tordi anziché fuggire come sembrerebbe verosimile se fosse
un grido di timore, accorrono subito, sempre e tutti, e cercano
d'andare proprio là d'onde il grido è partito. Dunque? allora cosa
vuol significare? ').
fringuello, éipà o sipà del tordo, cridà delle tordine, cnigià o grucià
del montanello, grinà del tordo sassello, martelà del frusone, piketà
del pettirosso, p/««« dell'allodola, sìjbià del merlo, le quali — e certo
non saranno esse sole le italiane — in un vocabolario della lingua
ornitologica, ben potrebbero stare a paro delle francesi roucouler
della tortora, coucailler della >5Uàglia, croasser del corvo, coucouler
del cuccio, jmpider dell'upupa, tintinrr della cingallegra e turluter
dell'allodolino.
') Riconosciamo noi per i primi che quando parliamo degli animali
e ci abbandoniamo alle ipotesi sulle cause dei loro atti, abitudini,
costumi, siamo inconsapevolmente tratti in un' insidia, in quella di
supporre che anche gli animali abbiano le nostre passioni o almeno
che queste e queste sole possansi dare tra di essi: in altre parole
464 G. BONELI.l
Persomi molto avvisata in simili cose, e che abbiamo in pro-
posito interrogato, ci espresse il dubbio che esso non corrisponda
a un senso di allegra maraviglia che il tordo proverebbe alla vista
della cosa strana che, per la prima volta o quasi, dinanzi gli si
agita. Ma è mai ciò possibile V che un povero, timidissimo uccello ')
da qualche ora o tutt'al più da un giorno prigioniero in piccola
gabbiuzza, o che ancora trovasi di sorpresa ingarbugliato nella rete,
digiuno, possa concedersi, per così dire, il divertimento di abban-
donarsi a festose esclamazioni alla vista dell'odiata civetta ''') o del
siamo tratti a riflettere i nostri sentimenti anche fuori di noi e pre-
tendiamo di spiegare al lume di essi pur la vita del restante mondo
animale. Così ora nel quesito, per così dire, di psicologia ornitologica
che ci siamo proposti, l'insidia suddetta ci conduce a parlare di paura,
affetto, allarme, contento, terrore, ecc. e cioè di emozioni e sentimenti
che mentre sono a noi propri, nessuno ci può assicurare corrispondano
anche agli stati d'animo, se la parola non è troppo grossa, degli uc-
celli. Ma d'altra parte, se vogliamo intenderci, è pur necessario pro-
cedere per verisimiglianza e analogia; e quindi, poi che sembra evi-
dente che i principali sentimenti nostri si trovano anche negli altri
animali, usiamo pure per essi delle parole corrispondenti, fatti però
guardinghi a non prenderle che come espressioni generali, e a non
escludere che altre emozioni si possano dare, ad es. negli uccelli,
che noi non abbiamo.
') La timidezza dei tordi è, presso i Sardi, addirittura proverbiale.
Infatti, in quello specchio fedele della vita del montanaro sardo che
sono i romanzi di Grazia Deledda, più e più volte ricorre il nome
di tordo fatto sinonimo di persona timida ; vedansi ad es. le frasi :
" Aquile, bisogna essere, non tordi „ — " Sei giovine, sei sano, va e
guarda in faccia la vita: sii aquila, non tordo „ — " Bisogna essere
uomini, bisogna essere aquile e non tordi , (Elias Portolu, eap. VI).
^) Nessuno certo dubiterà essere la civetta, come del resto tutti i
rapaci, dagli uccelli odiata, i quali, se anche prima non la conobbero,
quando nelle sue notturne spedizioni, aiutata dal traditore silenzio
delle morbide penne, va a spopolare i nidi, pure, grazie a quel prov-
vido intuito 0 segreta intelligenza che si suole chiamare istinto, tosto
la vedano, tosto sentono in essa il loro nemico : nemico però di giorno
non temuto, che anzi beffato, come quello i cui occhi soltanto nella
tenebra sanno discernere, e quindi son fatti ciechi alla luce del sole.
(I moti che la civetta fa colla testa, e che tornano a chi li vede tanto
goffi e ridicoli, altro non sono che tentativi da parte della povera
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 465
crudele che viene a schiacciargli la testa? Ma allora perché, quando
è libero, alla vista dell'uomo, tosto, immancabilmente, fugge ?
Sarà un grido d'allarme implorante soccorso. — A nostro av-
viso neppure questa congettui'a è possibile ; poiché, pur lasciando
da parte che noi non conosciamo nei nostri uccelli nessun vero
grido d'aiuto *), e quindi non ci è permesso supporre tale questo
cieca di sottrarsi allo sfolgorio che la offende. Ei-ra quindi chi li crede
frutto di apposito ammaestramento). È perciò, pare a noi, un senti-
mento di rivincita quello che anima gli uccelli (in modo speciale le
Sjjltnae e gli Erithachi) quando, di giorno, vedendo la civetta, anziché
fuggire, vi accorrono e con petulanza le volano dattorno e le sbat-
tono le ali sul viso; è lo spirito di vendetta che fa sua comparsa
anche in questo piccolo mondo.
(E tale spirito è probabilmente la causa anche del codazzo di allo-
dole più 0 meno numeroso che di solito accompagna i falchi e le
poiane, codazzo però che sempre sovrasta il rapace e sta attento a
non mai avvicinarglisi di troppo, più ancora, a non venirgli sotto).
') Veramente lo Chenu (op. cit. , IIII, p. 120j, trattando delle cin-
gallegre — mésanges — scrive che esse, quando sono prese, mordono
vivamente le dita dell'uccellatore : * les frappent à coups de bec re-
doublés et rappellent à grands cris les oiseaux de leur espèce, qui
accourent en foule „, ecc ; cosa però della quale noi non sapremmo
attestare, e che ci sembra si possa forse spiegare colla semplice ten-
denza dei singoli individui, più o meno viva secondo le diverse
specie, ma vivissima appunto nelle cingallegre (come, in generale, in
tutti gli uccelli che di solito viaggiano a coppie), a non mai lasciarsi ;
onde in realtà quando un qualsiasi cacciatorello, di due cingallegre
ne ha preso una, novanta volte su cento prende anche l'altra, poi che
questa non sa staccarsi dal luogo ov'è arrivata colla compagna, e
quindi non si allontana, ma torna sulla stessa pianta, sullo stesso
ramo, ove, come appunto poco prima la sua compagna, cade anch'essa
a sua volta vittima o prigioniera.
Così delle averle si potrebbe forse pensare che abbiano un grido
d'aiuto, poi che tormentandone una in modo che strilli, se altre ve
ne sono, tosto compaiono. Ma anche qui non oseremmo affermare sia
il grido una vera invocazione d'aiuto, poi che anche quando sono
libere le averle lo emettono ben di frequente (cfr. il n. napol. qué-
rold) nei loro non radi alterchi (cfr. il n. mant. gaza rabida) vuoi per
il possesso di una femmina, o per le solite riluttanze di questa ai
violenti desideri dei maschi, vuoi per altro ; onde si può supporre
466 G. BONELLI
del tordo, ma grida di sémplice allarme (insigni esempi ce li of-
frono i corvi e gli storni, nei quali si hanno anche vere e proprie
scolte), come va che i tordi, mentre accorrono al chioccolìo, fug-
gono quando sentono strillare, cioè quei gridi che davvero sono
di paura e di dolore? Ma se il tordo avesse un gi-ido col quale
far venire in aiuto i suoi compagni, di certo, anziché vanamente
strillare, questo emetterebbe quando, ad esempio, ferito in un'ala
non può sfuggire al cacciatore che viene a prenderlo, o quando
già la callosa mano lo stringe del villano uccellatore.
Né maraviglia adunque, né desiderio d'aiuto esprime il tordo
allorché manda tale grido. Cosa vorrà quindi esso dire? — Non
crediamo di esser noi quelli che riuscu-emo a dare una spiega-
zione che tutti persuada, e, paghi di aver esposta la questioncina,
ce ne staremmo zitti, se una ipotesi, per quanto strana e ardita,
non ci si presentasse con insistenza alla mente quale spiegazione
possibile e forse unica.
Anzitutto noi osserviamo che il tordo allo stato libero di na-
tui'a chioccola pochissimo: di solito appena quando attacca i gor-
gheggi d'amore, e qualche volta quando rinviene taluno di quegli
utilissimi vermi che sono i lombrici, i quali tornano a lui cibo
tenero, abbondante e sopra tutti squisito ') ; e che se pare che
allo stato libero quasi tutti i tordi emettano a mezza voce tale
grido, gli è cosa provata che artificialmente si riesce a provocarlo
solo in pochissimi (a taluni con un mezzo, ad es. colla civetta;
ad altri con un altro, ad es. agitando loro dinanzi e da vicino
un fazzoletto quasi con esso li si volesse colpire) ; e inoltre che
anche questi pochissimi che si è riesciti a far chioccolare non tutti
però ripetono tale grido, ma, a intervalli di pochi istanti, lo cam-
biano in quello di terrore, nel quale appresso sempre poi per-
sistono.
che anche quando accorrono al grido di una loro simile ferita, cre-
dano piuttosto di venire a prender parte a una contesa o a un gioco,
anziché di portare aiuto. E del resto a che servirebbe negli uccelli
siffatta tendenza? Potrebbe realmente mai un uccello soccorrere un
altro uccello?
') Chi conosce il lombrico capirà tosto come sia lecito supporre nel
grido del tordo che lo vede, da corto, tutto snodandosi, quasi incre-
dibilmente allungarsi, anche l'espressione d'un senso di maraviglia, e,
vorremmo dire se la parola non fosse troppo umana, di riso.
I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI 467
Ora : se la prima avvertenza non ci lascia dubbio che il chioc-
colìo è per sé grido di soddisfazione, la seconda a noi pare sug-
gerire che esso, quando provocato artificialmente, altro non sia
che grido sbagliato cioè emesso invece di quello di spavento. Ed
ecco allora spiegato come non lo mandino tutti i tordi, e quelli
pm-e che lo emettono dopo qualche tempo lo cambino in quello
di spavento, e come ad esso gli altri tordi accorrano in fretta e
quasi avidamente. Ed ecco anche il perché, mentre noi stessi ab-
biamo dianzi notato che la nostra congettura sapeva di ardito —
poi che il dire che la natura sbaglia non può a meno di colpire
e parere temerità *) — pure, considerata la natura del tordo quale
è timidissima, e come l'uomo stesso, allorquando è colpito da im-
provviso spavento, emette grida inarticolate, voci che per signi-
ficato punto non rispondono all'occasione, in altre parole, non sa
piìi quel che dice né quel che fa, non ci è poi sembrata tale nostra
congettura tanto inverosimile da non poter venir presa in qualche
considerazione ^).
D'" GrIUSEPPE BONELLI.
*) Però è tutta questione d'intendersi. Anche il dire che non è
vero che la natura non faccia salti, potè sembrare audacia senza
pari; ma quando si dichiarò che sostenendo che anche nella natura
si diano salti, altro non s'intende dire se non che nella serie dei fe-
nomeni tali se ne presentano per l'intervento di misteriose cause
nuove, che non sarebbe stato possibile prevedere, poi che troppo di-
versi dai loro precedenti (ricordinsi ad es. i gatti senza coda del-
l'isola Man, le pecore merinos dalla lana in modo straordinario fioc-
cosa e delicata), tosto si comprese non essere già un'eresia quanto
si affermava, ma verità sicura e ferma al pari di tante altre.
Così nel caso nostro, le leggi di natura si presuppongono violate
solo apparentemente ; poiché non è forse pur naturale che talora anche
nel bruto, quando estremamente atterrito, cessi la rigorosa con-ispon-
denza dei gridi alle emozioni ? — E del resto, non si sbagliano gli
uccelli, quando, vedendosi di lontano, si credono della medesima
specie e si chiamano — ad es. i tordi le allodole, le pispole i frin-
guelli — per tosto cessare dal canto appena si siano riconosciuti di
specie diverse ?
^) Il Filippini, nel già citato suo articolo intorno agli usi venatori
del Folignate (Arch. per le trad. pop.: fascic. IP, 1899), dopo aver
468 G. BONELLI - I NOMI DEGLI UCCELLI NEI DIALETTI LOMBARDI
detto che per la caccia ai tordi occorrono anche delle civette, osserva
che queste per sé non sono richiami, ma che l'uccellatore se ne serve
come di spauracchi insieme con qualche falco per far squagliare i
tordi che sono in gabbia, onde quelli che passano, credendo di es-
sere inseguiti da qualche animale di rapina scendano e s'infrattino
nel boschetto. — Abbiamo qui, come si vede, una nuova spiegazione,
la migliore forse di tutte quelle finora proposte, per quanto non ci
dichiari come un grido per sé di gioia venga emesso sotto l'impres-
sione dello spavento, come mai i tordi all'udire questo grido, appunto
per isfuggire l'immaginato pericolo, accorrano proprio là donde esso
è partito (e non quale allarme di pericolo lontano, ma quale espres-
sione di pericolo vicino), e fuggano invece quando sentono quello
solito e vero di paura.
BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
RECENSIONI
A. Zenatti, Il trionfo d'Amore di Francesco da Barberino, Catania,
Tip. Sicula di Monaco e Mollica, 1901.
Nei fascicoli di luglio ed agosto della Rirista d'Italia, l'A. aveva
già inserito un suo studio sul Trionfo d'Amore ed altre allegorie di
F. da Barberino, nel quale tratteggiava la figura di questo poeta,
cresciuto in mezzo all'artistica e fine società fiorentina, mostrandocelo
in relazione col tempo suo, dando qualche cenno dell'influenza che
su lui poterono avere i moralisti francesi, e soprattutto studiando il
concetto che egli ebbe dell'amore in rapporto a quello di altri poeti
e filosofi del periodo delle origini; lavoro specialmente notevole per
molte osservazioni argute e geniali, per copiosi ed utili riscontri,
ed alcune notizie nuove. L'autore si è fermato specialmente a trat-
tare della figurazione d'Amore e degli attributi che il Barberino dà
al dio. Ed io non intendo rivolgergli rimpi-overo per ciò che non ha
voluto fare; ma dirò tuttavia che è rimasto in me insoddisfatto il
desiderio di veder da lui, che mostra tanta competenza nel trattar
codesto argomento, toccata anche un'altra questione che non credo
sia stata ancor posta. Donde venne al Barberino la concezione del
Trionfo quale è rappresentato nel codice originale, con Amore caval-
cante per gli azzurri del cielo e con quella serie ordinata di persone
raffigurate in basso, in atto di ricevere i colpi del dio? Oltre il con-
fronto con l'altro trionfo del Barberino, quello di Morte, sarebbe
stato, credo, specialmente interessante, a proposito di codesta rap-
presentazione di messer Francesco, il cercare donde essa deriva e
qual posto viene a prendere nella storia della figurazione del trionfo. A
buon conto il Trionfo di Morte avrebbe potuto richiamare alla mente le
danze macabre, dalle quali può essere derivato l'uso delle rappresen-
tazioni pubbliche dei trionfi, così di Morte come anche d'Amore; " che
— per dirla con lo Zenatti stesso — Amore e Morte ijon vanno in-
sieme solo nei versi del Leopardi „.
La nuova pubblicazione dello Zenatti, fatta co' tipi della Tip. Si-
cula di Catania, ci mostra soltanto una redazione anteriore dello
stesso studio, di cui finora s'è discorso. È un tardivo omaggio per
Sladj di filologia romanea, IX. 30
470 BUI.LETTINO HIULIOGUAFICO
nozze; e trova principalmente in ciò la sua ragione; poiché ili nuovo
essa contiene soltanto parecchie note, ed oltre alcuni estratti del com-
mentario inedito, l'edizione del testo, quale è dato nel cod. barherino
oi'iginale, e che l'autore chiama " il testo del Trionfo ,. Ma sebbene
il componimento di Messer Francesco sia veramente da classificare
tra i trionfi, mi sembra tuttavia che sarebbe stato opportuno conser-
vare il titolo di Tractatus che ad esso dette il Barberino e che ci ri-
vela il carattere didattico della composizione.
Ora codesto tractatus era già conosciuto per l'edizione che nel 1898
ne fecero i proff. Federici, Grimaldi ed Hermanin (Il trattato d'Amore
di messer F. da B., per Nozze Gigli-Agostini, luglio moccciic, Roma,
Forzani); e sebbene gli editori sieno incorsi in parecchie inesattezze,
come fu avvertito anche nella Romania (gennaio 1899, pag. 162), esse
non erano tuttavia tali da far sentire il bisogno di una edizione
nuova. Ne il nuovo editore, che pure ha corretto molti passi errati
nella prima edizione, è riuscito ad evitare esso stesso alcune ine-
sattezze ed errori parecchi. Tra questi, spigolando qua e là, noto a
pag. 74 : " proprietatis ad suhiectum , corr. : suhstantiam ; pag. 75 :
" substinet illum in comis , corr. : etiam equus, e a proposito di questo
lapsus osservo che VA. ha una tendenza speciale a vedere Amore in
atto di tirare pe' capelli; infatti anche nella miniatura che rappresenta
Amore spezzato e una donna uccisa dalle saette di Morte (è ripro-
dotta nel mio articolo su Le miniature dei codd. barber. dei Doc.
d'Amore, Estratto daìV Arte, voi. V, Roma, Danesi, 1901, pag. 31),
egli vide " Amore a piedi, in atto di tirare una donna per i ca-
pelli ^ ! ; pag. 75 : " discurrere, et enim cum freno teneri „ corr. : e
contra; pag. 87: " bonum voluimus dare loqui , corr.: voluerunt;
pag. 87 : "Et propter casum „ corr. : pone ; pag. 88 : " cum videatur
et vulnera et rosas a latere „ corr.: rcicere; pag. 88: "et die domi-
cello : non miraris si aversitatibus torqueris , corr. : et die domi-
celli non curantis, scilicet adversitatibus torqueri; ecc. E cosi nei
brani che egli cita in nota, a pag. 9: " tertio scribentium, figu-
rantis , leggi : tertio scribentium quarto figurantis : pag. 15 : " hit
et alii „ corr.: hinc et alii; ecc. Ed anche nel testo italiano, come
al verso 2 della 4'' gobola dove l'A. invece di " toccando il duol ch'è
tale „ che è la lezione buona, data anche dal Federici, ecc., legge :
" tratando (V) il duol corale ,. Ma mentre noto codesti errori mi attra-
traversa la mente una dolorosa preoccupazione : come potrò evitarli
io nella edizione completa dei Documenti, che .sto preparando '? Che
gli errori sono inevitabili nella copia di questo codice, scritto in let-
tera minutissima e guasto talora in modo da richiedere piuttosto
l'opera d'un divinatore che d'un paleografo.
Fra le note che l'A. aggiunge nella seconda edizione del suo studio.
RECENSIONI 471
mi fermerò su quella a pag. 10, nella quale egli riprende la questione
della data della composizione dei Documenti, questione che fu già am-
piamente trattata dal Thomas (Frane, da B. et la littérature provengale
en Italie au m.-d. Paris, Thorin, 1883, pp. 67-72), il quale concludeva
che l'opera fu scritta durante il soggiorno del Barberino in Provenza
(1309-1313). L'A. sostiene l'opinione opposta, ammettendo che i Docu-
menti furono incominciati ed anzi quasi compiuti prima del 1309,
riportandosi a quanto disse il Renier (Giornale st. della leti, ital., Ili,
pp. 98-99), e mettendo di nuovo in campo la prova classica che fu
data già nella sua edizione dei Documenti dall'Ubaldini; ed è che il
Barberino a carta 24 ci dice che egli lavorò per ben 16 anni intorno
alle glosse, le quali, non essendo posteriori al 1313, saranno state
incominciate verso il 1297, se non prima; e il testo allora non po-
teva non essere già stato in parte composto. Ma sì il Thomas che
il Renier hanno già validamente dimostrato che in quel passo non
si parla del commento quale noi l'abbiamo, ma del materiale pel
commento, che potè esser raccolto anche prima che i Documenti fos-
sero scritti.
L'A. si illude sulla chiarezza della questione che, secondo me, non
è affatto risoluta. Il Thomas, escluso l'argomento dell'Ubaldini, so-
steneva la sua ipotesi rifacendosi al brano delle glosse in cui il Bar-
berino, scusandosi di non avere in Provenza finito il Reggimento perché
non aveva i " quaternos interlineatos illius operis ,, afferma : " hec
michi ab amore iniuncta proposui fini dare „, cioè " résolut de ter-
miner les Doc. pendant qu'il était en France , (pag. 68), ed aggiunge
la testimonianza dell'altro passo in cui è detto che il liber fu fan-
datus in Provenza. Il Renier opponeva: fini dare vuol dir terminare
e per terminare bisogna aver cominciato; ed inoltre la parola firn-
datus si riferisce al codice barberiniano, non al libro dei Documenti.
Ed aveva ragione, quantunque il liber fundatus in Provenza non sia
il cod. barb. xlvi-18, ma l'altro cod. pure barberiniano da me rinve-
nuto e nel quale ho riconosciuto la copia del poema eseguita in
Francia, perché in essa sono i disegni di mano del Barberino, il
quale — secondo la sua stessa testimonianza — non avendo colà tro-
vato il pittore che lo intendesse, dovè disegnar da sé stesso le sue
allegorie; e soggiunge: " poterunt hinc {cioè in Italia) et alii {cioè i
pittori italiani) meis servatis principiis reducere meliora (scilicet :
i disegni miei) „. E a proposito di questo brano il nostro A. seguendo
la lezione erronea che ne dette il Thomas, il quale leggeva, in luogo
di hinc et alii, hii et alii, congettura che lì sieno indicati i pittori
provenzali ed italiani ed afferma che il ms. barb. xlvi-18 fa mi-
niato da pittori provenzali ed italiani (pag. 16). Il liber fundatus
in Provenza è dunque il nuovo cod. barb. xlvi-19; ma ciò non di-
Studj di filologia romanza, IX, 30*
472 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
strugge l'obiezione del Eeuier, perché il Barberino ci avverte che
dell'opera sua fece non meno di quattro copie, e prima di questa ve
ne poterono essere anche altre.
Nulla dunque che ci dia una sicurezza. 11 pni dare, che secondo il
Renier dovrebbe togliere qualsiasi dubbio, non ci parla chiaro neppur
esso, perché prova soltanto che messer Francesco si proponeva di finir
l'opera prima di ritornare in Italia; ma non eselude che ad essa
possa aver dato principio in Provenza. D'altra parte il Thomas stesso
citava due bi-ani delle chiose dove è detto coi termini più precisi :
" Hec regula f;icta fuit ab amore in terra de Bedoino, in comitatu
Venesis , ; " in provincia Provincie fuit hoc promulgatum , : ed io
aggiungerò anche un terzo luogo, sfuggito al Thomas, dove si attesta
che la parte di Industria (la 2* fra le 12 in cui è divisa l'opera) fu
finita durante il viaggio per Carpentras; il fatto è riferito all'Industria
stessa, che " cum esset in cammino complevit apud Carpentraxium
partem suam „.
Quello dunque che finora si pub affermare con certezza è solo
questo: che per lo meno dieci fra le dodici parti in cui si dividono i
Documenti furono composte in Provenza, dove fu fundata la copia,
miniata dal Barberino stesso, che contiene tutto il testo volgare, una
piccola parte del testo latino, e, solo nella prima pagina, il commen-
tario, sebbene per esso si sia sempre lasciato lo spazio vuoto, che
" amor cui omnia presentia sunt tempore promulgationis documen-
torum istorum previdit quod glose huic operi suo circumponi debe-
bant ,. Dopo il ritorno dalla Francia il Barberino compose il com-
mentario e scrisse il codice barb. xlvi-18, che lo contiene, e fece
adornare questa nuova e definitiva copia di finissime miniature da
un pittore sicuramente italiano, rimasto finora ignoto.
Francesco Egidi.
G. Bertoni, Nuove rime di Bordello di Goito (Estr. dal Giorn. Stor.
della Ietterai, ital., 1901, voi. XXXVIII).
Si afferman qui ancor meglio, pare a me, l'acume e l'assennatezza
e disciplina di metodo, di cui il B. avea già precedentemente dato
prova. Parlo anche di assennatezza, perché a proposito di Bordello,
intorno al quale la curiosità dei critici par sia destinata a non mai
acquetarsi, non facile era a chi aveva materiale nuovo tra le mani,
non contravvenire al senso della misura nel formare ipotesi ed im-
postare argomentazioni : e il B. non vi contravvenne, a parer mio,
pur non essendo sempre tali le sue conclusioni che il lettore abbia
ad accontentarsene pienamente.
Il primo componimento, qui pubblicato e illustrato dal B., è una
tenzone tra Bordello e Joanet [d'Albusson] ch'egli crede composta
RECENSIONI 473
alla corte di Azzo VII d'Este, prima che l'avventuriero di Goito si
recasse a quella dei San Bonifazio, quando, dunque, egli era ancor gio-
vanissimo. E tal conclusione, pur riconoscendo io quanto a prima
vista appaja probabile l'identità del " Marqes , del v. 10 con quel
d'Este, suscita nell'animo mio, che pur vorrebbe accoglierla, dei dubbj
non facili a rimuovere. L'Albusson rinfaccia a Bordello la voce ch'egli
* prende l'altrui „, che " la povertà lo conduce in giuUeria „, che
" molto si biasima il suo mendicare in Lombardia „ ; e Bordello gli
risponde che " d'altrui non prende se non la moglie ,, che doni non
accetta se non " per crescere giullari d'arnese „, ecc.. E l'identico
linguaggio, d'accusa e di difesa, risuona nello scambio di sirventesi
occorso tra Peire Bremon e Sordello, quando questi già da molti
anni era in Provenza e vi s'era maturato d'anni, d'onori e di ric-
chezze, e bene aveva il diritto di offendersi e difendersi dall'accusa
d'esser semplicemente un giullare. Lì anzi s'invoca da Peire Bremon
a testimoniare di ciò ch'era stato Sordello in Lombardia proprio
Joanet d'Albusson, come ben ricorda il B., il quale Joanet qui, nei
vv. Pos ioglars non es, coni prezes, \ Sordel, antan draps del Marqes ?
sembrerebbe alludere per proprio conto, come sull'autorità di lui v'al-
lude il Bremon, a cose non presenti; e negli altri Sordel, vostre men-
digar I Blastn' om fori en Lombardia farebbe cosa superflua a precisar
la regione nella quale si parla dell'accattonaggio di Sordello, se, es-
sendo essa la patria stessa di Sordello, questi non ne fosse ancor mai
uscito.
Da una stanza poi d'un componimento di eu Reforzat, già diplo-
maticamente edita in questi Studi (fase. 23, pag. 456), ed ora re-
stituita in assai probabile lezione, arguisce il B. come certa l'andata,
alla quale io primo accennai per poi dubitarne, di Sordello in Por-
togallo, non molto dopo la sua partenza d'Italia. Egli si sarebbe anzi
precisamente recato al santuario di S. .Jacopo di Compostella, j)er
quel caminho francez, che fu come il canale d'immissione della poesia
di Francia e di Provenza nella penisola iberica: e itinerario piìi con-
veniente per un giullare o trovatore non si saprebbe immaginare. E
se la stanza va letta così come il R. la ristora, se ne dedurrebbe
anche che laggiù capitò Sordello dopo " aver fatto fuggir di notte una
certa donna dal suo ostello , ; e mi par che esageri in prudenza il
B. quando esita a riconoscervi Cunizza, Più ragionevoli sarebbero le
esitazioni davanti alla restituzione, che a ogni modo fa onore all'a-
cume di chi la propone, del testo: che il v. 3 che il B. legge q'el
fes de nueg{z) de san albero fugir, letto con tutta fedeltà all'origi-
nale, qel fes d'enuegz (corr. de nueg'ì), ecc.. darebbe luogo a un vero
e proprio rivolgimento di senso. Questo dico, quantunque nessun
più di me, per congruenza all'opinione già altra volta manifestata
474 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
sulle cause che spinsero Sordello fuori d'Italia, sia portato a ravvi-
sare nei versi di Reforzat un'allusione al ratto d'una donna.
E non meno importante per la biografìa del trovatore di Goito è
il frammento, qui dato in edizione critica, del sirventese de Peire de
Castelnou : due stanze, nella prima delle quali si loda il conte Beren-
gario di avere ospitato ed onorato nella propria corte * monsignor
Sordello „ : che * se non gli fosse stato cortese ed amorevole da prin-
cipio, già non lo avrebbe trattenuto presso di se, e non saprebbe
uomo ora suo pregio e valore „. Nella stanza che a questa precede, e fu
dal Bertoni diplomaticamente pubblicata nel fascicolo citato di questi
Studi, a p. 464, si celebra re Carlo che ha vinto in campo re Man-
fredi: e non v'è bisogno di troppo appuntar gli occhi sul modo come
dall'una all'altra si trapassa, per conseguir la certezza che qui si vuol
far onore a Sordello come a chi ebbe onorevol parte nella battaglia
di Benevento. E ch'egli l'avesse avuta, io avevo già per altra via di-
mostrato anni fa (1), ed era poi parso al B. confermato dalla tornada
del sirventese del Gattilusio da lui anteriormente pubblicato (2). Che
se ben si ponga mente ai versi di Pietro de Castelnou or ora da me
tradotti :
e si nois fos cortes e plazentiers
al comenzar (3), noi retengra estiers,
ni no saubr'om son pretz ni sa valensa,
si inclinerà, penso, a riconoscere com'io avessi pur colto nel vero
quando conclusi che solo le benemerenze acquistatesi sul campo di
Benevento potettero nell'opinione pubblica elevar tanto Sordello, che
un papa s'inducesse a farne oggetto principale d'un proprio breve.
Nella penombra dì xm" Appendice relega il Bertoni un testo in vol-
gare italico, ultimo nel manoscritto Campori, del quale egli tenta
anche la ricostituzione critica. Buono, a parer mio, il ragionamento,
col quale lo si costringe entro al sec. XIII e alla zona dialettale lom-
bardo-veneta : non ben solido, invece, l'altro sul quale si vuol fon:
dare la probabilità d'un'attribuzione a Sordello. Sia pure che l'au-
tore dovesse essere, come Sordello fu, un trovatore di mestiere,
" esperto nella poesia di Provenza „, e italiano e " nato nella Lom-
bardia 0 nel Veneto o anche in una località posta tra la regione ve-
neta e lombarda , ; ma alla possibilità di determinarlo nella persona
(1) Cfr. il mio Sordello di Goito, Halle, 1896, p. 60.
(2) In Studi e ricerche sui trovatori minori di Genova, Torino, 1900,
p. 55.
(3) Suppl. \_el] per evitar 1' iato, assai duro, tra retengra e estiers?
RECENSIONI 475
di Sordello non si giunge, e non giunge di fotte il B., se non in virtù
del noto passo del De Vulgari Eloquentia ch'è (quando, s'intende, non
si giudichi, com'io lo giudicai, corrotto o lacunoso, o l'una e l'altra
cosa insieme) l'unica testimonianza invocabile a favore di poesie
scritte in volgare italico da Sordello. Ma in quel passo si discorre
di Sordello come di quegli " qui, tantus eloquentie vir existens, non
solum in poetando, sed quomodocunque loquendo patrium
vulgare deseruit ,. 0 come mai d'un fatto di carattere così generale
s'avrebbe ora la prova in questo testo, il cui autore, già nel bel prin-
cipio, dichiara:
ben è razo qu'eo faza
un sirventes lonbardo,
qe del provenzalesco
no m'acresco?
Ma qui parla qualcuno che per una volta tanto fa uso del dialetto
lombardesco; e i versi che immediatamente seguono:
e fora cosa nova,
c'un no trova
sirventes lombardesco,
oltre a confermare e precisar codesto, dimostran anche che l'autor
del sirventese, a guardarsi intorno, non avrebbe trovato alcuno,
neppur Sordello, il quale, non che " quomodocumque loquendo „, ma
anche solo " poetando „ usasse il lombardesco.
Ma basti di ciò, e seguan qui poche osservazioni di carattere er-
meneutico su alcuni passi dei testi provenzali.
Al n. I, v. 18, 1. eus o eu' s. Ibid. v. 32, 1. noi. — Al n. II, vv. 30-31,
ingegnosa è la restituzione con cui si tenta di colmare la lacuna
estendentesi ai due versi; ma forse poco verosimile nella sua seconda
parte. Ibid. v. 38, restituisci, più probabilmente, [gazanhar], che ben
s'accorda con quel che immediatamente precede e segue, dovendo dal
tutto risultar l'usata ed abusata antitesi : meglio esser perdere presso
la donna amata che guadagnar presso un'altra (cfr., p. es., anche ri-
spetto all'uniformità dell'espressione, Peire Vidal in Lex, Roin. II,
276': mais am ab lieis mescabar \ Qii'ab autra joy conquistar). — Al (1)
(1) Buona mi pare l'argomentazione colla quale il B. crede di dover
riportare al 1233 questo sirventese (p. 12); ma non vi scorgo l'im-
portanza, che il B. vi ravvisa, per precisare i rapporti che " furono,
pare, molto buoni „ (ibid.) tra il Conte di Provenza, Raimondo Be-
rengario, e Sordello. Su ciò non credo sia mai caduto dubbio.
476 BULLETTINO RIBLIOGRAKICO
n. Ili, vv. 2 f 20 coir. noi. Ibid. vv. 41-45. Pel v. 43 avevo già pro-
posto in questi Studi, fase. 24, p. 164, la correzione vostre nou, inten-
dendo che il là del v. 43 si risolvesse in ian, e il tutto si leggesse
così : Humils, fizels, amoros \ si tot mi sui desamatz, \ gentils domna,
ja'n forzatz \ vostre nou cors envejos \ quem venz'ab doussa paria, e
s'interpretasse : " umile, fedele, amoroso, quantunque non amato,
donna gentile, (pregovi) vogliate sforzarne il vostro giovin corpo vo-
luttuoso (e qui s'avrebbe in sostanza la perifrasi con cors in luogo del
pronome personale), ad avanzarmi in dolce corrispondenza amorosa ,;
dove, come del resto anche nella lezione data dal B., è notabile quel-
Venvejos col valore di " eccitante la voglia „, " voluttuoso ,, che il
li&vy sospettava in un passo di Sordello (cfr. Suppl.-Wtb. s. envejos).
Ibid. V. 48. Nel fase, or citato di questi Studi io avevo proposto la
correzione in fermat che mi pareva convenientissimo al senso (cfr.
Rambaut de Vaqueiras, nel Contrasto colla donna genovese, presso
Appel, Chr. p. 131: s'es mos cors en vos fermatz) e artiSciosamente
combinato in bisticcio con ferm, così com'è, nello stesso verso, cor
con coral. Ibid. vv. 51-56; interpungerei in modo affatto diverso e,
se non m'inganno, pivi conveniente al senso di tutta la stanza: e si
valors s'umelia, \ gentils donna, qim defen \ vostre non iove cors gen,\
pois ren deh comtes nom citai; | ni tur guerra vernazal \ no voil, ecc..
— Al n. V, V. 7, corr. plazentiers. C. d. L.
C. Appel. Wiederum zu Jaufre Rudel (Sonderabdruck aus dem Archiv
fiir das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, Band CVII,
Heft 8/4).
L' Appel propone dell' " amor di terra lontana ,, che anima tutto il
canzoniere del signor di Blaja e che pareva ridotto in fumo di leg-
genda dalla critica sapiente ed acuta di G. Paris, una nuova spiega-
zione, che, strana a prima vista, desta poi nell'animo del lettore, a
mano a mano che il ragionamento dell' Appel procede, un interesse
ognor crescente. La donna misteriosa, per cui a Rudello tutto il cuor
doleva, sarebbe ne più ne meno che la Vergine Maria; alla quale
in via diretta, secondo l'Appel, meglio che a qualsiasi donna terrena,
per quanto lontana dal trovatore, si lasciano riferire alcuni passi del
canzoniere di Rudello; ed in via indiretta si lascian riferire altri, nei
quali sentimenti ed immagini dell'amor terreno, anche in ciò che ab-
biano di piìi ardito, voglion essere adattati alla Signora dei cieli ;
come, del resto, avvenne presso molti trovatori, di epoca più tarda.
Ma ingegnosamente nota l'Appel esservi nel canzoniere di Rudello
anche qualche tratto il quale, pur sembrando aver radice in un amor
terreno e nelle relazioni del poeta con yna donna in carne ed ossa,
è, per chi ben guardi, in contraddizione stridente con quelle che eran
RECENSIONI 477
condizioni fondamentali dell'amor trovadorico. 11 " marito „ che Ru-
dello evoca {Pro ai, v. 17) non e il solito " geloso ,, e nella stanza
settima di Belh m'es resfius compar l'unico fratello di donna amata
che ci sia dato rintracciare in tutta la lirica occitanica. Or non si avran
qui degli stralci da quella complicata genealogia nella quale la mi-
stica medievale si dilettava d'impigliar Maria, madre figlia del proprio
figlio, e via dicendo?
Come questi, molti sono i passi che l'A. riesce più o meno age-
volmente a spogliare di quanto potrebbero aver di ripugnante alla
sua tesi: esser nella poesia di Rudello adombrato non solo un amor
di terra lontana, ma un amor da terra lontano; tanti, direi, che nella
somma costituiscano tutto il piccolo canzoniere di Rudello. E, ripeto,
tutto l'insieme dà molto da pensare.
Tuttavia, lo studio di G. Paris, dal quale uscì così malconcia la
poetica storia di Rudello e della principessa di Tripoli, poneva in
sodo, tra i particolari, questo, che il motivo dell'amor lontano, il
quale ha in un dei canti del signor di Blaja tutta l'aria di volere
informar di sé un gioco di spirito, si ripete poi, senza che certo possa
voler nascondere un fondo mistico, in trovieri, trovatori e minnesinger
posteriori. E a codesto io per mio conto avrei da aggiungere, se pur
altri già non l'ha notato, che all'amor di donna non vista accenna
già quel burlone di Guglielmo IX [Amigii'ai ieu, no sai qui s'es, \ qii'anc
non la vi. . || Anc non la vi et am la fori; || quan non la vey, be m'en
deport; || No sai lo luec ves on s'esta, \ si es en pueg o es en pia) (1),
in quel suo canto enigmatico ch'egli stesso definisce %in vers de
dreyt nien, e la cui ultima stanza anche per un amor terreno sarebbe
cosa troppo pepata. E un accenno se ne trova pure nel ben noto
vers di Peire d'Alvernhe [Contr' aisso nC agrada 'l ptarers \ d'amor
lonhdan'...) (2), un accenno fuggevole, ma ben distinto che contribuisce
a testimoniare della stabilità di un tale motivo, fuori d'ogni mistica
intenzione, nel repertorio della lirica trovadorica. C. d. L.
Paolo Sav.t-Lopez, La novella provenzale del pappagallo, Napoli, tip.
della R. Università, 1901.
Di questa graziosa novella si conoscevan due redazioni: la più
lunga, contenuta in R (Bibl. Naz., ms. fr.j 22.543), sarebbe stata, se-
condo il Bartsch, l'originaria; secondo lo Stengel, all'incontro, quella
pili breve, contenuta in J (Bibl. Naz. di Firenze F, 4,776), della quale
l'altra non sarebbe stata che un'amplificazione o, meglio, un prolun-
(1) Cfr. Appel, Chr., p. 80.
(2) Cfr. l'ediz. Zenker, in Romanische Forschungen, XII, 746.
478 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
gamento. A sostegno dell'opinione propria allegava in verità il Bariseli
fatti d'un più preciso carattere : e cioè che il frammento della no-
vella contenuta in G (Ambros. R, 71 sup.) va precisamente fino al
verso dove incomincia la divergenza tra J ed i?, e che, d'altra parte,
v'è una così sensibile concordanza di lezione tra G e J, per questo
tratto comune, da doverne arguire che ambedue provengano da una
fonte comune mutila; e che quel che di più reca il secondo dei due
sia im'aggiunta arbitraria di copista. Il che spiegherebbe anche l'ano-
nimia della redazione J; laddove in 5 è fatto il nome dell'autore
Arnaut -de Carcasses.
Il S.-L. s'è accinto all'opera della reedizione, mettendo a profitto
anche il breve frammento riccardiano che die alla luce il Wesselofsky,
non che quello di D (codice Estense), di cui, come del resto anche
di G, àie le varianti il Napolski, e l'altro, sfuggito a tutti finora, e
contenuto in altra parte di G. Quest'ultimo risponde a quello offerto
da D in quanto comprende precisamente l'ultima parte (sessanta-
cinque versi) della redazion più breve, nella quale ultima parte, per
la sua intonazione lirica, avea già lo Stengel fiutato un'aggiunta.
Quale miglior prova della ragionevolezza di tal sospetto che ritrovar
tutto quel brano come cosa a se, vale a dire come un bell'esemplare
di domnejaire, in due manoscritti, e in uno anzi (in G^) proprio dopo
la nota canzone dello stesso genere dovuta ad Arnaut de Marueil
Domna genser'ì Da questi particolari d'ordine esteriore e dall'unifor-
mità di tono epico e dall'armonia che in ogni sua parte ci offre la
redazione di R, risulterebbe confermata l'opinione del Bartsch, che
quella definì originaria.
Non si saprebbe qui contraddire il S.-L., al quale appena mi par-
rebbe si potesse rimproverare, nel processo del suo ragionamento, il
difetto di prolissità che si accentua, s'io non mi inganno, nell'altra
parte, accurata del resto anch'essa e ricca di buoni materiali, ove,
allo scopo di rimuovere il sospetto di una diretta fonte orientale o
greca per la novella di Arnaut, s'indagan le propaggini della leg-
genda dell'uccello messaggero d'amore, ed eventualmente anche in-
cendiario. Della romanza dello stornello di Marcabruno e di quella
dell'usignuolo di Pietro d'Alvernia, e dei possibili rapporti tra l'una
e l'altra non breve discorso avea fatto di recente lo Zenker; e pur
avendo qualche cosa di diverso da dire, avrebbe potuto, a parer mio,
esser più conciso il S.-L. che infine veniva a toccarne solo per in-
cidenza. La concisione giova in ispecial modo là dove sono in gioco
dati di fatto d'ordine materiale occorrenti a dimostrare i rapporti
tra varj manoscritti; e nel caso speciale del S.-L. aggiungerò che,
essendo continuamente in gioco delle cifre, egli, per quel suo certo
orrore dall'espression breve e precisa, obbliga ad ogni pie sospinto
RECENSIONI 479
il lettore ad un lavoro di calcolo per accertare a quale manoscritto
quelle cifre si riferiscano (1).
Questo si accenna non già per menomare i pregi, che certo pre-
valgono sui difetti, del lavoro del S.-L. ; ma appunto perché si vor-
rebbe che tali pregi non fossero neppur minimamente offuscati da
difetti di perspicuità materiale. E sono ben contento di poter subito
aggiungere che assai ragionevole mi par quel tanto che l'A. scrive
intorno alla persona di Arnaut de Carcasses. Egli rigetta quel ohe
arbitrariamente fu affermato da dizionarj biografici e, dal David, nel-
VHistoire Littérairc; e mette avanti l'ipotesi che Carcasses possa voler
denotare non una regione, ma un minuscolo villaggio a cinquanta-
cinque chilometri da Carcassonne.
Segue quindi il testo in disposizione congrua a quanto l'A. ha di-
mostrato nella introduzione. Vi si dà prima il testo di R, notandosi
in calce le varianti che per piìi o men breve tratto offrono gli altri
manoscritti; poi la seconda parte di J, da cui però si stralcia, per
isolarlo come cosa originariamente a sé, il domnejaire, ricostituito sui
mss. DGJ.
Certo, la novella esce così ristorata dalle mani del S.-L.; e non
(1) Nella pagina prima leggo: " Frammenti della novella si leg-
gono ."«.Itrove [altrove, intendi, che nel ms. R] : i primi centoventi-
cinque nell'Ambrosiano G ; una cinquantina di versi... nel ms. Riccar-
diano 2756»..; tutta la fine, a cominciar dal verso Eu amanz iur e
promet a vos nell'Estense D „. Or quei " centoventicinque „ parreb-
bero da computare secondo la numerazione del testo di R che è il
fondamentale, e voglion essere invece secondo quella di G che il let-
tore non ha sott'occhio, essendo tale ms., per questo primo tratto,
utilizzato solo per le varianti, e al quale poi in prosieguo (p. 42)
l'A. assegna la cifra di novantotto versi, lasciando al lettore un non lieve
sforzo da compiere per intendere che quei novantotto di G, per via
di lacune o raccorciamenti, corrispondono in somma ai centoventi-
quattro (o centoventicinque?) di J. Di quel che fosse la " cinquan-
tina di versi „ del Riccardiano il lettore si farebbe subito un'idea piìi
determinata, se il S.-L. gli dicesse che son tanti da corrispondere in
sostanza al tratto di R che va fino al v. 85; e che con quel " tutta
la fine „ s'intenda parlar dell'ultimo tratto di J'e non di R\\ lettore
non riesce che ad accertar piìi tardi. Così pure, a p. 34, sci-ive il
S.-L.: " Lo Stengel osservò che in J '\ ver.si dal numero 189 in poi... ,,
e quella cifra parrebbe riferirsi al testo J che il lettore avesse sot-
t'occhio tutto intero ; mentre nel fatto non può risultare che da
un'operazione aritmetica ch'egli deve fare aggiungendo ai primi cen-
toquaranta del testo, dato secondo il ms. R, i primi quarantanove
della continuazione di J che è data a parte. E aggiungerò ancora
che non è se non con parecchio stento che il lettore riesce a preci-
sare dove nella redazione di J incominci il tratto del domnejaire che
il S.-L. stampa pure a sé. Due asterischi sarebbero bastati.
480 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
son davvero molte, e son, credo, quasi tutte imputabili alla fretta che
sicuri segni di sé rivela in piìi punti del lavoro (anche nelle Osserva-
zioni in fondo al lavoro, ove si mescono alle note esejjetiche alcune
grammaticali, la cui superfluità avrebbe certo sentita il S.-L. per
poco che vi avesse pensato su) le inesattezze rimaste nel testo dopo
che l'A. l'ebbe munito à'xxn errata-corrige. Tre volte, a pag. 53, v. 79,
a p. 65, vy. 11 e 13, leggo un votre che vorrà esser corretto in vostre;
e .vedo costantemente adottata dal S.-L. la grafia no y (p. 51, v. 40;
p. 57, V. 187; p. 61, v. 312) che direi irrazionale. — Il vertutz di
p. 53, V. 91, io inclinerei a intendere piuttosto che, come fa il S.-L.
(cfr. Osservazioni al testo della novella, p. 77), per " le virtù dell'amore „,
per quelle di Antifanor che il pappagallo per prima cosa (cfr. p. 49,
vv. 11-14) ha messe sotto gli occhi della donna; e qui, ordinatamente,
alla donna ostinata nel rifiuto egli imputerebbe di far torto al dip
d'amore, ad Antifanor (nelle sue virtù) che è poi quello che piìi ha
ragione di dolersene, e a lui, il disinteressato mediatore. — 'A p. 56,
v. 160, la lezione per esperatz, che ristorerebbe il ritmo e darebbe un
senso accettabile, contravviene, secondo del resto riconosce lo stesso
S.-L., alla sintassi. D'altronde, il senso stesso parrebbe richieder piìi
propriamente una parola che significasse " inosservato „, " non visto ,,
ovvero " sicuro „, " senza sospetto ,. — La correzione done a p. 57,
V. 174, era già in Bartsch, Chr., come v'era pure la grafia encar\
coll'apostrofo che direi superfluo. — A p. 58, v. 231, il S.-L. stampa
l'enpenray, come già stampò il Bartsch', e vorrà dargli, pare, (cfr. p. 80,
alla nota corrispondente al passo), come avrà voluto darglielo il Bartsch,
il valore di " accendere „; ma sarebbe, credo, l'unico esempio dell'uso
di quel verbo col valore attivo di " accendere „ fuor di metafora.
Avrebbe quindi meritato d'esser posto in rilievo. — A p. 59, v. 240,
il S.-L. adotta la lezione del codice prendran che il Bartsch, avendo
letto prendian, credè, già per ragion del ritmo, di dover correggere
in prendon. Ma la correzione del Bartsch, opportuna perché s'abbia la
ripetizione identica, voluta dall'autore, del v. 186, mi parrebbe anche
necessaria pel senso : dovendosi intendere che " nessuna notte (le
gaite) posano „ e non già che " nessuna notte poseranno ,. — L'as-
semamen di p. 59, v. 262, la cui verosimiglianza ben riesce a dimo-
strare il S.-L. nella nota corrispondente, appar legittimata in qualche
modo dal Glossaire Occitanien che registra " assemamen = préparatif „.
— Pel corrieri di p. 61, v. 305, s'acqueta il S.-L. all'interpretazione
di " corriere, messo „ ; laddove rP>rdmannsdòrff'er, Eeimwdrterbuch,
p. 171, pensa a un " corrigium „. Ma non sarà invece per correi =
armatura? Antifanor s'è recato all'appuntamento " de son r/arnimen
adobatz , munito d'elmo e d'usbergo non che di schinieri di feri'O e
speroni d'oro e buona spada (cfr. p. 58, vv. 213-18); e giunto presso
RECENSIONI 481
alla torre (cfr. vv. 241-44) è disceso da cavallo, " a pauzat son
garnimen, de pres son cavai, tot entier ,, tenendo con sé solo la spada;
e se ne torna, ad opera compiuta, contento come un figlio di re (come
una pasqua, diremmo noi), dopo aver anche avuto il tempo di ri-
prender la sua armatura : che bello non sarebbe stato perder le
proprie armi, fosse pure in un'avventura d'amore. — Dopo i! v. 807
non credo sia la lacuna che il S.-L. immagina; anzi credo che
il V. E per los maritz castiar sia, come del resto lo stesso S.-L. so-
spetta (cfr. p. 81), in stretta dipendenza dal precx di v. 307, il quale forse
non a torto il S.-L. (cfr. p. 40) inclina a intendere per " esortazioni „.
— A p. 63, V. 51, sarà il caso di lasciar cavalier, benché nomina-
tivo singolare, sol perché altrove, in posizione di rima, la redazione
di J ci dà la prova di trascurar la flessione ? — Ibid. a v. 60 don man
non sarà da correggere in deinan? e intendere: " e pregovi che la
mia domanda (di presto rivedervi) non mi (dativo etico) dimenti-
chiate per amor del marito „ ? — L'ultimo verso del domnejaire (p. 67),
quando pur abbia quel carattere speciale che il S.-L. (p. 35) gli at-
tribuisce, non si potrebbe ridurre alla giusta misura e alla regolarità
grammaticale, correggendo nquest in cestz'ì C. d. L.
N. ZiNGARELLi, Lo Romaus de San Trofeme (extrait des Annaìes du
Midi, tome XIII), Toulouse, 1901.
Lo Z. pone a fondamento della sua edizione il manoscritto 13514
(fondo francese) della Nazionale di Parigi, che quasi per intiero con-
tiene il pio racconto, non senza però mettere a profitto gli altri pa-
recchi, che ce ne han conservato frammenti più o meno estesi e
guasti, pur troppo, nella lezione; e col riscontro di questi egli fu in
grado di proporre miglioramenti, spesso certi, arditi forse a volte,
ma quasi sempre degni di considerazione.
D'altronde, il testo, in cui ogni regola di declinazione è trasandata
e abbondano capestrerie prosodiche, morfologiche e fonetiche (qual-
cuna di queste ultime offrì già materia a notevoli osservazioni di
P. Meyer), è tale che dell'opera dell'editore, la quale dal già fatto si
lascia prevedere in tutto diligente, si potrà con assai miglior agio
giudicare quand'egli avrà pubblicato le illustrazioni e note che ci
promette.
Mi farò lecito, a ogni modo, di notare fin d'ora che il crasacci del-
Vexplicit del manoscritto della Nazionale di Parigi va certamente letto
transacti, non lìassati; che forse a v. 234 sarebbe meglio leggere en
quasar, che offrirebbe evidente riscontro colla lezione del v. 223; al
V. 249 sarà da correggere las in la; i vv. 377-80 vorran forse esser
letti così: E poyra si far — so elh respondet — | Qiie man p)alais ni
mahitation | Sie apelat niayson d'orasion ? A v. 590 potrà adottarsi la
lezione del codice i a comensat, con una risultanza d'iato punto
482 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
strana in un tal testo; al v. 605 l'altra aquel'ayya; a v. 614 l'altra
lo n'eniportaran, non essendo il solo caso di n' {== inde) proclitico nel
testo; a v. 620 l'altra Que en; a v. 641 l'altra E aytan...; a v. 673
l'altra E entro; e al v. 674 la correzione proposta dallo Z. sarebbe
forse da completare con un no preposto ad era. C. d. L.
Vincenzo Crescixi, liamhaldo di Vaqueiras e Baldovino imperatore, Ve-
nezia, 1901 (estratto dagli Atti del Reale Istituto Veneto di scienze,
lettere ed arti, tomo LX, parte II).
S'ha qui l'edizion critica, e la versione letterale e l'illustrazione,
ampia e quanto si possa desiderare accurata, del sirventese di Ram-
baldo di Vaqueiras che G. Bertoni pubblicò diplomaticamente, di sul
manoscritto Campori, nel fascicolo 23 di questi Studi, a pp. 429-30.
Non ci voleva meno della molta familiarità che il C. può vantare
colla vita e coll'opera poetica di Rambaldo, e conseguentemente
anche colla storia della quarta crociata, per giungere alla restitu-
zione certa dei non pochi passi profondamente guasti. Non facili dav-
vero erano le correzioni del cotne di v. 14 in comte; deìVe leuos di
V. 56 in Nevelos; del dozelet cors di v. 57 in doz'electors; e una volta
fiutate e additate tra il viluppo degli avvenimenti storici, esse si fan
subito larga strada nella coscienza del lettore e gittano sul complesso
del componimento una luce piena che invano ci attenderemmo dalle
allusioni, ben più agevoli a cogliere, all'imperatore Baldovino nella
prima stanza e al maresciallo Goffredo di Villehardouin e a Milo di
Breban nella tornado. Queste ci permettono di riferire a colpo d'occhio
il sirventese al di là di quei capitali avvenimenti che furono la presa
di Costantinopoli e la incoronazione di Baldovino; ma il ricco com-
mento del Crescini (troppo ricco, quasi direi) che incalza vittorioso
la parola ristorata del poeta, ed ogni particolare da essa accennato
assiepa con bei riscontri di brani storici originalmente allegati o
riassunti, riesce a circoscriver la composizione del sirventese tra il
giugno e il luglio del 1204.
Qualche osservazione saltuaria, ora, intorno al testo. Pel v. 21 sarà
risolutamente da adottare la lezione che il C. propone come prefe-
ribile nella tabella delle Correzioni e che io avevo già proposta in
questi Studi, fase. 24, p. 160. — 11 v. 23 nell'edizione C. suona: e
gart se q'al seti tort non hais, e vien tradotto : e si guardi che, a suo
torto, ei non discenda. Ma il codice legge: e gart se quel seu tort non
hais, e la correzione di seu in en oltre a togliere ogni stento al senso,
che sarebbe: " e guardisi ch'egli in torto non cada , (1), verrebbe
(1) La correzione ch'io propongo parrebbe render possibile anche
l'altra di òois in biais; ma contro questa sta il jìuiatz es, intenzio-
nalmente antitetico, del verso seguente.
NOTIZIE 483
anche resa probabile dal fatto che il copista par facesse un vero
sciupìo di s a sproposito (cfr. al v. 36 hlancs, comanz, els; al v. 37
els turcs els pajans els persans; e, con maggior conformità al nostro
caso, al V. 58 f:els in luogo di sei o sii). — Pei vv. 29-30 io non ho
ne un'interpretazione migliore ne un'altra lezione da proporre; ma
così come sono non mi danno un senso soddisfacente, anzi mi han
l'aria di contraddirsi l'un l'altro. E la contraddizione dovè sentire e
quindi voler evitare il C. quando, pur volendo egli tradurre alla let-
tera, non osò qui tradurre : " che se perde quelli che con lui stanno,
tardi si faran di sua casa „ ; ma in luogo di " perde „ adoperò " s'a-
liena „. Cd. L.
C. Salvioni. Dell'antico dialetto pavese (Estr. dal Bull, della Soc. pa-
vese di St. patria, A. II, fase. 1° e 2°, 1902).
Fondandosi sopra tre scritture indubbiamente pavesi, l'A. giunge a
riconoscere le peculiarità per le quali il pavese antico si contrappone
al dialetto sincrono della Lombardia. Il riconoscimento frutta alla
scienza un risultato inatteso. Il S. infatti restituisce a Pavia l'antica
Leggenda verseggiata di S. Maria Egiziaca, pubblicata da T. Casini
nel Giorn. di filol. romanza (III, 89 segg.), e da lui creduta franco-
veneta. L'attribuzione a Pavia è confermata dalla soscrizione che
si legge in fondo al poemetto: Arpino Broda, notaio a Porta Parte
(Pavia), del quale ci resta ancora qualche atto. Restituzione ancor più
importante, trattandosi di testo ben altrimenti copioso e piìi genuino,
è quella della nota parafrasi del Neminem laedi xisi a se ipso di
S. Giovan Grisostomo, pubbl. dal Foerster nel voi. VII àoìV Archivio
glottologico, sulla provenienza della quale pendeva ancora incerto il giu-
dizio del Foerster stesso, dell'Ascoli e del Meyer-Lubke. II S. correda
il suo lavoro di annotazioni fonetiche e morfologiche, di glossario e
di un saggio de' testi.
NOTIZIE
— L'episodio di Bordello e V apostrofe all'Italia s'intitola una lettura
dantesca tenuta dal professor Filippo Palleschi agli alunni della scuola
normale di Pisa e pubblicata a Lanciano, Carabba, 1901. Vi si vuol
dimostrare come nella fiera apostrofe, nonostante la sua veemenza,
precisamente si delineino le idee politiche di Dante; e vi si dà prova
di una larga conoscenza della letteratura dantesca in genere e di
quella sordelliana in ispecie. Se l'A. avesse avuto notizia, e non gli
sarebbe stato possibile per ragion di tempo, delle pubblicazioni di
G. Bertoni (cfr. sopra a p. 474), avrebbe avuto buona prova della
presenza di Bordello alla battaglia di Benevento, di cui dubita forte
a p. 45, n. 36.
484 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
— Il D' Giuseppe Flechia inserì nel voi. XXXIX del Giorn. star,
della lett. ital., pp. 180 sgg., una sobria e succosa nota su Galega Pan-
zano trovatore genovese, un cui componimento, scritto alla vigilia
della battaglia di Tagliacozzo, avea recentemente tratto dal ms.Campori
il Bertoni (cfr. questi Studi, fase. 23, p. 468) e il cui nome avea per
felice induzione restituito lo stesso Bertoni nella sua forma italiana
(cfr. StitdJ e ricerche sui trottatori ndnori di Genova, p. 23, n. 2). La
nota del Flechia reca documenti che provano irrefragabilmente l'aver
Galega Panzano, della nobile famiglia di questo nome, coperto onorevoli
uffici in patria circa l'epoca a cui il componimento del ms. Cam-
pori si lascia riferire.
— Da alcune settimane è uscito il fascicolo 13" del Provenzalisches
Suppleinent- ÌVorterbuch di Emil Levy, che arriva sino alla fine della
lettera F, e chiude il volume terzo. Il volume quarto si estenderà
fino alla lettera L inclusa.
— Tra i lavori di volgarizzazione che si vengon facendo intorno
alla letteratura francese del medio evo, merita di essere segnalato
l'elegante volumetto in cui il sig. G. Michaut ha messo in francese
moderno VAucassin et Nicoìette, quel gentile idillio che fu una delle
prime fioriture della lingua d'o>7. La traduzione è presentata ai let-
tori da J. Bedier, nome caro ai romanisti e che basta a raccoman-
dare il libro.
— II D. R. Kiessmann ha pubblicata la prima parte delle sue
Untersuchungen i'iber die Bedeutung Elepnorens ton Poitou fi'ir die Lit-
teratnr ihrer Zeit (Bernburg, 1901). E un lavoro scarno e che non
mostra piena conoscenza delle fonti. L'A. però ha il merito di aver
vòlta l'attenzione su quella donna che tanta parte ebbe nello svolgi-
mento della letteratura aulica del sec. XII, e non si può non aspettare
con vivo desiderio il compimento dell'opera sua.
— II professore Vincenzo de Bartholomaeis ha recentemente scoperto
un trattato didattico-morale in prosa provenzale del sec. XIII o del
XIV, dal titolo Lo libre de la doctrina }meril,Q si -pto-^onQ Ai ■pnhhVic^xc
in questi Studj la notizia del manoscritto e larghi estratti di esso con
illustrazione linguistica e letteraria.
— II Prof. L. Biadene, avendo trovato un altro manoscritto dei
Carmina de inensibus, già pubblicati in questi Studj, nel fascicolo
prossimo darà il risultato della sua collazione.
— Egidio Gorra ha pubblicato (Bologna, Zanichelli, 1902) la tra-
duzione italiana del libro di A. Bassermann, Orme di Dante in Italia
(2' ediz.). L'opera del Bassermann è abbastanza, e non da ieri, nota,
perchè qui se ne discorra; ma non sappiam fare a meno di rivolgere
una parola di lode viva al traduttore, il quale, accingendosi a divul-
gare il robusto ed agile libro tedesco, ebbe coscienza di efficacemente
concorrere all'opera di disinfezione, di cui ogni dì \nù si sente la ne-
cessità, contro la micrologia di tanti fra gli innumerevoli dantofili
dei nostri giorni e del nostro paese.
NOTIZIE 485
— A. Farinelli ha pubblicato nel fascicolo di febbraio della Rivista
d'Italia un frammento dell'opera non ancor compiuta su " Dante in
Francia ,, nel quale acutamente s'indaga l'efficacia di Dante sul-
l'opera letteraria di Margherita di Navarra.
— È uscito (Bologna, Romagnoli, 1902) il volume delle poesie
amorose di Guittone d'Arezzo, criticamente edite da FI. Pellegrini.
— Come primo volume della serie di Documenti di storia letteraria
che la giovane Società filologica romana intende pubblicare, è uscito
Il Libro delle tre Scritture e il Volgare delle Vanità di Bonvesin da
Riva, a cura di Vincenzo de Bartholomaeis.
— Nella Bibliotheca luridica medii aevi, che si stampa a Bologna
a cura del prof. A. Gaudenzi, il voi. Ili contiene fra altre cose il
Liber de regimine civitafum, opera simile al frammentario Oculus pa-
storalis, deila quale il Davidsohn aveva dato notizia ed estratti nelle
sue belle Forschungen zur iilteren Gesch. von Florenz I, 141, 164. La
edizione fu curata dal prof. G. Salvemini, il quale ebbe la fortuna
di trovare dell'opera anche un secondo ms., da cui si apprende il
nome finora non conosciuto dell'autore. Questi fu Giovanni da Viterbo,
e chiarita la patria di lui rimane omai chiarito abbastanza anche il
fondo dialettale che presentano le formolo volgari in quel libro
inserite e che pareva molto strano in un testo creduto d'origine
fiorentina.
— Il prof. V. Vivaldi ha pubblicato un volume su La Gerusalemme
liberata studiata nelle sue fonti (Trani, 1901). Questo non è un rifaci-
mento dello studio Sulle fonti della Liberata, dello stesso autore, edito
nel 1893 ; ma è lavoro affatto diverso, qui essendosi l'A. proposto di
discutere tutte le fonti della Liberata indicate sinora, mentre nell'altro
volume erasi limitato a indicare quante reminiscenze si ti-ovino nella
Lib. del romanzo cavalleresco. E nel volume uscito testé si tratta del-
l'azione principale del poema; in altro volume jjoi si pubblicheranno
i Prolegomeni allo studio completo delle fonti.
— Una buona nota sui primordj della novella francese ha pubbli-
cato il prof. K. Vossler nelle Studien zur vergi. Litteraturgesch. del
Kocb, fase. 1° del voi. II.
— Compiendosi il terzo cinquantennio dalla fondazione della Società
delle Scienze di Gottinga, Guglielmo Meyer di Spira ha comuni-
cato, nella Festschrift {B^vììn, Weidmann, 1901), la scoperta da lui fatta
di sette nuove carte dei Carmina Burana, che giacevano confuse in
mezzo ad altri frammenti nella Biblioteca di Monaco in Baviera. La
illustrazione di quelle tredici pagine, che costituisce la parte princi-
pale dello splendido volume, vuol essere segnalata come uno dei
contributi più cospicui che in questi ultimi anni furono recati alla
letteratura latina del medio evo.
— Paul Sabatier ha pubblicato il voi. IV della sua Collection d'études
et de documents sur Vhistoire religieuse et littéraire du moyen uge (Paris,
Fischbacher). Questo volume contiene gli Actus beati Francisci et so-
486 BULLKTTINO BIBLIOGRAFICO
ciontin ejns editi a cura dello stesso Sabatier, e sebbene non offra
una edizione critica ma soltanto una riproduzione fedele del migliore
fra i due mss. che l'editore potè adoperare, pur il suo lavoro anche
così sarà utilissimo, perché rende accessibile a ogni studioso il testo
di cui i famosi Fioretti sarebbero la traduzione. Alla edizione fanno
corredo ampie illustrazioni che accrescono notevolmente il pregio
del volume.
— Allo stesso Sabatier dobbiamo la fondazione in Assisi di una
Società internazionale di studi francescani d'intento esclusivamente
scientifico, la quale ha iniziato l'opera sua promovendo in quella città
la formazione di una grande biblioteca ove si raccoglieranno tutte le
pubblicazioni aventi carattere francescano, e ha istituito un comitato
con rincarico di facilitare agli studiosi forestieri le corrispondenze e
le ricerche su cose francescane.
— Nella Rivista Abruzzese del 1901, Suppl. I, il dott. G. Finamore
ha pubblicato una serie di leggende popolari abruzzesi raccolte dalla
tradizione orale su Santa Diodora, San Vito, La fonte di San Franco,
San Silvestro.
— La casa editrice Vallardi ha dato alla luce, coll'intento di render
servigio ad un pubblico assai largo, un Dizionario Etimologico di do-
dicimila vocaboli italiani, derivati dal greco, autori A. Amati e P. E, Guar-
nerio. Ci pare ch'esso risponda egregiamente al suo scopo.
— Essendosi, il 26 ottobre 1891, festeggiato in Bonn il venticin-
quesimo anniversario dell'assunzione di W. Foerster alla cattedra già
occupata da F. Diez, in onore dell'insigne romanologo vollero amici
e scolari mettere insieme un volume di Beitrdge zur romanischen und
englischen Philologie (Halle, Max Niemeyer, 1902, 8° gr., 498 pagine),
di cui ecco il sommario:
Lang Rudolf, Die indianischen Elemente im chilenischeìi Spanisch.
— Goldschmidt Moritz, Germanisches Kriegswesen ini Spiegel des ro-
manischen Lehntvortes. — Stengel Edmund, Fromondins als Kloster-
hruder. Episode aus der Chanson von Gerbert de Mez nach 11 Hss. —
Thomas Antoine, Hérec de Beaujeu, maréchal de France, et les derniers
vicomtes d'Anbusson. — Cloetta Wilhelm, Die Entstehung des Moniage
Guillaume — Cornu Julius, Das Hohelied in Castillanischer Sprache
des XIII JaJirhunderts nach der Handschrift des Escoriai I. i. 6. —
Zenker Rudolf, Die Synagon-Episode des Moniage Guillaume IL —
Wahlund Karl, Eine altprovenzalische Prosailbersetzung von Brandans
Meerfahrt. — Suchier Hermann, Die Mundart der Strassburger Eide.
— Forster Max, Ein englisch-franzosisches Rechtsglossar. — Baist
Gottfried, Variatianen ilber Roland, 2074, 2156. — Behrens Dietrich,
Zur Wortgeschichte des Franzosischen. — Neumann Fritz, Lai. anca
altfrz. oie-oue und Verivandtes. — Rajna Pio, Un eccidio sotto Dago-
berto e la leggenda epica di Roncisvalle. — Friedel Victor H., L'ar-
rivée des Saxons en Angleterre d'après le texte de Chartres et l'Historia
Britonum. — Morsbach Lorenz, Die angebliche Originalitàt des friih-
mittelenglischeti " King Horn „ nebst einem Anhang ilber anglo-fran-
zosische Konsonantendehnung . — Steffens Georg, Der Kritische Text
der Gedichte von Richart de Semilli. Mit den Lesarten aller bekannten
NOTIZIE 487
Handschrìften. — Gaufiiiez P^ugène, Notes sur le vocalisine de Meigret.
— Gròber Gustav. Eia Marienmirakel. — Bùlbring Karl, Sidrac in
England. — T<?ndering Fritz, Die logisch-schidende Kraft der franzo-
sischen Graininatik, Ein Beitrag zu Methodik des franzósischen Unterricìds.
La direzione degli Studj si associa di gran cuore alla dimostrazione
di attetto e d'onore a cui il professore di Bonn fu fatto segno da
parte di così bella e larga schiera di studiosi.
— Scritti vari di filologia. — Il 2 febbraio di quest'anno, compien-
dosi, il venticinquesim'anno d'insegnamento del professore E. Monaci,
antichi scolari ed amici vollero offrirgli un volume che, sotto il titolo
Scritti' vari di filologia, contiene le seguenti memorie:
A. Parisotti, Idee religiose e sociali di un filosofo greco del medio
evo. — L. Biadene, // collegamento delle due parti principali della
stanza per mezzo della rima nella canzone italiana dei secoli XIII e
A'/F. — P. Egidi, Bel azioni delle cronache viterbesi del secolo XV
tra di loro e con le fonti. - L. Gauchat, Sono avuto. — F. Pometti,
Il ruolo dei lettori del MD.LXVIIII-MD.LXX. ed altre notizie sul-
l'Università di Roma (con tavola). — C. Manfroni, Il figlio di Lamba
D'Oria. — M. Pelaez, Un Detto di passione. — C. A. Garufi, Sulla
curia stratigoziale di Messina nel tempo normanno- svevo. — C. Avogadro,
Appunti di toponomastica veronese. — E. Maurice, Di alcuni carmi
sacri di Paolino d'Aquileia- — F. Guerri, Inforno ad una epigrafe di
S. M. di Castello in Corneto Tarquinia (con tavola). - C. Trabalza,
Una laude umbra e un libro di prestanze. — G. Predieri, Serafino
Aquilano nei manoscritti dell' Antin ori. — V. de Bartholomaeis, Un
frammento bergamasco e una novella del Decamerone. — G. S. Ra-
mundo, Commodiano e la reazione pagana di Giuliano l'Apostata.
— A. Colasanti, L'epitaffio di Benedetto VII. — E. Bovet, Ancora il
problema "andare,,. — P. Tacchi Venturi, Corrispondenza inedita di
L. A. Muratori con i 2>P- Contucci, Lagomarsini e Orosz della Com-
pagnia di Gesti. — G. Grimaldi, Una lettera di Bernardo Dovizi di
Bibbiena a Giulio de' Medici. — G. Cappuccini, L'eteroclisia in are e ire.
— 0. Antognoni, L'epigrafe incisa sul sepolcro di Dante. — G. Maz-
zatinti. La biblioteca di S. Francesco (tempio Malatestiano) in Rimini.
— C. de LoUis, Quel di Lemos). — V. Tommasini, Sulle laudi greche
conservate nel Liber politicus del Canonico Benedetto. — C. Segrè,
Chi accusò il Petrarca di magia. — V. Rocchi, Una lettera inedita di
papa Urbano VI (con tavola). — F. Egidi, Per la datazione del codice
Casanatense A. I. 8 (233). — A. Silvagni, Un ignoto poema latino del
secolo XIII sulla Creazione. — G. Croeioni, Il dialetto di Canistro.
— F. Hermanin, Il miniatore del codice di S. Giorgio nell'Archivio
Cajyitolare di S. Pietro in Vaticano. — G. Salvadori e V. Federici,
/. / Sermoni d'occasione, le sequenze e i ritmi di Remigio Girolami fio-
rentino. IL Ricerche sui sermoni ai Priori della città (G. Vitali). III.
Il manoscritto (con tavola). IV. I sermoni. V. Sequenze, ritmi, an-
tifone, respnnsori, versi. VI. Indice degli argomenti dei sermoni. —
E. Carusi, L'indizione nella datazione delle carte 2)r ivate romane dei
secoli VIII-XI. — T. Morino, Note ed appunti sidla letteratura roma-
nesca. — P. Spezi, Di alcuni giudizi sul Belli. — A. Tenneroni, Di
due antiche laude a san Francesco d'Assisi. — P. Fedele, Un docu-
mento fondano in volgare del secolo XII. — P. Tommasini Mattiucci,
Antiche poesie religiose dell'Umbria. — E. Modigliani, Intorno alle
origini dell'epopea rf'Aspremont.
488
BULLETTINO BIBl.IOGRAKICO
— Nella stessa occasione (ì. I. Ascoli dedicava al professor Monaci
lo studio, estratto deWArchii-^io Glottologico Italiano, col titolo: Ancora
della sibilante tra vocali nel toscano. La diti'erenzatra i due proferimenti
(e cioè s sorda, ed s' cioè s sonora) è dall'Ascoli riportata coll'abi-
tuale mirabile sagacia a ragioni etimologiche, secondo le quali la sola
serie in s mette capo a voci latine recanti un vero e proprio -s-
intervocalico, mentre l'altra in f deriva tutta da voci in cui origina-
riamente la sibilante era preceduta da altra consonante. Non man-
cano invero parole dalle quali parrebbe doversi attendere un'ostinata
ribellione a queste norme fondamentali; ma la poderosa mano del
Maestro riesce pur sempre a ridurle alla ragione.
ERRATA-CORRIGE
Pag.
371
riga
15
abanda
41
alauda
372
^
8
.
.
.
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9
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^
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425
37
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,
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k'ca
„
445
„
12
spisón
corr. alauda
sperienza
Silvia
piéttu
turkina
skue-róssolo
alauda
trentacingliris
cerr
spionsi
petràun
alauda
gardéna
alauda
e del rossignol in
un altro,
nota VI
alauda
kéca
spinsón.
Tipografia VINCENZO BONA. •• Via Ospedale, 3, Torino.
IL CANZONIERE PROVENZALE J
Il codice di rime provenzali J fu scoperto dallo Stengel
che lo descrisse e ne pubblicò numerosi saggi, l'anno 1872,
nella Rivista di filologia romanza I, pag. 25 e sgg. Le sue
indicazioni servirono poi dì base a Gustavo Grober per
classificare questa raccolta nella gran famiglia dei canzo-
nieri provenzali \), e del testo di J si giovarono pili tardi
lo Schultz, lo Zenker, il Coulet, pubblicando criticamente
il primo le epistole poetiche di Raimbaut de Vaqueiras (e
dopo di lui il Crescini), il secondo le rime di Folquet de
Romans, e l'ultimo quelle di Guilhem Montanhagol; io
stesso ebbi a valermene per la mia edizione delle Novas
del papagay -). Ma buona parte del canzoniere è tuttora
*) Die Liedersammlungen der Trouhadoiirs , in Romanische Stiidien,
II, 337 segg.
*) Die Briefe des Trobadors Raimbaut de Vaqueiras an Bonifaz I
Marhgrafen von Monferrat; zum ersten Male kritiscli herausg.... von
Oscar Schultz. Halle a. S., 1893. Cfr. anche Crescini, R. de V. et le
marquis Boniface I de Monferrat, in Annales die Midi XI, 417; XII,
433; XIII, 141. — Die Gedichte des Folquet von Romans, herausg.
von RcDOLF Zenker, Halle a. S., 1896 {Romanische Bìbliothek, N. 12);
— Le troubadour Guilhem Montanhagol, par Jules Coulet, Toulouse,
1898 {Bibliothèque meridionale, V^ serie, t. IV). — Savj-Lopez, La
Novella Profetale del Pappagallo, Napoli, 1901 (Estr. dagli Atti della
R. Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Voi. XXI).
Studj di filologia romanza, IX. 31
490 P. SAVJ-LOPEZ
inedita, ne lo Stengel, in quel suo fugace esame di un mano-
scritto che si proponeva forse d'illustrar compiutamente
più tardi, esaurì per tal modo la materia, che moltissimo
non rimanga oggi a dire, o anche a ridire : solito privi-
legio di quelli che vengon dopo ! Non sarà dunque inoppor-
tuno tornare sull'argomento, e, mettendo in luce tutta la
raccolta, indagarne quanto meglio si possa la costituzione
e le fonti.
Il cod, Conv. Sopp. F, 4, 776 della Nazionale fiorentina,
pergamenaceo, di mm. 208 X 307, proveniente da quel con-
vento, oggi soppresso, di Santo Spirito, al quale il Boc-
caccio lasciò morendo affidati la sua sepoltura ed i suoi
libri '), comprende 75 fogli uniti dall' antica legatura in
legno coperta di cuoio ; ma la numerazione moderna ne
conta 76, tenendo conto della guardia che fu aggiunta dopo.
Nell'interno della legatura, a cui aderisce la prima parte
del doppio foglio di guardia, si leggono due note di mani
diverse ; la prima " Iste libe[r] est Io s Latinj primeranj
depigljs I Ciuis Fiorentini „ ; e la seconda " dipoi detto libro
toccho nelle diuise alatino | suo figliuolo ede didetto latino „ .
Le note sono ripetute sul verso della guardia sciolta : " Questo
libro e di Giouannj dj Latino di primerano | depiglj. chi
') Ma non per questo è da credere che abbia appartenuto al Boc-
caccio, non trovandosene notizia in quell'antico catalogo della Bi-
blioteca di Santo Spirito che il Goldmann ha pubblicato da un fram-
mento Ashburnhamiano, compilato negli anni 1450-51 [A. Goldmann,
Dì'ei italienische Handschriftenkataloge, nel -CentralblaU filr Bihìiothek-
wesen, anno IV, fase 4, pagg. 137-155; cfr. la recensione del Novati
in Giorn. stor. d. lett. it., X, 413 segg.]. In una divisione di esso il
Goldmann sospettò, ed il Novati convenne, di riconoscer parte del-
l'inventario boccaccesco; ma d'altronde la libreria del poeta " che
aveva già sofferto perdite non lievi prima di essere collocata nei
banchi fatti costruire dal Niccoli, deve averne e nella seconda metà
del secolo XV e nel XVI sopportate altre che ne procurarono lenta-
mente la dispersione „ (Novati, 1. e, pag. 424). Una parziale rico-
struzione della libreria è felicemente riuscita al Dr. 0. Heckkr,
Boccaccio-Funde, Braunsch-weig, 1902.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 491
lotruoua siilo renda e farà bene „ ; e ancora: "Dipoi Toccho
detto libro nellediuise alatino Suo figliuolo „ ^).
Il f. 2 (secondo la numerazione moderna, alla quale mi
terrò d'ora innanzi, ma che in realtà è il primo nella ori-
ginaria costituzione del codice) contiene l'indice dei capitoli
delle due opere italiane che seguono. Viene innanzi, dal
f. 3rt al f. 49 ò, la traduzione che Andrea da Grosseto fece
dei trattati morali di Albertano da Brescia in quattro libri,
e che di sul nostro codice pubblicò, molti anni addietro, il
Selmi 2). Comincia: " Come homo debbia doma} re la lingua
sua. Aloncomingamento et almepo et | ala fine „; ter-
mina, mutilo, in principio di quel capitolo del IV trattato
che nell'edizione del Selmi porta il n. XXXI e nell'indice
del manoscritto il n. XXVI: " dinaH9Ì alagra«dine perirà
lo fuco (sic) et . . . . ,,. Il foglio, che è l'ultimo d'un se-
sterno {4:9 b), ha in calce il richiamo " dinaw9Ì alla ,, che
non ha corrispondenza perchè in testa del foglio seguente
principia invece l'altro testo italiano (rubrica: " Questi sono
fiori et vita di | filosafi edaltrisauij ediwperadori „) che va
fino al f . 57 a. Comincia : " Pittagora fue lo primo fìlosafo „ ,
e finisce: " maestro per lacaduta delli altri. Explicit Liber
FiLOSOFORUM „ . Anche sulla base del nostro codice pubblicò
i Fiori nel 1893 Hermann Varnhagen, dal quale il codice
stesso venne pur sommariamente descritto ^). Al trattato
d' Albertano manca dunque l'ultimo foglio, e su questo fatto
avremo occasione di ritornare.
Seguono bianchi i &.ò7b e 58; sul wrso di quest'ultimo
') Non dunque lo dava Giovanni al figliuolo, come ebbe a scrivere
lo Stengel; ne codesto Giovanni portò mai il cognome Coi che lo
Stengel medesimo gli attribuì per inesatta lettura là dov'è scritto
semplicemente di (1. e, pag. 25).
^) Dei trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento ine-
dito puhhl. a cura di Francesco Selmi. Bologna, 1873.
^) Ueber die ' Fiori e vita di Filosofi... ecc., nebst dem italienischen
Teste, von Hermann Varnhagen, Erlangen, 1893. Tedi la descrizione
a pag. VII, vili, IX, con la riproduzione del primo foglio.
492 P. SAVJ-LOPEZ
si legge soltanto, in alto, un nome: Lapo churadi. Ame;<. Nel
f. 59 rt, oltre una ricetta ed uno scongiuro contro le ma-
lattie del cavallo, di mano del tardo secolo XIV, si legge
ripetuto il nome del possessore: " Hic liber est mei latinj
depillis. qui eum i;menit redat ^ropter dei amorem „. Di
fianco alla ricetta, i nomi " Lapo danielli „ e " Lapo chu-
radi ,, , entrambi della stessa mano ; e " Lapo churadi „
appare di nuovo scritto ma tosto fatto svanire un poco
più in su.
Col f. 60 incominciano le poesie provenzali. Sono com-
plessivamente 14 fogli scritti, da 60 fino a quasi tutto 73 ò,
che ha in bianco soltanto lo spazio di nove righe della se-
conda colonna. II f. 74 a contiene in alto una nota com-
merciale scritta in italiano, fra la fine del sec. XIV e il
principio del seguente ^), ed infine dopo i fif. 746 e 75 che
son bianchi, l'ultimo contiene alcune ricette latine pei mali
del cavallo, dovute alla stessa mano che scrisse la rac-
colta provenzale ^), e che in fondo al f. 76 è dopo le parole
xps regnat
xps imperat
aggiunse la declinazione singolare del nome tabernaculum
Tabernaculuw
Tabernaculi, ecc.
Le poesie provenzali — come già i testi italiani — sono
scritte in doppia colonna, di scrittura piuttosto fitta; ogni
colonna comprende cinquantuna riga, eccetto le due del
f. 62 a che ne contano cinquanta; ogni rigo conta in media
33-34 lettere, perchè i versi sono scritti in continuazione
e solamente divisi da un punto: fa eccezione una sola
poesia — la novella del Pappagallo — dove il diverso or-
') Anche secondo il Varnhagen : " ungefàhr aus derselben Zeit wie
der [kurze italienische Eintrag] auf Bl. 59 r. ,, cioè: " aus dem Ende
des vierzehnten oder dem Anfange des fùnfzehnten Jahrhunderts „
(Op. cit., pag. vili).
') Di queste ricette lo Stengel pubblicò le rubriche.
IL CANZONIERE PROVENZALE / 493
dine si spiega osservando che non si tratta di strofi li-
riche. Ogni poesia ha ripetuto in testa il nome dell'autore,
di color rosso ; le iniziali mancano e nello spazio loro de-
stinato si vede in piccolo segnata la lettera corrispondente.
Ma prima di venire all'esame del contenuto, bisogna ora
domandarsi se il nostro codice, contenendo scritture di-
verse di indole e di lingua, fosse originariamente uno come
oggi appare, o non piuttosto risulti dall'accordo posteriore
di due parti dapprima indipendenti, Tuna italiana e l'altra
provenzale. Quest'ultimo fu il parere dello Stengel, ed il
Varnhagen lo segui : ma l'interessante questione a cui altre
questioni si annodano non va così presto risolta. Dirò su-
bito che la grafia dei testi italiani, generalmente piìi grossa
e meno angolosa, appare diversa da quella delle rime pro-
venzali, sebbene qua e là venga assottigliandosi per modo
che la differenza apparisca un po' meno evidente : cito, per
dare un esempio, i fogli 46-47. Tuttavia un più minuto
esame comparativo fatto per l'appunto nei luoghi di mag-
gior somiglianza sembra confermare la diversità delle scrit-
ture ').
') Citerò alcuni esempi. Nella parte italiana a e scritto in tre ma-
niere diverse : o l'asta s'incurva appena leggermente a sinistra, molto
meno che nel moderno «i tipografico; o curvandosi si chiude in modo
da formare una seconda pancia sovrapposta alla prima; oppure non
s'incurva per nulla, e termina all'altezza della pancia. Il testo prov.
ha di queste forme soltanto la prima e la terza : questa, che divenne
comune in Francia nel sec. XIV, appare già nel sec. precedente, e
Io stesso va detto di a con la doppia pancia (Cfr. Éléments de pa-
léographie, par le Chanoine Reusexs, Louvain, 1899, pag. 277). — La
gamba del g prov. è quasi sempre corta, bruscamente spezzata nella
curva — invece nella scrittura italiana è ampia e forma una curva
chiusa. Lo z prov. è in Andrea da Grosseto e ne' Fiori un f. Soltanto
nel p prov. l'estremità inferiore della pancia taglia l'asta verticale
e si prolunga alquanto indietro; l'asta del d prov. è generalmente
piìi eretta, ecc., ecc. Notevoli differenze offrono pure le maiuscole.
Anche il segno abbreviato di et è il più delle volte diverso : nell'ita-
liano l'asta verticale all'estremità superiore s'incurva appena legger-
491 P. SAVJ-LOPEZ
Ma se l'angolosità della seconda è tale da rivelare in-
contestabilmente una mano francese , come parve allo
Stengel ed al Thomas ^), né anche la prima si salva dal
sospetto di gallicismo. Una dichiarazione anonima apposta
modernamente al codice vorrebbe trovare nello stile delle
iniziali e nella pergamena stessa i segni originari della
patria francese ; anche per il Varnhagen le grosse iniziali
dei trattati d'Albertano hanno carattere francese ^). Ma le
pergamene non hanno mai particolarità locali, e le iniziali,
quasi sempre posteriori alla scrittura, potrebbero essere
state eseguite lungi dal luogo originario del codice; ne è
prudente tener conto di* quelle unioni o disunioni irrego-
lari di parole che parvero così notevoli al Varnhagen ^).
Senza bisogno di questi argomenti malsicuri, abbiamo ra-
gioni ben più forti di sospetto. Francese è veramente il
segno abbreviato di et, che è bensì alquanto diverso —
quasi sempre — da quello usato nel testo provenzale, ma
pur esso divide quest'ultimo a metà con quel breve taglio
speciale delle scritture di Francia. E se già il Varnhagen
osservò nel testo dei Fiori alcuni gallicismi: contraire^
faire, che scritto talora que, da' medesimi Fiori aggiungo
un taillare corretto poi con l'espunzione di i francese e la
mente a sinistra, mentre nel prov. vi si attacca un'altra asta orizzon-
tale, come nel nostro numero 7. La distinzione non è costante: ma
se nell'it. si può trovare et talvolta in forma più somigliante a quella
del testo prov., in questo non ricorre mai la forma propria dell'altro.
Noterò ancora che il prov. ha pochissime abbreviature, e sempre in
fin di rigo, e relativamente molte ne ha l'ital.; e se i Trattati ed i
Fiori non contano che 47 righi per pagina, 51 ne contano le poesie
provenzali.
*) Stengel, 1. cit., pag. 27 ; Thomas, Francesco da Barberino et la
littér. prov. en Italie au Moyen-ùge; Paris, 1883, pag. 99. V. anche, per
l'angolosità della scrittura francese nel sec. XIII, Maurice Prou, Ma-
nuel de Paléographie latine et francciise du VI^ au XVIP siede; Paris
(senza data), pag. 111-112.
^) Op. cit., pag. viii-ix.
^) Op. cit., pag. IX.
IL CANZONIERE PROVENZALE / 495
giunta di i italiano talUare. E nella traduzione di Albertano
osservo al f. Vòb gardare, dove V u fu aggiunto sopra in
seguito; al f. 475 guerriare. Nel f. 6 a, col. 2" leggo: " Et
inunaltro luogo disse: la garricita cioè le garricite dele
femine non può celare neuna cosa „ : dove garricite sembra
essere travestimento francese della parola italiana, quasi
un'illustrazione della medesima. Sembra, dico, sebbene gar-
ricite non apparisca nel lessico francese (nò garricita nel-
l'italiano, del resto); io non saprei spiegare diversamente
la cosa.
Diversa, in conclusione, la mano italiana dalla provenzale ;
questa sicuramente d'oltralpe, probabilmente tale anche la
prima, e l'una e l'altra rimontanti alla fine del sec.XIII ^).
Giova avvertire che Andrea da Grosseto tradusse i trat-
tati d' Albertano a Parigi, nel 1268 ; questo egli ripete in
fine del primo, del secondo, del terzo libro; questo avrà
ripetuto nella fine perduta del quarto che è mutilo, come
fu visto 2).
*) Nessuno finora ha accennato all'età della seconda parte; rispetto
alla prima la nostra determinazione cronologica è su per giù la me-
desima fatta già dal Bartoli [St. della leti, ital., Ili, 217) : " il codice
Magliab. dei Conventi soppressi... appartiene indubbiamente o alla
fine del sec. XIII o ai primi del XIV „. Lo Stengel (pag. 25) ritenne
i testi italiani scritti al principio del secolo XIV, e così il Varnhagen.
Al sec. XIV, più generalmente, li fan rimontare il Selmi e Gusta vRolin
(Soffredi del Grathia' s Uehersetzung der philosoi)ìiischen Traktate Alber-
tano'svon Brescia, hex&Msg. von G. R. ; Leipzig, 1898, pag. v). 'Appa-
rentemente la scrittura provenzale si direbbe più antica dell'altra, ma
vedremo ch'essa non può essere anteriore ; del resto contenendo i
sirventesi di Peire Cai'denal non potrebbe essere più antica degli
ultimi decenni del sec. XIII.
^) In fine del primo libro : " Qui e compiuto lo pHwo libro de la
dottrina delparlare et deltaciere fatto da albertano giudice et auo-
gado dileggio {sic) dela cata {sic) dibrescia dela contrada di santa
gatha translatato et uolgarÌ9ato da andrea da grosseto ne la cita
diparigi , (f. 8 a). In fine del secondo apparisce la data : " negli
anni didio m.cc.lx.viij „ (f. 26 b). Il nome del volgarizzatore è così
scritto in fine del terzo libro : " Andrea del grosseto „ (f. 42 a).
496 P. SAVJ-L0PE7.
Non abbiamo nessuna ragione di credere che innanzi a
noi stia l'autografo: abbiamo, anzi, mille ragioni di credere
il contrario ; ma se la traduzione d'Albertano fu scritta a
Parigi, nessuna meraviglia è che in Francia si continuasse
a trascrivere questo con altri testi italiani al tempo in cui
tante donne nostre eran per Francia nel letto deserte! Ne
va dimenticato che Albertano fu ben presto tradotto anche
in francese; una versione del sec. XIII è manoscritta nella
biblioteca Nazionale di Parigi, dove sono anche tre codici
del Livre de Mellibée et Prudence volto in prosa francese
intorno il 1336 da quel Renaut de Louhans che tradusse
anche Boezio M.
Il sospetto che il codice nostro, scritto com'è in due
lingue e da due mani, fosse anche composto di due parti
originariamente distinte, ed accozzate poi, può sembrar fa-
vorito dal fatto che le poesie provenzali cominciano col
primo foglio di un quinterno. Il trattato d'Albertano consta
di quattro sesterni — del foglio mancante avrò a ripar-
lare — i Fiori di un quinterno con bianchi i due ultimi
fogli ; il canzoniere provenzale, infine, di un quinterno ed
un quaderno: il quinto foglio di quest'ultimo è tagliato,
tuttavia già sul verso del precedente (73) era finito il testo.
Ma erano "in realtà due parti distinte? Contro queste
varie apparenze si leva una ragione che basta a distrug-
gerle. Lo Stengel disse che i fogli delle due parti non sono
numerati -) : invece l'intero codice ha le tracce ancor qua
e là evidenti di un'antica numerazione abrasa, che per noi
è molto interessante. Vediamo che fino a dodici si procede
regolarmente: ma la carta tredicesima (che nella num. mod.
è quattordicesima) mostra le tracce appena visibili di un
XXV: più chiaro segue il xxvj, e, cosi via, or più or
meno evidenti continuano i vecchi numeri in serie ordinata
') Bibliothèque imperiale, Catalogne des manuscrits fran^ais, Tome
premier, Paris, 1868; n. 578, 580, 813; 1142.
') L. cit , pag. 25
IL CANZONIERE PROVENZALE J 497
fino a xlvj, sul f. 35, xlviij sul f, 37. Poi non si distingue
più nulla 0 quasi per un pezzo; ma sul f. 49 par di rico-
noscere un xxiiij, e sul f. 53 fu rispettato l'antico Ixiij che
appare chiarissimo ; di qui innanzi si va in buona regola
fino a Ixx (mod. 60) dove hanno principio le poesie pro-
venzali, e l'ordine è mantenuto per tutto il rimanente del
codice.
Per renderci conto della numerazione irregolare, bisogna
ammettere che i vari sesterni di Albertano fossero prima
numerati che scritti e legati; onde avvenne che nella le-
gatura il secondo, co' fogli xiij-xxirij, si trovò ad esser
quarto ^), e cosi leggiamo quest'ultimo numero sul qua-
rantottesimo foglio [12 X 4], modernamente segnato 49.
Ma non basta. Come va che nel seguente quinterno dei
Fiori, quattro fogli dopo, si legge Ixiij (mod. 53) in modo
che sul primo foglio de' Fiori doveva essere un Ix, mentre,
tenendo conto del foglio mancante d'Albertano, ci aspette-
remmo invece un 50? Mancan dunque non un foglio solo,
ma undici fogli, dieci dei quali contenevano forse un testo
smarrito? Avverto che il foglio d'Albertano non poteva
appartenere a quello che ora è il quinterno de' Fiori e sa-
rebbe stato un sesterno, perchè in questo caso o dovremmo
trovare l'altra metà corrispondente che verrebbe ad essere
proprio innanzi alle poesie provenzali, o — se anche questa
fu strappata — dovremmo vedere una lacuna nella nume-
razione. Invece nessun mezzo foglio è rimasto, e la nume-
razione procede regolarmente dal quarto foglio del quin-
terno al primo del quinterno seguente — prova che nulla
manca da quella parte.
Abbiamo così stabilito due fatti : 1) il codice ha una nu-
') E naturalmente il terzo secondo, il quarto terzo (xlviij = 36,
mod. 37). Noto che non esiste una numerazione speciale dei sesterni;
i numeri che si leggono in alto d'ogni foglio si riferiscono a' vari
trattati.
498 P. SA VJ- LOPEZ
merazione antica e saltuaria, finora inosservata ^), che ri-
monta a quando i fogli non erano ancora scritti ; 2) questa
numerazione, della stessa mano, procede regolarmente dalla
parte italiana alla provenzale. Questa è prova evidente che
il codice fu uno fin dall'origine, e tutto composto allo stesso
modo e nello stesso tempo; risulta per conseguenza che la
parte provenzale è integra, cosa di che si poteva dubitare
— e ne diremo in seguito le ragioni — se la si conside-
rava come riunita posteriormente al resto del codice.
Del cod. J si occupò, come fu detto, il Gròber nel suo
studio citato sui canzonieri provenzali ^). J — egli scrive —
è ne' primi cinquantadue numeri una raccolta ordinata se-
condo i poeti, primo de' quali si trova ad essere Peire
Cardenal. Bisogna credere questi quattordici fogli avanzo
di un canzoniere più ricco, in testa del quale si trovasse un
altro poeta; o non sono essi copia di un canzoniere ace-
falo ? Mancano Guiraut de Borneilh ed altri de' maggiori.
"Welcher Kategorie geordneter Liederhandschriften J^ bei-
zuziìhlen sei, lilsst sich nicht bestimmt erkennen,. — Nel
primo sospetto non possiamo consentire, ora che un esame
più minuto di quello fatto dallo Stengel ci ha rivelato che
la parte provenzale non e indipendente, ed unita all'italiana
per effetto del caso, ma fu scritta dopo quella sul mede-
simo codice; bensì, come acutamente vide il Grober, J può
esser la copia d'un'altra raccolta a cui mancasse il prin-
cipio.
Anche delle fonti trattò il Grober, giudicando special-
mente dalla successione e dalle attribuzioni delle poesie;
dopo aver dimostrato come o per una ragione o per un'altra
J non dipenda direttamente da nessuno dei canzonieri più
antichi, fu tuttavia indotto a sospettare una relazione con
*) Lo Stengel (pag. 26) che non s'accorse della numerazione antica,
scrisse che il quaderno dei Fiori era prima un sesterno: " il primo
ed ultimo foglio di questo sono perduti „.
2) Pag. 603 segg.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 499
R, 0 piuttosto con la sesta parte di R (R'^), dall' ordina-
mento dei sirventesi di Peire Cardenal:
J n. 1 2 3 4
5 6 7
8 9 10
11 12
13
Rs n. 557 558 560 559
576 577 578
585 592 572
570 569
574
e da una certa corrispondenza nelle canzoni di Peire Vidal
e Ricliart de Berbezill :
P.V.
J n. U
15
16
17
R'^ n. 530
529
528
532
R.d.B J n. 42 43 44
R*5 n. 505 506 507
Ya inoltre considerato che non pure la serie di questi
trovatori, ma quella di Folquet de Marseilha comincia
anche nelle due raccolte con la stessa canzone, e 1' unica
che J contenga di Folquet de Romans è di lui la prima
in R^. Parve dunque al Grober di concludere che apparen-
temente R*^, dove son 35 de' numeri di J, avesse con questo
una fonte comune r''; altri numeri di J che hanno luogo
in altre parti di R si trovavano fors'anche in r'^, da cui il
copista di R non trascrisse naturalmente le poesie tra-
scritte già dalle fonti usate per le parti anteriori della sua
raccolta. E poiché infine r*^ era una Folquet-Sanimlung, bi-
sognerà accostare anche J a questa famiglia? Questo pure
sospettò il Grober ^) : " ma poiché i canti di Folchetto co-
minciano sul f. 8 è, sì che questi non si trova in testa della
raccolta, é da credere che o il copista di J mutò l'ordine
della sua fonte, oppure ne segui una seconda nella scelta
di colui che pose per primo (Peire Cardenal) ., .
Rimane ora a vedere se la lezione di J confermi queste
acute induzioni, che l'insigne maestro formò con la sola
scorta che gli era fornita dai caratteri esterni del canzo-
niere ancora in buona parte inedito. Prenderemo dapprima
in esame per questa ricerca il sirventese di Peire Cardenal,
Las amairitz, ed altri due editi dall'Appel senza trar par-
') Pag. 603, 605.
500 P. SAVJ-LOPEZ
tito di J; poi, successivamente, poesie di Raimbaut de
Vaqueiras, Folquet de Romans, Montanhagol, già critica-
mente edite col sussidio di J, le canzoni di Peire Vidal che
il Bartsch pubblicò nel 1857 quando J era ancor scono-
sciuto, una canzone di Richart de Berbezilh ed infine la
novella di Arnaut de Carcasses.
Un sirventese di Peire Cardenal ha particolare impor-
tanza per mostrarci qual posto vada attribuito a J nella
discendenza dal " Liederbuch „ che di questo tardo trova-
tore compilò in Nimes maestro Miquel de la Tor. Ora, con-
frontando le varie redazioni di Las amairitz troviamo che
J ha strettissimi rapporti con I, e grandemente si discosta
da R*^. Già il Grober stesso aveva notata una particolar
concordanza di I e J nella successione delle poesie di Peire
Cardenal
J n. 1 2 3 4 5 6 7 8 9
In. 123456789
sebbene qui la concordanza venga a cessare:
J 10 11 12 13
I 38 40 42 46
Il serventese che ci occupa ha nei due codici ^) il mede-
simo ordine di strofe, che rispetto a quello tenuto dal-
l'AppeP) indicherò così: 132456: e tale ordine ricorre an-
cora in A, cui mancano tuttavia i due versi di chiusa [6].
La corrispondenza del testo in J e I è appena disturbata
da qualche variante: I v. 11 queu en sai un q.; v. 14
quans; v. 24 ano; v. 26 lairos; id. aura lo cap; v. 31
aqiiest d. es plus cuna s.; v. 32 peti lo ; v. 33 mos obs - mos
ohs ; V. 35 catrestan pauc coni cani de r. ; v. 36 queu di.
Concordi di fronte agli altri codici, essi soli, appaiono J e
I in vari luoghi: v. 17 sei qui (I que) la enson sol; v. 19 e
') Non parlo di K, ch'è in diretta relazione con I; ne di d, in cui
l'ordine è il medesimo, ma che è più recente di J (Grobek, 1. cit.,
pag. 604).
') Provemalische Chrestomathie, Leipzig, 1895, pag. 114.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 501
la moilhers fan ; v. 23 que dieus sai (I sa) lo trameta ; v. 28
tot d.; e per di più va osservato che delle varianti su ri-
ferite talune sono semplici errori di I, come al v. 14, 24,
Malgrado molte e notevoli differenze, a questo gruppo IJ
s'accosta talora A: comuni ad A I J contro gli altri codici
sono le varianti: v. 11 que nac un plen p; v. 17 ben;
V. 22 sor re ni moilher. Infatti già il Grober aveva am-
messo pei sirventesi cardinaleschi di A IJ una fonte co-
mune (pag. 348). È notevole che al v. 35 A e J si contrap-
pongono, essi soli, agli altri codici: car atretan coma de r.
Negli altri luoghi in cui J si discosta da I, vediamo a volte
una lezione isolata : v. 33 mon at - mon at ; v. 36 que di.
Bisogna dunque ammettere per J e I una fonte comune,
e forse per J qualche mutamento suggerito, per via di
collazioni o correzioni, dalla fonte di A. Di Peire Cardenal
la Crestomazia dell' Appel citata contiene fra l'altro due
sirventesi di quelli che J ci offre: Li clerc si fan pastor
(pag. 113) e Tostemps azir falsetat et enian (pag. 114); editi
il primo secondo A C D M R, l'altro secondo A C I M R e
il canzoniere di Kopenhagen indicato con la sigla i. Di J
l'Appel non s'è giovato. Il confronto mostra sempre con la
stessa evidenza una strettissima parentela con I. Basti ci-
tare dal sirventese Lì clerc i seguenti esempi : v. 6 nelengri ;
v. 7 ves\ V. 8 cancx; v. 12 las cals; v. 36 mancante; v.41
ses faillir: tutti luoghi ne' quali IJ o soli o con altri s'ac-
cordano in modo particolare. Invece se al v. 39 la lezione
di J è isolata [maior per aussor; similmente per errore, ai
vv. 13, 18), le varianti dei versi 30 {paria) e 47 {cusson
rie) sono di M. Quanto al Tostemps azir, V ordine delle
strofi è identico in IJ, e solo in essi; ciò che mi dispensa
dall'insister sui raffronti, de' quali cito appena i più rile-
vanti per l'affinità dei due testi: v. 14 neissigues (così i
che è dello stesso gruppo); v. 17 moltz leucs; v 24 qtiant
hom lo fon; v. 29 darai; v. 31 tot un mon; v. 36 paisserai;
V. 43 vertadier; v. 46 ni lauszor ni pretz ges; v, 47 E (J
quans) se ditz ben. Non manca neppur qui qualche discordia:
502 P. SAVJ-LOPEZ
al V. 4 I si allontana con Ai [fort per tot), al v. 32 J
concorda con Mi [Sai hueu et hueu). Questi riavvicina-
menti valgono soltanto per i sirventesi di Peire Cardenal
e ci riconducono verso la raccolta di Miquel de la Tor : ma
non ci rivelano la fonte generale di J che non fu certa-
mente quella di I o di A. Bensì giovano ad allontanare
fin d'ora il sospetto che tal fonte generale vada cercata in
r'', dove, giudicando da R", diverso era nel sirventese l'or-
dine delle strofi e diversissimo il testo. Converrà portare
altrove l'indagine ed interrogare altre fonti: cominciamo
dall'unica canzone che J contenga di Folquet — o Falquet?
— de Romans, Quan he me sui apessatz e che si trova
inoltre ne' codici CEGrPRSYcf, i [ZtscJir. f. rom. Ph., I,
394), t (Meyer, Daurel e Beton, pag. lxxxix): quest'ul-
timo non contiene che tre strofi. De' vari codici lo Zenker
indagò ^) le relazioni e pervenne a distinguere due gruppi,
de' quali a noi interessa il secondo : J f t R i, a cui si ag-
giunge C per la sua nota parentela con R, senza che nel
caso presente il testo ofifra però occasione a speciali rav-
vicinamenti. Nella più precisa genealogia che lo Zenker
dà poi dei vari manoscritti, J è specialmente legato a C;
tuttavia per una variante notevole al v. 55 [Preguem dieu
contro il comune A dieu prec) si è indotti ad ammettere
l'uso di una seconda fonte appartenente ad un gruppo di-
verso. Aggiungerò che talora il testo di J ci presenta una
lezione del tutto isolata, com'è al v. 17, 47.
Una probabile varietà di fonti ci vien confermata dalle
epistole 0, meglio, dairepistola di Raimbaut de Vaqueiras
a Bonifacio I di Monferrato: di questa contiene J la seconda
e la terza serie in ordine inverso rispetto alla successione
stabilita dallo Schultz: cioè quelle a rima -ai e -o, che
sono invece prima e seconda come il Crescini mostrò, e che
si leggono inoltre ne' codici C E R -). Rispetto alla II (-o)
') Op. cit., pag. 63 sgg.
^) Non comprendo perchè lo Sclmltz (op. cit., pag. 17), dando queste
IL CANZONIERE PROVENZALE J 503
10 Schultz avverte una stretta relazione fra J e C nella
successione e nel quasi egual numero de' versi, nella presso
che identica modificazione dei nomi propri, negli errori co-
muni di fronte a E R, nei frequenti alessandrini indiscreti
che si introducono ne' due codici : la conclusione è insomma
che J deriva dalla stessa fonte di C ^). Tuttavia qua e là
J si allontana da C per accostarsi invece ad E (v, 10,
40, 48), a ER (v. 15, 23, 25, 26), o anche a R soltanto
(v. 19-20). E proprio questo ultimo caso induce lo Schultz 2)
ad ammettere per J pili d'una fonte : " ja es ware gar nicht
absurd zu meinen, dass diese Yorlagen moglicherweise CER
gewesen seien „ . Osserverò soltanto come* l'accordo con R
al V. 19 che allo Schultz parve il più persuasivo, in realtà
non sia punto tale. Per il v. 19 (E: dartz e cairels sagetas
e trenso) se ne leggon due in R e J :
R dartz e sagetas e cairels e lanso
lansas e brans e cotels e fausso
J dartz e cairels sagetas lanseo
lansas e bran e coutel e fausso.
11 v. 19 in C suona, mutilo, così: dartz e cairels e fausso:
viene cioè a finire con l'ultima parola di quello che in J
e R è il secondo verso, e mi par chiaro che il copista di C
abbia fuso in uno, per errore, i due versi ch'erano anche
nella sua fonte, la fonte di J ; forse ingannato dalla somi-
indicazioni di codici, aggiunga alla sigla J le parole " Theil II „, e
dica in nota, parlando di J, che la sua " seconda parte dev'essere
stata scritta alla fine del sec. XIV ,. 11 Grober fece la distinzione
J' e P, ma comprendendo in quello le poesie intere ed in questo le
cóblas esparsas — ed anche tal distinzione, come avvertì il Grober
medesimo, era puramente formale. Non voglio credere che J sia chia-
mato dallo Schultz " seconda parte „ rispetto ai testi italiani! Anche
la determinazione cronologica non ha fondamento.
') Pag. 24.
^) Pag. 25.
504 P. SA VJ- LOPEZ
glianza di cairels-cotels saltò senz'avvedersene al secondo
verso, del quale non sopravvive nel suo testo che l'ultima
parola. Non metterei dunque un tale esempio fra quelli
che allontanano J dal suo più stretto parente, e così l'in-
tese anche il Crescini.
Sulla terza serie {-at: la prima in J) non occorre in-
dugiare; vediamo rinnovarsi l'accordo fondamentale con C,
cui tuttavia contrasta qualche accordo particolare con E R
(v. 3 e 27). Di varianti comuni soltanto a J ed E, lo Schultz
non avverte se non Veneuis (v. 20) che suppone in qualche
modo derivato da Vencaus degli altri : ma qui lo trasse in
errore un errore dello Stengel (poi corretto dal Crescini),
che lesse eneuis là dov'è scritto encaus. Solo con R è co-
mune una piccola variante di nessun conto (v. 29). Dirò
infine che nell'una e l'altra serie, il testo di J si discosta
pili 0 meno sensibilmente da tutti gli altri in vari luoghi
(II V. 5, 8, 30, 43; III v. 21, 28) i).
Con C conviene ancora J, quasi sempre, nella canzone
e ne' tre sirventesi di. Guilhem Montanhagol. Pei quali ac-
cennerò soltanto a' risultati che il Coulet raggiunse dal
confronto dei codici. La canzone Noìi an tan dig li primier
trohador è contenuta soltanto in C J R -) : " due volte sole
J s'accorda con R contro C: altrove concordano invece
sempre C J, salvo due lacune, qualche leggiera variante e
qualche errore speciali di J; talune di queste sembrano
essere corruzioni del testo di J. — ... R si distingue per
buon numero di lezioni o di errori particolari „ ^).
Il serventese Nulhs om no ual ni deii esser prezatz che
si trova in non meno di tredici manoscritti, senza parlar
del Breviari d'amor che ne riproduce quattro strofi, avvi-
cina per la sua lezione J a ET, ma non tanto che questi
') Cfr. per queste classificazioni di codici anche Appel in Zeitschrift
filr rom. Phil., XVIII, 294.
') Due strofe son riprodotte nel Breviari d'amor (a).
^) Op. cit., pag. 110.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 505
con ECfa non sembrino tutti derivare, più o meno diret-
tamente, da una fonte comune ^) ; l' altro sirventese On
mais a om de ualensa si legge unicamente in C J per in-
tero -) e di questi osserva il Coulet che rimontano ad una
medesima fonte ^). Da ultimo il sirventese Qui uol esser
agradans ni plazens (CDEFIJKRdef; una strofe sola
in a) sembra avere rapporti un po' più complicati : sei co-
hlas con la tornada si trovano bensì soltanto in C J e f ,
ma in ciascun codice varia la successione strofica, e tutti
paiono indipendenti l'uno dall'altro, sebbene appartengano
ad un ceppo comune. Lo stesso ordine che in J invece si
ritrova nel secondo gruppo affine E R, cui manca tut-
tavia una cobla, e molte lezioni sono comuni ad E J ^).
Bisognerà dunque per questo sirventese ammettere una du-
plice fonte del tipo C ed E, come s'è fatto per le epistole
di Raimbaut de Vaqueiras.
Le rime di Peire Vidal vengono a confermare questi ri-
sultati : e basterà prendere in esame due delle quattro
canzoni di J. La prima — Pueis tornatz sui en Proenssa ^)
— varia nell'ordinamento delle strofi di codice in codice ;
ma la medesima disposizione ricorre in J E. e, fra' codici
adoperati dal Bartsch '^), soltanto E C hanno la strofe E
pos en sa mantenensa che è anche in J. Con E il nostro
codice s'accorda, contro le altre redazioni, ai vv. 21, 27,
33, 62 e con esso ed altri insieme ai vv. 9, 12, 29, 32; ma
che anche una fonte tipo C fosse presente al compilatore,
si desume soprattutto dal v. 3 dove la lezione bona chanso
è comune a C e J (anche T) contro il comune gaia e.
') Op. cit, pag. 139.
^) La prima strofe è in P come cohla esparsa; due strofe sono attri-
buite da a a Peire Rotgier.
3) Op. cit., pag. 147.
*) Op. cit., pag. 160.
°) Baetsch, Peire Vidals Lieder, Berlin, 1857, n. 13.
«) BCELMORSTe.
Studj di filologia romanza, IX 32
506 P. SAVJ-LOPEZ
La seconda canzone Quant hom onratz cleue en gran pau-
breira i) ha generalmente ne' codici lo stesso ordine di strofi
che J; dalla norma comune deviano solamente, fra quelli
che il Bartsch confrontò -), C S. I versi 50-55 non si leg-
gono che in E S J ; ne' due primi seguono ancora altre due
tornadas che mancano a J. Ma siccome S ha diverso l'or-
dinamento delle strofi, è chiaro anche questa volta un di-
retto rapporto di J con E. Infatti, molti luoghi ci presentano
concordi i due codici, ed essi soli, in opposizione agli altri:
vv. 16, 21, 25, 31; con E e con qualche altro insieme:
vv. 3, 9, 32, 34, 41, 42.
Ma anche per questa canzone ci converrà ammettere una
duplice fonte. In E il v. 28 corrisponde al v. 35 degli altri
codici: als mils cairels qu'ah sos bels olhs mi lansa; e vi-
ceversa il 35° corrisponde al 28° degli altri : e ma domnam
ten enaital halansa. Questo scambio non ricorre in J, dove
però il verso e ma donam ecc. si trova due volte ripetuto,
ai nn. 28 e 35, si che l'altro als mils cairels non v'appare.
Questo prova che pel v. 28 il copista di J aveva un modello
diverso da E, mentre una fonte di E gli stava innanzi al
V. 35, ed e' ne riprodusse la lezione, senz'avvedersi, che
in tal modo veniva a ripetere un verso già introdotto in-
nanzi. Quale sarà ora questa seconda fonte? Ricordando le
canzoni precedenti, vien subito fatto di pensare a C, e in-
vero di tutti i luoghi ove J viene a discostarsi da E (vv. 1,
4, 6, 9, 19, 26, 37, 48), due soli non convengono con la le-
zione di C (vv. 9, 19). Noterò da ultimo, fra qualche esempio
d'indipendenza, il piìi notevole: l'ultimo verso in J (55):
c'ap nos s'ente en Rainiers e na Sanssa è sostanzialmente
diverso dalla lezione nota: quar no s'en te mos Rainiers
en halansa. Chi sia questa Sanssa non saprei dire: certo
non la moglie di Barrai de Baux visconte di Marsiglia
*) Bartsch, op. cit., n. 32.
') BCDELMOQRST.
IL CANZONIERE PKOVE.NZAI-E 3 507
[Rainiers] che era chiamata Azalais e che Peire nascon-
deva sotto il nome di na Vierna ^).
Di Richart de Berbezilh l'Appel ha pubblicato secondo
ABCDHIORU la canzone Atressi cnm Vorifans -) che
è anche in J. Questo appartiene indubbiamente alla famiglia
di C, come risulta da' luoghi seguenti: v. 7 el rie bobans;
V. 11 prò noni te; v. 13 mou Joy recobrar; v. 23 merces;
V. 29 bobans-, v. 30 Mas; v. 33 no vai re; v. 37 que; v. 41
ab-ab; v. 45 nier; v. 48 conclus; v. 54 [domna^. Di questi,
i vv. 7, 30, 48, danno nei nostri due codici una lezione
isolata; altrove si accosta ad essi quasi sempre R. Al
V. 47 vediamo in J fuse le due lezioni di R (U) e degli
altri: Appel «i ab dregz huelhs regardar, R de nios h. es-
gardar, J ab mos h. dreg gardar. Il legame di C J none
però nemmen qui molto stretto ; lezioni divergenti in C sono
al V. 5 segrai; v. 8 verays; v, 29 E; v. 42 iovens e beutatz.
J è isolato al v. 6 mas mos faitz ; v. 44 aiustat ; v, 50 mas
ma dona; v. 51 ar torn ves lieis. Y. 49 encus J R.
Infine la novella di Arnaut de Carcasses ci trascina
sopra un tutt'altro terreno. Coni' io ho dimostrato, la re-
dazione di J è formata dall'unione arbitraria di due com-
ponimenti diversi. Al copista di J o della sua fonte stava
dinanzi un testo mutilo delle Xovas del Papagay, che si
fermava al v. 140 (124 di J). Per tirare innanzi, quel co-
pista un po' ha continuato a suo modo indovinando quel
che logicamente, date le premesse, doveva accadere nel testo
originale (v. 125-188 di J); ma per concludere si è servito
di un domnejaire (v. 189 sgg.) che faceva alla meglio al
caso suo. Quello stesso principio mutilo si trova in G, il
quale ebbe con J comune la fonte, e forma con esso un
gruppo indipendente contro l'intero racconto di R. Il
') Risultati in complesso non diversi si hanno dalla quarta canzone
Plus quel paubres (37* del Bartsch). Un po' diversamente stanno le
cose per la terza: Quant om es (23* del Bartsch).
') Op. cit., pag. 70.
508 P. SAVJ-LOPEZ
»
domnejaire si trova isolato in DG; la relazione di J seb-
bene indipendente ha maggiore affinità questa volta con
D contro G; ma pur qualche luogo ci fa pensare ad una
fonte di tipo G.
*
* *
Concludendo, senza parlare delle rime di Peire Cardenal
che derivano più o men direttamente dalla raccolta di
Miquel de la Tor, troviamo nel rimanente di J un rapporto
abbastanza stretto con C e con E. Non è a parlare di vere
dipendenze : le due grandi raccolte non hanno, fuor che nel
testo delle rime, altra somiglianza di successione o di con-
tenuto col piccioletto J; e se invece R*^, come vedemmo,
ha con J qualche affinità nella successione delle poesie,
l'affinità scompare quando si confrontino le varie lezioni^
sebbene r*' — la fonte di R'^ — sia anche fra le fonti
di C ^). Mi sembra tuttavia ben confermata da questa ri-
cerca l'ipotesi del Grober, che J come R*^, come C, come E,
sia in origine o piuttosto derivi da una Folquet-Sammlung,
se anche esso Folchetto non sia più in testa della rac-
colta -). Certo J ebbe con C e con E qualche fonte comune,
ma una fonte che tante ragioni ci additano come remota.
Il suo contenuto, per la parte delle poesie intere, si ri-
trova presso che tutto in C, al quale manca la sola no-
vella del Pappagallo. Inoltre il n. 34 viene in C falsamente
attribuito ad Aimeric de Belenoi.
Per le coblas esparsas, dove son comprese e poesie intere
e strofi di canzoni ^), la ricerca sarebbe vana ; tanto più
che molte cobbole non si leggono altrove che in J. Il Grober
non potè indicare alcuna fonte: e chi voglia vedere come
') Groder, pag. 576 segg.
*) Grobkr, pag. 603.
^) Parte di queste riconobbe lo Stengel; parte ancora il Grober
(pagg. 651-652).
IL CANZONIERE PROVENZALE J 509
stanno le cose, non ha che ad esaminare, per esempio delle
altre, la cobbola a drut de bona donila tank, la quale è poi
nient'altro che la quarta strofe nella canzone di Peire Vidal
Xeus ni gels M. Il quarto verso in J offre un notevolissimo
accordo con 0 T nella lezione comune nos rancur nis lanh:
il sesto dà un altro accordo non meno notevole con L M :
que meszura d'amor fruitz es ^).
Della mia trascrizione non ho altro a dire, se non che
ho cercato di riprodurre il testo con la piìi rigorosa fe-
deltà, rispettando anche di rigo in rigo le linee del mano-
scritto, per evitar l'arbitrio involontario di qualche unione
o disunione di parola nel trascriver di seguito il passaggio
da una linea alla linea seguente. Soltanto se qualche raris-
sima volta il punto che divide i versi appariva spostato o
dimenticato, ho voluto correggere perchè la lettura non
diventasse anche piìi incomoda e diffìcile che ora non sia.
Compio in tìne con lieto animo il dovere di porgere qui
vive grazie al prof. Pio Rajna, il quale m'è stato così largo
de' suoi preziosi suggerimenti, ed al Direttore^ della Biblio-
teca Xazionale di Firenze, che m'ha liberalmente concesso
di poter studiare il codice ben lungi da Firenze e dall'Italia.
Strassburg i. E.
Paolo Savj-Lopez.
^) Bartsch, op. cit., n. 27.
') Ecco le lezioni del Bartsch : v. 28 no si tì-ebalh tiis lanh ; v. .30 amors
es mezur' e ìuerces.
510 P- SAVJ-LOPEZ
n. 1. Peire cardenal. (f. la [60], col. 1^).
t Ostems
azir falsedat et enian.
et abuertat et abdreg
mi capdel. e si per so
uauc atras ho auan.
no men rancur ans
mes tot bon e bel. qu
els uns dechai leial
tatz maintas ues. els
autres sors enians e malafes. e si tant es
CODI per falsedat mon. daquel montar deisse/i
pueis enprion.
1 i ricome an piatat tan gran, de lautra
gen com ac cayms dabel. que mais uolon
tolre que lop no fan. e mais mentir que
toszas de bordel. sils crebauatz endos luecx ho
en tres. nous cuidases que uertatz neissigu
es. mai mensonias don an alcor tal fon. que
sobreuers com aiga de toron.
m ains baros uei enmoutz luecx quei
estan. plus falssamen que ueires en anel.
e qui per fis los te failh autretan. com si
un lop uendia per anhel. quar ilh non son
de lei ni de pes. ans foron fait alei de fals
poges. on par li eros e li flors enredon. e noi
trobom argen cant hom lo fon.
d es aurien entrol soleilh colgan. fauc ala
gen un couinen nouel. al leial home da
rai daur un beszan. sii desleials mi dona un
clauel. et un mare daur donarai alcortes.
sii deschauzitz mi dona un tornes. al uer
tadier darai daur tot un mon. sai hueu et
hueu des mensongiers quei son.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 511
t ota la lei quel mais de las gens an. escriu
rieu enfort petit de pel. enla meitat del
polgar de mon gan. els proszomes passe
rai dun gastel. quar ia pels pros non fora
quars com-es. mas si fos hom que los
maluatz pagues. cridar pogratz eno garda
setz on. uenes maniar li proszorae del
mon.
s el que no ual ni te prò per semblan,
pros ni ualen no tanh que hom lapel. ni
uertadier quans met dreg ensoan. quan
ueritat ni uertat non les bel. quar qui
fai mal ni tort raszos non es. quen cueilha
grat ni lanszor ni pretz ges. quans se ditz
be un reprochier pel mon. sei cuna ues
esdorga autra non ton.
a totas gens die enmon siruentes. que si
uertatz e dreitui-e merces. no gouernon
home enaquest mon. ni sai ni lai non (f. la, col. 2*).
ere ualors laon.
n. 2. Peire cardenal.
d un siruentes faire nom tueilh. e
dirai uos raszon perque. car azir
tort aissi com sueilh. et am dreit si
eom fis ancse. e qui caia autre teszor.
hieu ai leialtat enmon cor. tan quene
mie men son li desleial. e si per so mazi
ron nomen qual.
o nplus domes ueszon mei hueilh. don
meins pres las gens e mais me. et on plus
los sec peitz lor uoilh. et on mais los aug
meins lor ere. et onplus intre enlor demor.
meins ai de plaszer enmon cor. que si
pogues uiure de mon quabal. ia non uol
gra sezer alor fogal.
d els ricx maluais baros mi dueilh. quar
son tan de maluestat pie. mal mes quar li
mortz nols acueilh. epeitz quar enuida los
512 P. SAVJ-LOPEZ
te. e mal mes quan maluatz hom mor. car
la maluestatz qua elcor. no mor abel tot
ensems per engal. que non restes abson
fìlh alostal.
m ainta quarta uei e maint fueilh.
ont trop escrig que si conte, que bora
aszir tort et ergueilb. e laisse mal e fassa
be. mai trastotz lo mons dor en or. ba
uirat lalre enson cor. que bom laisse lo be
e fassal mal. el dreit azir et am lo tort mor
tal.
b en camia siuada per iueilb. e teriacla
per uere. et enguilla per enadueilb. qui lais
sa dieu per auol re. tant uai trassion ba
uil for. que si lom que plus na elcor. la
traszia enpla mercat uenal. noilb darla
meszailba del quintal.
t racbors sin uos tricba non mor. la
maluestat quauetz elcor. uos menara a
fort maluais ostai, ostai, cane non fo us que
non anes amai.
n. 3. Peire quardenal.
a ne non ui breto ni baimier. ni
grec ni escot ni gales. que tant
mal entendre fezes. com fai home
lag mensongier. quaparis nona latinier.
si uol entendre ni saber. cora men ni cora
ditz uer. que deuis non laia mestier.
q uentendre non pot bom parlier. can
sa paraula non es res. que saber pot bom que
fals es. qual frug conois bom lo frucbier.
aissi com bom sent pudor de femorier. al
flairar ses tot lo ueszer. aissi fai lo mentirs
parer, lo fals coratge torturier. (f. Ib, col. 1*).
d aquels sai bieu un trentenier. que
bieu entendre non puesc ges. quals es
lor uoler ni lor pes. quel parlar noi ual
un denier. nilb fes noi fai mas enpaiti
IL CANZONIERE PROVENZALE / 513
er. que cant im'on lo remaner. adoncx
uolon ailhors tener, perquieu lor sagra
men non quier.
t al sai que na lo plen tarzier. e gieta
las en tres e tres. XX lo iom e seissens lo
mes. aissi que lan son set meilher. anc no
ui tan pauc monestier. on tan grans res
pogues quaber. et aura ni aitant lo ser.
com si non issis huei ni hier.
m estrai de mensonias obrier. laers es purs
e francx e fres. tro uos laues eluentre mes.
don eis menten pel fals fumier. e uos si
coilli fals monedier. monedas ablo fals uo
ler. fals digz perque deues auer. de la falsso
bra fals loguier.
i ra men do e cossirier. non pas pel dan quei
dei auer. mas quar li fals cuidon ualer. eilh
maluatz si fan bobansier.
n. 4. Peire qnardenal.
n On ere que mos ditz. auols hom los
entenda. ni tank siarditz. que al fag
ma estenda, quar sos esperitz. uol
quental re senprenda. on pretz es peritz.
qui ques uol len reprenda, e neguns escritz.
non quer que len defenda, ni clamors ni
critz. ni iai siauzitz. dreitz ni esiauzitz.
quades dieu non ofenda. ab faitz deschau
zitz.
1 a magei's ualors. eilh meilbers quel
mon sia. es dons e seeors. lai on merces lo
guia, mai als toledors. acui sens par
folliar. e blasme lauzors. e tortz faitz gailh
ardia. es anta honors. et enueitz corteszia.
es donars dolors. e tolre doussors. e chans
lautruis plors. e iois lautruis feunia.
e lautruis clamors.
e ras podes uezer. dauci home que cuda.
quel cuia ualer. quant no ual ni aiuda.
514 P. SAVJ-LOPEZ
mai alcap del ser. queilh cocha es uenguda.
don part son auer. si com causza perduda.
que non pot tener, e deues saber. si agues
poder. que la ueillia remuda, uolgra retener,
h om quar not soue. mentre uius en
bobanssa. consi ni de que. fus faitz en co
mensanssa. esouenha te. enta gran benan
anssa. que fai ni deue. tot quaut metz
enla panssa. eregarda be. ta uida e balanssa,
on uai ni don uè. quar si de uil re. fus (f. Ib, col. 2').
faitz lo coue. que tornes en estanssa. sor
deior gran re.
e que uos enpar. de ricome can pessa.
engran tort afar. et enpauca despessa, el
meilhor esgar. com hi es terra messa, consi
pot Guidar, que dieus ni dreitz ni messa, lo
deia gardar. ni quan uai pregar, dieu da
uan lautar. qual uot ni qual promessa, li
uai prezentar.
q ui uai dieu pregar, e re no uol far. de
ren cane dieu diessessa. pauc li deu dieus
dar.
n. 5. Peire quai-denal,
1 o mons es aitals tornatz. quels fa
itz gouerna poders. e las paraulas
uolers. els pensamens uanitatz. e
falsezal sens. e los cors abellimens. que drei
tura ni uertatz. no gouernon mai agratz.
ans son ses deuer. li fait eilh dig eilh uoler.
s i tolre fos quaritatz. eque mensonia
fos uers. e si pezars fos plaszers. et ergu
eilhs bumelitatz. e tortz chauzimens. et
enueis ensenhamens. e mais uolers amis
tatz. assatz son de poestatz. que pogron ca
ber. abdieu peraital poder.
m as aquel faitz es pasatz. que tolen au
truis auers. ni de raubar laicx e clers.
eprenden las lieretatz. e quassan las gens.
IL CANZONIERE PROA'ENZALE J 515
nes hom adieu plazens. ni sains ni be
nauratz. ans es fols dessenatz. qui cuida
ualer. peraitals faitz amantener.
q uan tortz e desleialtatz. son ensems e
nondeuers. hi deu esser mais espers. car
aitals es lo mercatz. que als destruzens. deu
uenir, destruimens. e dreitz non es encol
patz, quan merce ni piatatz. noi pot prò
tener, lai uai dreitz tort dequazer.
d ieus e bona uolontatz. garnis los pros
els aders. de uertutz e de sabers. e de ualens
faitz onratz. els fai entendens. e cortese
conoissens. e larcx e gent ensenhatz. et amo
ros e priuatz. que jjuescon plaszer. alui can
los uol auer.
e t es ben deszazematz. qui no uol ualer.
sauals ab sol lo violer.
n. 6. Peire cardenal.
q Ui uol auer. fina ualor enteira. ab
dire uer. et abdveg far la quieira. ab
prò tener, lai ont sera nesseira. car
per ualer. es hom ualens ateira. e cuidon
sen. esser ualen. que uns non sap la fiei
ra. on hom la uallor uen.
n ous cuides pas. ualors uenha de bada. (f. 2a [61], col. 1*).
ans es asas. maintas ues quar coraprada.
mas li maluas. non compron denaii'ada.
enans son las. de la raieia iornada. donan
meten. plazers fazen. es ualors recaptada.
e maluestatz tolen.
g rans ergueilhs es. e grans desconoissens
sa. quis fenh cortes, enonfai captenenssa.
lai on merces. non fai frug ni semens
sa. ni neguns bes. en el no pren naisen
sa. pauc ha de sen. qui per nien. cui
desser de ualenssa. e noi fai bastimen.
b astimen fai. eualenssa emui-a. sei
que satrai. abualor e satura, cui uertatz
516 P. SAVJ-LOPEZ
piai, e merces e dreitura. e sai e lai. sec
raszo e meszura. mas tan dolen. trop enla
gen. que daquo nonan cura, perque uà
lors deissen.
d eissen ualors edechai cascun dia. et en
ian sors. e nais e multiplia. e mor amors.
elmon e nais feunia. et es lauzors. blasmes
e sens folia. e sei qui men. azessien. e
trahis e galla, renila sauiamen.
m as qui si X'en. ental couen. ges la fou
dat mia. non uoilh dar pel sieu sen.
n. 7. Peire quardenal,
r AszoDS es quieu
mesbaudei. e sia iauzens e gais. el
tems quan fiieilhe flors nais. et un
siruentes desplei. quar leialtatz ha uencut.
falsedat enona gaire. que liieu ai auzit
retraire. cus fort trachers ha perdut.
son poder e sa uertut.
d ieus fa e farà e fei. si coni es dous e
uerais. dreitz als pros et als sauais. emerce
segon lor lei. quar ala paiha uan tut. len
ganat e lenganaire. si com abel a son
fraire. queilh trachor seran destrut. e li
trahit he uengut.
d ieu prec que trachors barrei. e los
degol els abais, aissi com fes los algais. car
son de peior trafei. quar aisso es ben
saubut. que peger es trachers que laire.
atressi com hom pot faire. de conuers
monge tondut. fai hom de trachor pen
dut.
d e lops e de fedas uei. que de las fedas
son mais, eper un austor que nais. son
rail perdis fequeus dei. azaisso es cono
gut. que hom murtriers ni raubaire.
non plas tant adieu lo paire. ni tant
non ama son frut. com fai del poble
IL CANZONIERE PROVENZALE J 517
menut. (f. 2a, col. 2").
a ssatz pot auer arnei. e quauals fer
rans e bais. e tors e murs e palais. ricx
hom sol que dieu renei. doncx ben ha lo
sen perdut. aquel acui es ueiaire. que to
len lautriù repaire. cuides uenir asalut.
nilh don dieus quar ha tolgut,
q uar dieus te son are tendut. e trai
aqui on uol traire. e fai lo colp que deu
faire. ha quec si com ha mergut. segon
ueszi ho uertut.
n. 8. Peire quardenal.
1 as amairis qui encolpar las uol.
respondon gen afor de nalengri. lu
na fai drut quar estai enauiol. lau
tra lo fai quar paubreira laussi. lautra
un uieilh e di quilh es tozeta. lautra es
grans et ha unpauc garssi. lautra nona
sobrecot de bruneta. lautra na dos e fai lo
autressi.
g ran festa fa mas ges ben non la col.
qui bueus emblatz ni tolgutz hi aussi.
quien sai tal un que nac un plen pairoL
entorn nadal mas non uoilh dii-e qui.
aquo es quarns que ges he non es neta.
quarn desleials que la leis contradi. aqwel
hom es plus pecx quenfan que teta. que
cuionran qualendas enaissi.
b en ha guerra sei qui la enson sol. e
plus prop la qui la a son coissi, quan lo
maritz e la moilhers fan dol. so es guer
ra peior que de ueszi. quien sai tal un que
sera part toleta. nona sorre ni moilher
ni coszi. que ia disses que dieus sai lo tra
meta, ans quan sen uai lo plus hiratz
sen ri.
s US paubres hom ha emblat un lensol.
lah'es sera et anara cap eli. e sus ricx hom
518 P. SAVJ-LOPEZ
ha emblat mereuiroi. bira cap dreg tot
denan costanti, paubre lairo pent bom
peruna ueta. epent lo tals qua emblat
un rossi, aquel dreitz non es dreitz coni sa
geta. quel ricx laires pendal lairo mesqui.
a mon at chant et amon at flauiol. car
bom mas bieu non enten mon lati, car
autretan coma de rossinhol. enten la gen
de mon chantar que di. mas bieu non
ai lenga fresza ni breta. ni sai parlar ila
mene ni angeui. mai maluestatz que los
eissalabeta. lor tol ueszer qui es fals nies
fi.
a ra mes mal que fols bom sentremeta.
de mon cbantar quar sei fag son porsi. (f. 2b, col. 1*).
n. 9. Peire quardenal.
1 i clerc se fan
pastoi". e son aussizedor. e semblam
de santor. quan los uei reuestir. e
prent ma souenir, de nelengri cun dia.
uolc ues un pare uenir. mai pels cancx (\He
temia. pel de mouto uestic. abque los
escarnic. pueis manget e trazic. las cals
que labelbc.
r eis emperador. due comte e eomtor. e
quaualier ablor. solon lo mon regir. eras
uei poseszir. et ba clers la senboria. ab
toke et ab trabir. et abipoei'azia. ab forssa et
abprezic. etenon sa fastic. qui tot non lur
bo gic. et er fait quant que tric.
a issi com son maior. son abmeins de
ualor. et abmais de foUor. et abmeins de
uer dir. et abmais de mentir, et ab meins
de clerssia. et abmais de failbir. et ab meins
de paria, dels fals clergues bo die. quanc
mais tant enemic. bieu adieu non auzic.
q uan son en refreitor. no mo tene aszo
nor. qua la taula maior. uei los cussos
IL CANZONIERE PROVENZALE J 519
assir. epremiers ses failhir. auias graut
uilania. quar hi auszon uenir. et hom no
los en tria. pero anc no lai uic. paubre
cusso mendic. sezer latz cusson rie. daiso
los uos esdic.
j a nonauion paor. alcaicx ni almassor.
que abas ni prior. los anon enuazir. ni
lors terras sazir. que atans lor seria, mas
sai son encossir. del mon consi lors sia.
ni coni enfrederic. gitesson de labric. pe
ro tals laramic. cane fort no san iauzic.
e lergues qui uos ehauzie. ses fello cor
enic. enson couide failhie. cane peior gen
non uir.
n. 10. Peire quardenal.
a Questa gens quan son enlor gai
esza. parlon damor e non sabon qwe
ses. quar finamors mou de gran
leialesza. e de frane cor gentil e benapres.
et els cuidon de luzuria. e de tort que bo
namors sia. mas enderier ho poirion ues
zer. que lur amor uiron enmal uoler.
e ort cug quieu sai ques corta de lar
guesza. abeortz seruirs abeortz dos abcortz
bes. abcortamor et abcorta franquesza.
abeortz perdos et ab eortas merces. cort
abcorta corteszia. et ab corta doussa paria.
e car son cort li ioi e li plaszer. peraco
deu lo nom de cort auer.
m as hieu quier coi-t ques descort ab erue (f. 2b, col. 2*).
sza. eque sacort abtotz fis faitz cortes, e
quen bon pretz pueg per fina proesza.
e quan que cost so sia sos conques. cort
de mil amicx amia, on fals ni frag nos
fadia. cort que sacort la ualor ab uoler.
elgaug abdreg eldonar abdeuer.
q ui men souen e ere que hom lo cresza.
abgen ses sen lauszara si meteis. quel uen
520 P. SAVJ-LOPEZ
despen enluec dautra riquesza. don pren nien
sei cui ren ha promes. engal li ual hoc que
fadia. quen qual caital mercadaria. denian
penran aisso podon saber. cuidan auran
nien alcap del ser.
q uè fan lenfan daquella gen englesza.
quauan no uan guerreiar ab franses. mal
an talan de la terrengolmesza. tiran hiran
conquistar gastines. ben sai que lai en
normandia. dechai e chai lor senhoria. car
Ics quarlos ueszon enpatz sezer. antos es
tos qui trop pert per temer.
1 e pros dels pros me plazeria. el mal dels
mais si sauenia. quental ostai estauc ma
tin e ser. quen uoilh atras
tot mon uoler.
n. 11. Peire quardenal,
t Ostems uir cuidar ensaber. ecamge
so cug per so sai. e lais mentir per
dire uer. e azir tort e dreitz mi piai,
e blasme mal e lausze be. emostre ioi e dol
escon. e soi companhs de bona fé. e car
es abme ablieis son.
p er so nai peszar eplaszer. emen hirasc
emen apai. e nai amor e maluoler. abtal
que mal ni be nom fai. eper aisso hieu non
am re. e azir ensesto damon. quan en re
fai so ques coue. ensesto escorga e ton.
p eraisso nom puesc tener, quieu non di
ga daquel de lai. que dieus lo degra deca
zer. aissi com el los autres dechai. eque tro
bes aitai merce, com trobon aquels quel
confon. quan los destrui no sap perque. e
los fai fugir no sai on.
m as qui pogues lo cor uezer. del maluais
ricome sanai, hom hi uira tan fer auer
que feira paor et esglai. eper so quar hom
no uè. lo maluais uoler desziron. la gran
n.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 521
maluestat qua ense. trobes ') escriuta sus el fron.
aluais ricx hom de gran poder. que gew
uest e mania e iai. enon uol als autres
ualer. sembla lo rie que hom retrai, que
maniaua agran esplei. e uestia lo meilhs del (f. 3a [62], col. 1*).
mon. e non donaua son eonre. deissendet
enufern prion.
e las doas uias com te. uos farai enten
dre quals son. luna fai mal lautra fai be.
luna uai aual lautra amon.
12. Peire cardenal.
a Tressi com per fargar. es hom fa
bres per raszo. es hom laires per em
blar. etrachers per trassio. car daquelo
bra com fai. enuai us noms el neschai.
quieu tal ensai. que so auzaua dire, per
so que fai. forapelatz trahire.
t rachor sol hom cassar, ependre com fai
lairo. mai eras los te hom quar. en fai se
nescalc ho bailo, e sus grans prelatz hi chai.
dun fort gran trachor aerai, aura esmai.
quel puesqua el luec assire, que sia don e
senher e regire.
q uan trachor troba son par. daquel fai
son companho. quar atrassion portar, lan
ops trachor e gloto. e quan lus trahis aisai.
e lautra trahis ailai. quan lus lai uai. lau
tren fai lo martire, quan lus las di lau
tres tanh quo albire.
b en es fols qui cuia far. aquo que ano
fag non fo. quieu cug trachors castiar. e
trac ben mal enperdo. que si dieus no los
dechai. mais ner que danhels enmai. que
quant lus trahis. abfag et abaussire. lautre
*) Sottosegnato da puntini : una postilla marginale d'altra mano
corregge portes.
Studj di filologia romama, IX. 33
522 P. SAVJ-LOPEZ
abdigz elautre abescrire.
e naelaic se fan iotglar. del saber de gaime
lo. per so es dig corti si gar. si col prouerbi
despo. qua not fies enclergue ni en lai. qua
crezatz cun pauc retrai, so sai alpremier
trahire. que loniamen ho aues auzit dire.
S iruentes ades ten uai. on ti uoilhas e
di lai. quami non piai trassion ni trahire,
quis uoilham nam equis noilham nazire.
n. 13, Peire cardenal.
u N seruentes
fauc enluec de iarar. e chantarai
per mal eper feunia. de maluestat
que nei sobremontar. e dequazer ualor e
corteszia. quieu uei als fals los fis amones
tar. et als laii-ons los leials prediquar. els
desuiatz mostron als iutz la uia.
e nganatz es enson cuiar. fols hom quieu
cuiaua quengans e bauzia. fezes son don
dequazer e mermar. mai arals sors e creis
e multiplia. merauilh me sanquar no uan
raubar. pueis maluestat ama hom e ten
quar. e leialtat te hom afantaumia. (f. 3a, col. 2*).
g lotz enperier non uol ueszer son par.
e li clerc an aquella glotonia. quentot
lo mon no uolrion trobar. home mai els
que tengues senhoria. quels feiron leis per
terras gaszanhar, com poguesson creissere
non mermar. ades fai prò un petit de bai
lia.
a btantas mas ueis clergues essaiar. que
tot lo mon er lor on que mal fia. quar els
lauran abtolre ho ab dar. ho ab perdon
ho abipocrazia. ho abapsout ho ab beui'e
ho abmaniar. ho ab prezicx ho abpeiras
lansar. ho els abdieu ho els ab diablia.
e ngostia digatz ma nazemar. que si
defendre se uol de clerssia. meilhs quen lui*
IL CANZONIERE PROVENZALE J 523
fag se gart enlur parlar, ho sique no de
badas sarmaria. quel traszon so don hom
nos pot gardar. que quant autre fan en
ganas fargar. et ilh engans per maior ma
histria.
n on ans dire so que els auszon far. mai
anc rascas non amet penchenar. ni els ho
me qui lor dan lur castia.
n. 14. Peire uidal.
p Ueis tornatz sui en
proenssa. et ama dona
sap bo. ben dei far
bona chanso. siuals
per reconoissenssa. cap
seruir et abonrar. con
quer hom de bon se
nhor. don ebenfait et
honor. qui bel sap te
ner enquar. perquieu men uoilh esforsar.
e sei que longatendenssa. blasma fai gran
failhiszo. quaran artus li breto. on auion
lur pliuenssa. et hieu per Ione esperar, ai
conquis abgran doussor. lo bais que forssa
damor. mi fes ama dompnenblar. car ar
lom denhautreiar.
e quar anc no fis failhenssa. soi enbona
sospeisso. quel maltraitz torna enpro. pos
lo bes tan gen comenssa. e poiran sen
conortar. en mi tug lautramador. sap
sobresforssiu labor. trac de neu freida fuec
dar. et alga doussa damar,
s es pecat pris penedenssa. et ai quist ses
tort perdo, e pres de nien gent do. etrac
dira benuolenssa. e gang entier de pio
rar. e damar doussa sabor. e soi arditz per
paor. e sai perden gaszanhar. e quant soi (f. 3b, col. 1'').
uencutz sobrar.
e stiers nonagra guirenssa. mas car sap
524 P- savj-i.opez
que uencutz so. see ma dona tal raszo.
que uol que uencut la uenssa. quaisis deu apo
derar. francumelitat abricor. e quar non
trop ualedor. cap lieis me puescaiudar. mai
precx emerce clamar.
e pueis ensa mantenenssa. aissi del tot
mabando. ia nom deu dire de no. que ses
tota retenenssa. sol sieus per uendre per
drar. e totz hom fai gran follor. que di
quieu me uii* ailhor. mais am ablieis mes
quabar. quabautra dona conquistar.
b el rainier per ma crezenssa. non sai
par ni companho. que tug li ualen ba
ro. ualon sotz nostra ualenssa. e pos di
eus uos fes ses par. eus det me per ser
uidor. seruirai uos de lauszor. e dalre cant
Ilo poirai far. bel rainier quals es sius
par.
n. 15. Peire uidal.
q Uant bom onratz deue engran
paubreira. qua estat ricx e de gran
benananssa. de uergonha no>? sap
re que se queira. ans ama mas sofrir sa
malananssa. perques mager merces epl«s
francs dos. quant bom fai be apaubre
uergonhos. qua mains dautres quan en
querre fizanssa.
q uieu era ricx e de bona man eira, tro
ma dona mi tornet en erranssa. que
mes mala saluatge guerreira. e fai pecat
quar aissim deszenanssa. quen mi non
troba nuilhas ocbaiszos. mas quar li
soi fizels et amoros. e daquest tort nom
uol far perdonanssa.
e sa guerra es mi tan sobransieira. que
sim fai mal non puesc penre uenianssa.
que sieu li fug ni camge ma quareira.
denan mos hueilhs uei sa bella semblans
IL CANZONIERE PROVENZALE J 525
sa. perquieu noilh sci del l'agir poderos
ni del tornar perque men fora bos. plaitz
et aitals quelai agues onranssa.
blieis nom ual forssa ni genlis quieu
quieira. plus qua lenclaus quea de mort
duptanssa. que trai dedins etrauque fai
arquieira. encontra lost pren de traire
ismanssa. mas lautrarquier de fors es plws
ginhos. quel far premier peraquel luec
rescos. ema donam te enaital balanssa.
Ihes tant doussa franque plazenteira. ab
cortes digz et ab bella semblanssa. per (f. 3b, col. 2").
quieu nonai poder quieu men sofeira.
plus que lauzels ques lai uoiritz part
firanssa. qnant hom lapella et el respon coi
tos. sap que mortz es per son cor uolontos.
ema donam te enaital balanssa.
ort ai quar anc lapelei mensongei
ra. mas(mas) drutz coitatz nona sen ni
membranssa. capavic no muer car tan
mes uertadeira. que lonhat ma de la
paubresperanssa. oii liieu era alas oras
ioios. eras remane damor e de ioi blos. si
ffauffz entiers no men fai acordanssa.
hanso uai ten albon rei part creu
eira, qui de bon pretz nona elmon eganssa.
sol plus francx fos ues midons de quabrei
ra. que dautra re non fai desmezuranssa.
e tot rics hom quan destrui sos baros.
nes meins amatz eprezatz del plus pros.
et hieu ho die quar li port finamanssa.
a uierna hieu nom clam ges de uos.
mai ben magrops plus adreitz guiszardos.
del Ione aten on auiesperanssa.
raire ben uoilh que mantenham los
pros. e confondam los maluais enuios.
cap nos sen te enrainiers e na sanssa.
526 p. SAVI-LOPEZ
n. 16. Peire uidal.
q uant hom es en lautrui
poder. non pot tot son talan com
plir. ans laue souen agequir. per
lautrui gi-at lo sieu uoler. doncx pueis en
poder me soi mes. damor segrai los mais
els bes. els tortz els dreitz els dans els pros.
quaissi mo comanda raszos.
q uar qui al setgle uol quaber. main
tas ues laue asufrir. so queilh desplas ab
gent cubrir. ab semblanssa de noncaler.
e pueis quant uè qua sos luecx es. con
traisel que laura mespres. non sia flacx
ni nuailbos. quengran dreg notz pauc
docliaizos.
p retz eiouen uoiUi mantener, e bonas
donas obeszir. e la cortesza gen seruir.
hieu nonai gran cura dauer. empero sieu
poder agues. nones coms ni ducx ni mar
ques. a cui meilhs plagues messios. ni me
ins se pac dauol baros.
b ona dompna dieu cug ueszer. can
lo uostre gen cors rerair. e pos tan uos
am eus deszir. grans bes man deuriesca
zer. caissi ma uostramors con ques. e
uencut e lassat e pres. cap tot lo setgle
que mieus fos. mi tenrieu paubres ses uos. (f. 4a [63], col. 1").
d ompna quan uos ui remaner. e mau
enc de uos apartir, tan mangoisseron li sos
pir. capauc nomauenc aquazer. ai doussa
dona franqua res. uailham abuos dieus e
merces. retenetz mi e mas chansos. si tot
peszal cortes gelos.
t ant ai de sen e de saber. que dal tot sai
mon meilbs chauzir. e sai conoisser egrazir.
quim sap onrar e quar tener, etenc ma
lus dels genoes. cap bel semblan gai e cor
tes. son alur amicx amoros. a als enemicx
erguilhos.
IL CANZONIERE PROVENZALE / 527
s el que pot enou uol ualer. com no sesfor
sa del morir, pueis que la mortz noi denhau
sir. per far enuei e desplazer. et es trop
lag dauol pages. cant recueilh las rendas
els bes. cors poirit abcor uermenos. uiu
ses grat de dieu e de nos.
e mperaire soi hieii dels genoes. et ai
hunaital fieu conques. ques auinens e
bels e bos. e soi amicx dels borboilhos.
d ona per uos am narbones. emolinas e
sauartes. castella elbon rei anfos. de cui
soi caualier per uos.
n. 17. Peire uidal.
p Lns quel paubres que iai el rie
ostai, que noncas planh si tot ha
gran dolor, tan tem que torn aze
nuei al senbor. no maus planher de ma
dolor mortai, bem dei doler pos ellam fai
ergueUh. que nuilha re tan non deszir
ni uoilb. sauals daitan non laus clam
ar merce, tal paor ai que non senuei de
me.
a issi com sei que badai ueirial. queilh
sembla bel contra la resplandor. cant hi
eu lesgar nai alcor tal doussor. quieu
men oblit per lieis cui uei aitai, bem
bat amors ablas uergas quieu cueilh.
quar huna ues enson reial capdueilh.
lemblei un bais don alcor mi soue. ai
quan mal uiu qui so quama non uè.
s i maiut dieus pecat fai creminal. ma
bella dona quar ilh nom secor. quilh sap
queuliei ai mon cor emamor. tan quieu
no pens de nuilhautre iomal. doncx
perquem sona tan gen ni macueilh.
pues prò nom te daisso don plus mi du
eilh. e cuiam doncx aissi lonhar de se.
nono deu far quar peramor maue.
528 P. SAVJ-LOPEZ
e aissi ma tot ma dotapnen son cabal.
que sim fai mal ia nom naura peior. quel (f. 4a, col. 2*).
sieus plazers ma tant doussa sabor. que
ges del mieu nom remembra nim cai.
non es nuilh iorn samor elcor nom bru
eilh. perqviai tal gaug quan la ueszon
mei hueilh. e quar mos cors pensa de son
gran be. quel mon non uoilh ni deszir
autra re.
s abetz perqueilli port amor tan cerai.
quar anc non ui tan bella ni gensor.
ni tan bona don tenb quai gran ricor.
quar soi amicx de dona que tan ual. e
si ia uei quensems abmis despueilh. meilhs
mestara qual senhor deissidueilh. que ma»
te pretz cant autre sen recre. enon sai
plus mas aitan nai iaufre.
a Is quatre reis despanhestai mot mal.
quar no uolon auer patz entre lor. quar
autramen son ilh de gran ualor. adreit
e frane e cortes e leial. sol que daitan gen
sesson lor escueilh. que uiresson lur guer
ren autre fueilh. contra la gen qiie nostra
lei non ere. tro quespanha fos tota duna
fé.
b els castiatz senhor per uos mi dueilh.
quar nous uei e quar midons nom uè.
na uierna cui am de bona fé.
h ieu die lo uer aissi com dir lo sueilh.
qui ben comenssa epueissas sen recre. me
ilhs li fora que non comenses re.
n. 18. Folquet de romans.
q Uan ben
mi soi perpensatz. totz lals
es nien mai dieus. com
laissa alos e fieus. e las au
tras eretatz. eilh ricors del
setole maluatz. non es mas
IL CANZONIERE PROVENZALE J 529
traspassamens. percom deu esser teruens.
e leials ses totz enganz. que cascuns em
uianans.
q uaitan test coni boni es natz. mou e
uai coma romieus. aiornadas et es grieus.
lo uiatges so sapcbatz. que cascuns uai
enlaisatz. ues la mort caurs ni argens.
no len pot esser guirens. equi mas fai
uiu dans. ses dieus mas fai de sos dans.
e tu quaitiu que faras. que conoisses
mal e be. fols biest si non ti soue. don
hiest mogutz ni on uas. sin ta uida ben
no fas. tu mezeis tiest escarnitz. e si sen
part lesperitz. cargatz dels pecatz mortals.
ta mortz es perpetuals.
d oncx gara com obraras. mentre que ui (f. 4b, col. 1*).
dat soste, quen pauc dora sesdeue. (\He bom
mor enun traspas. per com non deu esser
las. de ben far quan nes aizitz. quenbreu
dora er failbitz. lo iois daquest setgle fals.
qua totz es mortz comiuals.
n on ia freuol ni fort. que tant sapcba
descremir. qua la mort puesca gandir.
quilb non gara agur ni sort. dreg ni
meszura ni tort. quaitan tost pren lo me
ilbor. elplus bel col sordeior. enegus bom
per mal plag. nos pot gardar del sieu trag.
e u noi sai mas un conort. cai com pens
de dieu seruir. e ques garde de failbir. men
tre que uai ues la mort. quapassar nos er
alport. on tug passon abdolor. li rei e lem
perador. e lai trobarem atrazag. lo ben el
mal caurem fag.
p reguem dieu per sa doussor. que nos fas
sa tant donor. quens gart de mortai agag.
trol sieu plazer aiam fag.
n. 19. Aimeric depeguilba.
q Ui sofrir sen pogues.
530 P. SATJ-LOPEZ
bon fora com sestes. que
ia pueis non blasmes.
so que lauzat agues.
pero ses tot prò dan. e
ses seiorn afan. e ses aiu
da fais. uolrieu portar
mais, que deszonor su
frii*. don nom pogues
partir, ni men auzes ueniar. nono poiria
far. e sia prò uenianssa. quis part de fai
samanssa.
s ui men partit non ges. ans men so
uè ades. de lieis tant mestai pres. del cor so
que ma pres. si soi partitz daitan. qua tot
lo meins pensan. mespres sos faitz sauais.
qnar huna on creis e nais. bes plus com now
pot dii". lam fai deszabellir. ede raon cor
lonbar. e sim fai tant amar, cane enplus
greu balanssa. non fo andrieus de franssa.
e aissi com sers ho pres. sui sieus liegers con
fes. non fo tan leu conques. qual traire de
son gan. sa bella ma baiszan. mintret tan
aquel bais. quel cor del cors mi trais. al re
torn dun sospir. perquel uiurel morir, mi
fai ensems mesclar. et hom nos pot gar
dar. ni cobrir de sa lanssa. damor pos dreg
la lanssa.
e non er ni non es. ni cug com anc trobes.
en dona cane nasques. ses totz mais tans
de bes. perquades onquieu man. humils e (f 4b, col. 2*).
merceian. li soi fis euerais. si quen re
nom biais. e sieu abgen seruir. ni sufren
ab blandir, noi puesc merce trobar. ia nos
deu bom fizar. mais enbella semblanssa. ses
penh bo ses fizanssa.
d ompna saisius prezes. com mi pres nius
forses. amors ni merceges. si com sol far
merces. uos magratz fin talan. nom tenhas
ensoan. si tot mai lo pel sais. quel cors es
IL CANZONIERE PROVENZALE J 531
frecs e gais. e sai bos faitz grazir. et onram
ens chauzir. e so ques tanh selar. e sol dai
sest pensar, mi fezes perdonanssa. anc dals
noilh fis pezanssa.
1 a rayna ses par. elienor sap far. e dir so
don senanssa. tot iorn e creis sonranssa.
n. 20. Aimeric de peguilha.
q Uar fui de
duracondanssa. ues uos alcoraensamen.
tanh quen prendatz ueniamen. ab
brau respos ho ablanssa. quans quieus a
mes mames uos ses enian. et hieus tornei
bona dompnen soan. per tal que ma trahit
ses desfizanssa.
s ieus fui ala comensanssa. fals araus
am finamen. e sai quem dires souen. que
fraitura dautramanssa. me fai uenir ues
uos humelian. equieu uos uauc minten e
galian. eges nous am enfaitz mai en sem
blarssa.
d e gran forfag gran uenianssa. so di
dreitz per iutgamen. emerces di eissamen.
de gran tort gran perdonanssa. abdui
son enmaint luec dun semblan. et enma
int luec uan se contraria, quar dreitz au
si emerces apitanssa.
d oncx si dreg ni uostronranssa. gardatz
nil mieu failhimen. ia nomaures chauzi
men. quals mais dona dreitz malanans
sa. quel failhimen quieu fis ues uos tan
gran, e lonramen quaues sobra mi tan.
creisson mamor emermon mesperanssa.
p ueis conoisses ses duptanssa. quieu failhi
nessiamen. nous sia lo mais enmen. mas
del be aiatz niembranssa. si prò nom faitz si
uals nom tenhatz dan. e del benfait siel
uostre talan. quieus atendrai senes dezespe
ranssa.
532 P. SAVI-LOPEZ
r ei darago quii uostre gai semblan. uè
pot ben dir de bon pair bon enfan. quar bon
pretz cueilh sei que semenonranssa.
n. 21. Aimeric. (f. 5a [64], col. 1»).
a Des uol de laondanssa.
del cor la boqua pai'lar. doncx pueis tan
parli damar, ben puesc dire ses duptans
sa. ma dompnal mieu ps^rlamen. quieu am
de cor finamen. mas ges enlieis nom creiria.
per digz si plus nom fazia.
q uar non sap ama semblanssa. dompna
meilhs amor lauszar. que tan pauc enuoilho
brar. molt mac bella comensanssa. ues
quem paga de nien. siei bueilli man embl
at lo sen. ab tan bella mahistria. quen fan
plaszer ma follia,
m anc non ui fìnamanssa. ses alques de
folleiar. ni ioi damor ses preiar. ni ses mal
trag gran onranssa. equar abmeins donra
men. ses plus son mei pensamen. sofre pl»s
leu totauia. lafan doblar cascun dia.
e t hieu dobli la balanssa. quadoble tene
lieis plus quar. totz iorns caissi sai doblar.
doblamen ma malananssa. mai assatz doblet
plus gen. tristans quan bec lo pimen. car
el gaszanhet samia, peraquo quieu pert
la mia.
s ouen mi dona peszanssa. ues quem fai
tart alegrar. eforam greu adurai\ mai la
mors elesperanssa. mi ten alques iauzen.
tot uoilh siason talen. queissamen sis seria.
si tot non mo uolia.
n abiatritz nous sabria. tant lauszar co
US couenria.
n. 22. Aimeric de peguilha.
s El que sirais ni guerreiabamor. ges
que sauis non fai almieu semblan.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 533
quar de guerra nei tart prò e tost
dan. egiierra fai tornar mal enpeior. engu
eiTa trop perquieu non la uolria. uiutat de
mal e de ben carestia, mai finamors si tot
me fai languir, ha tant de ioi quem pot
leu esiauzir.
ueilli plaszer son plus que lenuei damor.
eilh be queilh mal eilh seiorn que lafan.
eilli gaug queilh dol eilh leu fais queilh
peszan. eilh prò queilh dan son plus eilh
ris queilh plor. non die aissi del tot que
mais non sia. el mais com na ual mais q«<e
sin gueria, quar qui ama de cor non uol
languir *). del mal damor tant es dous per
sofrir.
ncaras ti'op mais de be enamor. quel
uil fai quar el nessi gen parlan. elesquas
lare eleial lo truan. elfol saui elpec conois
sedor. e lerguilhos domesguezumelia. e fai
de dos cors un tan ferm los lia. percom (f. 5a, col. 2*).
nos deu aszamor contradir, pueis tan gen
sap esmendar efenir.
ieu lai seruit prò nai cambi damor. ab
que ia plus nonagues mas aitan. quen
mains luecx ma fait tan aut e tan gran.
don ia ses lieis non pograuer honor. e
maintas ues me gart de uilania. que ses
amor gardar nomen sabria. e mains bons
motz me fai pensar e dir. que ses amor noi
sabriauenir.
ona dompna de uos tenli e damor. sen
e saber cor e cors motz e chan. esieu ren die
queus sia benestan. deuetz nauer lo grat
e la lauszor. uos e amors quem das la mays
tria. e si ia plus de be no men uenia. prò
nai cambi segon lo mieu seruir. sii plus hi
fos ben saupral plus graszir.
') Corretto, con altro inchiostro, in guerir.
534 p. SAVj-i.oPEZ
e hansoneta uai teu de part mi e damor.
albon albel alcortes alprezan. acui sopleion
lati et alaman. eilh sieruon com bon empe
rador. sobrels maiors ha tant de senhoria.
hoDor e pretz larguesze cortezia. sen e saber
conoissensse iauzir. rie de ricor per rie pretz
enrequir.
b ona dompna la genser es que sia. uas
uos azor esoplei nueit e dia. iamais de uos
nom uoilb partir, quentot lo mon non
pogra meilhs chauzir.
n. 23. Aimeric depeguilha
s I com lalbre que per sobrecargar. fr
auli si mezeis epert son frug e se.
ai hieu perdut ma bella dompne
me. emos engenhs ses fraitz per sobramar.
pero si tot me sol apoderatz. ane iorn non
fis mon dan azessien. anseis cug far tot so
que faue absen. mai er conose que trop
sobral foudatz.
e non es bo eom sia trop senatz. que asa
zos non segua son talen. e si noia de cascu
mesclamen. nones bona sola luna meitatz.
que besdeue hom per sobre saber. nessis
enuai maintas ues foUeian. perque seschai
com an enluec meselan. sen abfoudat quiu
sap gen retener.
1 as quieu nonai mi mezeis enpoder. ans
uauc mon dan enqueren esercan. e uoilh
trop mais perdre e far mon dan. abuos dona
eabautra conquezer. cancse cug far enaq?<est
dan mon prò. equesauis enaquesta follor.
pero alei de fol fin amador. maues ades on
plus mi faitz mal plus bo.
n on sai nuilh oc perquieu des uostre no. (f. 5b, col. 1*).
pero souen tornon mei ris enplor. et hieu
com fols ai ioi de ma dolor, e de ma mort
quan uei uostra faisso. col balezi cap ioi sa
IL CANZONIERE PROVENZALE J 535
net aussir. quant elmirailh se remiret es
ui. tot autressi es uos mirailhs ami. que
mausizetz quan uos uei nius remir.
e nous en qual quan mi uezetz morii', en
ans ho faitz de me tot autressi. com de lenfan
quabun maraboti. fai hom del plor sebrar
edepartir. epueis quant es tornatz enalegrier.
et hom lestrai so queilh donet eilh tol. et el
adoncx plox'e fai maior dol. mil aitans plus
que non fes de premier.
n. 24. Aimeric de peguilha.
e Xamors trop alques enquem refranh.
qualmeins damors mais ho bes nom so
franh. ni hieu per mal nom luenh
damors nim franh. conplus maussi plus
ues amors mafranh. enon conosc camors ues
mi safranha. niszieu damors nonai poder
quem franha. res nom sofranh sol camors
nom sofranha. quar ses amors no sai enqu
em refranha.
d amor nom puesc partir camors mi pren.
e quan men cug emblar plus mi repren.
abun esgart don mos cors sescompren. qu
em fai uenir de lieis encui menpren. mai
ason dan non cuges quieu menprenda. ni
per autra mos fis cors sescomprenda. don hom
per fals amador mi reprenda, quen lieis es tot
silh platz quem lais hom prenda,
e aissi soi faitz del tot alsieu coman. que
nuilha re non desdic quellam man. pero duw
be la prec que nom desman. qual comensar
mi promes del deman. don fai pecat huei
mais que nom demanda, e grans merces
siuals que nom desmanda. mas hieu tene
be i^er desman si nom manda, pero asatz
qui non desditz comanda,
e n lieis son tug li bon aip com retrai, es
tiers que greu promet e leu estrai, perqui
536 P. SATJ-LOPEZ
eu non puesc sufrir lo mal quieu trai, si
calque be amors no men atrai, mas pero mal
ho be qual quem natraiha. sofrii-ai tot que
ia per mal quen traiha. noraestrairai dam
ors qui ques nestraia. ni ia nuilh teras non
iioilh com mo retraia.
d onen uos ai mon cor tan fin e ferm.
que ges nonai poder quieu len desferm. abans
uos iur sobre sains eus aferm. con plus vaen
cug partir plus mi referm. e si merces q?/<?ls
partimens referma, per chauzimen enuos (f. 5b, col. 2*).
plus nosaferma. totz mos afars si destrui es
desferma. cautra mas uos non uoilh que
mestei ferma.
1 adreitz guilhem malespina referma, don
e dompnei si que cascus aferma, que de bon
pretz nos lassa nis desferma. percom enlui
deu tener proua ferma,
n a biatriz dest tant es fine ferma, quel
uostre sens nos camia nis desferma. don uos
tre laus si meilhui-e saferma. epueis mos
cbans emos digz ho referma.
n. 25. Aimeric de
peguilha.
e Yssamen com lazimans.
tirai fer eltrai ues se. tiramors mon
cor iase. ques forseis eplus tirans. e mos
fols cors autressi. quar es forsatz forsa mi. per
quieu aforssa deuos. donaus am totas sazos.
p ero maltraitz ni afans. nom deszenanssa
nim te. de uos seruir meilhs de be. cals quem
sial pros ol dans. mas fait mauetz ancessi.
mon cor que per uos maussi. quem soliesser
fis e bos. mai era mes fals e ginhos.
q uieu soliesser clamans. de mos hueilhs
plus dautra re. mai eram clam permafe. de
mon fals cor mil aitans. quer nonai cor sous
afi. qual prim quem uis et hieu uos ui. sem
IL CANZONIERE PROVENZALE J 537
blet de mi arescos. et hieu remas ses cor blos.
u as uos fis iias mi tiTians. es mos cors e
sabes perque. quar neguna nos capte. tan
gen ni es tan pai'lans. ni acueilh tan gen
ni ri. e sabes quals ni conssi. qual partir
lauols elpros. nes ses uostre dan ioios.
t ant es cueinde benestans. que la genser
es com uè. elpretz aissi cos coue. es segon la
beutat grans. percamors chauzi. quar es ph<s
final plus fi. et liieu plus fins auos. e plus
leials cane mais fos.
q uar soi plus fizels amans. enom biais en
re. non per mi mas per merce, uos fos pros
dompna prezans. qnem fetses rie de mesqui.
sol daitan pues nom cambi, sufres quieus
am emperdos. et er grans lo guiszardos.
t otz lo mons sacordapmi. ues on quieu an
enaissi. quel ricx reis ualens namfos. es de to
tas bontatz bos.
n. 26. Aimeric de peguilha.
m Aintas ties soi enqueritz. encortz consi
uers non fatz. perquieu uoilh siapelatz,
e sia lors lo chausitz. chanso ho uers a
quest chans. erespon als demandans. com non
troba ni sap deueszio. mas quan lo nom en
tre uers e chanso.
q uieu ai motz mascles auzitz. e chansone (f. 6a [65], col. 1*).
tas asatz. e motz femenins passatz. euersetz
bons e grazitz. e cortz sonetz e trotans. ai auz
itz euersetz mains. e auzida chansoneta ab
Ione so. els motz dambdos dun gran elcaszimto.
e sieu en soi desmentitz. quaissi non sia uertatz.
non er hom per mi blasmatz. si per dreg mo
contraditz. ans ner sos sabers plus grans. entr
els bos el mieus mermans. si daissom pot uew
ser segon raszo. quieu nonai ges tot lo sen sa
lamo.
q uar es de son luec issitz. dompneis que ia
Stuàj di filologia romama, IX. 34
538 P- SAVJ-LOPEZ
fon prezatz. me soi alques desuiatz. damar tan
nestauc marritz. quentramairis e amans. ses
mes US pales engans. quenganan ere lus lau
tre far son prò. enon garden tems ni pei'que
ni co.
q uieu ui ans que fos faiditz. sius fos peram
or donatz. us cordos quadreit solatz. nissia cortz
e conuitz. perquem par que dur dos tans. us
mes no fazia us ans. quant renhaua dompneis
ses ochaiszo. greu es qui uè coni es e sap com
fo.
m as non es tant relenquitz. si tot me soi
deszamatz. quien non sia enamoratz. de tal ques
sime razitz. de pretz tant quami es dans. pu
eis la ualors el semblans. son assemblat entan
bella faisso. com noi pot plus pensar meilhu
raszo.
a bels cors cars gen noiritz. adreitz e gent
faisonatz. quieu non soi (soi) ges tant arditz.
quieus prec que mames enans. uos ciani mer
ce merceians. sufres quieus am enous quier
autre do. eia daquest nom deuetz dir de no.
n a biatritz dest lenans. de uos mi piai ques
fai grans. qua uos lauszar si son mes tug
li bo. perquieu abuos dam-i mon uers eh anso.
n. 27. Aimeric de peguilha.
d Aisso don bom
ba loniamen. ben dig entrels conois
sedors. sin ditz pueis mal uilanamen.
es atot lo meins deszonors. caisel que si mez
eis desmen. del ben qua dig no mes paruen.
des ques trobatz ben dizen fals. quel deiom
creire dizen mais.
s i dieisses alcomensamen. los mais ans quel
ben dig fos sors. dieissero plus cubertamen,
e sembla uer apluszors. mas pero benaue so
uen. caisso com ere blasmar defen. doncx non
es dome ques aitals. lo bes digz bos nil mal
IL CANZONIERE PROVENZALE J 539
digz mais.
e US quen dis be i^remeiramen. que de bas
aut poget amors. endis apres mal sotilmen. (f. 6a, col. 2").
per far semblar sos mais peiors. eper plus
enganar la gen. abi^rouerbis dauratz de
sen. et abparauletas uenals. uol far creire
del ben ques mais.
n on es bes qui sap dauinen. segon lo mon
so ques ualors. e quis garda de failhiinen. on
plus pot e creis sas lauszors. si es mas non
pot far nien. si nona laministramen. damor
ques maistre leials. quensenha triar bens de
mais,
q uel cors nais on araors senpren. ensems ar
dimens e paors. quensauiesza lardimen. euol
pilha gen las folors. epueis es arditz eissamen.
de larguesza e densenhamen. e uolpilhs desca
seza e dals. que fos uilania ni mais.
p er som par qui ditz mal uilanamen.
del mahistre qui donai sen. com siom ualens
e quabals. ni com se pot gardar de mais,
q uar ual plus e conois e sen. na ioana dest
et enten. uoilh segon lo dreg iutge quals. deu
boni dir damors bens bo mais.
n. 28. Guiduisel.
s I bem partes mala dompna de uos.
non es raszos quieu me parta de
chan. ni de solas quar farla sem
blan. quieu fos biratz daquo don
sui ioios. ben fui hiratz mai eras
men repen. quar apres ai del uostrensenbauien.
com puesca leu camiar ma uolontat. perque
ras cban daquo don ai plorat.
p lorat nai bieu eilh magers ocbaiszos. uec
mi de tal que nos nira chantan. que mi non
es si tot sen uai gaban. anta ni dans ni lieis
honors ni pros. si ma camiat perun nessia
men. lui camiara benleu plus follamen.
540 P- SAVJ-LOPEZ
perquieu noilh sai daquest camge mal gr
at. quilh caniiara tro aial cors camiatz.
a dreg fora si tot non es raszos. que si do
na fezes re malestan. com lan seles els bes
traisses enan. mas eras es camiadaquilh sa
zos. perqueus deues gardar de failhimen.
auos ho die entotas ho enten. que si faitz
mal ia nous sera selat. ans enuol hom mais
dire de uertat.
t ant quant hom fai so que deu es hom
pros. etan leials com se garda denian. per
uos ho die qui hieu lauzei antan, quant
eral digz uertadiers elfaitz bos. ges peraisso
non deues dir quieu men. si tot eras nous
tenh per tan ualen. quar qui laissa so qua
gen comensat. nona bon pretz peraco ques
passat. (f. 6b, col. 1*).
m ala dompna anc non cugei que fos. que
sius perdes non mo tengues adan. mas laeu
ilhir don uos sabias tan. el gens parlars e
lauinens respos. uos fazion sobre totas ualen.
mai araus tol foudatz lacuilhimen. el gens
parlars ques niesclatz ab barat. et enbreumew
uos perdi-es la beutat.
m ala dompna fait maues enuios. emal
dizen don nonagra talan. quar conosc be
quamal mo tornaran. ensera meins prezada
ma chansos. e non per so si tot mai Ionia
men. uostre uoler uolgut enteiramen.
queras mes tant azenuei toi*nat. non pu
esc ben dir que uos fassas foudat.
m ala dompna la beutat el iouen. aues
abuos e cortezie sen. e gardatz ho com aues
comensat. si nono faitz perdut aues lo grat.
n. 29. Raimbaut de uaqweiras.
e Ram
requer sa costume son us.
amors perquieu piane e
IL CANZONIERE PROVENZALE J 541
sospir e ueilh. qua la gen
sor del mon ai quist conseilh.
em di quieu ara tan aut
com puesqnensus. la me
ilbor dona era met ensa
fizanssa. conor e pres mer e pi'os e non dans.
e quar ilhes del raon la plus prezans. ai mes
enliei mon cor emesperanssa.
ne non amet tan aut com hieu negus,
ni tan pros dona e quar noi trop pareilh.
menten enlei e lam alsieu conseilh. mais
que tibis non amet priamus. que iois e
pres sobre totas lenanssa. quilbes als pros
plazens hiacondans. e als auols aberguilbos
semblans. largues dauer e de duracondanssa.
ne persaual cant enla cort dartus. tolc
las armas alcauaUer uei'meilb. non ac tal
gaug com hieu del sieu conseilh. emfai mo
rir si com muer tantalus. que som ueda
daquem donabondanssa. midons ques pros
cortesze benestans. rique gentils ioues e
gen parlans. e de bon sen e de bella sembl
anssa.
ella dona aitant arditz e plus, fui can
uos quis la ioia del quabeilh. equem dasetz
de uostramor conseilh. non fo del saut de
tir emenadus. mas amicx quai mais de pr
etz e donranssa. quendreg damor fo lardim
ens plus grans. mas ben deu far tandar
dit uostramans. morrai per uos ho naurai
benananssa. (f. 6b, col. 2*).
a mon ergueilh noni blasme ni mencus.
sim luenh per liei daurengue del monteilh.
caissim don dieus de son bel cors conseilh. que
plus ualen nuilhs hom de lieis non uis. que
sera reis dane la terrò de franssa. lonhera
men per far lo sieu conian. quen lieis ai tot
mon cor e mon talan. et es la res onplus ai de
fìzanssa.
542 P. SAVJ-LOPEZ
b el quaualier enuos ai mesperanssa. quar
uos es del mon la plus prezans. e la plus pros
non mi deu esser dans. quar uos non mi des con
senh e fort fermanssa.
n. 30. Raimbaut.
e Issamen ai guerreiat abamor. com
francx uassals guerreiab ma) senhor.
queilh tol sa terra tort perquel gner
reia. equan conois queilh guerra prò noilli te.
pel sieu eobrar uè pueis asa merce, et hieu ai
(ai) tan de ioi eobrar enueia. quazamors quier
merce del sieu pecat. emon ergueilh torn en
bumelitat.
g aug ai trobat merce de la gensor. quem
restam-a lo dan quai pres ailhor. que samis
tat per plag damor mautreia. ma bella
dona e gent absim rete, empromet tan
perquel reprochier ere. com di qui ben gue
rreia ben plaideia. abamors ai enchantan
guerreiat. tan capmidons nai meilhor plag
trobat.
e Imon nona rei ni emperador. quen lieis
amar nonagues fag donor quar sa beutat
e son pretz senlioreia. sobre totas las jDros
dompnas com uè. emeilhs senanssa e plus
gen si capte. emeUhs acueilh e meilhs parie
dompneia. emostrals pros son sen e sa beu
tat. saluan souor erete de totz grat.
d ompna ben sai si merce nom secor.
quieu.non uailh tan queus tanhazamador.
que tan uales per que mon cor feuneia. car
non puesc far tan ricx faitz eous coue. das
mi quieus am mai per tan nom recre. de
uos preiar que uassals pos desreia. deu pò
nher tan que fassa colp onrat. perquieus
enquis pos magues conseilh dat.
V ostri bel hueilh plaszen galiador. ris
zon daquo don hieu sospir eplor. elioues cors
IL CANZONIERE PROVENZALE J 543
qaades gense condeia. maussi aman tal en
ueia men uè. e sieu abuos non ti'op amor
e fé. ia non creii'ai mais ren cauia ni ueia.
nim fizarai endona daut bamat. ni uoilh
quem do nuilbautra samistat.
n. 31. Raimbaut de uaqueiras (f. 7a[66], col. 1").
1 Eu pot hom gaug epretz auer. ses amor
qui bei uol ponhar. abques gart de tot
malestar. e lassa de be son poder. perquieu si tot
amors mi failb. fauc tant de be com puesc e
uailh. e sieu pert ma dompna et amor, non
uoilb perdre pretz ni ualor. questiers puesc
uiure onratz e pros. perque nom qual far
dun dan dos.
p ero ben sai sim dezesper. quel meilbs de pr
etz hi deszampar. quamors fai los meilhors me
ilhurar. elplus maluatz pot far ualer. e sap
far de uolpilb uassailh. el deszauinen de bon
tailh. etorna maint paubrenriquor. e pos tawt
bi trop de ualor. hieu soi tant de pretz cobei
tos. que ben amera samatz fos.
m as peraissom dei temer, camors tol mais
que non uol dar. que per un beilb uei sent mais
far. emil pezars contrun plazer. et ano non
det ioi ses trebailb. mai com ques uoilha so
engailh. quieu non uoilh son ris ni son plor.
epos noi trop gaug ses dolor, siuals noilh se
rai mais ni bos. mas lais mestar deszamoros.
j a sa beutat ni son saber. son dous ris ni son
gen parlar, nom cug ma dompna uendi-e
quar. que bem puesc de samor tener, mas
quar senten enson mirailh. color de robis ab
cristailh. equar la lauszon li meilhor. cuiam
auer per seruidor. quais conors mer si no
mes pros. mas nos cug quieu lam enperdos.
a b cor fag uauc midons uezer. queram pot
perdro gaszanhar. e si uol mos precz escoutar.
aurai silh platz tot mon uoler. mas enau
544 P. SA VJ LOPEZ
tra raszon massailh. no pens quiem tensso
nim barailh. ab lieis mas pens dautramador.
et anc floris de blanqua fior, no pres com
iat tan doloiros. com hieu dona sim part
de uos.
n. 32. Eaimbaut de uaqueiras.
s Auis e fols
humils et ergoilhos. cobes e larcx euol
pilhs earditz. sci quan seschai eiauzens
e marritz. e sai esser plazens et enuios. e uils
e quars euilas e cortes, auols e bos econosc
mais e bes. et ai de totz bos aips cor e saber.
equan ren failh fauc ho per nonpoder.
e ntot afar soi sauis e ginhos. mas midons
am tan quen soi enfolitz. queilh soi humils
onpeitz me fai em ditz. e nai ergueilh car
es tan belle pros. e soi cobes cap son belcors (f. 7a, col. 2*).
iagues. tan que plus larcx enfor e meilhs
apres. e soi uolpilhs quar non laus enquerer.
e trop arditz quar tan rie ioi esper.
b ella dompna tal gaug mi uen de uos.
que marritz soi quar non uos soi aizitz. qui
en soi per uos als pros tant abelitz. quenue
ia nan li maluatz erguilhos. bem tenrai uil
sapuos nom ual merces. quiem tene tan car
per uos entotas res. que per uila men fauc
als crois tener, eper cortes als pros tant sai
ualer.
d amor die mal enmas autras chansos. pel
mal quem fes la bellenganairitz. mai uos do
na abtotz bos aips complitz. maues tan fag qu
esmenda mes e dos. camors euos maues tal ren
promes. que ual sent dos cautra donam fezes.
tant uales mais perquieus uoilh mais auer.
eus tem mais perdre eus uoilh mais con
querer.
j ois e iouens e lauinens faissos. donel gais
cors densenhamens noiritz. uos an dat pres
IL CANZONIERE PROVENZALE J 545
ques per los pros grazitz. epermafe si mauen
tura fos. quieu ni mos chans ni mamors uos
plagues. lo meillis de pretz agra enuos con
ques. e de beutat epaesc ho dir enuer. car
per auszir ho sai eper uezer.
n. 33. Raimbaut.
g Uerras
ni plag no son bo. contramor en
nuilh endreg. e sei fabrega lo fer fi*
eg. quen uol ses dan far son prò. caissim uol
amors aussire. coin aussil sieu senhers mais.
que sa guerra les mortals. e sa patz peitz de
martii-e. e sane iorn foron enemicx. en ti
bantz ab lozoicx. no feiron plaitz ab tans
plazers. com hieu sii mieus tortz mes ders.
q uè peresmende per do. ma sobrels amans
eleg. ma dompna on son tug bon dreg. pau
zat enbella faisso. don muer dire de cossire.
quar nomestai cominals. amors cap sospirs
coralb. maussi ab bel semblan trahire. sella
cui am ses cor tric. quezes ioues abcors rie. e
ual sobre totz ualers. som mostrauzirs e uè
zers.
q uan pens quals es ni qui so. bem soi
mes enordestreg. e sieu quis mais que mon
dreg. sa gran beutat nocliaiszo. quem forsem
fai lergueilh dire, e sa colora naturals. cades
gense noi met als. mas bel solas egen rire. (f. 7b, col. 1*).
epos tant amar sem gic. fauc lenans almi
eu destric. mas sii sieu bel dig es uers. tot
ho donai bons espers.
s i mestasetz arazo. bona dompna et adreg.
ia nom tengratz tan destreg. enuostronrada
preiszo. don nonai poder quem uire. ans soi
tan francx e leials. uas uos que uas me soi
fals. eus am tan que me nazire. e sieu non
fauc tan ni die. com satanh aluostramic. al
facr me sofranh lezers. et aluostre laus sabers.
546 r. SATj-LOPEZ
e nluec de fag daut baro, uos am eus prec eus
dompneg. eluostre gen cors adreg. lau e gar
aqui on so. equan puesc ben far nom uire.
quesser deu lo uostraraicx tals. qiie sia entrels
pros quabals. equar sufres queus dezire. cug
esser pars alplus rie. equant dautra me fa
die. non mo fai far nonqualers. mai uostron
ratz capteners.
q nar non es ni er ni fo. genser de negu
na leg. ni tan pros perquieu enpleg. lo
mieu oc eluostre no. e sin fos delplus iauzire.
aldieu damor forengals. quel sieu paradis soi
fals. quar uos soi hom e seruire, quel sieu me
ilbor Saint prezie. mai fals lauszengier enic.
man tout als preiars lezers. aussim tol ma
int gaug temer s.
d ompnal bos conseilhs mer mais, quem do
nes si nom datz als. equar nous soi contradire.
don uos onrat conseilh rie. de lemperador fre
deric. caisom tengra mais de plazers. com soi
damans lo plus uers.
1 onratz pretz sobre quabals. de na biatris
es tals. com noi pot enlauszan dire, mas endr
eg damors uos die. que mon bel caualier
rie. ha mais de pretz et es uers. aissi nagieu
mais de plazers.
n. 34. Raimbaut.
n Uilhs hom enre no failh. tan leu ni mes
zaue. com el luec on si te. per plus asse
guratz. perque fai grans foudatz. qui
no tem so quauenir len poiria. quieu cuiaua
quar amors nom tenia, com nom pogues
forsar outra mon grat. mai eras ma del tot
apoderat.
t ant es damoros tailh. la bella quem rete,
com non lau ni la uè. non sienamoratz. e
doncx sieu soi forsatz. nous cuges ges grans
merauilha sia. quar sa beutatz lai on desila.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 547
uens enaissi trastotautra beutat. col soleilh
uens trastotautra clardat.
d e robis ab crestailb. me par que dieus la
fé. del sieu dousset ale. laspiret so sapchatz. (f. 7b, col. 2*).
abdigz enamoratz. ples de doussor abergueilb
ses folla, parla e ri abtan doussa paria, cals
amans creis damar uolontat. e fai amar se
Is que nonan amat.
e quar bieu tant no uailh. com alsieu pr
etz coue. am lieis e azir me. quar men soi azau
tatz. com non es tan prezatz. que sa ualors al
sieu rie pretz par sia. pero samors entrels am
ans li tiia. lo plus leial nil meilbs enamorat.
nom qual temer son pretz ni sa rictat.
m olt sofri greu trebailb. capauc no men
recre. mas aissom fai gran be. conplus men
soi lonhatz. mestai sa grans beutatz. lai on la
ui enmon cor nueit e dia. elgen parlar e
lauinen jjaria. abquieu dompnei maintas
nes aselat. com si cuia quieu aia dals pensat.
p ros comtessa beatris non poiria. tant de
ben dir quezenuos mais non sia. e dieus ba
tans de bes enuos aiustat. qua las autras cais
per part la liurat.
n. 35. Raimbaut.
V Alen marques senber de monferrat.
Adieu grazisc quar uos ba tant onrat.
Que mais aues mes e conques e dat.
Com ses corona de laf crestiandat. E laus en
dieu que tant ma enansat. que bon senhor
ai 'molt enuos trobat. Que maues gen noi
rit et adobat. E fag gran be e de bas aut pò
iat. Ede nien fait caualier prezat. Grazit en
cort eper dompnas lauzat. Et bieu ai uos
seruit de uolontat. De bonafe de bon cor e
de grat. Que monpoder uos nai ben tot
. mostrat. Et ai abuos fag maint cortes
barat. Quen maint bel luec ai abuos domp
548 P. SA TJ- LOPEZ
neiat. Et abarmas perdut e gazanhat.
Et ai abuos per guerra caualcat. E pres
maiut colp et abuos nai donat. E gen
fugit et abuos encausat. Vensen lencaus
et enfugen tornat. e soi cazutz edautres des
roquat. Et ai eriga e sus enpon iustat. E
part barreiras abuos esperonat. Et enua
zit barbaquane fosat. E sus en garda et
en aut luec amat. Vensen grans cochas
et ai uos aiudat. Aconquerre emperi e
regnat. Et estas terras et islas e dugat.
E rei apenre princi e pi'incipat. Et ba uen
ser maint caualier armat. Maint fort caste!
e mainta fort siutat. Maint bel palais ai
abuos azegat. Emperador e rei et arairat.
El seuasto lassar e poestat. Elprecalis e ma
intautra poestat. Et encausei abuos afilo
pat. Lemperador caues dezeredat. De ro (f. 8a [67], col. 1*).
mania e dautre coronat. E si per uos non
soi engran honoretat. No semblara cap uos
aia estat. Ni seruit tan com uos ai repro
chat. E uos sabes quieu die del tot uertat.
Senher marques.
n. 36. Raimbaut.
V Alan marques ia non dires de no. Que
aitals es e uos sabes ben co. Me tinc
abuos alei de uassal bo. Cant asailhis
acartentrasteno. Cant quatre sen caualier
atenso. Vos eneausauon feren azespero. Que
nos tengron abuos mas sol trei companho.
Can uos tornes eferis de rando. Pueis uos
dupteron mais non fai grua falco. Et hieu
tornei auos als magers obs quei fo. Que
hieu e uos leuem malamen del sablo. Nal
bert marques quei'a cazutz ios de larso.
Et ai estat per uos enraainta greu preiszo.
Per uostra guerra e nai auostre prò. Fag
maint asaut et ars mainta maiszo. E pres
IL CANZONIERE PROVENZALE J 549
maint colp doutra la garniszo. Euos cobri
amessina dun gros gambaiszo. Enla batailha
uos uinc ental sazo. Queus ferion pel peitz
epel mento. Dartz e cairels sagetas lanseo.
Lansas e bran ecoutel e fausso. Pueissas pre
zes randas e paterno. E lissel e termeu e len
tin eaido. Epale epazerma e qualata giro.
Fui als premier s sotz nostre gonfano. Ecant
anes per crozat ues saisso. Hieu non aula en
cor dieus mo perdo. Que passes mar mai
per nostre resso. Leaei la eros e pris confes
sio. Adoncx era pres lo fort Castel babo. Eno
mauion re forfag li grifo. Quei uinc ab
uos guerreiar abando. Entorn blaquerna
sotz uostre gonfano. Eportei armas alei
de bramansso. Delm e dausberc e de gros
gambaiszo. Em combatei sotz la tor al
peiro. Ei fui nafratz doutra la garniszo.
Eportei armas aitan pres del domo. Tro
que cazec lemperador fello. Sei que destruis
son frairab trassio. Can uil gran fum e
la flamel quarbo. Elmur traucat en ma
int luec ses bonso. Eus ui elcamp per com
batrabando. Abtan gran gaug ses tota
failhiszo. Que dels lur eron sent per un
per raszo. Euos penses de far defensio. El
coms de Flandres e franses e breto. Ala
mans e lombartz e borgonho. Et espa
nhols proensals e gasco. Tug fom ren
gat caualier epezo. Elemperaire ablo cor al
talo. Esperonet son maluais companbo.
Plen dauolesza pueis uolgron li gloto. Xos (f. 8a, col. 2^).
fom austor et il foron aigro. Ecassem los
si com lops fai mouto. Elemperaire fugit
sen alairo. E laisset nos palais boqua leo.
E sa filba abla clara faisso. Efranc uassal can
ser asenhor bo. Pretz len rema et an bon guis
zardo. Perquieu esper de uos esmende do. Se
nher marques.
550 P. SAVJ-LOPEZ
n. 37. Polquet de marseilha.
p Erdieu amor ben sabes
ueramen. conplus deis
sen plus pueia liumeli
tatz. et ergueilhs chai on
plus aut es poiatz. don
dei auer gang e uos es
pauen. cancsem mostras
ergueilh coutra mezura.
V e brau respos amas humils chansos. perques
semblans que lergueilhs caia ios. quapres
bel iorn ai uista nueg escura,
m ai uos non par puscatz far failbimen.
pero quan failh sei ques pros ni prezatz.
tan com ual mais tan nes plus encolpatz.
quen la ualor pueial colpe deissen. e cant
hom tot perdonai forfaitura. ia del blasme
noilh sera faitz perdos. quel sei rema eilh
mala sospeissos. qua mains met sei qui uas
un desmezura.
b lasme na hom e cascus sela sen. perque
nes plus enlengan enganatz. aisel quel fai
que sei ques enganatz. donc uos amor perco
faitz tan souen. conplus uos ser cascus
plus sen rancura, ede seruir tanli calsque
guiszardos. pretz ho amicx meilhuramens
ho dos. meins dun daquetz es fols qui si
atura,
b en fui donc fols quei mis lo cor elsen.
sens no fo ges anseis fo grans foudatz. cai
sei es fols qui cugesser senatz. e sap ho me
ilhs ades onplus apren. epos merces que
ual mais que dreitura. no ualc ami ni ac
poder enuos. pauc mi sembla magues ual
gut razos. perquieu fui fols quaranc de
uos aie cura,
m as ar soi ricx quar enuos nomenten.
quen cuiar es riquesze paubretatz. caisel es
ricx qui sen te perpagatz. e sei paubre qu
IL CANZONIERE PROVENZALE J 551
entrop ricor enten. perquieu soi ricx tan
grans iois masegura. quan pens com soi
tornatz deszamoros. quadoncx ei'a marritz
ar soi ioios. per so mo tenli agran bonauen
tm-a. (f. 8b, col. 1*).
e ortezia non es als mai meszura. mas uos
amor no saubes anc ques fos. perquieu serai
tan plus cortes que uos. qual maior brui se
larai ma rancura,
a naziman et an tostems tatura. chanso qwe
de los liiest e de lors raszos. quatressi ses cascuns
pauc amoros. mas semblan fan daquo don non
an cura.
n. 38. Folquet.
g Reu feira nuillis hom failhenssa. si
tant temses son ben sen. com lo blas
me de la gen. que iutgon desconoissenssa.
quieu failh quar lais per temenssa. dun blas
me desconoissen. quencontramor nomeupren.
queissamen notz trop sufrenssa. com leus cors
ses retenenssa.
q uar enuostra mantenenssa. me mis amors
franchamen. eforai mortz ueramen. si non fos
ma conoissenssa. on non aias mais pliuenssa. *
quieu man si com sueilh planhen. ni mueira
mais tan souen. que mas chansos aparuenssa.
naurion meins de ualenssa.
e ia merces no uos uenssa. per me quieu
non lai aten. ans mestarai planamen. ses uos
pos tan uos agenssa. francs de bella captenewssa.
pueisas quenaisso menpren. quaisilh suefron
lo turmen. que fan per folentendenssa. ans
del pecat penedenssa.
q uar hieu auia crezenssa. tan cant amei
follamen. enaisso com uai diszen. ben fenis
qui mal comenssa. perquieu auia crezewssa.
que per proar mon talen. macses mal com
ensamen. mas eras uei aprezenssa. que tos
552 p. SAVj-LOPEZ
tems magra tenenssa.
e sim degratz dar guirenssa. quar meilhs
gazanhe plus gen. qui dona caisel que pren.
si pretz na ni benuolenssa. mas uoutz es
enuiltenenssa. uostrafars et en nien. com
uos sol dar araus uen. mais lais men quieu
ai sabenssa, de mal dir et estenenssa.
n aziman aluostre sen. eden tostems eis
samen, estauc damor quar paruenssa. en
faitz mas pauc uos agenssa.
n. 39. Folquet.
a Mors meroe no mueira tan souen. que
iam podes uiatz del tot aussire. quar
uiurem faitz e murir mesclamen. et
enaissi doblatz me mon martire, pero mei
mortz uos sol liom e seruire. el seruiszis es
me mil tans plus bos. que de nuilhautrauer
ricx guiszardos.
p erquer pecat amor so sabes uos. si maussi
zes pos uas uos nomazire. pero seruir te dan
maintas sazos. que son amie enpert hom (f, 8b, col. 2*).
so aug dire, quieus ai seruit et anquar no
men uire. e quar sabes quen guiszardo nen
ten. ai perdut uos elseruir eissamen.
m as uos dona que aues mandamen. forsas
amor e uos cui tant deszire. non ges per
me mas per pian cbauzimen. que tan pia
nhen uon pregon mei sospire. quins elcor
plor quan uezetz los hueilhs rire. mas per
paor que nous semblenuios. engan mi eus
e trac mal enperdos.
a ne non cugei uostre cors erguilhos. uol
gues almieu tan Ione deszir assire, mas per
paor que fezes dun dan dos non uos auze
lo mieu maltrag deuire. ha quar uostru
eilh no ueszon mon martire, quadoncx ma
gratz merce si doncx no men. lo dous esga
rtz quem fai merces par uen.
II, CANZONIERE PROVENZALE J 553
a uos uolgra mostrar los mais quieu sen.
e als autres selar et escondire, mas nous
pnesc dir mon cor seladamen. quar sieu
nom paese selar qui mer cobrire. ni qnimer
fis sieu eis me soi traliire. quar qui nos
sap selar non es razos. quel selon silh acui
non es nuilhs pros.
m as nasziman di quieu li soi trahire. ilh
en tostems diszon quieu soi ginlios. quar
tot mon cor non retrac azels dos.
d onal fin cor quieus ai nous puesc tot
dire, mas per merce so quieu lais pernosen.
restauras uos enbon entendemen.
n. 40. Folquet.
m Olt hi fes gran pecat amors. pos li
plac ques mezes enme. quar merce
non aduis abse. abque sadoussis ma
dolors. quamors pert son nom el desmen. et
es deszamors planamen. pos merces noi
pot far secors. perqueilh fora pretz et ho
nors. pos ilh uol uenser totas res. cuna ues
lam uenques merces.
m as trop ma azirat amors. quant abmer
se si deszaue. perol meilhs del meilhs que
hom uè. midons que ual mais que ualors.
enpot leu far acordamen. quar maior na
fait perun sen. qui uè com la neus es ca
lors. so es la blanqueszeilh colors. sacordon
enlieis semblans es. quamors siacort emerces.
m as non pot esser pos amors. nono uol
ni midons so ere. pero de midons non sai re.
cane tan nomenfolli folors. quieu lauzes
dir mon pensamen. mas cor ai quem cap
del absen. mon ardimen quem tol paors. pero (f. 9a [68 J, e. 1*).
esperan fai la flors. tornar frug e damor som
pes. quesperan lam uenques merces.
q uestiers nous puesc durar amors. enon
sai conssi sesdeue. de mon cor qua liat e te.
Studj di filologia romanza, IX. 35
554 P. SAVJ-LOPEZ
que re nom par que naiailhors. quar si beus
es grans eissamen. pogratz enlieis quaber leu
men. cos deuezis huna grans tors. enun pauc
mirailh eilh largors. es aitan grans que sius
plagues. anquar neus hi caubra merces.
s ar nous uens uencutz soi amors. uenser
nous puesc mai abmerce. e sintre sent mais
nai un be. ia nous er dans ni deszonors. cu
ias uos doncx queus estei gen. quar mi faitz
planher tan souen. ans enual meins uostra
ualors. perol mal men fora doussors. si lautz
rams acui mi soi tes. mi plegues merceian
merces.
m al mi soi gardatz pernosen. quar mi
eis ma emblat amors. ara quan reston de Ias
flors. mas dir pot quieu eis me soi pres. pos
que nom ual dreitz ni merces.
n aziman lo uostre secors. e den tostems
uoilh ben alors. mas aisso non uoilh sapchas
ges. capenas neis lio sap merces.
n. 41. Folquet.
s Alcor plagues ben forueimais sazos. de
far chanso per ioia mantener, mas trop
me fai mauentura doler, quant hieu
esgart los bens eis mais quieu nai. qtie ricx
di hom que soi eque bem uai. mas sei co di
non sap ges ben lo uer. que benananssa non
pot hom auer. de nuilha re mas daquo cai
cor piai, perque na mais us paubres ques ioi
OS. cus ricx ses ioi ques tot lan cossiros.
e sieu anc iorn fui gais ni amoros. ar non
ai ioi damor ni noi nesper. ni autre ioi nom
pot alcor plazer. ans mi semblon tug autre
ioi esmai. pero damor lo uer uos en dirai,
nom lais del tot ni nomen puesc mouer.
quenan non uauc ni non puesc remaner
aissi com sei quenmeg delalbrestai. ques
tant poiatz que non sap tornar ios. ni sus
IL CANZONIERE PROVENZALE J 555
non uai tant li par temeros.
p ero nom lais si tot ses perilhos. quades
non pueg ensus amon poder. e deuriam
donai fin cor ualer. pos conoises que ia nom
recreirai. quabardimen apoderom lesglai. e
no tem dan que man degescazer. perqueus
er gen sim denhatz retener, elguiszardos er
aitals com seschai. quen eis lo do es faitz lo
guiszardos. ha sei que sap dauinen far sos
dos. (f. 9a, col. 2").
d oncx si merces ha nuilh poder en uos. tra
ga senan si iam deu prò tener, quieu no
men fi enpretz ni enpoder. ni en chanssos
mas quar conosc e sai. que merces uol so qwe
razons dechai. quieus cuiaua abmerce con
querer. que mes escutz contrai sobre ualer.
qui es enuos emfai metren essai, de uos
tramor so quem ueda raszos. mas ilh me fai
cuiar cauinen fos.
e si conosc que soi trop oblidos. cant al co
menzamen mi dezesper. de ma chanso pueis
uoilh merce querer. farai ho doncx si com lo
iotglars fai. caissi com mueu mon chan lo
fenirai. dezesperar mai pueis non puesc
ueszer. raszon perqueus deia de mi qualer.
• sauals aitant hi retenrai. quins enmon
cor lamarai arescos. e dirai be de lieis en
mas chansos.
m entir cugei mas malmongrat die uer. can
mestaua meilhs queras nomestai. e cugei far
creire so que non efoS. mas mal mon grat es
uera ma chansos.
s i naszimans sabia so quieu sai. dir poiria
cuna pauca ochaizos. notz enamor mais que
noi ual razos.
n. -42. Rigaut de berbezilh.
a Tressi com laurifans. que
cant chai nos pot leuar.
556 P. SAVI-LOPEZ
tro li autre ablur ci'idar.
de lui's uotz lo leuon sus.
et hieu uoilh segraquel us.
mas mos fais es tan greus
etan pezans. que si la cortz
del puei el ricx bobans. e ladreitz p«etz dels
leials amadors. nom releuon iamais non se
rai sors. que denhesson per mi clamar mer
ce. lai on iutges ni raszos prò nom te.
e sieu per los fis amans. non puesc mon ioi
recobrar. per tostems lais mon chantar. car
de me noia ren plus, ans uiurai com lo re
clus. sols ses solas caitals es mos talans. car
ma uida mes enueis eafans. e gaugz mes do
Is eplazers mes dolors. quieu non soi ges
de la maneira dors. que qui bel bat nil te
uil ses merce, adoncx engraissa meilhura e
reue. x
b en sai merces es tan grans. que leu mi
pot perdonar, sieu failhi per sobramar. ni
renhei com fes dedalus. que dis quel era ihesus.
e uolc uolar el sei outracuians. mas dieus bai
set lergueilh e lo bobans. mas mon ergueilh
non es ren mai amors. perque merces mi pot (f. 9b, e. 1').
faire secors. quen mains lue ex son on raszo
uens merce, e luecx on dreitz ni raszos non
ual re.
a tot lo mon soi clamans. de mi ede trop
parlar, e sieu pogues contrafar. fenicx que
non es mas us. que sart epueis resors sus. hi
eu marsera quar soi tant malanans. e mos
fals digz mensongiers e truans. resorzeron
ab sospirs et abplors. lai on beutatz eiouens
e ualors. es que noi failh mas unpauc de mer
ce. que noi sion aiustat tug li be.
m a cbanso mer drogomans. lai on hieu non
aus anar. ni abmos hueilhs dreg gardar.
tant soi forfaitz e conclus. e ia hom no men
encus. mas ma dona que fugit ai dos ans. ai
IL CANZONIERE PROVENZALE / 557
torn ues lieis doloiros eplorans. aissi col ser
que cant ha fait son cors. torna morir al
crit dels cassadovs. atressi torn ala uostra mer
ce. mai uos non qual que damor nous soue.
t al senhor ai encui ha tant de be. com ({ueì
mentau lo iom no failh enre.
b el bericle ioi e pretz uos mante, car uales
mais eno failhes enre.
n. 43. Kigaut de berbezilh.
a Tressi com lo leos. que nes tan ricx etan
gais. de son leonet quan nais. mori ses
ale e ses uida. tro que absa uotz lescrida.
elfai sorzer et anar. atrestal pot de mi far. ma
bella dompna et amors. eguerir de mas greus
dolors.
m olt er bos le guiszardos. e dous e cars eue
rais, quar tan plaszen son li fais. quar ilh a
ualor complida. caissi com de nau perida. don
hom non pot escapar, mai per esfors de nadar.
atres<5Ì forieu resors. dona abun pauc de secors.
t otas las autras sazos. uenon pueis abrils
e mais, ben degra vienir hueimais. la mia
bonescarida. trop ses amors endormida. quem
dona poder damar, ses ardimen de preiar.
quar maintas bellas honors. man tout te
mensse paors.
t otas las bellas faissos. del mon son enuos
e mais, dompna quanc re noi sofi'ais. de to
ta ualor complida. si foses damar ardida. re
noi pogrom meilhurar. abtot aisso es ses par.
forssa e Castel e tors. damor e de beutat flox'S.
i rat mi ten e ioios. souen ri souen mirais.
tost magrezisc leu engrais. aissì ses enmi par
tida. amors ioiosze marrida. abrire et ab iogar.
abplanher et abplorar. aissim mostra sas uà
lors. amors entre ris e plors.
m arme mon cor mas nom par. uei ins (f. 9b, col. 2^).
enson cors estar, que sai nuilhautra ricors.
nom tensfra ni murs ni tors.
558 P. SAVJ-LOI'EZ
n. 44. Rigaut de berbezilh.
1 0 nou mes dabiil
comeussa. e lauzelet chantador. qua
tendut ai enparuenssa. lo pascer,
meilhs de dompna autretal entendenssa. a
ten de uos abioi et absemenssa. quapres los
mais quai traitz durs ecozens. men uenha bes
amors e iois plazens.
e aissi com tot las agenssa. per fueilhe per
fior, ual mais lo mons peramor. et amors no
na ualenssa. ni honor. meilhs de dona ses
nostra mantenenssa. quar de totz bes es
taitz gras e semenssa. et enuos es beutatz
nalors e sens. mas peramor es plus ualors
ualens.
t ant aues de conoissensa. perqueus fan
senbor. amors iouens abonor. eus porton ho
bedienssa. cascun ior. meilhs de dona uoilh
atz camors uenssa. nostre dur cor de bella
captenenssa. que ben sabes que bels ensenha
mens. es enamor fis ecomensamens.
a r couen escazenssa a fin amador. eprenh
enpatz la dolor, greu er qui abamors tenssa.
que non plor. meilhs de dompna enaquesta
crezenssa. estauc ades e fauc ma penedenssa.
tan queus plassa lo mieus enansamens. de
digz ses faitz ab dous esgartz plazens.
t ot autressi com durenssa. pert en mar
maior. son nom que lonheis non cor. eissa
men pert ses failhenssa. sa color, meilhs de
dompna denan uostra paruenssa. autra
beutatz ses tota retenenssa. ues la uostra
que tant es auinens. queissamen creis
com la luna creissens.
m eilhs de dompna sius estaitz ues pia
zenssa. manne mon cor uos rema entenewssa.
mai la mia uos er obediens. abque crezatz de
SOS ensenhamens.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 559
n. 45. Montanagol.
q Ui uol esser agradans ni
plazens. atotz uoilha ben
dir e far honors. acadaun
si col deuers es lors. enon
sia autius ni reprendens.
ans aiapsi meszura et abs
tinenssa. e siaitals encor
coni enparuenssa. car atr
essi deu esser uergonhos.
del mal pensar com del dir totz bom bos.
q uar anc non dee quaber fals pensamens.
enleial cor ans tanb quer uir ailbors. nis cam (f. lOa [69], e. 1').
gè tan que niesqua clamors. com non es pros
cus fols uolers lo uenssa. ni non es dreitz de
far desconoissenssa. quar entotz faitz deu gar
dar totz bom bos. ans quel fassa sii fars ler
dans bo pros.
q uar re non es grazit entre las gens, mai
meszura quar als non es ualors. mai com
uailba segon ques sa ricors. car meszura non
es mai solamens. so que de pauc ede trop tol
failbenssa. entraquels dos la forma conois
senssa. e fai uertutz daquels ueszis amdos.
tolen lo mal dambas las failbiszos.
d omes troba bom larcx emalconoissens. e
larguesza non es ans es folors. qui dona tan
no len sega lauszors. lauszors non es ans es
blasme nosens. bome que contra sa ualenssa.
silb dona meins fai mais de desplazenssa.
que son do pert e sec len mal ressos. bom
que gieta meszura de sos dos.
q uar ges non son engals totas la gens.
perquel sani onra meilbs los meilhors. mai
ar uolon los ricx fols cridadors. don farion
acridar malamens. et ablasmar abdigz de uil
tenenssa. equar li fol lauszon ses entendens
sa. so queilb mal fan lur lauzar lur par
bos. mai fol laus quas quar noi soste razos.
560 P. SAVI-LOPEZ
h om deu esser uergonhos e sufrens. si al
setgle uol poiar sa ualors. etemen dieu creis
sera sa ricors. ableialtat et abensenhamens.
etrobara meszura e conoissenssa. queilh
faran far uia dreita emantenenssa. elaissar
mal e far atotz iorns faitz bos. et anaissi au
ra pretz quabalos.
r eis castelas uos tenes tal tenenssa. on
totz lo mons troba tostems ualenssa. euos
tres faitz son ricx e quars e bos. e sabetz
be luecx onrar e sazos.
n. 46. Montanagol.
0 N mais ha hom de ualenssa. si deu
ria meilbs chauzir. car hom pros
pot leu failhii-. ehiialuatz almieu
albir. no failh quan fai failhimen. quar
per deuer eissamen. fan li maluatz males
tan. coni fan ricx faitz li preszan.
g es del setgle nomagenssa. quan naug
als maluatz mal dir. quilh cuion la lor
failhenssa. ablos sieus mais digz cobrir. eda
lor dieus acuilhir. quadan prò ui e fromen.
et an prò aur et argen. eia re be no metran.
ans ualon meins on mais an.
d ieus com pot auer sufrenssa. ricx hom
de gent acuilhii-. ni de far gaia paruenssa. (f. lOa, col. 2").
ni cos pot de dar tenir. quan bea ho pot
mantenir. mot hi fes dieus son talen. car
no donet largamen. ha sels que largamens
dan. epauc ha sels que pauc dan.
e ia meilhurom egenssa. enraubas et en
garnir. et enmainta captenenssa. es uol
hom trop gent tenir. mas en dar ni en ser
uir. no uei far meilhuramen. ha doncx qu
eus fares manen. ia morres uos can que
can. gardas quel tems nous engan.
e oms curaenges ses temenssa. poiriom
auos uenir. quel sobre noms es guirenssa. de
IL CANZONIERE PROVENZALE / 561
uos quii sap déuezir. don paubres deu enre
quir. quaissi coni creszon crezen. encumer
gar saluamen. deu cumergues ualer tan.
que saluaquels quel creii*an.
e mperaii-e pretz ualen. auetz e ualor e
sen. equar sabes ualer tan. abuos uoilh dau
rar mon chan.
n a g^uias ges noni repen. de uos lauszar
quans mes gen. mai dels uostres tan ni can
nom laus sanquer meilhs no fan.
n. 47. Montanagol.
n Onan tan dig li premier
trobador. ni fag damor. lai el tems
quera gais. que nos no fassam apr
es lor. chans de ualor. nous plazens euerais.
quar dir pot hom so questat dig non sia.
questiers non es trobaires bos ni fis. tro
fai sos chans nous gais egent asis. abno
uels digz de nona mahistria.
m ai en?bantan diszon comensador. tant
enchantan. quel nou digz torna fais. pero
nous es quan diszon li doctor. so que alor.
enchantan non dis hom mais, enon diszo?i
que auzit non aula, enou quieu die ras
zon com mais non dis. camors ma dat sa
ber quaissim noiris. que som trobat non
agues trobaria.
b em piai quieu chan quan pens la gran
honor. quem uec damor. enfassa ricx essais.
quar tals recep mon chan ema lauszor. quea
la fior, de la beutat que nais. pero beus die q«<e
meilhs creii'e deuria, que sa beutatz de sus del
sei partis. que tant sembla obra de paradis.
quapenas par terrenals sa condia.
d una re fan dompnas trop gran folor. can
lur amor, tornon entan ricx plais. que cascu
na pos uè son amador. fin ses error. failh si la
longa mais, doncx conuengra quel mal costums
562 p. SAVj-i.oPEz
nissis. del trop tarzar quieu non ere com mo
ris. tan leu com fai si damors se iauzia. (f. lOb, col. 1*).
t rop fai son dan dompna ques don ricor.
quant.hom damor. lescomet nis nirais. que
plus bel les que suefra preiador. que si dailhor.
eral pecatz sauais. que tals nia quais com no
no creiria. abquel fals dig quenfas assas fr
aidis. perque amors entrelas enueuzis. car
tenon mal enquar lur senhoria.
h ieu am e blan dona on ges non cor. enians
damor. perque nomen biais. mo dei far com la
te per meilhor. eper gensor. percamors mi atr
ai. camans es fols cant enbon luec non tria.
quar qui ama uilmen si eis aunis. qua las me
ilhors deu hom esser aclis.
n esclarmonda qui uè uos ni na guia. cas
cus dels noms dambas ho deuezis. que quecx
dels noms es tan purs e tan fis. com quels
mentau non pren pueis mal lo dia.
n. 48. Montanagol.
n Uillis hom no ual ni deu
esser prezatz. saitan quan pot enualor
non enten. com deu ualer segon ques
sa rictatz. ho sa uida noilh fai mas aunimen.
doncx qui ben uol auer ualor ualen. aienamor
son cor e sesperanssa. quar amors fai far ma
int ricx faitz dagradanssa. e fai home aiure
adreitamen. edona ioi e tol tot marrimen.
m as hieu no tene ges per enamoratz. sels que
namor uan abgaliamen. quar non ama ni
deu esser amatz. hom que sidons j^rec de nu
ilh failhimen. quamans non deu uoler per
nuilh talen. ren quasidons tornes adeszonr
anssa. quamors non es res mas aisso quen
anssa. so que ama e uol be leialmen. equin
quer als lo do damors desmen.
p ero ane mi non sobret uolontatz. tant
quieu uolgues nuilh fag deszauinen. de la
IL CANZONIERE PROVENZALE J 563
bella acui mi sci donatz. ni tenria uuilh pi
aszer pei* plaszen. qua lieis tornes anegun
enuelimen. nim poiria per ren dar bena
nanssa. de ren qua lieis toi'nes amalestaris
sa, quar fis amans deu uoler per un sen.
mais de sidons quel sieu enantimen.
m ai ges li pros el tems que nes pasatz. no
serquauon damor mas lom-amen. ni las do
nas encui era beutatz. no feiran fait per re
deszauinen. per so eron ellas et ilh ualen. quar
quecx ses als sentendien onranssa. mai eras es
pretz tornatz enbalanssa. qaar lamador an
autre entendemen. don sors blasmes e dans
amaìnta gen.
a rezarai per totz los mal blasmatz. dels
amadors daquest castiamen. eper seUas on re (f. lOb, e. 2*).
nha falsedatz. quar an lur cor enso com lar
repren. quar parsoniers es del jjecat quii con
sen. e totz bos hom de tot mal greuanssa. el
sauis deu gardar los fols deganssa. perquieu
casti sels quamon falssamen. e si tot pesza
alor ami es gen.
a Is castelas fai dieu tan donramen. que
tostems an rei de pretz e donranssa. el meilhs
del mon mai ar nan meiliiuranssa. quel es
ioues de iorns eueilhs de sen. acui plas mais
donar quasel quel pren.
n. 49. Guilbem azemar.
b En forueimais sazos e locs. que
maizines dun uers pensan. com lo
retraisses enchantan. tal perquem
fos digz uns uers ocx. de selei quel
mon plus deszir. don desziran mer alanguir,
sinbreu no len pren cbauzimens.
e faram quaneszir aflocs. si nom secor en
ans dun an. que ia ditz hom que uauc bro
ilban. canetas e nom sembla iocx. e sim fai
ioue quanezir. tot quanut maura quan
564 P. SAVJ-LOHEZ
quo tir. que bon esfors malastre uens.
e sera tan blancx com enocx. azaisso nom
tenria dan. allei seruir de bon talan. con
mager es plus cautz es focx. atressi com hieu
mais dalbir. ai emi plus fort mo cossir. de
dir e de far sos talens.
e aissi com dels escacs lo rocs. ual mais q/<e
lautre ioc no fan. e fis maracdes que resplan.
plus que ueires uermeilhs ni grocx. aissi ual
mais qui ques naszir. midons dautras per
em'equir. son pretz ab bos eaptenemens.
p erquieu uoMesser mais cocx. de sa coszi
na lieis gardan. quauer lonor dun amiran.
ses sa uista fos mieus marocs. que non es
hom que la remir. de bon cor queilh puesca
uenir. lo iorn mais ni destorbamens.
p erquiet prec messatgier que brocx. tan
com poiras ton alferan. e die to plus que
per ton dan. per mon destric que not desrocx.
que tant tem tro torns ton delir. cunautra
sazo del morir, non serieu tan dolens.
e gardat no semblar badocx. dels salutz
ni de lals queilh man. quiet pliu si rei
uas cambian. que dun estrieup tauriops
crocx. e di lim que no puesc guerir. sim fai tre
molar e fremir, ses lieis ma uolontatz ualens.
e potz li tant dir alpartir. que guilhems
azemars fai dir. que sidons ual dautras V
sens.
n. 50. (f. Ha [70], col. P).
d Ins un uergier de mur serat.
Alombra du?i laurier foilhat.
Auszi contendre un papagai.
Daital raszon com hieus dirai.
Dauant buna dones ueMgutz.
Et aportai ') de luenli salutz.
') Era scritto : aportam. La correzione è della stessa mano.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 563
Et al dig dona dieus uos sai.
Messatgiers soi nous sia mal.
Sieu uos die perquieu soi aissi.
Vengutz auos enest iardi.
Lo meilhor caualier cane fos.
Elplus eortes elplus ioihos.
Antifanor lo filli del rei.
Que basti per uos lo tornei.
Vos tramet sakit sent ues.
E pregaus per me que lames.
Quar senes uos non pot sofrir.
Lo mal damor quel fai languir.
E nuilh metge noilh pot ualer.
Mas uos que lauetz enpoder.
Vos lo podes guerir sius platz.
Sol que per mi li trametatz.
loiha queilh port per uostramor.
Laures estort de sa dolor.
Anquaraus die mais permafe.
Perqueilh deuetz auer merce.
Que mais ama morir per uos.
Que dautra esser poderos.
Baitan la dompna respon.
Et ba li dig amics e don.
Sai es uengutz ni que sercatz.
Molt mi pares enrasonatz.
Car anc auzes dir quieu dones.
loia ni quieu la prezentes.
A negun bome crestia.
Ben uos es debatutz enua.
Mas quar uos uei tan plazentier.
Nies uengutz en est uergier.
Mi podes dir so quauos platz.
Que non seres mortz ni nafratz.
E peszam peramor de uos.
Que tan cortes es e tan pros.
Car mi donas aitai conseilb.
Ona et bieu me meraueilb.
Car uos de bon cor non lamatz.
566 p. SAvj-i.oPEz
Papagai ben uoilh que sapchatz.
Quieu am delmon lo plus arditz.
E uos qual perdieu mon marit.
Vostre marit nones raszos.
Quel sia del tot poderos.
Lui deues amar aprezen.
E pueis deues seladamen. (f. Ila, col. 2*).
Amar aissel que mor aman.
Per uostramor ses tot enian,
p Apagai molt es gens parliers.
Be sai si foses caualiers.
Que gen sanpras dompna pregar.
Mas ges per so non uoilh laissar.
Quieu non deman perqual raszo.
Dei far eontraisel failhiszo.
A cui ai dat mamor e me.
Dona aisous dirai hieu be.
Amors non garda sagramen.
La uolontat sec eltalen.
Benaues dig si dieus maiut.
Doncx es uos abaitan uencut.
Som ama ren per bonafe.
Hieu am mon marit mais que re.
E nuilh autre amador non uoilh.
Doncx coni auzes tan dir dergueilh.
Quieu am lai on mon cor non es.
d ona ergueilh non die hieu ges.
Par mi queus uoilhatz corrossar.
Mas sim uoletz arescoutar.
la peraisso nous defendretz.
Dantifanor que nonlametz.
Beus die que dieitz es ueramen.
Que deuetz amar aprezen.
Vostre marit mais cautra re.
Apres deues auer merce.
Daissel que mor per uostramor.
Pauc uos membra de blanqua fior.
Quamet floris senes enian.
Ni dizeus com amet tristan.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 567
Ni de tibes coni alpertus.
Anet parlar apriamus.
Anc nnillis liom no len poc gardar.
Enlieis uos podes remirar.
Calpro naures santifanor.
Languis per iiostramor ni mor.
Lo dieus damor e sa uertut.
Vos en rendra mala salut.
Et hieu mezeis quen redirai.
Tot lo mal de uos quieu sabrai.
Sinbreu dora nomautreiatz.
Que sei uos ama que uos lamatz.
Apagai si dieus mi conseilb.
Anquar uos die quem meraueilh.
Car uos tan gen sabes parlar.
E pueis tan mi uoletz preiar.
Dantifanor nostre senhor.
Hieu uos reclam pel dieu damor.
Anatz alui que trop estatz. (f. llb, col. 1*).
E prec uos quel me digatz.
Quieu mi acordarai breumen.
Eilh mostrarai tot mon talen.
E si tant es quel uoiUiamar.
Daisso lo podetz conortar.
Que per uostres precx lamarai.
E iamais de lui nom partirai.
Ona sei dieus que no mentic.
Vos do antifanor per amie.
Lo papagai fo molt ioios.
Et issi del uergier cocbos.
Dauan son senhor es uengutz.
E mostrailh com ses captengntz.
Premeiramen la comensat.
Lo gran pretz eia gran beutat.
De la dompna si maiut fes.
E daisso fes molt que cortes.
Pueis lia dig senher iamais.
Non er noiritz nuillis papagais.
Que fassa tan per son senhor.
568 P. SAVJ-LOPEZ
Coni hieu ai fag per uostraraor.
Que la dompna uos ai gaszanhada.
Anas ades està uegada.
Parlar alieis ensel uergier.
Tot mantenen ses destorbier.
Lo caualier san es anatz.
Dins el uergier et es intratz.
Et es se trobatz abla dona.
E quan lo ui et ellal sona.
Et asetet lo iosta lei.
Senher bem platz cant hieu uos uei.
Vengut aissi en est uergier.
Gran tems ba non ui caualier.
Tan mi plagues si dieus mi sai.
Per uostre papagai uos ual.
Car hieu uos uei tan plazentier.
Pero quar es tan bel parlier.
E per lo be quem di de uos.
E quar es tan bel e tan pros.
Farai uostre comandamen.
Absol que uos premeiramen.
Me fassas couinen aitai.
Quem siatz fin e leial.
E que me ames de bon cor.
d Ona beus die sieu non mor.
Quieu uos amarai leialmen.
Que ia nous farai failbimen.
E si uoles nuilh couinen.
Quieu uos fassa ni sagramen.
Hieu lous farai mot uolontiers.
Que anc non fo nuilbs caualiers. (f. llb, col. 2*).
Que tal sagramen fezes mai.
Com hieu farai si auos piai,
s Enher nous ho tengatz amai.
Que motz homes son cui non cai.
Mas que penson de gallar.
Perquiemuolria gardar.
Mas hieu nono die per uos.
Que uos es cortes sauis e pros.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 569
Et enuos mi uoilh hieu fizar.
Per uostras uolontatz afar.
Et aissim met ses tot im-ai-.
Abaitan si prendon abaiszar.
E feii'on de lor solatz aitan.
Com Ivir fon bo nils agradec.
Baitan lo papagai parec.
E dis senher anas uos en.
Que uengutz es mon essien.
Lo maritz daquesta dona.
Quiel uei que ala porta sona.
El caualier pres comiat.
De la dompna et ailh pregat.
Quella li fassa saber.
Lonra queilh uenra aplazer.
Com puesqua tornar alamor.
Que tan li es toquadal cor.
Telia dis beno farai.
Ebreumen uos ho mandarai.
A dompna adieu uos coman.
Eprec uos que lo mieu don man.
Pel maris non mi oblides.
Et ella! dis non farai ges.
Ans pensarai ades de uos.
Com uos tornes aisai ues nos.
T hieu uos amans iur epromet.
Auos dona alamoros dret.
De far tot nostre mandamen.
E serai tostems hobedien.
E iur uos epromet selatz.
Que penrai tostems empatz.
Lo ben el mal qual quem fasatz.
E promet uos que nostre dan.
Destorbarai emetrai enan.
Vostre be atot mon poder.
E farai grazir e saber.
Als plus conoissens uostre pres.
E iur uos epromet apres.
Que iaitan com siatz fina.
StudJ di filologia romanÈO, IX. 36
570
P. SAVJ-LOPEZ
Nom farà plazers ni aizina.
Enautra part mon cor camiar.
Ni de uos partir ni lonliar.
Neis si tot me soluiatz. (f. 12a [<!], col. P).
Cane nom plac nuilliautramistatz.
E sim uoletz anquar plus dir.
Si coni sabretz pensar ni dir.
E iur aluostre entendemen.
E iur uos premeiramen.
Per la finamistat queus port.
Que nous pogra iurar plus fort.
E per Ics auangelis sains.
Que fes marcx matieus e ioans.
E sains lucx euangelista.
Que per paraula ni per uista.
Ni per onrar ni per seruir.
Ni per als quem sapcliatz dir.
Nom partirai de uostramistat.
Neis sim donauatz comiat.
E uos dona prometetz me.
Que de bon cor ableial fé.
Mi retengatz per seruidor.
E donas mi baiszan uostramor.
E leuar mai pueis denan uos.
On ai estat de geuoillios.
E uoilb quazaquest couen.
Sion fermansse sagramen.
Bonafes e leials amors.
Ensenhamens pretz e ualors.
Gai deszir e fin pensamen.
Cubert e selat etemen.
E uoler complit de bon grat.
E lonhamen de maluestat.
Lo ioi del dieu damor selar.
Et ardimen de fin amar.
Et hieu don uos per auszidor.
Mon cor per mandamen damor.
Quel dona poder de so far.
So que li uolretz comandar.
IL CANZONIERE PROVENZALE / 571
Quieu ere quel uos atendra be.
Tot so que la bocaus coue.
Dona per aqiiestz sains auangelis.
n. 51. Orat.
a Ragues liieu mil
marcx de fin argen. et autres
mil de bonaur e de ros. et agu
es prò siuada e fromen. bu
eus e quauals e fedas emou
tos. e cascuii iorn sent liu
ras per despendre. e fort Castel
enquem pogues defendre. tal que nuilhs
hom noi mi pogues forsar. et agues port
daiga dousse de mar.
e t hieu agues autretan de bon sen. e de
meszura com ac salaraos. eno pogues far ni
dir failhimen. em trobes hom leial totas sazos. (f. 12a, col. 2*).
lare eme... *) prometen abatendre. gent aser
mat desmendar e de rendre. eque de mi nos
poguesson blasmar. enma colpa caualier ni
iotglar.
e t hieu agues bella dorapua plaszen. cu
einde gaia abauinens ftiissos. e cascun iorn sent
caualier ualen. quem seguesson on quieu a
nes ni fos. ben arezatz almieilhs quieu sai
entendre. etrobes hom acomprar et auendre.
e grans auers non mi pogues sobrar. ni sofra
nher ren quieu uolgues donar,
e t hieu agues tot laur e tot largen. del rei
nauar e fos tant poderos. et agues lamor de
dieu eissamen. et apres de totz sos companhos.
equem pogues per tota franssa estendre. per
fals franses eissorbar et apendre. epogues la
mort del rei uengar. per mon esfors lo sepul
ere cobrar.
') Tre lettere illeggibili.
572 p. SAVj-LOPEz
e t hieu estes tostems daital iouen. com ara
soi eque ia uieilhs non fos. eque mos faitz pia
gues atota gen. els lengatges saupes setante
dos. eque pogues aut poiar e deissendre. e nu
ilba re nom mauzes boni contendre. e que
pogues la uertat deuinar. de tot cant hom
sap ni pot pensar,
e szien estes abdieu tan leialmen. quel me
ilbers fos de totz sos companbos. aissi com
es Saint peire saint lauren. bo saint ioban
bo dels meilbers baros. euolgues me dieus
un sol mot entendre. tal quieu pogues tot
lo mon trair de uendre. qua dampnatge
non pogues armanar. epogues las autras
denfern gitar.
q uar enueis es qui tot lan uai queren.
menutz jDerquas paubres euergonbos. per
quieu uolgra estar suau e gen. dins mon
ostai et acuilbir los pros. et albergar cui que
uolgues deissendre. euolgra ku- donar senes
quaruendi'e. aissi feira si pogues mon afar.
e quar non puesc noraen deu bom blasmar.
d ona mon cor emon Castel uos ren. e tot
cant ai quar es bella e pros. e sagues mais
dequeus fezes prezen. de tot lo mon bo feira
si mieus fos. quen totas cortz puesc gabar
ses contendre. quilh genser es enquem pogues
entendre. aisius fes dieus auinen e ses par.
que re nous failb queus deia benestar.
n. 52. Tenso.
p Erdigo uostre sen digatz.
queus par de dos maritz gelos. lus ba
moiUier ques belle pros. francha cortesza
de bonaire. e lautres laia e mai-rida. uilana (f. 12b, e. 1*).
e dauol respos. cascuns es gai'daire damdos.
e pos entan fol mestier es lur uolontatz.
cals endeu esser méins blasmatz.
G auselm faidit ben uoilb sapcbatz. que do
IL CANZONIERE PROVENZALE J 573
nap bellas faissos. don lo mon es enueios.
qui la pres de si aizida. no fai ges tan gran
failhida. si la garda e nes cobeitos. com lautre
deszauenturos. ques tan de totz mais aips car
gatz. quen gardar noi forssa beutatz. ni res
mas auols cors fatz.
p erdigo enfol raszonatz. e com pogues anc
dire uos. com tengues so ques bel rescos. ni
com gart dompna grazida. bella e de ualor
complida. doncx no la garda sos sens bos.
mas la laia abdigz enuios. deu gardar lo
maritz senatz. percom no ueia sas foudatz.
ni com el es mal moilheratz.
G auselm entrels nessis agratz. gent cu
bert blasme uergonhos. j^ero mal conseilh
atz los pros. quan dizetz caiaital uida. que
gart sa malesquarida. ni fassa dun malas
tre dos. meilhs es de gardar ochaiszos. bo
na dompna abgrans beutatz. don par com
sia enamoratz. endeu esser meins encolpatz.
p erdigo onplus en parlatz. plus desmen
tes uostras chansos. que gelozies fols ressos.
don totz lo mons brai e crida. es com gart
dompna grazida. es laitz blasraes entre nos.
mas lautra gardar es raszos. ses geloszia e
ses pecatz. com resconda so ques maluatz. e
mostre so don es onratz.
G ausselm sauol auer gardatz. dauol teza
ur es poderos. eno par sens quabalos. qui se
pert eioi oblida. per maluaisza cauzaunida,
mai quan per auer ioios. failh ni trerabal
sens asazos. damors par que sia forsatz. e si
daisous merauilhatz. beni meravilh si uos
amatz.
t ostems durarial tensos. perdigo perque
uoilb emplatz. quel dalfi sial plaitz iutiatz.
quel iutge ho quens acort empatz.
G ausselm tant es ueral razos. quieu de
fen et el tan senatz. que segon lo plaitz quem
parlatz. uoilh lo iutiamen ho la patz.
574 p. SAVj-LOPEz
n. 1. Aissi comeuson las coblas esparsas.
f Raire totz lo sen elsaber. e la corte
zia del mon. son deniers qui pron
pot auer. quieti non ai coszi germa
ni segon. qua las cochas maon. a
donquas quan mi uauc defailhen. ans non ai ff. 12b. col. 2*).
tan prop paren. non an diszen. ben ai fol sen.
eper els es mais us ricx orbtz amatz. que us
gentils cant es dauer mermatz.
n. 2. cobla.
d ona que de conhat fai drut. e de marit
sap far conhat. a ben damidieu renegat. el
cors e lamia tot perdut. quar ilh no sap ni
hom per lui. cui son li filh nil maritz cui.
perquiels apel deslinhatz totz. filhs e filliastres
enebotz.
n. 3. cohla.
V ilans die ques de sen issitz. quan si cuida
desuolopar. de la pel enques noiritz. ni la uol
perautra camiar. quieu sai e totz lo mons ho
ditz. quades retra hom lai don es issitz. e quan
uilas se cuida cortes far. per plus fol lai que
sanaua turtar.
n. 4. cobla.
L o sen uolgra de salamo. e de rotlan lo ben
ferir, e lastre de sei que pres tir. e la gran for
ssa de samso. eque sembles tristan damia. e
galuanh de caualaria. e lo bon sen de merli
uolgra mai. quieu feira si de totz los tortz que
uei coni fai.
n. 5. cohìa.
d osgratz conquer hom abun do. qui ben lo
sap far per raszo. lun per auer lautre car fai.
asemblanssa quel donars li piai, mas sei que
promet et alonha. e fai semblan que sia for
satz. iierques perdutz lo dons elgratz.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 575
n. 6. coUa.
s i ia amors autre prò non tengues. mas
quar hom nes plus gais eplus cortes, emeilhs
parlans e de meilhor solatz. enconois meilhs
los pros entrels maluatz. et enten meilhs q?<es
mensonia ni uers. pos amors sap tant ricx
guiszardos rendre. neguna res nos deu damor
defendre.
n. 7. cohìa.
m olt menueia duna gen pautoneira. car
an tornat pretz lun bratz en erranssa. cus non
conois cui do ni sei quel queira. mas atressi com
orbs qui peiras lanssa. donon raubas e ronsis a
garsos. atals cane mais no saubron que se fos.
mas fams e freitz trebailhs emalananssa.
n. 8. cohìa.
a r uei tot quant es uerdeiar. els albres de
fueilha uestir. equant hieu cug reuerdezir.
mal mon grat mauen asequar. trop tem quen
mal luec fui plantatz. que totz son uertz et
hieu sequatz. sax non reuerdisc enpascor. coras
reuerdirai senhor. benleu la nueg de saint
ioan. atressi com li noguier fan.
n. 9. cohla.
d ona abun baiszar solamen. agrieu tot
quan uoilh ni deszire. eprometetz lom e nous
tire, siuals per mal de lenuiosza gen. caurion
dol sim ueszion iauzion. eperamor dels adreitz
cui plairia. quar engalmen satanh acortezia (f. 13a [72], col. 1*).
com fassenuei als enuios quii fan. e als adr
eitz fassom tot quan uolran.
n. 10. cohla.
d ona dieus sai uos euostra ualor. euostre
pretz e la uostra ricor. e sai dieus tot can uos
amatz. no sai sieu mi sci saludatz. mas ben sai
saludatz mi fos. sieu saludes sels que amon uos.
576 P. SAVJ -LOPEZ
n. 11. cohìa.
d ieus uos gart dona de pretz
sobeirana. e uos don gang euos lais estar sana,
e mi don far tan de nostre plazer. quem tengas
quar segon lo mieu uoler. aissim podetz del tot
guiszardon rendre. e sane fis tort bel mi podetz
quaruendre.
n. 12. cohìa.
1 uecx es com chan ecom sen lais. e luecx de
rire ede parlar, ede tot deu bom luec gardar.
qui es sauis cortes ni gais. pos amors bo iutia
aissi, com raszos emeszuro di. com del tot gart
luec e sazo. que tostems es et er e fo. com no
pot far tot quan fai be. que noi failba dalcuna
re.
n. 13. cohla.
va. ai tortz es follia et enfanssa. qui loniamen
uol seruir en perdos. pos no len es rendutz nuilhs
guiszardos. e sei quel pren fai gran desmezuranssa.
que de seruir tanb com guiszardo renda, perqui
eu ni ma bella dona creia. quieu ia del sieu
seruiszi mi recreia.
n. 14. cohla.
g es li poder nos parton per engal. enaquest
mon segon lo mieu albir. que tals es ricx acui
degra failbir. et atal failb encui fora ben sai.
et aperpauc nono blasm *) adieu. quar el dona
manentia ni fieu. acors maluatz ni desconoissen
e fai sofraita albo ni alualen.
n. 15. cohla.
a tretan leu pot hom abcortezia. renhar qui
sap et abfaitz auinens. com abfoudatz ni abfar
uilania. et autretan pot bom esser plazen. com
enuios perqui eu soi maluolens. ba sei que tot conois
e lo peitz tria. et ba sei meilbs qui pren
bobediens.
') Una lettera è tarlata.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 577
n. 16. cobla.
q ui uol auer pretz uerai. deu auer cor e de
zire. de seruir ades erapatz. e de far totz faitz on
ratz. abiauzentas uolontatz. si uol enpretz
aussor assendre. egart se de foudatz. euas totz
sia plazens. e de bos acuilhimens. de son auer
despendens. humils emerceiarre. sia de dieu a
maii'e. enon sia bias de retener abse. tot so que
es de be.
n. 17. cobla.
d ome fol edesconoissen. non deu hom uoler
samor, quel fols fai plus de deszonor. aselui quel
plus li consen. quar son blasmamen es laus
zar e sa lauszors grans blasmamens par. equi
fai fol priuat de se. mais ama penre mal que
be. (f. 13a, col. 2').
n. 18. cobla.
m às qui uol enterra lauszor. ni uol auer
bon pretz ualen. non pot ges faire trop do
nor. azom sani e conoissen. quel saui co
nois ques lauszar. perque deu esser tengutz
quar. qui sap triar lo mal del be. econois
aisso ques coue.
n. 19. robla.
s el que son petit poder fai. uolontiers non
deu esser blasmatz. sol que delplus hi sial uo
lontatz. elacuilhrrs elgaugz el bel semblans.
eque sia leials e fis amans. quenun sol luec
aia tot son enten. sei quaitals es ual mais
mon essien. azops damar non fai coms ni
marques. que sa ricor cuiariailh ualgues.
n. 20. cobla.
a issel que uol tot iorn esser senatz.
es enganatz souen enson saber. quar main
tat ues ai uist gran sen nozer. et aiudar ma
intas ues grans foudatz. perque nuilhs hom
que mante drudaria. non deu gardar son prò
578 P. SAVJ-LOPEZ
ni sa folla, ni non pot auer pretz ualen. nu
ilhs boni sinamor no senten.
n. 21. cobla.
d onal gensei'S que sia. per uos me castia.
sens e uolontatz. e nom laisson enpatz. car
mon sen si podia. men deslonharia. dels autz
entendemens. e dautra part iouens. ditz con
rada follia, ual enlnec mais de sens.
n. 22. cobla.
s i bem soi forfaitz ni mespres. per so nom
dei dezesperar. quieu ai uist ergueilh baissar.
dom sufrirenpatz si pogues. quar ben sofrir
ual so sapchatz. perquieu mi sen tan enan
satz. quar per sufrir son maint paubre ricos.
el ricx pot leu per ergueilh baissar ios.
n. 23. cobla.
p OS nom puesc uirar ailbors. dompna ni
non es mos gratz. uailham abuos bum eli
tatz. quieu noi quier autres ualedors. si fauc
merce totauia. quas es mos poders aitan gr
ans. quab uos me pot ualer mil tans. merces
cantra manentia.
n. 24. cobla.
d ona uostra ualens ualors. eluostre gens
cors onratz. e las uosti'as ualens beutatz. que
son sobrautras clardatz. uolon quieus port
senboria. equel nostre bon pretz enans. eus
sia bumils emerceians. tostems sieu aitan
uiuia.
n. 25. cobla.
L alauzeta el rossinhol. am mais que nuilh
autrauzel. que pel ioi del tems nouel. come»
son premier lor chan. et bieu ai aquel sem
blan. quan li autre trobador. estan mut chan
peramor. de ma dona na uierna.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 579
n. 26. cohla.
e quar per sa mercem col. quen chantan
dona lapel. bes tanh caplieis mi capdel. quieu
uos pliu ses tot enian. que sieus serai darenaw. (f. 13b, col. 1").
quar ma fait tanta donor. quem rete per ser
uidor. per tostems mai na uierna.
n. 27. (manca la rubrica cabla).
L as queras planh so quem dol. plus que
nafra de quaii-el. non feira ni de coutel.
perques fols quis uai uanan. son ioi tro com
loilh deman. e dona fai gran folor. qui senten
engran ricor. e dieus gart ne na uierna.
n. 28. (manca la rubrica cohla).
m olt era dous eplazens. lo tems gais can fo
eslitz. paratges et establitz. quels dreituriers co
noissens. leials francx de bon coratge. plazens
larcx de bonafe. dreituriers de gran merce.
establiron paratge. percui fos seruir trobatz.
cortz e dompneis e donars. amors e totz bes
estars. -donor e de gran dreitura.
n. 29, (manca la rubrica cohla).
e paratges e bos sens. dea esser quapdels e ^
guitz. de totz autres bes complitz. perque las
premeiras gens, doneron alric linhatge. ren
das quels tenguesson be. so qual paratge co
uè. e doncx qui te leretatge. nil fieu don el
es quazatz. non ere que degesser pars, mas
aeascun es pezars. de far so don pretz meilh
ura.
n. 30. cohla.
p ero homs flacx maldizens. per lur auer
deschauzitz. desconoisens apostiz. pos renhap
galiamens. e tot paratge mescre. ben uol
gra saber perque. uol auer nuilh senhorat
gè. pos non conois don es natz. mas bon
pretz es aitan quars. cus noi sap contar
auars. mas lautrui benfait rancura.
580 P. SAVJ-LOPEZ
n. 31. cohla.
s i tot no mai alcor gran alegranssa. si
dei chantar e far bella semblanssa. que per
som plas cubrir ma malananssa. que non
uoilh dar gaug amos enemics. pero dirai
alques de mos talans. ei gequirai per paor
trop adire
n. 32, cohla.
e ras no sai enues qual part me uire.
pos mei amie ponhon enmi aussire. que tal
ma fait so don piane e sospire. quieus pliu
ma fé quieu era molt meilhs fis. quelam
serques mos pros e mos enans. mas aissi
failh hom enmainta fazenda.
n. 88. cohla.
n uilha ren que mester maia. mai cant
unpauc de saber. non ai per far cbanson
gaia, quieu nonai ioi ni lesper. damor ni
dautras raszos. non es auinens chansos. mas
del ben quieu ai agutz. e del deszii- don mi
dueilh. la farai pos far la uoilh.
n. 84. cohla.
e n hom plus uè ni assaia. ni sent gaug
ni desplazer. plus deu gardar nonsatraia. lai
don ioi non pot auer. quara es huna sazos.
que mal rent hom guiszardos. eilh seruiszi (f. 13b, col. 2*).
son perdut. eilh benfait desconogut. et amors
uol et acueilh. aisels que mais an dergueilh.
n. 35. (manca la rubrica cohla).
s es prometre e ses paia, ses pot
dona dequazer. si fai semblanssa queilh plaia.
aisso que noilh deu plazer, que de semblan nais
razos. e mais don eisson tensos. tals que sa gr
an be uolgut. enon crezas quieu desti'ut. aco
que ueiran mei hueilh. ni pueis sia tals
com sueilli.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 581
n. 36. cohla.
d euirai uos enmon lati, de so que ai uist
eque ui. mas non cug setgles dur gaire.
que lescriptura ho di. queras failli lo filhs
alpaire. elpairal filli atressi.
n. 37. cohla.
d els plazers plazens. faitz abgran benuol
enssa. e dels semblans uers. dous ab doussa
paruenssa. e dels quars uezers. aial cor so
uinenssa. quem fes la belaii'e. elsieu dous
repaire. perque soi cochos. del tornar mas
ianglos. men fan forsat estraire. don fas ar
escos. mains sospirs angoissos.
n. 38. cohla.
G reus mes lesteners. quieu fas e la sufrenssa.
cus iorns ho us sers. man endetenenssa. eial
remaners. mieus noilh done temenssa. que uas
lieis mi uaire. quar aitan de bonaire. mes to
tas sazos. quieu ai uist que raszos. lim pogra
far desfaire. quilh men fes pei'dos. tals quieu
pris uergonhos.
n. 39. cohla.
a Is bels captenemens. et als cortes paruens.
et al fugir folors. conois hom las meilhors.
quel semblan fai parer, so don al cors uoler.
doncx si de far follia, no uos pren uolontatz.
ial semblan non fasatz. nom tanli que
plus en dia.
n. 40. cohla.
t ot fis amicx ha gran deszauentura. can
de sidons malas nouas apren. assatz ai dig
aszome conoissen. pero non fauc per mi me
zeis rancura, mas qui onra outra meszura.
home qua onrar non fezes. per failhimen
deu esser pres.
582 P. SAVJ-LOPEZ
n. 41. cobìa.
d ompna uolgrieu que esgardes drechu
ra. quesgardes qui lama fin amen, eques
gardes queilli notz ni lestai gen. equesgar
des quilh notz ni la peiura. ni perque bos
pretz li dura, e ques gardes que no fezes.
faitz com raszonar non pogues.
n. 42. cohla.
m a dompna peitz de mort es. qui uai lan
guen desziran. et aten enosap can. li uolra
ualer raerces. pueis ai peitz perquem com
planli. quenun iorn fenis e franh. so com
na conquist greumen. damor et al mieu
paruen, degrom ponhar alfenir. aitan com (f. 14a 1 7oJ, col. 1").
al conquerir.
n. 43. cobla.
e om durarai hieu que non puesc morir.
ni ma uida ni mes mas malananssa. com
durarai hieu qui uos faitz languir, dezesper
at abun pauc desperanssa. com durarai hieu
que ia alegranssa. non aurai mais si non
mi uen de uos. com dui'arai hieu dompna
quieu soi gelos. de tot home que uai uas uos
ni uè. e de totz sels acui naug dire be.
n. 44. cobìa.
f olla dompna penssa es cuda. que leu pr
etz so quel deissen. eper fol nessi paruen.
ai uista tal decazuda. questaua enric l'esso.
de ualor ede faisso. quar sella cui foudatz gui
da. pensa esser enrequida. quan uè que sei
fag menut. intren en crini et enbrut.
n. 45. cobla.
e pos dompnes deissenduda. per blasme de
failhimen. noia mais reuenimen. conors de
luenh la saluda. quar de iusta failhiszo. tro
ba greu dona perdo, ans li cor cascus eilh crida.
et ans que torn enoblida. lo crims ha tant cor
regut. quilh es tornada enrefut.
IL CANZONIERE PROVENZALE / 583
n. 46. cobla.
b ella dompna ges nom par. com deia mais
obezir. autra dompna ni seruir. endreg dam
or ni onrar. et ha ben plaszen sazo. sei ques es
nostra preiszo. quel uostrumils francx para
ens. fai dels cors mortz uius iauzens. eilla mal
que ditz son prò e le li dan. elira iois erepaus
li afan.
n. 47. cobla.
b ella dompna adieu uos coman. et anc no
dis maior follor. quar aquest comiatz ma sabor.
de dol de sospir e dafan. caurai cant hieu sarai
ses uos. ai dieus quar fos auenturos. que cam
gè pogues auenir, daquest anar perun uenir.
n. 48. (manca la rubrica cobla).
p lanhen men uauc e sospiran. ples dira ede
gran dolor, recordan uostra gran ualor. euos
tre frane humil semblan. euostras auinens
faissos. el dous quars francx humils respos.
els plazers que uos sabes dir. quem fan souen
uiure morir,
n. 49. cobla.
a uos uolgra mostrar lo mal quieu sen. e
als autres selar et escondire, quanc nous puec
dir mon cor seladamen. doncx sieu nom sai cu
brii- qui mer cubiire. ni qui mer fis sieus eis
me soi trahire. quar qui nos sap selar non
es raszos. quel selon silh acui non es nuilhs
pros.
n. 50. cobla.
e u non uoilh ges adonas consentir, so perca
dreg uei com las ochaiszona. que tals nia que
no uolon cauzir. el temps que hom damar
las araszona. pueis quan iouens lur estrai sa
beutat. prendol sordeis cauion soanat. aissi (f. 14a, col. 2*).
com fes lo lombartz de las figas.
584 P. SAVJ-LOPEZ
n, 51. cobìa.
b ona dona nos deu damar gequir. epueis
tan fai quazamor sabandona. uo sen cug trop
ni massa nono tir. quar meins enual totz
faitz quii dessazona. mas sapcha ben selar
tota uertat, que silh quen als li serion pri
uat. azops damar li serion desrigas.
n. 52. cobìa.
s abetz perque deu dompnamar. tal caua
lier queilh sionors. per paor de lauszeniadors.
com no lan puesqua encolpar. daisso qua on
rat pretz non tank, e pueis quen bonamor
senpren. ia nom fares pueissas crezen. que ues
autrapart sauergonh.
n. 53. cobla.
n on sai per quals mestiers. samon donas
quaualiers. samors mi soana. nom uoilh lau
zar estiers. quar meins enpar uertadiers. qui
totz SOS bes uana. perque uoilh plus uolonti
ers. dir cortezufana. que uertat uilana.
n. 54. cobìa.
u nplait fan dompnas ques folors. quant tro
bon amie ques mercei. per assai li mouon esfrei.
el destrenhon tros uir ailhors. e quant an lonh
atz los meilhors. fals entendedor menut. son ca
balmen reseubut. perques taiszal cortes cbans.
ensors crims e fols mazans.
n. 55. cobla.
a b fals digz et abtermes loncx. fan donas
de cortes uilas. cus non es tan francx ni humas.
quel coratge noilh neissenda. quant autre pren
los sieus endurs. mas hieu non fauc tan greus
rancurs. ni pueis mort non quier esmenda.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 585
n. 56. cohla.
d rutz que souen si rancura, ni tot
enquier quan sidons fai. si conquer amor noilh
dira, ni no sap com uè ni com uai. que dona
promet et estrai, e ditz mains plazers auinens.
per so quentre las bonas gens, sapcha ineilhs
son pretz enantir.
n. 57. cohla.
f is gaugz entiers plazens eamoros. ab uos
es gaugz perque totz bes reuiu. enona gaug
elinon tan agradiu. quel uostre gaug fai setgle
tot ioios. abuos creis gaug euiu de ues totz
latz. perquieu nai gaug emos bels castiatz. em
fai gran gaug sei quem mentau souen. lo
gaug de uos el bel captenemen.
n. 58. cohla.
a drut de bona donha tanh. que sia sauis emem
bratz. e cortes et amezuratz. eque trop nos rancur
nis lanh. quamors abira nos fai ges. que mes
zura damor fruitz es. e drutz quea bon cor da
mar. deu sap gaug dira refranar.
n. 59. cohla.
a uos que tenh per done per senbor. bona do
na uolgra clamar merce, perun deszir que
de uas uos mi uè. quem destrenh tan que sin
breu nom secor. uostre gens cors non puesc (f. 14b, col. l*).
uius remaner. et anc nous bo auszei far
parer, e sius en soi mil ues uengutz denan.
pueis quan uos uei nous aus dir mon ta
lan.
n. 60. cohla.
h a dieus equem uolon dir. siei hueilh
ni quem uai queren. pueis ma dolor non
enten. ni pos nom uol auzir. molt son men
songier messatge. li dous esgart quem tra
mes. mas percrist sieu ho saupes. non lor
obriral coratge.
Stuàj di filologia romanza, IX. 37
586 !'• SAVJ-LOPEZ
n. 61. cohla.
m as doinpna sap ioi far semblar pezanssa.
e son uoler selar et escondire, e pueis sem
blans cortes abson dous rire. percom no pot
cor iutgar per semblanssa. mas silh marna
aora paregues. quar li soi fis e ses totz engans.
e sei quem ditz quieu pes mas dels t^ieus mans.
quieiram doncx cor quilha lo mieu conques.
n. 62. (manca la rubrica cohla).
d esaiat ha son quami. iouens e mes en de
chi. edonars quera son fraire. lan essilhat ata
pi. si non ment lo laoraire. don lo reprouiers
issi.
n. 63. cohla.
1 0 moliniers iutgal moli, qui ben lia ben
desìi, dis lo uilan tras laraire. bos fruitz eis
de bon paire. emaluatz filhs dauol paire. e
dauol quaual rossi.
n. 64. cohla.
e ras naisson li poilhi. bel burden abgenta
cri. quesdeuenon de blanc uaire. e fan sembla??t
azeni. iois e iouens nes trahi. e maluestatz nais
daqui.
n. 65. cohla.
a me uon ual re cobles ni arteszo. ni siruen
tes tan uei lo mon delit. quar per dos sous se
rai meilhs acuilhit. sils agues liatz enun de
mos gii'os. que per sent uers ni per dozens
chansos. quar fuec e ui e lieg ont mi colgar.
aurai dels .viu. e dels .xi.t. amaniar. e dels
quatre tenrai lostenamor. meilhs que non
feira del uers del lauador.
n. 66. cohla.
G es de dirnar non fora trop matis. qui ag
ues be sos obs dins son alberc. e fos hi la carns
el uis. el bel fuec de legna de fau. quel premier
iorn es huei de la semnana. e deu hom estar
suau.
IL CANZONIERE PROVENZALE J 5S7
n. 67. cohla.
d e bien aut pot hom bas quazer. e de ben
bas poiai- contramon. aisso qua non oblit
silh que fait amie son. quieu ai uist comen
sai* pon. duna peira solamen. elui uenir a
eomplinien. eniantenen si com fo aut poiatz.
sec bas aissi chai pretz quant es mal comen
satz.
n. 68. cohla.
q ui ues bon rei si prezenta. per saber ni
per solatz. auenir deu totz apensatz. de cai (f. 14b, col. 2*).
captenenssa estei. caissi par fine ualens. sa
conoissenssa e sos sens. sai prim la garda e
pueis mai. e leis e so queilh re trai.
n. 69. cohìa.
e silh ment noilh sobrementa. qual meins
moilh semble uertatz. pero meszures asatz. cap
lag uer dir si parei. bels uers dirs si nonqual
uens. si tot noi encor sagramens. qual solasui
ni al iai. nonagradom trop uerai.
n. 70. cohla.
t otz hom deu conoisser eszentendre. que ri
quesza ni grans cortezia. ni res que sia. nos
pot de mort defendre. quel iorn que nais com
ensom amorir, equi plus uiu mais ponha en
fenir.
n. 71. cohla.
q uan lo pel del cui li uenta. amidons que
quague uis. ueiaire nies quieu senta, huna
gran pudor de pis. duna ueilha merdolenta.
que tot iorn mescarnis. ques plus de petz
manenta. quautra de marabotis. e quaga
mais entres matis. quautra no fai entrenta.
588 P. SATJ-l.OPEZ
n. 72. (manca la rubrica colila).
d e totautra pudor ere. coni se pot defen
dre abaitan. coni san son nas estopan. ho ques
luenh de lai on uè. quar qui quagaua epedia.
daquo uos gardarias uos. mas de me sieu ues
sia. ho dun autre uessios. ho de uos si uessiatz.
aluessir nonsai aiuda. quaisel acui latz uesse
riatz. non sap re tro la beguda.
n. 73. cohla.
a tot mon amie clam merce, que si ma encor
de ren dar. que nomo fassa demandar, tan
quieu en semble enuios. que non es tan plaz
ens lo dos. ni trop mo fassa atendre. asembl
anssa ques uoilha defendre. de mi si trop mo
uai tarzan. ho espex'a quieu men an.
n. 74. cohla.
s i ues home eno saps cui. sapchas per au
tre ho per lui. que sap far ni qui es ni don.
que motz homes uan per lo mon. lun paubre
elautre rie. eperaisso hieu to die. que uailha
ho ia no ualgues. saber deu hom dome qui es.
e sapchas leu quals es sos sens. si es nessis ho
conoissens. quadonc sabras trop meilhs chau
zir. de qual guizas fai aseruir. quar greu sei'a
que no mescap, sei que iutga so que no sap.
II. CANZOMRRK Pl'.OVENZALE J
589
INDICE DEI POETI
Cab
II.
Peire Vidal;
III.
IV.
FOLQUET DE RoMANS )
AiMERic DE Pegcilha;
Gui d'Uisel;
1 : Tostems azir falsedat et enian
2: Dun siruentes faire nom tueilh
3: Anc non ni breton ni baimiex"
4: Non ere que mos ditz
5: Lo mons es aitals tornatz
6: Qui uol auer
7: Raszon es quieu mesbaudei
8: Las amairis qui encolpar las uol
Li clero se fan pastor
Aquesta gens quan son enlor ga-
iesza
Tostems uir cuidar ensaber
Atressi com per fargar
13: Un seruentes fauc enluec de iurar
14: Pueis toi'natz sui en proenssa
15: Quant hom onratz dcue engran
paubreira
Quant hom es en lautrui 'poder
Plus quel paubres que iai el rie
ostai
18: Quan ben mi soi perpensatz
19: Qui sofrir sen pogues
20: Quar fui de duraeondanssa
21 : Ades uol de laondanssa
22: Sei que sirais ni guerreiabamor
23 : Si com lalbre que per sobrecargar
24 : Enaraors trop alques enquem re-
franh
Eyssamen com lazimans
Maintas ues soi enqueritz
Daisso don hom ha loniamen
Si bem partes mala dompna de uoa
9:
10:
11:
12:
16:
17:
25:
26:
27:
28:
590
P. SAVJUOPEZ
VI. Raimbaut de Vaqueiras; n. 29
, 30
, 31
, 32:
« 33
, 34:
. 35:
. 36;
VII. FoLQUET DE Marseilha; „ 37:
, 38:
, 39:
, 40:
, 41:
Vili. RiGAUT DE Berbezilh; , 42:
. 43:
, 44
IX. Montanagol; , 45:
, 46:
. 47:
48
X. GuiLHEM Azemar; f, 49:
XI. ANON.[Arnaut de Carcasses]; , 50:
XII. Anon. [Pistoleta]; , 51:
XIII. Perdigo-Gauselm Faidit; „ 52:
Eram requer sa costume son us
Eissamen ai guerreiat abamor
Leu pot hom gaug epretz auer
Sauis e fola humils et ergoilhos
Guerras ni plag no son bo
Nuilhs hom enre no failh
Valen marques senher de mon-
ferrat
Valen marques ia non dires de no
Perdieu amor ben sabes ueramen
Greu feira nuilh hom failhenssa
Amors merce no mueira tan souen
Moli hi fes gran pecat amors
Salcor plagues lien forueimais
sazos
Atressi com laurifans
Atressi com lo leos
Lo nou mes dabril comenssa
Qui uol esser agradans ni plazens
On mais ha hom de ualenssa
Non an tan dig li premier tro-
bador
Nuilhs hom no ual ni deu esser
prezatz
Ben forueimais sazos e locx
Dins un uergier de mur serat
Aragues hieu mil marcx de fin
argen
Perdigo uostre sen digatz.
IL CANZONIERE PROVENZALE /
591
INDICE DELLE POESIE PER ORDINE DI RIMA
Plus quel paubros que iai el rie ost«^
Nuilhs hom enre no iailh .
Tostems azir falsedat et enia»
Enamors trop alques enquem reirmih
Eyssamen coni lazimons
Atressi com laurif«MS .
Quar fui de duracondanssw
Ades uol de laonda«ssrt
Atressi com per fargar
Si com lalbre que per sobreearg«r
Un seruentes fauc enluec de iurar
Valen marques senher de monferrai
Dina un nergier de mur serat
Quan ben mi soi perpensote
Nuilhs hom no ual ni deu esser -prezatz
Perdigo nostre sen digatz .
Raszon es quieu mesbaudc»
Quant hom onratz deue engran paubretV
Dun siruentes faire nom tueilh
Daisso don hom ha loniamew
Perdieu amor ben sabes uerame»
Amors merce no mueira tan souen .
Aragues hieu mil marex de fin argen
Qui uol esser agradans ni plazens .
Pueis tornatz sui en -proenssa .
Greu feira nuilh hom failhcnssa
Lo nou mes dabril comenssa
On mais ha hom de aalens-sa .
Qui uol auer
Tostems uir cuidar ensaber
Quant hom es en lautrui poder
Leu pot hom gang epretz auer'
Anc non ui breton ni haìmier .
17
34
1
24
25
42
20
21
12
23
13
35
50
18
48
52
7
15
2
27
37
39
51
45
14
38
44
46
6
11
16
31
3
592
P. SAVJ-LOPEZ
Qui sofrir sen pogues.
Aquesta gens quan son enlor ga,iesza
Non ere que mos diiz
Maintas ues soi enqaevitz
Guerras ni plag no son ho
Valen marques ia non dires de no
Ben forueimais sazos e locx
Las amairis qui encolpar las noi
Li clero se fan pastor
Sei que sirais ni guerreiabamor
Eissamen ai guerreiat abamor .
Non an tan dig li premier trobador
Molt hi fes gran pecat amors .
Si bem partes mala dompna de uos
Sauis e fols humils et ergoilhos
Salcor plagues ben forueimais sazos
Atressi com lo leos
Eram requer sa costume son us
n. 19
r 10
, 4
r 26
, 33
n 36
, 49
. 8
, 9
r 22
« 30
, 47
, 40
. 28
. 32
, 41
r 43
, 92
IL CANZONIERE PROVENZALE J
593
INDICE DELLE COBLAS ESPARSAS
SECONDO LE RIME ')
Qui uol auer pretz uem/ .
Sei que son petit poder fai
Nuilha ren que mester mata
En hom plus uè ni asseta .
Ses prometre e ses pam
Luecx es com chan ecom sen \ais .
Ges li poder nos parton per engal .
Bella dompna adieu uos coma»
Planhen men uauc e sospira»» .
Dieus uos gart dona de pretz sobeira««
A drut de bona donha t«H^
Mai tortz es follia et enùtnssa .
Si tot no mai alcor gran alegranssa
Mas dompna sap ioi far semblar pezawssa
Ar nei tot quant es uerdeiar .
Bella dompna ges nom par
Sabetz perque deu dorapnamar
Aissel que uol tot iorn esser sena^^
De totautra pudor ere
A tot mon amie clam merce
Molt menueia duna gen pautonetVa
Dona abun baiszar solamen
Dome fol edesconoisse»
A uos uolgra mostrar lo mal quieu
Totz hom deu conoisser eszentendre
Molt era dous eplazens
E paratges e bos sens
Pero homs flacx maldizewa
Dels plazers plaze/is .
Als bel capteneme«s .
Qui ues bon rei si -prezenta
E silh ment noilh sobremento
n. 16
. 19
r 33
, 34
, 35
, 12
. 14
r 47
, 48
. 11
, 58
. 13
. 31
. 61
. 8
. 46
, 52
. 20
. 72
, 73
„ 7
. 9
. 17
, 49
r 70
, 28
. 29
, 30
, 37
. 39
, 68
. 69
*) Do l'elenco delle coblas ad una ad una, come si trjavano nel ms.,
senza aggruppare sotto un sol capoverso o indicare altrimenti quelle
che sono strofi di canzoni. Si veda per questo Stengel e Grober, 1. e.
594
P. SAVJ-LOPEZ
Quiin lo pel del cui li uenta
Fraìre totz lo sen elsaber . . .
De bien aut pot hom bas quazer
Non sai per quals mesticrs
Greus mes lesten^rs .
Ma dompna peitz de raort es .
Si ia amors autre prò non tengues
Si bem soi forfaitz ni mespr^'s .
Deuirai uos enmon lati
Desuiat ha son quamt
Lo moliniers iutgal vaoli .
Eras naisson li poilhi
Atretan leu pot hom abcortezài
Donai gensers qua sia
Com durarai hieu que non puesc m
Eu non uoilh gas adonas consent/r
Bona dona nos deu damar gequir
Ha dieus equem uolon dir
Eras no sai enuas qual part me nir
Ges de dirnar non fora trop mat*s
Vilans die ques da sen issitz
Dos gratz conquer hom abun do
Lo sen uolgra de salamo .
A me non ual re cobles ni arteszo
Lalauzeta el rossinhoZ
E quar per sa mercem col
Las queras planh so quem dol .
Ab fals digz et abtermes \oncx .
Dona dieus sai uos euostra ualo?'
Mas qui uol enterra lauszor
A uos qua tenh per done per senbo,
Pos noni puesc uirar ailhors
Dona uostra ualens ualors
Un plait fan dompnas ques folors
Fis gaugz entiers plazans eamoros
Folla dompna penssa as cuda .
E pos dompnas deissendurfre
Si ues home ano saps cui .
Tot fis amicx ha gran deszauentwra
Dompna uolgrieu que esgardes drechwrrt
Drutz que souen si rancura
Dona que de conhat fai driit
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO
TROVATORE GENOVESE
E ALLA SUA FAMIGLIA (1248-1313).
Tutti i genealogisti genovesi sono concordi nell'opinione
che la famiglia Panzana tragga le prime origini da Sestri-
Ponente.
I Panzane però non tardarono a conquistare in Genova
i principali onori ; infatti Guglielmo Panzane nel 1197 ap-
parisce di già tra i consoli delle quattro Compagne verso
il Borgo ^). I suoi figli, Bonifacio, Giacomo, Giovanni e
Alinerio nel 1229 edificarono la chiesa di S. Francesco a
Sestri-Ponente, del che facea fede la lapide esistente sulla
porta laterale esterna di detta chiesa -). Da Giacomo Pan-
zane nacquero tre figli, Antonio, Corrado e Caleca.
Federico Federici, che scriveva nella metà del secolo XVII,
dandoci l'onorevole stato di servizio dei predetti Alinerio
(nel 1231 inviato a Ravenna ambasciatore a Federico II)
e Bonifacio, zii del nostro Caleca, ci fa sapere che Gia-
como Panzane fu consigliere del Comune negli anni 1228-
29-33-42, che suo figlio Caleca fu consigliere nel 1252 e
anziano nel 1259, che Corrado, altro figlio, ebbe la stessa
') A. Olivieri, Serie dei Consoli del Comune di Genova, in " Atti
della, Soc. Lig. di Storia Patria ,, Voi. I, pag. 401.
^) M. Remondini, Iscrizioni Medio-Evali della Liguria, in " Atti della
Soc. Lig. di Storia Patria „, Voi. XII, Parte I, pag. 76.
596 ARTURO FERRETTO
carica nel 12(52, fu provvisore nel 1270 al re d'Armenia
e nel 1301 ambasciatore al re di Francia. Fa egli anche
menzione sotto il 1304 di Giacomo Panzane, figlio di
Caleca ^).
Un atto interessante, sfuggito alle pazienti ricerche del
compianto Prof. Tommaso Belgrano, il benemerito racco-
glitore dei Documenti inediti riguardanti le due Crociate di
S. Ludovico IX, Re di Francia 2), è una quitanza, rilasciata
il 20 dicembre del 1250 da Ansaldino Lusio a Giacomo
Panzane.' Questi consegnava al Lusio lire duemiìaottocento-
venti di genovini e riceveva contemporaneamente la facoltà
di riscuotere una partita di lire millecinquecentoquaranta
di tornesi, dovutigli dal re di Francia ^).
Dei figli di Giacomo Panzane primo a morire fu An-
tonio. Il 30 settembre del 1253 Giacomo Panzane riceveva
lire quattrocentocinquanta di dote per Aurietta, figlia di
Federico Grillo, che dava la mano di sposa al figliuol di
lui Antonio ^), e il 18 gennaio del 1262 lo stesso Giacomo
vendeva per lire dieci al notaio Guglielmo de Vegio uno
schiavo olivastro, chiamato Giuseppe, e già appartenente
al defunto Antonio, suo figliuolo ^).
Il dottor Giulio Bertoni nel suo scritto : Studi e ricerche
sui trovatori minori di Genova ^), affacciava l'ipotesi che il
rimatore Galega Panza del manoscritto provenzale Cam-
pori fosse genovese ; e il dottor Giuseppe Flechia poco
tempo dopo dimostrava con documenti alla mano felici le
^) Abecedario delle Famiglie Nobili, pag. 80, ms. alla Bibl. dei Mis-
sionarii Urbani in Genova.
2) Genova, 1859, Tip. Beuf e Rossi.
^) Atti del Nof. Gio. Enrico de Porta, Registro I, e. 199, Archivio di
Stato in Genova.
'■) Atti del Not. Bartolomeo de Fornari, Reg. IV, e. 228 ^°, Archivio
di Stato in Genova.
^) Atti del Xot. Giberto da Nervi, Reg. II, e. 192 ^0, Archivio di Stato
in Genova.
^) Giorn. Stor. della Letter. Ital, 1900, Voi. XXXVI, pag. 23, nota 2.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 597
induzioni del Bertoni. Che egli, oltre all'autorità di parecchi
genealogisti che affermano essere stato il Caleca Panzano
" anziano nel 1259 e capitano di sua nave quale prese una
nave de' Pisani „, allegava tre rogiti notarili del 12 set-
tembre 1259 (e noi stessi gli prestammo aiuto nel colla-
zionarli), dai quali risulta che i rappresentanti della celebre
società dei Bonsignori di Siena toglievano in prestito da
Caleca Panzano una partita di genovini, obbligandosi di re-
stituirli poscia in altrettanti provini alla fiera di S. Ajoul
di Provins, e per la riscossione della detta moneta, cor-
rente in Sciampagna, il Panzano delegava i procuratori
Antonio Pasio e Guglielmo Bocuccio ^).
I nuovi documenti da me testé rintracciati nei registri
notarili del R. Archivio di Stato in Genova gittano un po'
più di luce su la figura del trovatore ghibellino, continua-
mente inteso alle operazioni commerciali, secondo le buone
tradizioni del popolo e dei nobili genovesi.
II 6 luglio del 1248 Calecus panzanus, forse diciottenne,
vale a dire in età legale per assistere a pubblici atti, nella
casa paterna è presente a due atti, rogati, quando ferve-
vano le lotte tra Genova e Federico II, e nulla di piìi fa-
cile che l'Adalasia Panzano, ivi nominata, sia la madre
del nostro Caleca ^).
L'atto dell' 8 ottobre 1252 ci fa conoscere il commercio
di tele e panni, esercitato da Caleca '■^) ; e della società
commerciale era pure rappresentante il fratello Corrado,
il quale per atto del 7 giugno 1251, dicendosi figlio eman-
cipato di Giacomo Panzano, riceveva da Giacomo de Porta
lire cinquantanove in accomandita, che prometteva di por-
tare a Buzea, presso Tunisi •').
*) Giorn. Stor. della Letter. Ital, voi. XXXIX, pag. 180.
-) Cfr gli allegati no. I e li.
') Cfr. l'allegato no. III.
*) Atti del Not. Bartolomeo de Fornari, Reg. II, e. 170, Archivio di
Stato in Genova.
598 ARTURO FERRETTO
La società dei fratelli Caleca e Corrado Panzane eccelle
sulle altre. 11 2 maggio del 1253 il primo riceve da Gio-
vanni Ascherio mia quantità di genovini che negozierà
" per riperiam Syrie „ ^), e lo stesso giorno il secondo ne
riceveva altra quantità, che dichiarava di portare pure in
Siria, partendo da Genova sulla nave chiamata Gilieta ^).
Il Belgrano nell'opera citata pubblica due documenti,
concernenti il nostro trovatore. Il 24 novembre del 1253
Caleca Panzanus accusa ricevuta di lire millecinquanta di
genovini a Giovanni Pagano da Piacenza, e ne promette
il cambio di lire settecento tornesi in Parigi, qualora però
avesse ricevuta detta somma dai nunzi del re di Francia.
Inoltre il Pagano, a nome proprio e de' suoi consorti, con-
fessava al predetto Caleca il debito delle lire millecinquanta
pel cambio in discorso ^). I documenti citati ci fanno quindi
conoscere chiaramente la degenza del trovatore in Oriente
e in Parigi e il documento del 5 dicembre 1253 ^) la de-
genza alla fiera di Lagny-sur-Marne, la quale aveva luogo
al 2 gennaio ^).
I numerosi atti che vanno dal 16 ottobre al 19 ottobre
1262 •') non ci rivelano chiaramente a qual punto si dirigeva
il Panzane colle somme che riceveva in accomandita; ma
l'atto del 20 dicembre dello stesso anno ^) ci pone in grado
di affermare con sicurezza che egli portavasi a Napoli.
II 25 giugno del 1267 Calecha Panzanus trovasi a Ge-
nova ^) e dopo alcuni giorni, al l'' di luglio, il fratello Cor-
') Cfr. l'allegato no. IV.
-) Aiti del Kof. Bartolomeo de Fornari, Reg. IV, e. 79 ^'°, Archivio
di Stato in Genova.
^) Documenti inediti riguardanti le due Crociate, etc, pagg. 147-149.
') Cfr. l'allegato no. V.
^) Les Lomhards en France et à Paris par C. Piton, Paris 1892,
pag. 30.
") Cfr. gli allegati dal no. VII al no. XVII.
') Cfr. l'allegato no. XVIII.
») Cfr. l'allegato no. XIX.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA KAMIGLIA 599
rado riceveva in accomandita da Rubaldo Bollerato de Ro-
dultb lire sessantuiia, che prometteva di portare in Sicilia ^) ;
l'indomani un avvenimento allietava la famiglia ; giacché
Benedetta, figlia di Corrado Panzane, sposava Oberto Basso,
portandogli lire trecento di dote -), somma non ispregevole
per quei tempi.
Siccome i fratelli orano sempre in società, null^, di piìi pro-
babile che il Caleca si recasse pure in Sicilia,
È poi fuor di dubbio che il componimento di Caleca Pan-
zano tramandatoci dal codice Campori, pubblicato in parte
diplomaticamente dal Bertoni ^), e nel quale parla di Corradino
di Svevia qui reii j-jer castiar los fals pastors, ed eccita l'in-
fante Enrico di Castiglia contro Carlo d'Anjou, fu appunto
composto verso la fine del 1267. L'infante Enrico aveva man-
dato in Genova il suo ambasciatore Presimene, il quale il
24 settembre del 1267 restituiva mille bizanti, che detto
Enrico aveva tolto a mutuo da Guidettino Mallone ■^).
Corradino avea in Genova non pochi fautori, tra i quali
doveano pur trovarsi i Panzane, e, quando il 29 marzo del
1268 s'imbarcò presso Finale sulle galee pisane per andare
a Pisa, gettate le ancore nel seno di Portofino, magnates
Janae scilicet de SpinuUs de Aiiria de Castello et alzi venerunt
ad eum loquentes sibi et faciendo sibi honorem sicut decuit ^).
Si noti che in detto anno erano consiglieri del Comune i due
fratelli Caleca e Corrado Panzano ''). Questi l'S giugno del
1268, forse anche a nome di Caleca, dava a nolo agli amba-
^) Atti del Not. Bartolomeo de Fornari, Reg. V, Parte I, e. 154,
Archivio di Stato in Genova.
-) Atti del Not. Bartolomeo de Fornari, Reg. V, Parte I, e. 154,
Archivio di Stato in Genova.
^) In Studi di filologia romanza, fase. XXIII, pagg. 1 e segg.
*) Atti del Not. Guglielmo de S. Georgia, Reg. I, e. 246, Archivio di
Stato in Genova.
^) Cfr. Giuseppe del Giddice, Codice Diplomatico del Regno di Carlo I
e II d'Angiò, Voi. I, pag. 145 nota.
"*) Belgrano, op. cit., pag. 149 nota e pag. 259.
600 ARTURO FERRETTO
sciatori del re di Francia la nave, chiamata Bonaventura,
ch'era nello scaro di Varazze ^).
Dall'unione di Caleca Panzane con una Giovanna, di cui
non ci è noto il casato, nacquero due figliuoli, Gaspare, che
morì senza eredi, e Giacomino, al quale fu imposto il nome
dell'avo -). Caleca visse più che ottuagenario, trovandosi
menzione di lui ancora nel 1313. Ma la longevità non era il
primo caso di famiglia, giacché Corrado Panzane aveva fatto
testamento il 23 maggio del 1307 ^).
Tra i figli di Corrado merita special ricordo quel Baliano,
del quale il nostro Caleca il 21 aprile del 1277 era procu-
ratore •^). Il Baliano facea testamento il 14 aprile del 1312.
Sceglieva la sua sepoltura nella chiesa di S. Francesco di
Sestri, fondata dai suoi antenati, ne dimenticava un per-
petuo anniversario nella chiesa di S. Pietro della Porta. La-
sciava un legato a Pellegrina figlia del fratello suo defunto
Manuele e istituiva eredi le sorelle Benedetta, vedova di
Oberto Basso, abitante super ripam, e Giulia, chiamata pure
Egidia, monaca ^).
Le case di Caleca Panzane erano nella Ripa, poco lungi
dal mercato vecchio di Banchi, sotto la giurisdizione par-
rocchiale della vetusta chiesa di S, Pietro della Porta. Il P
febbraio del 1267 Giacomo Panzane, padre di Caleca, dà in
locazione a Lazaro de Ripa, drappiere, una bottega, p.osta in
Ripa que est in angulo caruhii '^) ; il documento del 21 aprile
1277 ci parla della casa di Caleca, posta in carruhio recto in
^) Cfr. Belgrano, op. cit., pag. 311.
2) Cfr. rallegato no. XXVII.
3) Cfr. l'allegato no. XXVIII.
') Cfr. l'allegato no. XXII.
^) Atti del Not. Ambrosio de Rapallo, Reg. IV, e. 4, Archivio di
Stato in Genova.
*) Atti del Not. Giberto da Nervi, Reg. II, e. 203, Archivio di
Stato in Genova.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 601
mercato veteri ^), e l'altro del 15 marzo 1313 di bel nuovo
della casa posta in Bipa -).
*
* *
Altri atti di minore importanza si riferiscono al nostro tro-
vatore e alla sua famiglia. Il 24 novembre del 1246, Giacomo
Panzane appar tutore dei figli del qm, Alinerio suo fratello e
possessore di terre e canneti in Sestri, nel luogo detto ad po-
dium ^): il 13 luglio 1251 è ex odo discretis Comunis lamie '^) ;
il 5 dicembre 1262 consegna agli infermi di S. Lazaro al-
cune somme, lasciate in testamento dal qm. Bonifacio, suo
fratello '"). Corrado Panzane l'S agosto del 1282 elegge pro-
curatori il genero Oberto Basso e la moglie Andriola *');
e il 26 agosto del 1287 è podestà di Bonifacio "). Caleca
Panzane il 13 agosto 1271 vende per lire centodue a Fran-
cesco Longo, drappiere, dodici pezze di panno di Provin ^),
e il 7 marzo 1288 costituisce una società commerciale con
Gianetto e Antonino, figli del qm. Ballano Panzane ^).
Genova, gingilo 1902.
Arturo Ferretto.
') Cfr. l'allegato no. XXII.
2) Cfr. l'allegato no. XXVIII.
■'') Atti di Notavi ignoti, Registro II, Archivio di Stato in Genova.
*) Atti del Not. Giovanni Vegio, Reg. I. Parte I, e. 94 ^o, Archivio di
Stato in Genova.
') Atti di Notari ignoti, Reg. DCXXI, Archivio di Stato in Genova.
*) Atti del Notaio Simone de Albario, Reg. I, Parte II, e. 28, Ar-
chivio di Stato in Genova.
') Atti del Not. Nicolò de Porta, Reg. 1, Parte II, e. 97 ^o, Archivio di
Stato in Genova.
^) Atti del Not. Vivaldo de Sarzano, Reg. IV, e. 224, Archivio di
Stato in Genova.
") Atti del Not. Antonino de Quarto, Reg. I, e. 109 ''^, Archivio di
Stato in Genova.
Studj di filologia romanza, IX. 38
602 ARTURO KERRETTO
^LJLEOATI
I. 1248 — 6 Luglio.
{Atti del Not. Palodino de Sexto, Reg. II, e. 29" ») (1).
Ego Marinus sparella filius qm. petri sparelle et pascha j scalla
facio. constituo. et ordiao meum certum nuncium. et loco meo pono.
fratrem luchum embronum Janue. ordine predicatorum. ad recipien-
dum et petendum prò me et nomine meo. uncias. septem auri in
angustalibus a pandulfo sparella fratre meo. qui est in galea domini
Alexandrini lanuarii prò redencione mea. et quibus liabitis et receptis.
Rogo vos dominum luchum quatinus domine Adalasie. de panzanis
lanue mittatis in scriptis publicis notarli vel in vestris sigillo vestro
munitis. prò quibus. ipsa habeat prò firmo quod diete uncie VII sint
penes vos. prò redemptione mea et inde dieta domina Adalaxia. hoc
sciverit facere me de carceribus libei-ari. Insuper rogo te fratrem
meum predictum ut viso hoc instrumento dictas VII uncias dicto do-
mino fratri lucho debeas dare sine mora, postulando a dicto domino
fratre lucho ut faciat fieri diete domine Adalasie instrumentum pu-
blicum vel scripturam sigillo prioris fratrum predicatorum roboratam.
prò quibus. ipsa domina Adalasia. certioretur quod ipse frater. luchas
receperit a te dictas uncias. prò redencione mea. quia cum citius
dieta domina A. ipsas litteras habuerit faciet me liberari et ut his
omnibus fidem plenam adhibeatis feci manu publici notarli roborari.
Testes vocati. lacobus panzanus. Bonifacius de murta. et Calecus pan-
zanus. Actum lanue in domo dicti lacobi. MCCXLVIII. Indicione quinta
die VI. lulii bora completorii.
(1) I Registri dei Notari, citati nei ventotto documenti che ripor-
tiamo, trovansi tutti all'Archivio di Stato.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 603
IL 1248 — 6 Luglio.
{Atti e. s., e. 29 "0).
Venerabili in domino fratri sacro sancte religionis predicatorum
ordinis domino lucho. embrono. lanue. Adalasia de panzanis lanuensis
cum speciali dilectione in salutis auctore salutacionem. Quando bo-
norum hominum racio. iubet prò carceratis tractare liberacionem. Id
circo supplico vestre fraternitati que eciam non rogata prò deo semper
cogitai spiritualia misericorditer operare, quatinus per galeam Ale-
sandrini lanuarii. inquirere procuretis et amicos carceratorum qui
sunt lanue. ut ipsi prò suis incarceratis debeant penes vos deponere
redemptionem. singulorum incarceratorum. et quidcquid receperitis
et prò quibus. mihi in publico instrumento scripto manu publici no-
tarii. significetis et ego cum citius hoc prò firmo habebo. faciam li-
berari illos prò quibus. receperitis redemptiones. preterea mando vobis
universis hominibus existentibus in galea Alexandrini de lanuario
quatinus. viso presente instrumento, redemptionis vestrorum amicorum
et propinquorum incarceratorum lanue. predicto fratri lucho. secu-
riter dare debeatis et ego in anima mea promitto. vobis. quod in con-
tinenti quod ego huiusmodi cartas sigillatas sigillo fratrum predica-
torum vel publicum instrumentum publici notarii a dicto fratre lucho.
quod ipso a nobis pi'edictas redemptiones receperit prefatos incarce-
ratos prò quibus redemptionem. solveritis eidem fratri lucho. faciam
de carceribus liberari. ut his omnibus fidem plenam habere debue-
ritis manu publici notarii feci scribi et roborari. Testes vocati lacobus
panzanus. Bonifacius de murta et Calecus panzanus. Actum lanue. in
domo dicti lacobi. MCC XLVIII Indicione quinta die VI lulii bora
completorii.
III. 1252 — 8 Ottobre.
{Atti del Not. Bartolomeo de Fornari, Reg. I, Parte I, e. 48).
Nos Symon malocellus et lohannes de guisulfo. confiteor dare de-
bere tibi Guillielmo de sancto ginesio. libras Mille ducentas sexa-
ginta lanue videlicet ego Symon libras nongentas sexaginta. et ego
lohannes libras tresceutas que restant tibi ad habendum et recipien-
dum de pannis et telis que fuerunt de ratione Caleche panzani quas
a te emimus et habuimus renunciantes exceptioni non habitorum et
non traditorum pannorum et telarum. quas libras Mille ducentas se-
xaginta. videlicet. ego Symon libras nongentas sexaginta et ego
lohannes libras trecentas tibi vel tuo certo misso per nos vel no-
strum missum dare et solvere promittimus a festo sancti Andree pro-
xime venturo citra in pecunia numerata, ad tuam voluntatem. alio-
604 ARTURO FERRETTO
quin penam dupli quisque nostrum prò rata sui debiti, tibi stipulanti
promittimus. prò pena vero et sorte omnia bona nostra habita et
habenda tibi pignori obligamus. et omnes expensas et missiones quas
a dicto termino in antea feceris prò dicto debito habendo vel exi-
gendo in integrum quisque nostrum prò rata sui debiti tibi restituere
promittimus credendo inde tibi tuo solo verbo sine testibus et iura-
mento. Actum lanue in porticu domus Carboni malocelli. M. CCLII.
Indicione X. die octava octubris inter nonam et vesperas. testes Fa-
ravelus cigala. obertus cigala. et lanfrancus cibo.
IV. 1253 — 2 Maggio.
(Atti e. s., Reg. IV, e. 76 "o).
Ego Caleca panzanus confiteor me accepisse et habuisse a te lo-
hanne Ascherio libras triginta unam et solidos duodecim lanue im-
plicatas in mea comuni ratione renuncians exceptioni non numerate
pecunie quas ex quo de portu lanue exiero quo deus mihi melius
administraverit causa negociandi portare debeo. babens potestatem
mittcndi ante me et post me et per riperiam Syrie quam partem vo-
luero cum testibus et faciendi sicut ex aliis rebus quas porto, cum
quibus comuniter expendere debeo et lucrari per libram.
Testes ugetus lercarius et petrinus lercarius. Actum lanue ante
domum canonicorum sancti laurentii qua habitat Guillelmus de valle
speciarius. M.CC.LIII. Indicione X. die secunda martii inter terciam
et nonam.
V. 1253 — 5 Dicembre.
{Atti e. s., e. 267 "o).
Ego Caleca panzanus filius emancipatus lacobi panzani confiteor me
accepisse et habuisse a te Symone de caritate tot denarios lanue
renuncians exceptioni non acceptorum et non traditorum ianuinorum
et omni juri prò quibus nomine cambii tibi vel tuo certo misso dare
et solvere promitto libras quingentas provenorum in proximis nun-
dinis lagneti venturis vel eo tempore quo diete nundine esse debent.
Actum lanue ante domum canonicorum sancti Laurentii qua habitat
Guillelmus de valle speciarius. M.CC.LIII. Indicione XI. die V. de-
cembris circa terciam. Testes Nicolosus grillus filius Amici grilli et
Griletus grillus frater eius.
VI. 1259 — 13 Settembre.
{Atti del Noi. Giberto da Nervi, Reg. II, e. 20 "">).
Nicoletto de Marabotto dichiara a Guglielmo Farmagno che Frexone
Malocello gli consegnò L. 9 in accomandita per negoziarle fuori il
NOTIZIE INTORNO A CAI.ECA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 605
porto di Genova Actum lanue in banco quod tenere consuevit
Guillelmus leccacorvus quondam Malocellorum. Anno domini Nativi-
tatis M.CC.LVIIII. Indicione prima, die XIII septembris inter primam
et terciam. testes Guillelmus censarius de sancto georgio et Caleca
panzanus.
VII. 1262 — 16 Ottobre.
{Atti e. s., e. 116).
Ego Caleca panzamis confiteor tibi Baliano filio panzani panzani
hanc confessionem recipienti nomine dicti patris tui me ab eo ha-
buisse et recepisse in accomendacione libras viginti quinque lanue
implicatas comuniter in mea comuni implicita renunciaus exceptioni
non numerate et non recepte pecunie et omni juri quas portare debeo
gracia mercandi quo deus mihi melius administrabit ex quo de portu
lanue esiero et ex eis comuniter expendere et lucrari per libram ad
quartam partem proficui sicut ex alia mea comuni implicita quam
portabo habens potestatem mittendi ex dieta accomendacione dicto
patri tuo ante me et post me dimittendi quam partem voluero cum
carta vel testibus. in reditu vero lanue capitale et lucrum diete acco-
mendacionis in potestate dicti patris tui vel eius nuncii ponere et
consignare pi'omitto tibi quarta parte lucri inde michi retenta. Alio-
quin penam dupli diete accomendacionis tibi stipulanti promitto prò
qua pena et ad sic observandum omnia bona mea habita et habenda
tipi pignori obligo. Actum lanue juxta domum qua habitat Rogerius
de Bennama. M.CC.LXII. die XVI octobris inter nonam et vesperas
Indicione V. testes faciolus de sancto Ginesio et Enricus teotonicus
censarius.
Vili. 1262 - 19 Ottobre.
[Atti e. s., e. llf)<'o).
Ego Caleca panzanus confiteor me habuisse et recepisse in acco-
mendacione a te Ansaldo luxio libras centum quadraginta quatuor et
sol. octo lanue que processerunt ex alia accomendacione quam a te
habui et sunt implicata in mea comuni implicita l'enuncians excep-
tioni non numerate et non recepte pecunie et omni juri. Quas por-
tare debeo causa negociandi quo deus mihi melius administrabit ex
quo de portu lanue exivero. et ex eis comuniter expendere et lucrari
per libram ad quartam partem proficui sicut ex alia mea comuni
implicita quam portabo. habens potestatem mittendi tibi ex dieta
accomendacione ante me et post me dimittendi quam partem voluero
cum carta vel testibus. in reditu vero lanue capitale et lucrum diete
accomendacionis in tua vel tui nuncii potestate ponere et consignare
606 ARTURO FERRETTO
promitto quarta parte lucri inde mihi retenta. Alioquin penam dupli
diete accomendacionis tibi stipulanti promitto. prò qua pena et ad
sic observandum omnia bona mea habita et habenda tibi pignori
obligo. Actum lanue iuxta domum qua habitat Rogerius de Ben-
nama. M.CC.LXII. die XVIIII octobris inter nonam et vesperas in-
dicione V. testes lacobus de racione et Francischinus de sancto
Ginesio.
IX. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 120).
Ego Caleca panzanus confiteor tibi Anzaldo luxio hanc confessionem
recipienti nomine Mathelini de Guisulfo me ab eo vel alio prò eo
habuisse et recepisse in accomandita libras triginta lanue que pro-
cesserunt ex alia accomendacione et sunt implicate in mea comuni
implicita renuncians exceptioni non numerate et non i-ecepte peccunie
et omni juri. Quas portare debeo causa negociandi quo deus mihi
melius administrabit ex quo de portu lanue exivero et ex eis comu-
niter expendere et lucrari per libram ad quartam partem proficui
sicut ex alia mea comuni implicita quam portabo. habens potestatem
mittendi dicto Mathelino ex dieta accommendacione ante me et post
me dimictendi quam partem voluero cum carta vel testibus. in re-
ditu vero lanue capitale et lucrum diete accomendacionis in potestate
dicti Mathelini vel eius nuncii ponere et consignare promitto tibi
quarta parte lucri inde mihi retenta. Alioquin penam dupli diete ac-
comendacionis tibi stipulanti promitto, prò qua pena et ad sic ob-
servandum omnia bona mea habita et habenda tibi pignori obligo.
Actum lanue iuxta domum qua habitat Rogerius de Bennama M.CC.LXII
die XVIIII octobris inter nonam et vesperas. Indicione V. testes la-
cobus de ratione et Francischinus de sancto Ginesio.
X. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 120).
Ego Caleca panzanus confiteor tibi Ansaldo luxio hanc confessionem
recipienti nomine heredum qm. lohannis de Guisulfo me habuisse et
recepisse ab eis vel alio prò eis de eorum pecunia in accomenda-
cione libras triginta lanue quas processerunt ex alia accomendacione
quam habui alias de pecunia dictorum heredum et sunt implicate
in mea comuni implicita. Renuncians exceptioni non numerate et non
recepte peccunie et omni iuri. Quas portare debeo causa negociandi
quo deus mihi melius administrabit ex quo de portu lanue exivero
et ex eis comuniter expendere et lucrari per libram ad quartam pro-
ficui sicut ex alia mea comuni implicita quam portabo. habens pò-
NOTIZIE INTORNO A GALEGA FANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 607
testatem mictendi dictis heredibus sive tibi prò eis ex dieta acco-
mendacione ante me et post me dimictendi quam partem voluero
eum carta vel testibus in reditu vero lanuam capitale et lucrum diete
accomendacionis in potestatcm dictorum heredum vel eorum nuncii
portare et consignare promitto quarta parte lucri inde mihi retenta.
Alioquin penam dupli diete accomendacionis tibi stipulanti promitto.
prò qua pena et ad sic observandum omnia bona mea habita et ha-
benda tibi pignori obligo. Actum lanue iuxta domum quam habitat
Rogerius de Bennama M.CC.LXII. die XVIIII octobris inter nonam
et vesperas. Indietione quinta, testes lacobus de racione et franci-
schinus de sancto Ginesio.
XI. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 120).
Ego Caleca panzanus facio eonstituo et ordino Ansaldum lusium
et francischinum de sancto Ginesio meos certos nuncios et procura-
tores quemlibet eorum in solidum ita quod occupantis non sit melior
conditio et quod unus inceperit alter perficere et exequi possit ad
petendum exigendum et recipiendum in judicio et extra omne id et
totum quod recipere debeo et debebo in futurum a quacumque per-
sona quacumque occasione et ad agendum et me defendendum contra
quamcun?que personam. excipiendum. opponendum. replicandum re-
spondendum et experiendum. pactum transactionem et concordium
et finem et remissionem facieudum et ad iura mea cedendum et dan-
dum et generaliter ad omnia mea negocia gereuda tractanda facienda
et administranda que ego facere gerere et administrare possem si
presens essem et merita eausarum et negociorum postulabunt et ad
alium procuratorem ad predieta eonstituendum Dans et concedens
dictis meis procuratoribus et cuilibet eorum in solidum et alii pro-
curatori ab eis vel altero eorum constituto in predictis omnibus et
singulis et super omnibus meis bonis fiictis et negociis plenam li-
beram et generalem licenciam potestatem et administracionem pro-
mittens tibi subscripto notarlo stipulanti nomine et vice cuiuscumque
intererit me ratum et firmum perpetuo habiturum quidquid dicti
procuratores mei fecei-int vel alter eorum vel alius procurator ab eis
constitutus fecerit in predictis et quolibet predictorum et circa ea
sub ypotheca et obligacione omnium bonorum meorum ita tamen et
hoc acto quod hec procura duret et vigorem habeat usque tres annos
proxime venturos et non ultra. Actum lanue iuxta domum qua ha-
bitat Rogerius de Bennama. M.CC.LXII. die XVIIII octubris. inter
nonam et vesperas Indicione V testes lacobus de racione et lacobus
podisius.
608 ARTURO FERRETTO
XII. 1262 — 19 ottobre.
{Atti e. s., e. 120).
Simone Calvo da Fontanegli ricove in accomandita da Valente
Osbergero L. 13 e soldi 7 di genovini, die porta a negoziare fuori
del porto di Genova Actum lanue iuxta domum qua habitat Ro-
geronus de Bennama. M.CC.LXII. die XVIIII octubris. inter nonam
et vesperas Indicione V. testes Caleca panzanus et lacobus de ra-
tione.
XIII. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 120 "0).
Ego Bovarellus de Grimaldo meo nomine et nomine luce de Gri-
maldo fratris mei confiteor me habuisse et recepisse a te Caleca pan-
zano plenam et integram solutionem et satisfactionem capitalis et
profìcui omnium et singularum accomendacionum quas unquam a me
et dicto fratre meo sive ab aliquo nostrum vel ab alio prò nobis vel
aliquo nostrum habueris et de omni eo et toto quod unquam mihi
et dicto fratri meo sive mihi vel dicto fratri meo debueris seu dare
obligatus fueris quacumque occasione bine retro preterita utrum cum
carta vel sine carta renuncians esceptioni non reddito rationis solu-
cionis et satisfactionis non facte et omni juri unde promitto et con-
venio tibi me taliter facturum et curaturum quod eontra te vel bona
tua seu heredes tuos nulla de cetero movebitur actio vel requisitio
fiet in judicio vel extra de jure vel de facto a me vel a dicto fratre
meo sive ab aliquo prò me vel eo occasione alicuius acconiendacionis
quam a me et eo sive a me vel eo vel ab alio prò me vel eo ha-
bueris usque hodie sive occasione alicuius debiti quod mihi et ei sive
mihi vel eo debueris seu dare obligatus fueris quacumque occasione
bine retro preterita utrum cum carta vel sine carta alioquin penam
dupli de quanto et quociens contrafieret tibi stipulanti promitto prò
qua pena et ad sic observandum omnia bona mea babita et habenda
tibi pignori obligo abrenuncians iuri de principali et omni iuri et
omnia instrumenta rationes et scripturas que et quas habemus ego
et dictus lucas frater meus vel aliquis nostrum et nobis vel alicui
nostrum competunt usque hodie casso et nullius valoris esse jubeo.
Actum lanue sub volta domus Oberti de Grimaldo et consortum
MCCLXII. die XVIIII octubris inter nonam et vesperas Indicione
quinta, testes Nicolaus de Riparolia. tadeus de Grimaldo et Iacol)US
de ratione.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SLA FAMIGLIA 609
XIV. 1262 — 19 Ottobre.
(Atti e. s., e. 120 "0).
Ego obertus de Grimaldo meo nomine et nepotum meorum filiorum
qm. Nicolai de Grimaldo fratris mei confiteor me habuisse et rece-
pisse a te caleca panzano plenam et integram racionem solucionem
et satisfaetiouem capitalis et proficui omnium et singularum acco-
mendacionum quas unquam a me et dictis nepotibus meis sive a me
vai eis vel ab alio prò me vel eis sive a dicto qm. Nicolao patre
eorum habueris et de omni debito et omni eo et toto quod unquam
mihi et dictis nepotibus meis sive mihi vel eis vel dicto qm. Nicolao
eorum patri debueris seu dare obligatus fueris quacumque occasione
bine retro preterita utrum cum carta vel sine carta renuncians ex-
ceptioni non reddite racionis solucionis et satisfactionis non facte et
omni iuri unde promitto et convenio tibi me taliter facturum et cu-
raturum quod contra te vel bona tua seu heredes tuos nulla de ce-
tero movebitur actio vel requisicio fiet in iudicio vel extra de iure
vel de facto a me vel a dictis nepotibus meis sive ab aliqua per-
sona prò me vel eis sive aliquo eorum occasione alicuius accomen-
dacionis quam a me et eis sive a me vel eis vel aliquo seu aliquibus
eorum vel ab alio prò me vel eis vel a dicto qm. Nicolao patre
eorum habueris usque hodie sive occasione alicuius debiti quod mihi
et eis sive mihi vel eis aut alieni eorum vel dicto qm. Nicolao eorum
patri debueris seu dare obligatus fueris quacumque occasione bine
retro preterita utrum cum carta vel sine carta alioquin penam dupli
de quanto et quociens contrafieret tibi stipulanti promitto prò qua
pena et ad sic observandum omnia bona mea habita et habenda tibi
pignori obligo abrenuncians iuri de principali et omni iuri et omnia
instruraenta racionis et scripturas que et quas habemus ego et dicti
nepotes mei vel aliquis nostrum et nobis vel alieni nostrum compe-
tunt contra te casso et nullius valoris esse jubeo. Actum lanue iuxta
domum qua habitat Rogerius de Bennama M.CG.LXII. die XVIIII oc-
tubris inter nonam et vesperas Indicione quinta. Testes Nicolaus de
Riparolia. Symon bonaiuncta et Redulfinus de Michaele.
XV. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 121).
Ego Caleca panzanus confiteor tibi lacobo de racione hanc confes-
sionem recipienti nomine Marie uxoris qm. porcheti streiaporci et lo-
hannihi eius filii me a dieta Maria suo nomine et dicti lohannini
habuisse et recepisse in accomendacione libras quinquaginta novem
sol. ti'es et denarios undecim que processerunt de accomendacione
610 ARTURO FERRETTO
quam habui a dieta Maria et sunt implicate in mea comuni impli-
cita renuncians exceptioni non numerate et non recepte peccunie et
omni juri. Quas portare debeo causa negociandi quo deus mihi melius
administraverit ex quo de portu lanue exivero et ex eis comuniter
expendere et lucrari per libram ad quartam partem proficui sicut ex
alia mea comuni implicita quam portabo. babens potestatem mittendi
predictis Marie et lohannino ex dieta accomendacione ante me et
post me dimictendi quam partem voluero cum carta vel testibus. in
reditu vero lanue capitale et lucrum diete accomendacionis in po-
testate diete Marie vel eius nuncii prò se et dicto lohannino ponere
et consignare promitto tibi quarta parte lucri inde mihi retenta.
Alioquin penara dupli diete accomendacionis tibi stipulanti promitto.
prò qua pena et ad sic observandum omnia bona mea habita et ha-
benda tibi pignori obligo. Actum lanue iuxta domum qua habitat
Rogerius de Bennama M.CC.LXII, die XVIIII octubris inter nonam
et vesperas indicione V. Testes Symon bonaiuncta et ogerius de
langasco.
XVI. 1262 — 19 Ottobre.
{Atti e. s., e. 121).
Ego Caleca panzanus Confiteor tibi lacobo de racione hanc confes-
sionem recipienti nomine Guillelmi panzani filli qm. Alenerii panzani
me ab eo vel alio prò eo habuisse et recepisse in accomendacione
libras quiuquaginta lanue quas processerunt ex alia accomenda-
cione et sunt implicate in mea comuni implicita renuncians excep-
tioni non numerate et non recepte peccunie et omni iuri. Quas por-
tare debeo causa negociandi quo deus mihi melius administraverit
ex quo de portu lanue exivero et ex eis comuniter expendere et lu-
crari per libram ad quartam partem proficui sicut ex alia mea co-
muni implicita quam portabo habens potestatem mittendi dicto CtuìI-
lelmo ex dieta accomendacione ante me et post me dimittendi quam
partem voluero cum carta vel testibus in reditu vero lanue capitale
et lucrum diete accomendacionis in potestate dicti Guillelmi vel eius
nuncii ponere et consignare promitto tibi quarta parte lucri inde
michi retenta. Alioquin penam dupli diete accomendacionis tibi sti-
pulanti promitto prò qua pena et ad sic observandum omnia bona
mea habita et habenda tibi pignori obligo. Actum lanue iuxta domum
qua habitat Rogerius de Bennama M.CC.LXII. die XVIIII octobris
inter nonam et vesperas Indicione V testes Symon bonaiuncta et
ogerius de langasco.
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 611
XVII. 1262 — 19 Ottobre.
(Atti e. s., e. 120 "0).
Ego Caleca panzanus confiteor tibi lacobo de racione hanc confes-
sionem recipienti nomine Conradini panzani fratris mei me ab eo
habnisse et recepisse in accomendacione libras centum viginti tres
solidos duos et elenarios sex lanue que processerunt ex alia acco-
mendacione quam habui de eius peccunia et sunt implicate in mea
comuni implicita renuncians exceptioni non numerate et non recepte
peccunie et omni juri. Quas portare debeo causa negociandi quo deus
mihi melius administrabit ex quo de portu lanue exivero. et ex eis
comuniter expendere et lucrari per libram ad quartam partem pro-
ficui sicut ex alia mea comuni implicita quam portabo habens po-
testatem mictendi dicto Conradino ex dieta accomendacione ante me
et post me dimictendi quam partem voluero cum carta vel testibus.
in reditu vero lanue capitale et lucrum diete accomendacionis in
potestate dicti Conradini vel eius nuncii ponere et consignare pro-
mitto quarta parte lucri inde mihi retenta. Alioquin penam dupli
diete accomendacionis tibi stipulanti promitto. prò qua pena et ad
sic observandum omnia bona habita et habenda tibi pignori obligo.
Actum lanue iuxta domum qua habitat Rogerius de Bennama M.CC.LXII
die XVIIII octobris circa vesperas Indicione V. testes Antonius podisii
et Guirardus lebierius de bobio.
XVIII. 1262 — 20 Ottobre.
(Atti del Not. Guido de S. Ambrosio, Reg. I, e. 122 "o).
^ In christi nomine. Ego Calecha panzannus confiteor tibi Guil-
lelmino de porta me accepisse et habuisse in accomendacione a te
libras quadraginta sex et sold. tredecim lanue quas dicis et esse con-
fitei'is de pecunia lacobi de porta patris tui que processerunt ex alia
accomendacione quam idem lacobus mihi fecit et sunt omnia in mea
comuni implicita implicata renuncians exceptioni non numerate pe-
cunie et non accepte accomendacionis. Quas deo propicio neapolim
et deinde quo mihi deus administraverit negociandi causa portare
debeo. habens potestatem mittendi tibi lanuam omnes vel quam
partem voluero cum testibus ante me et post me et faciendi sicut
ex aliis quas mecum porto. In reditu vero quem lanue fecero capi-
tale et proficuum diete accomendacionis in tua vel dicti patris tui
potestatem ponere reddere et consignare promitto et deducto capitali
quartam lucri habere debeo. Alioquin penam dupli tibi stipulanti
spondeo et perinde omnia bona mea habita et habenda tibi pignori
obligo. Actum lanue ante domum canonicorum sancii Laurentii quam
612 ARTURO FERRETTO
inhabitat Obertus de levante speciarius. testea Guillelmus guercius de
sancto Syro et Coiiradus sartorius. Anno dorainice nativitates MCCLXII
indicione quinta die XX. Octobris post vesperas.
XIX. 1267 — 25 Giugno.
{Atti del Nat. Bartolomeo de Fornari, Reg. V, Parte II, e. 149).
Pietro Grillo del qm. Amico riceve da Bonifacio de Tiba otto marchi
e Vi di marca di sterline d'argento, consegnategli in Messina da Gia-
comino Grillo del qm. Andrea...
Actum lamie ante domum canonicorum sancti Laurentii. Testes
Symon tosicus et Castellus calvus et Calecha panzanus.
XX. 1275 — 13 Giugno.
{Atti del Noi. Vivaldo de Porta, Reg. I, e. 480).
In sancto dei nomine. Ego Agnesia filia qm. Andree de priere de
supracevam. que habito lanue in domo Caleche panzanni. promitto
et convenio tibi Enrico tedescho pancogolo qui habitas lanue in domo
predicti Caleche. facere et curare ita et sic quod ab hodie usque ad
annos quatuor lohanninus filius meus presens et consencies et jurans
tecum stabit prò adiscenda arte tua et tibi in domo ed extra serviet...
Actum lanue in Canneto ante domum qua habitat Symon formentus
draperius. MCCLXXV. Indicione II. die XIII lunii inter terciam et
nonam.
XXI. 1276 — 11 Marzo.
{Atti del Nat. Guglielmo de S. Georgia, Reg. IV, e. 212 "o).
Ego faciolus panzannus conllteor tibi Guidoni hospinello de ovada
quod occasione manulovationis et obligationis quam mihi fecisti et
versus me te obligasti prò hospinello pastore de porta nova promit-
tendo mihi prò eo te facturum et curaturum ita et sic quod dictus
hospinellus quem meis carceribus dctinebam... dico habuisse et rece-
pisse libras quatuor, etc, etc.
Actum lanue in domo heredum lacobi fornarii Testes Calecha pan-
zannus et Conradus de murtedo executor consul foritanorum. Anno
dominice nativitatis MCCLXXVI indicione tercia die XI marcii ante
terciam.
XXII. 1277 — 21 Aprile.
{Atti del Not. Parentino de Quinto, Reg. Il, Parte I, e. IGS^o).
Ego Calecha panzannus procurator Balianni panzanni. ut de pro-
cura plenius dico contineri in carta inde facta manu pagani duranti»
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 613
notarli tam meo proprio nomine quam procuratorio nomine ipsius
Balianni loco et titulo locaeionis concedo vobis lohannino filio qm.
Guillielmi Catt'ari et lacobe matri tue usque ad duos annos proximos
venturos quamdam domum predicti Balianni positara in Carrubeo
recto in mercato veteri cui coheret retro domus filippi de murta.
ante carrube um ab uno latere domus mei Caleche prò pensione an-
nua librarum duodecim lanue de mense in mense mihi prò predicto
Balianno solvenda quam domum vobis promitto dimittere usque ad
dictum tempus et non aufferre. neque pensionem augere. sed potius
meis espensis iure locaeionis dictis nominibus defendere, etc.
Actum lanue in Caneto ante domum qua habitat Symon formentus.
Testes pascalis de oliva, et percival panzanus. M.CCLXXVII indi-
cione ITU. die XXI Aprilis inter terciam et nonam.
XXIII. 1277 — 4 Giugno.
{Atti del Not. Gio. Enrico de Porta, Reg. II, Parte I, e. 196).
Die mi lunii. Anno MCCLXXVIL
Ego Caleca panzanus confiteor tibi Enrico falabande recipienti no-
mine Nicolai de Castro Nicolai rubei et Castellini de bonifacio tuorum
sociorum me a te habuisse et recepisse libras Villi lanue prò Gato
de sancto Genisio a quo dictas libras Villi habuisti in societate ut
constat per publicum instrumentum scriptum manu nigri laurentii
pruvini. Testes faciolus panzanus. Martinus de Rapallo.
XXIV. 1279 — 23 Gennaio.
{Atti del Not. Simone de Albario, Reg. I, Parte II, e. 99).
Accordo seguito tra gli appaltatori d'una ferriera esistente nel
monte Leca del distretto di Penzolo in Lunigiana e il proprietario
di essa...
Actum lanue in porticu domus domini Bertholini bonifacii ludicis.
Anno dominice nativitatis MCCLXXVIIII. indicione VI. die XXIII
lanuarii inter nonam et vesperas. Testes dictus Bertholinus. Calecha
panzanus. Simon botagius et Balianus caffarena.
XXV. 1287 — 24 Febbraio.
{Atti del Not. Guglielmo de S. Georgia, Reg. V, e. 154).
Ego lacobinus filius Caleche panzani in presencia et jussu dicti
patris mei confiteor tibi Oberto de serra me habuisse et recepisse a
te nomine meo et sociorum tuorum libras triginta novem et sol. qua-
tuordecim lanue que processerunt de alia accomendacione et sunt
614 ARTURO FERRETTO
implicate in mea comuni implicita renuncians exceptioni non nume-
rate et non recepte pecunie et omni iuri quas portare debeo causa
negociandi in Romaniam seu quo deus... (manca il rimanente).
Actum lanue ante stacionem heredum qm. lanfranchi malocelli
M.CC.LXXXVII die XXIIII februarii circa nonam. Indicione XIIII.
Testes fredericus corrigiarius et lanfrancus lavezarius.
XXVI. 1311 — 9 Giugno.
{Atti del Noi. Damiano da Camogli, Reg. II, Parte II, e. 104).
In nomine domini Amen. Ego Calecha panzanus facio constituo et
ordino meum certum noncium et procuratorem lacobum panzanum
filium meum ad omnia mea negocia agenda gerenda et administranda
tam in iudicio quam extra et ad petendum exigendum et recipiendum
prò me et meo nomine quidquid petere exigere et recipere debeo
seu possum a quacumque persona corpore collegio et universitate
quacumque ex causa finem remissionem quietacionem et pactum de
non petendo faciendum iurari cedendum transigendum et paciscendum
et ad libellum et libellos dandum, etc, etc, et demum generaliter
ad omnia et singula faciendum que causarum merita exigunt et re-
quirunt dans et concedens dicto procuratori meo in predictis et circa
predicta liberam et generalem administracionem et liberum et ge-
nerale mandatum promittens mihi notario infrascripto stipulanti et
recipienti nomine illius vel illorum cuius vel quorum interest vel in-
teresset ratum et firmum babere et tenere perpetuo quidquid per
dictum procuratorem meum factum gestum seu procuratum fue-
rit, etc, etc.
Actum lanue sub porticu domus domini lobannis de galuciis iu-
dicis. Testes Johannes tavanus et Johannes maior de galuciis. Anno
dominice nativitatis M.CCCXI Indicione Vili die Villi lunii circa
terciam.
XXVII. 1313 — 15 Marzo.
{Atti del Not. Ambrosio de Rapallo, Reg. V, e. 3')).
In nomine domini Amen. Ego lacobus panzanus confiteor tibi Ca-
lech panzano patri meo. me habuisse et recepisse a te integram ra-
cionem solucionem et satisfacionem de dotibus et antefacto et de
extradotibus et omnibus iuribus qm. lohanne matris mee et uxoris
tue et que post mortem diete qm. matris mee cesserunt mihi et qm.
Gaspario fratri meo et post mortem dicti qm. Gasparii cesserunt
mihi soli licet tu in vieta tua deberes habere usu (fructum) de predictis
de quibus tua spontanea voluntate voluisti mihi satisfacionem facere
NOTIZIE INTORNO A GALEGA PANZANO E ALLA SUA FAMIGLIA 615
de predictis (quam) satisfactionem do predictis confiteor te milii fe-
cisse integraliter vocans me a te de (predictis) omnibus bene quietum
et solutum. Renuncians exceptioni diete racionis solucionis et satis-
facionis non liabite (et non recepte) diete confessionis non facte rei
lìt supra et infra non gesta doli exceptioni in factum et sine causa
et omni juri. unde facio tibi finem refutacionem et omnimodam re-
missionem et pactum de ulterius non petendo de predictis et de
omni eo et toto quod petere vel requirere possem in futurum contra
te vel bona tua occasionibus predictis vel aliqua de predictis liberans
te heredes et bona tua per acceptilacioncm et acquilianam super
solempnitate in verbis deducta. promittens tibi quod nulla in per-
petuum per me vel heredes seu per aliquam personam habentem
causam a me contra te vel heredes tuos vel bona tua occasionibus
predictis vel aliqua de predictis de cetero fiet lix questio peticio
seu actio movebitur in iudicio vel extra, alioquin penam dupli de
quanto et quociens requisicio fieret seu questio moveretur tibi so-
lemniter stipulanti dare et solvere promitto. Ratis semper manen-
tibus omnibus et singulis supradictis et perinde omnia bona mea
habita et habenda tibi pignori obligo. Actum lanue in domo dicti
Caleeh. testes lohannes de Urso draperius daniel pisialoyra de sexto
et thomas de condivino de sexto. Anno dominice nativitatis MCCCXIII
indicione X die XV martii inter nonam et vesperas.
XXVIII. 1313 — 15 Marzo.
{Atti e. s., e. 38 «">).
In nomine domini Amen. Ego Benedicta uxor qm. Oberti bassi et
filia qm. Conradi panzani nomine meo proprio et nomine et vice
sororis Egidie reddite in monasteri© sancti lohannis gerosolomitani
sororis mee. et prò qua meo proprio nomine promitto tibi rato ha-
bendo sub ypotheca et obligacioue omnium honorum meorum. Re-
nuncians doli exceptioni et omni iuri. vendo cedo et trado seu quasi
tibi lanoto panzano tabulam unam et pedes vivos tres prò indivisso.
prò quibus extimum et laus facta et factum fuit mihi et diete Egidie
sorori mee in domo et de domo infra coherentias que fuit dicti qm.
Conradi et Caleeh pazanorum et que posita est lanue in ripa cui
toti domui cum ambulo coheret a duabus partibus via et a tercia
parte domus leonardi panzani et a quarta parte domus Benedicti
panzani. et quod extimum factum fuit mihi et diete sorori mee seu
alie persone prò nobis tamquam in bonis dicti qm. Conradi occasione
legatorum relictorum mihi et diete sorori mee in testamento dicti
qm. Conradi scripto mauu Deodati bonaccursi notarii MCCCVII die
XXIII madii et transcripto manu lanoti deodati notari MCCCVIIII
616 ARTURO FERRETTO'
die XXV Aprilis et de quo extimo et laude plenius contiuetur in
instrumento scripto manu Rollandi Belmusti de pelio notarii MCCCX
die XV lanuarii quas partes diete domus seu partem extimatam et
in solutum mihi et diete sororis mee traditam et ipsum extimum et
eius extimi nomine meo et diete sororis mee et prò qua promitto de
rato vendo cedo et trado tibi dicto lanoto cum omni suo iure co-
modo utilitate ingressa et exitu et demum cum omnibus suis perti-
nenciis et coherentiis uti optimam maximamque esse liberam et ab-
solutam ab omni honere servitutis preterquam a mutuis collectis et
honeribus comunis lanue que et quas dictus emptor promisit mihi
notario infrascripto stipulanti recipienti nomine et vice comunis lanue
solvere et prestare prò dictis ipsi comuni et prò tempore futuro. Re-
nuncians omni privilegio convencioni et capitulo. ad habendum. te-
nendum et possidendum et quidquid de dictis rebus et qualibet... -
faciendum tamquam de re tua propria, iure proprietario et titulo
emptionis finito (precio librarum) quadringentarum viginti lanue quas
perinde a te habuisse et recepisse confiteor...
Actum lanue sub porticu domus heredum qm. Gabrielis basii, testes
Andriolus de rochataliata. danixius de Rochataliata habitatores lanue
et paulinus de rochataliata. Anno dominice nativitatis MCCCXIII in-
dicione decima die XV marcii inter nonam et completorium.
'^ LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
La Liter venuta è una commedia dialettale in versi, di
tre atti, più il prologo, in cui interloquiscono nove per-
sone. L'azione, che si svolge a Potino, castello del Sanse-
verinate, è molto semplice. Un tale Ciabó, per un certo
conto da rendere alla giustizia, è costretto a fuggire,
lasciando la moglie, Taramata, al momento dell'azione
ancora belloccia, e una figliuola, Saporetta, già da marito.
Per gli intrighi di due vecchi lenoni, riusciti a dar credito
alla voce che Ciabó fosse morto, a via di tranelli, si com-
bina il matrimonio di Prito, vecchio, con Taramata, e di
Gaudenzio con la figlia di lei, Saporetta. Tutto è già pronto
per le nozze, ser Ciappelletto ha di già steso e comunicato
l'inventario degli oggetti dotali, quando il ritorno di Ciabó
manda in fumo le nozze dei vecchi e affretta quelle dei
giovani.
Sul breve canovaccio, l'oscuro poeta intesse i tre atti
in 2486 versiceli ^), prolungandosi in luoghi comuni. Pure,
qua e là palesa una certa acutezza d'ingegno nel valersi
delle industrie drammatiche. L'inventario di ser Ciappel-
letto non manca di arguzia; la catastrofe, per quanto vec-
chia, non cade nel banale; il Sere è una bella macchietta ^);
') Versi: Prologo, 76; Atto I, 506; Atto II, 1030; Atto III, 874.
Totale versi 2486.
^) Uno dei mezzi usati da Ser Ciappelletto per darsi importanza sta
nell'uso di frasi latine che sono spropositatissime. Cf. II, 314, IODI,
1002, 1030; III, 817, 859.
Stu/fj di filologia romanza, IX. 39
618 G. CROCIOM
Scuffiotto e Crescenzio, rimbambiti che la fanno da savi,
secondano qualche favilla comica. Fino i nomi degli inter-
locutori sanno un cotal poco di comicità ^). L'autore, nella
dedicatoria, di tra le nebbie dei complimenti, si compiace
dell'opera sua, e nel prologo si lascia dire che ormai " vo
comenzare a fa quae facenna „ , dandosi cura di annunziare
che questo è " il primo parto uscito „ dalla sua fantasia.
Pure non istà qui il pregio della Commedia e del Poeta.
Questi non è un pretenzioso che si butti al vernacolo per
un capriccio e senza preparazione. Dello studio che egli
ha durato intorno al dialetto o della conoscenza acqui-
sita per pratica, traluce la riprova luminosa, più che
dalla costanza delle leggi dialettali, raramente violate, da
una serie ininterrotta di frasi e di atteggiamenti del pen-
siero popolare anche oggi vivi e fiorenti sulle bocche del
popolo. Tanto che, se io non m'inganno, viene da ciò alla
Commedia qualche maggiore importanza, per essere non
disutile a uno studio, necessario alla compilazione della
grammatica e del dizionario italiani, per cui si stabilisca
quanta parte di locuzioni, oltre che di parole, sia venuta
ai classici che la Marca ebbe né pochi né trascurabili, dal
dizionario marchigiano, ricco di accenti originali ed efficaci.
Vero è che talvolta il Poeta camuffa coi cenci del dialetto
frasi e parole che, pur così travestite, si riconoscono let-
terarie, non altrimenti che, di sotto ai brandelli, chi nacque
e visse persona civile ; ma questo è caso raro, appetto alla
*) I più parlano da sé. Per gli altri osservo : Strina = brina ; Ciahu
(mareheg. cia?nwMO«o, abr. cmòfto^^e. Finamore, Vocàb. dell'uso abruz. Gìtik
di Castello, Lapi, 1893 (2* ed.), p. 164), uomo tozzo ; Taramata vale
tarmata (con epentesi), cioè butterata (Cf. Manuzzi s. tarmato, che
sull'autorità del .Saltini attribuisce la parola ai romani, io infatti la
trovo viva a Velletri; e cf. la descrizione che ne fa l'A., II, 512-30);
Patarachia, cf. Gloss. (non so perché stia fra i nomi propri); Prifu = in-
tero (Marcoaldi, Guida e statistica della città e comune di Fabriano, III,
Crocetti, 1877, p. 166; Leopardi, Un altro tegamino di fagiuoli. Città
di Castello, Lapi 1891, p. 31).
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 019
ricca profusione della parlata genuinamente popolaresca,
in grado, qua e là, di arguzie, a volte un po' volgarucce,
talora anche vivaci e frizzanti ^).
E questa perizia nel maneggio del dialetto non ci reca
più meraviglia di sorta ora che, nel rivedere le prove di
stampa, veniamo a conoscere un'altra parte della conside-
revole opera letteraria del nostro autore, Francesco Bor-
rocci, oscuro e bizzarro poeta, che dovette, a suo tempo,
parere un novatore -) e godere di una certa gloriola al-
meno paesana ^). Di lui, infatti, si dice in un codice cin-
quecentino della Biblioteca comunale di Macerata '^), che
componeva commedie dialettali dette Intervenute o, dal
nome dell'autore, Borrocciate, di alcune delle quali ci con-
serva tuttora i prologhi il detto codice, ricco pure di una
*) Per tale riguardo la Com. sembrami veramente utilissima allo
studio cui si accenna, e che non si è voluto iniziare qui per non riu-
scire troppo incompleti. Da uno spoglio accurato della Com. si ricava
di frasi e 'ocuzioni popolari assai più che non s'aspetterebbe. Dove
la sintassi del testo parrebbe meritare censura dal grammatico italiano,
è scusata, il più delle volte, dalla grammatica del dialetto. Quasi co-
stante è l'uso della S^ sing. per la B"- pi. (pr. 39, 42, 71 ; I, 94, 95,
330, 331, 365, 472-73; II, 165, 174, 176-77, 178, 181, ecc. ecc.); molti
altri fatti notevoli della sintassi dialettale, se non sono costanti, poco
manca. Qualche fallo, assai raro, si incontra nei fenomeni metafo-
netici, ma bisogna notare che lo scambio, in tal caso, era più che
perdonabile a chi non ne aveva che una oscura intuizione empirica,
se neppur noi siamo giunti ancora per intero a disciplinarli.
') Che io sappia, nessuno dell'Italia centrale erasi valso del puro
dialetto in intere scritture drammatiche, ma solo per brevi passi, o
per dar la parola, con maggiore verosimiglianza, a qualche interlocu-
tore. Si veda in D'A>-cona, Origini, il cap. sulla lingua delle rappre-
sentazioni, e in Gaspary, Storia d. lett. it., voi. II, p. II, pagg. 258-59,
268, 276-78. Per altre regioni cf. Fr. Flamini, Il cinquecento, 301 e segg.
^) Lo prova il titolo di Borrocciate, dato alle commedie da lui
composte.
*) È miscellaneo, di f. 125 (42 X 13), sciolto, in passato colla se-
gnatura: 5. E. 18; oggi, secondo il catalogo del Mazzatinti, segnato
col numero 550.
620 G. CROCIONI
commedia che s'iscrive : " Commedia del signor Frane."*
Borrocci, detta l'Intervenuta, ri citata l'anno 1591 „ ^).
Il dialetto, il metro, lo stile, non meno che la data, il
titolo, il numero degli atti e altre concordanze di pensiero
e di forma, ci rendono quasi certi che le due commedie
provenissero da uno stesso autore, e ci aiutano a interpre-
tare la firma in fondo alla dedicatoria " F. Dom.<'° B. „,
che poco 0 punto temiamo di leggere : Francesco Domenico
Borrocci -). Chi egli fosse ci dirà forse lo studioso che
indagherà negli archivi di Cingoli ^) ; noi altro non sap-
piamo di lui oltre a quanto ricavasi dal codice menzionato ;
da un'ispezione accurata del quale abbiamo fiducia di trarre
argomento a parlarne più completamente '^).
Poco c'importa del destinatario, un M. R. S. Theofilo
Nicolò di Serra San Quirico, sacerdote, a quanto pare,
con qualche boriuzza di minuscolo mecenate.
^) Debbo questa indicazione alla cortese amicizia del Dr. Giovanni
Spadoni, che di questo codice fece, ad altro proposito, un cenno nella
Provincia Maceratese, an. VII, n. 368 (30 luglio 1901). Egli mi comu-
nicò anche alcune scene di questa commedia, e luoghi scelti dai pro-
loghi, sufficienti al confronto che istituisco.
^) Perché egli si aggiungesse qui il secondo nome di Domenico, non
è facile dire; ma il fatto non par che possa infirmare la identifica-
zione. Il Dr. Spadoni già mentovato, mi fa sapere che, avendo letti
gli elenchi originali degli accademici Catenati di Macerata, non vi
ha trovato il nome del nostro poeta; vi ha incontrati, invece, quelli
di due altri Borrocci, Cesare ed Alessandro. Che l'uso del dialetto
spiacesse ai signori accademici?
^) Che il Borrocci fosse di Cingoli non pare che debbasi dubitare.
Poteva egli usare così a lungo, in componimenti che tornavano al
popolo, altro dialetto che non fosse il nativo?
^) Sino ad ora io non ho potuto vedere il codice. Il quale, però, è
noto già agli studiosi per le Ottave alla Cingulana ridiculose et belle
fatte da un cingolano (cf. S. Ferrari, in Ardi. st. per le Marche e per
l'Unìbria, voi. IV, fase. XIII-XIV, pp. 339-355), alle quali sospettiamo
non fosse del tutto estranea l'opera del nostro poeta. Ma di ciò
altra volta.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 621
Molto maggiormente preme invece agli studiosi il sapere,
se la Commedia sia realmente " alla cingolana „ come
annunzia il frontespizio. E qui ci crediamo fortunatamente
in grado di una risposta sicura.
Oltre a pochi stornelli e proverbi di Cingoli ^), troppo
brevi e scoloriti per giovarsene in un paragone rigoroso,
conosciamo in quel dialetto la traduzione della famosa
novellina boccaccesca -), una mattinata stampata da A. Leo-
pardi ^) e altre mattinate, di molte diecine di versi, suf-
ficienti allo scopo *').
Chi ha lette le Mattinate potrebbe alcun poco dubi-
tare della loro parentela con la Commedia; ma l'esame
fonetico di questa, rigorosamente condotto a riscontro di
quelle, troppo lunghe, polite e regolari per essere parto
genuino della scapigliata fantasia popolaresca, ci per-
suade che la differenza, notevole a prima lettura, si ri-
duce a pochi scambi, da imputare al tempo o anche alle
disformità del dialetto cingolano. Assicura infatti il Raf-
faelli °), non senza un po' di esagerazione, che " questo
^) Gli stornelli in A. Gianandrea, Canti popolari marchigiani. To-
rino, E. Loescher, 1875, pp. 6 n., 131 n. Altri non ne ho incontrati ;
ma può darsi che si trovino nel testo non contrassegnati coll'indi-
cazione della provenienza. I proverlji in Nuova Rivista Misena, dir.
dal cav. Anselmo Anselmi, an. II, n. 8, p. 130; n. 11, p. 178; n. 13,
p. 210 ; n. 14, p. 223.
^) Papanti, 254-55. È del March. F. Raffaelli che dà pure qualche
notizia del dialetto, pp. 255-56.
^) A p. 74-75 del voi. Sub tegmine fagi di A. Leopardi. Lapi, Città
di Castello, 1887. Editore è il Raffaelli di cui alla n. seg.
^) Saggio di mattinate nel parlare di Cingoli nelle Marche provincia
di Macerata, edito con note dal Marchese Filippo Raffaelli, bibliote-
cario della Comunale di Fermo. In Fano, pei tipi di V. Pasqualis
succ. Lana, an. M.DCCC.LXXX (Nozze Puccetti-Castiglioni). Il Mar-
chese appone molte note alla buona. Vedasi anche : Raffaelli, Terza e
quarta mattinata nel parlare di Cingoli {1882), (Nozze Trevisaui-Baccili).
Cf. PiTRi;, Bibl. 139.
^) In Papanti, 255.
622 G. CROCio.Ni
dialetto varia assaissimo secondo che s'avvicina alla parto
montana del territorio, o, per l'opposto, scendendo alla Marca
si avvicina a Macerata ed a Iesi „. Tra le differenze cui
accenna, il Raffaelli non pone veramente lo scambio delle
liquide negli articoli {Comm. lu li, la le, Matt. hi ni w, la
ra a ecc.); ma, oltre che al tempo, un tal fatto si potrà
imputare a un'irruzione dei vernacoli finitimi che accol-
gono e svolgono Vr dell'articolo più ampiamente, (ed anche
a un'arbitrio dello scrittore lontano dalla patria), giacché
la fonetica della Commedia risulta concorde con il resto
delle Mattinate, meno lievissime differenze. Oltre a tutte
le concordanze vocaliche e consonantiche, termine fisso del
paragone, piacerai segnalare l'avverbio janata di oscura
etimologia, che il Raffaelli dice " proprio del parlare
cingolano „ , e gli avverbi miecco, miello, miesso " propri „
anch'essi del dialetto di Cingoli, tutti frequenti nella Com-
media. Non è poi da trascurare menomamente il pieno ac-
cordo dei fenomeni metafonetici, non ostante qualche di-
vergenza assai lieve nell'edizione delle Mattinate ^).
Nel caso contrario rimarrebbe inesplicabile come l'A.
osasse ingannare i lettori, asserendo nel frontespizio e nella
dedicatoria di scrivere " alla cingolana ,,. In conchiusione
crediamo non si debba dar luogo al minimo dubbio sulla
determinazione del dialetto, e lo riteniamo genuinamente
cingolano o di paese molto vicino ed affine.
Il Poeta nel frontespizio annunzia di scrivere " in sdru-
zolo „; ma se " sdruzolo „ volle dire sdrucciolo, non v'è
frontespizio più fallace di questo ; nella dedicatoria il verso
è detto " sgroboloso „, ma la parola è oscura, se non vo-
gliasi credere che il Poeta chiamasse " scrupolosi „ versi
') Es. quista 5 per questa, ma nella Comm. abbiam il contrario : questo
per qiiistu una volta o due. Nelle Mattinate, Dea, 10, ecc. dove nella
Comm. Dia, ma qui abbiamo meo, e ciò per il fatto fonetico basta ;
nelle Mattinate: stai, sai, mai, nelle Comm. sta', sa', ma', senza la
esclusione delle altre.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 623
che corrono liberamente senza regola fissa di accento, di
rima, di numero e di misura. In realtà essi sono, la mag-
gior parte, settenari per lo piìi piani, spesso tronchi, rara-
mente sdruccioli ; accolgono un discreto numero di ottonari
e di novenari, ed anche di senari, quinari, quaternari, e
fino di ternari ^) e di binari -), in regola con la rima. In
tanta licenza, si potrà dire soltanto che il Poeta, messosi
sulla via di una commedia " ridicolosa „, non si è conten-
tato di fatterelli, se " avenuti „ ^), non poco piccanti, e
della briosa veste dialettale, ma ha voluto, aggiungendo
libertà a libertà, sbizzarrirsi in una fuga veramente sdruc-
ciolevole di parole rimate, col solo intento di periodi nume-
rosi, ottenuti con la fusione di versi brevi che non toccassero
la gravità dei nostri versi maggiori ^). Difficilmente si
riuscirà a intravedervi altro intento, per quanto quello
proposto s'abbia da credere non sempre, né interamente,
raggiunto.
Poche cose dirò della rima nella Commedia, per essere
di età assai tarda (1606), e di natura popolaresca, lon-
tana dalla correttezza lirica. Non segnalo le rime di o con o
e con p, di e con e e con e ; quelle uguali, che non sono
molte, 0 quasi uguali, che sono meno scarse, né quelle
ridotte alla regola con qualche licenza. In generale il Poeta
cura l'esattezza della rima, senza stento, perché ne ha in
abbondanza, contentandosi, ordinariamente, della prima che
gli capita; non bada alla ripetizione delle rime e nemmeno
delle parole. Anzi spinge tant'oltre la noncuranza che piìi
volte le rime da due salgono a tre °) e anche a quattro ^),
e si dà persino luogo a bisticci come questo: accordasse:
') I, 144, 386, 476; II, 44, 593, 799; III, 290, 677, 767, ecc.
') I, 385, binario piano; qua eia alcuni binari tronchi, cioè ternari.
') Nel frontespizio ; nella dedicatoria " occursi „ .
*) Sono endecasillabi i 2 versi dello stornello, II, 605-6.
•') T, 181-83, 396-98. 489-91; TI, 180-82, 364-66; ITI, 787-89, 814-16.
'■■) III, 81-84, ecc.
624 (;. CKOciiiNi
esse : stesse : menasse : sapesse (II 39-44). Altro volte la rima
è lasciata in sospeso, non solo in principio o in fine di
atto o di scena ^), ma anche nel mezzo del periodo -).
Nella serie delle rime imperfette è da fare più di una
distinzione. Ve n'ha di irregolari per oscillazione dell'-H
coll'-o ^), dell'-e coll'-i ■^), e dell'-a coU'-e '"), da attribuirsi,
nella maggior parte, a svista più che a inesattezza di rima.
Con queste mandiamo anche le seguenti, irregolari più in
apparenza che in realtà : I 28-29 : cosa : noiusa (leggerei
addirittura noiosa, come vuole la regola, § 9, ma il cod.
piega più all'?* che all'o), I 230-231 : nuelle : coeglie, I 829-330 :
coeglie : belle; ma più volte (I 445-46, 471-72, II 200-01 ecc.)
esattamente coelle; I 305-306: ecchie: reggie cioè ' recchie ' :
cf. § 45; II 149-150: dota: olla, cf. § 42; III 212-213:
ralegrassi: pasci, cf. § 37 ; III 574-575 : vacca : aqqua che può
anche mandarsi fra le assonanze; III 682-683: cosa : spusa.
Altre se ne contano, vere assonanze, che hanno sempre
conteso un lembo di terreno alle rime propriamente dette '^) ;
ed altre vere consonanze ^), non del tutto inopportune in
un componimento che torna al popolo. Sono immeritevoli
di qualunque giustificazione: caìisa: scusa II 473-474, che
potrà, tutt'al più, essere una rima d'occhio ; stizata : cosa
II 772-773 da aggiustare forse con stizosa; terra : fi ur)
II 27-28; fiorini : tirri II 31-32, e pochissime altre da porre,
') Pr. 1, 76: I, 1,26. 27, 404; II, 1, 6; III, 161, 505, 629.
') I, 284, 341, 399; II, 27, 28, 31, 32, ecc.
3) II, 33-34, 125-26, 387-88, 694-95, 798-99; III, 518-19, 554-55, 859-60.
*J ir, 407-8, 180-82, 516-17.
^) III, 141-42.
'') Pr. 66-7, uccursci : tutti; 12-Z, 2)iucere : vene; II, 149-50, dota: olia,
cf. § 42; 320-21, fascie: nasce; 356-57, mene : fede; 374-75, signora :
corona; 605-6, rosa : gioca (stornello); 616-11, cacastraccia : pataracchia ;
754-55, Astorggiu : accorda; 111,49-50, figliolo : troo; 145-46, hora : bona;
400-1, festa: balestra; 441-42, segna : prena ; 564-65, festa : fene.-itra.
') I, 40-1, legeru : piiru; 82-93, fecatelUi : qitillu; II, 520-21, botenello:
capillo; III 451-52, igna : pignu.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 625
più tosto che fra le rime errate, fra i versi die 1' autore
lasciò varie volte sospesi nelle fughe dei suoi settenari.
Il cod. (12 V2- 9) è in 16°, di carte scritte 111 non num,
(p, 1 front. ^); 2-3 dedicatoria; 4-7 prol.; 7 elenco degli
attori; 8-29 atto I; 30-73 atto II; 74-111 atto III). Nel
dorso (cm. 3) è segnato : Coniedia (ree. 80 ' Biblioteca comu-
nale Serra Sanquirico ' 2) ; è di carta filigranata, con varie
marche, tra le quali si riconosce il giglio (e. 12), numerata
antecedentemente in senso contrario, forse per un cod. in 8°;
polito, ben conservato, ricoperto di pergamena (cm. 13. 9 ^U)
scolorita. La scrittura, corretta, abbastanza chiara, tutta
di una mano, è la corsiva ordinaria. I versi uno per rigo.
Le pagine hanno il richiamo di scrittura che anticipa sempre
qualche parola del testo, non mai, se vi s'incontri, il nome
dell'interlocutore, posto nel margine sinistro all'altezza della
prima riga.
Certe correzioni di pura forma {jente per gente) ripetute
più volte; il trovarsi il cod. nella patria del destinatario;
certe parole della dedica sulla scarsa bellezza del libro,
fanno sospettare che questo sia autografo. Ma la cosa non
è facilmente dimostrabile, e non manca qualche ragione
del contrario.
Ci liberiamo qui da alcune scorie della grafia, per non
rischiare nella fonetica di correr dietro alle ombre.
Apostrofo. L'hanno d'ordinario le parole che finiscono in
consonante: un\ ognun , ben', fin', ven', ser', par', secur', ecc.,
siavi stata 0 no l'elisione; le prep. a', su'; le cong. e', 0';
l'inter. pe' ; le forme verb. va', so'; non l'hanno molte forme
che lo richiederebbero ; né l'hanno i due tipi ntenno, rtroo.
Quasi a modo d'abbreviazione è usato in parole come
^) Per lo stemma tracciato qui a penna si veda il frontespizio,
^) Ben presto del cod., che seguirà le sorti delia biblioteca in ven-
dita, si perderanno le tracce, ove qualche biblioteca dello Stato non
si affretti a registrarlo fra i suoi manoscritti. Vana è stata qualche
pratica da me iniziata.
626 G. CROCIONI
a conciare, a'frittu, a'mazà, a'niazatu, da'cordu, o'si'i per
ossH, ecc. nelle quali scusa la doppia.
Noi lo limiteremo all'uso moderno, ponendolo anche là
dove il Poeta l'ha, involontariamente, tralasciato ^).
H. Uso incerto. Può dirsi, in linea generale, che, oltre ai
casi dove è o si crede etimologico, si annette a monosillabi
vocalici bisognosi di una distinzione: è {he)^ vuole {o,ho), a
(spesso ha), ha (a, ha), oh {o, ho, oh), ah {ha, a), ecc., come
si vede, senza costanza. Le grafie che, chi e ghe ghi lo
estendono a cha, cho, gha, gho, ecc. Sarà lasciato dove si
trova, non producendo confusione.
Segni ortografici. Non altri che l'apostrofo e l'accento
(sempre acuto -) e un po' abusato), tra i quali, a volte, è mal-
sicuro il sentenziare, e il segno, non frequente, dell'abbre-
viatura. Si è rispettato l'accento, solo aggiungendolo dove
era stato casualmente omesso.
Segni di punteggiatura. Alquanto capricciosamente usati,
incontriamo . : ; /^; il ! par sostituito dall'", quando non
è omesso. Ridurremo tutto all'uso moderno. Così disgiun-
geremo 0 congiungeremo, secondo i casi, alcune poche
parole che l'A. abbia trattate irregolarmente. Es. ben cun-
') Per mettere in avviso il lettore trascrivo fedelmente alcuni versi
della Commedia:
I. 21 : lu oglio gì a' troa
22: e' glie rascionaró.
36: non pozo fa' ste proe.
52: po' so' dannu.
62: l'homu quanno s'nvechia.
70: voglio gì" a' troa Pritu.
72: sa' pili che nisciun' altru.
134: n seme co la ergogna.
141 : Gaudentiu n' quae modu,
142: strigni pur' lu nodu.
180: pe' so' che non se crede.
^) Rispetteremo l'accento usato dall'A. non solo nel testo, sì anche
negli esempi che ne trarremo per lo studio della fonetica.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 627
irati (II 53) scriveremo be ncuntrati; van malora (II 708)
va n malora ; eh' hautu (1465) ch'ha utu, ecc., rispettando
scrupolosamente la lettera del testo ^).
G. Crocioni.
') Cito qui una volta per sempre alcuni opuscoli di poesia dialet-
tale marchegiana, ai quali sono spesso ricorso per i confronti. A. Leo-
pardi, Un altro tee/amino di fagiiioU. Città di Castello, Lapi, 1891 ;
A. Mazzagalli, W artra sgiiitarrata. Recanati, Simboli, 1889; V. E. Alk-
ANDRi, Venti sonetti in vernacolo sanseverinate, 3* ed., Foligno, Campi-
telli, 1888 ; V". BoLDRiNi, Crescit eundo. Sonetti in dialetto inatelicese. Ma-
telica, Tonnarelli 1891; G. Vviocxccnui, Scenette popolari {à\^\. di Pau-
sola). Civitanova-Marche 1899 ; Raffaelli, cf. p. 599 e n. Cito, sebbene
incompiuto, il Vocabolario metaurense di E. Conti. Cagli, Balloni, 1898;
inoltre la nota Raccolta di voci romane e marchiane ecc. Osimo,
MDCCLXVIII; il Dizionario anconitano-italiano per uso delle scuole
elementari... compilato dal maestro Ldigi Toschi (la sola parte I). Castel-
planio, Romagnoli, 1889; e i Vocaboli del vernacolo fabrianese inseriti
nel voi. Ili della Guida e statistica di Fabriano di 0. Marcoaldi. Fa-
briano, Crocetti 1877. Ricorro spesso al Vocabolario dell'uso abruzzese
compilato da G. Finamore, sec. ed. Città di Castello, Lapi, 1893 ; e a
Il Dialetto e la Etnografia di Città di Castello... di B. Bianchi. Città
di Castello, Lapi, 1888. Mi giovano anche alcune scritture marclie-
giane inedite o edite in giornaletti ; e sopra tutto la conoscenza del
nativo dialetto di Ai'cevia.
628 G. CROCIOM
FONETICA
Vocali toniche.
A. — 1. Intatto. Da attribuire a livellamenti analogici:
a) i gerundi penzenno II 682, tramenno II 866, affannenno
III 188, troenno III 189;
p) l'imprf. hurlesse III 272;
Y) gli imperai staate pr. 2, 30, 49 ecc., daamo III 749,
daamola II 949; ai quali si ricongiungono daenno II 809, staete
III 703');
ò) le forme tenate III 480, mettate II 885, sentate pr. 50,
75, venate III 779 ;
e) ed anche le l'' pers. pi. accittima pr. 67, nvecchima III 527,
miritima IH 644, ecc., cf. § 90.
Anche qui aìegro, pr. 68, III 212, 372. -aeid -aria. I due ri-
flessi: notariu III 391, 377, variu II 893, nventariit III 390, 376;
e penzero III 601, lezeru I 40, forestere III 663, lettera pr. 35.
2. E, lungo, I, breve, i per gli eflfetti di -i e -u : cri, cridi
III 194, II 441, rina reni III 444, mico (mecoti) I 837, ticu
(tecum) I 465, dillu III 392, tridici II 46, quiti pr. 2, viro I 324,
^f?« II 631, ntiso I 151, ^;'/s?f III 328, spiscl II 243, pilcine II
269, puiritti I 204, sulittii I 98, saputillittu I 457, dicisci I 222,
sopisci 1 223, credisci I 154 ; t;? (vides) I 209, cosigli^ II 95,
discignu II 36, strittu II 860, ?wtsso pr. 27, ws?^ I 278, prumistu
III 13, fZ/«o II 23, ma^^^■«^f I 458.
3. creditu II 120, mene I 125, ^ene I 124, della 110 ; e^r^o
eco III 363, I 207, 332, metta II 155, malletta II 784, stretta I
152, promesta II 792, (??<esse III 261, nseme I 134, II 629;
stregue pr. 40.
*) Nei Documenti volgari maceratesi editi dal eh. sig. L. Colini-Bal-
DF.scHi in Riv. d. Bihl. e d. Arch., voi. X, un. X, n. 5-6, doc. XVI
trovo faite.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 629
4. All'analogia dei maschili dovranno imputarsi : quita I 217,
{aquifare II 770), assigna II 998, ditta III 472, vidua II 927 ;
all'analogia dei femminili : malletto I 162. Sono forme neutre :
quesso I 146, quello pr. 47, anche se in funzione di maschili.
5. E, breve, i (es) I 160, 165, II 143 e altrove, per ridu-
zione da ie ; tri (eras) III 610, 673.
6. versu pr. 75, traersu pr. 74, momentu I 32, pettu I 409,
l'ervellu pr. 14, frateìki pr. 15, fecatellu I 92.
7. dece II 33, de (dedit) II 28, vene pr. 73, II 661, tene
[I 321, pe (fede) II 829 ; ridenno pr. 70, esse I 27, ntenna pr. 83,
certe I 66, jente I 9, altramente pr. 12.
8. 0, lungo, U, breve, u per -«e -u: masearuni II 560,
castrimi II 561, spusci III 534-35, dutturi II 220, duluri II
821, nvidiusci HI 794; cunusci I 103, 161, II 541, respusi I
491 ; spnsii III 73, jìensusu pr. 18, capricciusu pr. 19, pilusu I
106, murusu I 311, /ma pr. 44, 55 ecc., t;e«a pr. 54, connutti pr. 51,
uccursi pr. 66, funnu II 207, tunnu III 418, giuntu II 716, rw^iw
III 394, mw/io I 217, 246, III 318, (^?*i)j9m II 846.
9. furiosa II Q^, rapaciosa II 512, 6aos« II 513, spenzerosa
II 364, sola I 121 ed anche gió III 569, miquagió III 167, /er-
sora III 427, corno I 16; so (sum) I 17 e passim, to I 218, II
337, III 341, so suo I 52, II 697, III 340, gionte II 78, mponta
II 138, mpóntacese II 151, ogne (ungere) II 803.
10. connutte II 637 o è semplice concessione alla rima, o è
riconiata sul maschile; come noiusa I 29, se pure non s'avrà da
leggere -osa (del che non sono certo), perché in rima con cosa.
11. 0, breve, bua pr. 45*); cuntu I 325, cunti II 38,
lunghi II 6f.
12. proa II 200, leìizola I 199, fora 1 354, forscia II 157,
forza 1 129, ecc.
13. Ora in ogni 1 58, ora in ugni II 571, 708, ecc., si ri-
flette oMNis. Notevole mustra III 566, diffusa tutt'ora per tanta
parte della Marca, e ben documentata sin dall'antico, cf. Salvioni,
Pianto, 9 e n.
*)È dell'Umbria e della Toscana. Cf. Bianchi, Dial. ecc., 26. Nella
Com. e solo pi., come in Arcevia, a Città di Castello e altrove ; il
Bianchi lo ti'ova usato al sing. in S. Angelo in Vado, ma si dovrà
attribuire all'influenza del pi.
630 G. CROC IONI
Vocali atone.
A. — 14. Protonico. Aferesi : ìtto avuto III 354, 540 e
anche I 465, murusii I 311, ralbarda alabarda I 421, e stianvi
anche spettavo II 750, scoUare II 438.
15. Noto i futiiri : stroaró I 434, rtroaró II 195, rparlaró
II 18 e 421, spettavo II 750, rparlarmia III 155 ; e di fronte a
sarrà I 84, serrò I 9, 86, e sirria I 273; e l'iniperf. gabbarla
II 183.
16. Finale. Sopravviene in bua 45, nua 55, vua 54, e nelle
prime persone plur. § le; si conserva in oltra I 85.
E. — 17. Protonico. Afei'esi : suto essuto II 319.
18. Iniziale e interno ora si conserva, ora viene ad i. Resta,
d'ordinario, nei prefissi de- e re-: desgratiatu I 176, delaniata I
217, despera I 226, deletta I 323 (ma discritió II 485, e -one I
281), retini I 25, rechede I 179, resenta II 617, recea II 823,
reedecce II 1028, recrescesse III 98 ; nei fatt. saperd I 19, hqerd
I 20, vedere I 284; nelle parole prescione I 98, fenestra I 358,
secur II 411, megliore II 389. Per i- ci. § 25.
19. Ma assai spesso in /: cinutu I 89, rvinutu III 734, 746,
nisciunic I 178 363 (e anche nesciuno I 179), svintiiratu III 604,
intura I 101, biatu III 287 (e anche beatu I 78); sintutu I 227,
gintilezza II 547, iniria III 594; accittima pr. 67, pariria I
"196, puirittu I 501, appititu II 752 ecc.
20. Notabili le assimilazioni: Sarafinall 7S0, pataracchia 11
677, ncollord III 267, -atu III 268; le sincopi: piiscione II 221
(possessione), maldittu III 149, 175 ecc. e malletto 1 162.
21. Postonico. Interno: sentatiluipv. Ih, poirul 405, dam-
milu II 651 (che veramente è da un mihi), patritu II 487, geniro
III 722.
22. Apocope, discritió II 485, rasció I 455, custió 1 456,
coW II 556, 2^''' padi-e II 584, comma III 67, j^jerso II 849, gagli
III 411, ^e (pede) II 829, ma male III 740 (e cam^jrf[ne?j III
442); e negli infiniti: da I 352, sta I 353, manca I 333, /(f I
334; haé 1 350, so^^e I 448; torce I 312, rescote II 37, ^jert^e II
120; di I 368, rmi/ 343, mori 1 369.
' LA INTERVENUTA KIDICOLOSA ' ()31
I. — 23. Pro toni CO. Aferesi o mezza aferesi nel tipo in
+ cons. : ncomenzare pr. 21, ntenna pr. 23, ntricu pr. 17, mpresa
I 4, nguenaglia III 235 ; strumento III 365 ; stu pr. 17, 24, sit 1
312, sa I 221, III 134, che hanno pure le forme intere istii T
435, issu I 278, 490, essa I 215.
24. Sono desfni di nota nitiu III 540 (indicitim), nijnd II
844 (in-divinare), forme terziarie (nd -nn -n), e nome II 1016,
III 543, per in nome, che si sente tuttora nella Marca e si scrive-
rebbe più esattamente n nome.
25. Interno. Spesso e: hesognato pr. 4, 1 38 ecc., besognaria
II 638, despiace 1 308 e III 332, deferentia II 57, cettadini II
176 e II 959, lenguetta III 414, lecentid III 846; senterd pr. 71,
ereta II 103, veretd II 788, agnelecata I 216, gioenette II 244,
rasomeglid II 248, ecc.
26. Pel tipo rtogliesse I 130, rveni I 343 ecc., cf. § 15,
Ascoli, Arch. gì. I 531, Bianchi, Dial. 21, e n. 20.
27. Postonico. Interno: ordene I 44, desordeìie I 45, jì^^-
tene III 417.
28. Finale, ce pr. 50 passim, stoce II 606, scusatece pr. 44,
reedecce II 1028, proedecce I 136; te I 73 passim, sentitte I 90,
jìarte I 373; me I 13, 31 ecc., lassarne I 253, 402 ecc., ve II
822, 1017, se pr.; 61, de I 33 passim; cettadine II 4:20,fiurme III
222, «;jcme III 653, /«a;ie II 303, Jente 1 66, ?e^e II 398, quae I 446.
29. Noto pure la caduta deìVi in ha I 440, /a I 438, ma I
423, sard I 84; jiw poi, o vuoi, passim; c?m pr. 3, II 27, nu noi,
vu voi, passim.
0. — 30. Protonico. Iniziarle, ucciirsi pr. 66, ulta 1 256-57,
ichimé 1 321, ugnunu II 207, sidittu I 98, cunusci I 103 (ma
cognusci II 156), /?M>-t II 28, durmi I 121, cumpagnu III 394,
wMr/" I 225, curnutu II 139, cuntrariu II 399, suUcitd II 597,
durria III 51, hunni buon di II 863 (ma 6ow awwo II 886), 6?^-
lignini II 242, furiscitu III 585; di seconda sillaba: scimsidata
I 211, cunsulazione II 615 (ma consulatu I 254), scunturhata II
128; capefocu III 393. Assimilazione: Baiamone II 393,111 818,
31. Postonico. Interno. Con riguardo all'it. noto: frottula
pr. 58, moseula II 572, semmida II 520, ?;»c?«<a II 927, scattule
III 417; e anche hàbhitu III 598. Unico esempio legittimo: (f/a»7«
II 727, 746.
632 G. CROCIONI
32. Finale. Siamo quasi nelle identiche condizioni del Pianto
edito dal Salvioxi, 7, ove si eccettuino ecco e deriv. pr. 34, 73,
multo 1 217, homu I 62, ecc. Dopo n viene ad -e: Pitine pr. 32,
n 299, Seerine pr. 33, gline II 287, piane II 303, ine II 374 (che
potrebbe anche essere per epitesi: i-ne), paladine II|218, cettadine
II 429. Nei verbi. 1* pers. sing., resta quasi sempre: voglio II
284, arracomanno II 125 ecc.; ma sacciu I 93, ahhracciu I 199,
haggiu I 2, ecc.
U. — 33. Noto : remore pr. 6 con romore II 293, pilcine
II 269 con pulcine II 262, juinittu II 930 e II 673 con gioenette
II 244, rescerd II 444, se pure è da citare, cusci I 172, 192 ecc.
e SHScl I 331.
Consonanti continue.
.T. — 34. Iniziale, iuinittu II 930, 949, III 105, 250 ecc.,
ma giuinittu 11 434, 673, gioentù III 1, gioenette II 244, iusta-
mente II 1005, iate HI 499, iamo III 504, ma giamo, passim,
ioca III 558 e gioca II 606, giocu III 140, ianata 1 94, ecc. e
gianata 1 250, II 58, 353, 587. Interno, aiamà 1 264 e aggiamd
III 558, agiamd HI 285.
35. VJ. lezeru 1 40.
36. SJ. occascione pr. 62, fantascia 1 60, 127 ecc., prescioìie
1 108, hascià III 715, 787, hascio II 68 ; e venga anche ascio II
67. A esito eguale, né solo in apparenza, viene anche SI: stisci
I 201, cusci 1 205, susci 1 131, sci 1 314, quasci 1 380, resciste
II 15, cusciglià II 90;
37. e anche SSI: dicisci 1 222, sajìisci I 223, haisci I 361,
assascinata II 449, e quisci II 163, nei quali però è di suono
più aspro.
38. TJ, pascla 1 61, mpascl III 277, pasciu 1 266.
89. PJ. sacciu I 93, sacc/ II 188, saccm II 441, saccente II
379 sapiente.
Ij. — 40. Se l'intacca 1'*: ^ZHino III A\0,m,ugUll 905; e ven-
gano anche gagllna II 552, III 411; e coeglie 1 231, e migVanni
II 594.
' LA INTERVENUTA RIDICOI.OSA ' 633
41. LD. Notevole l'assimil. di niaìUtt n l -ÌS7 , III 733, che è
pure nella forma transitoria maldittu III 675, 149 e maldetta III
171, e nella classica maledetta II 236; caldaru III 416.
42. LT. ota I 48, mut' I 176 {muf I 246 sotto una cancel-
latui-a, sopra mulf), di fronte a vari casi in cui si conserva : tmdto
I 217, olia I 489. Il bell'es. di olia I 146 in rima con dota I 145,
quantunque dalla Coȓ. non sia esclusa l'assonanza, riesce signi-
ficativo. Esempi di dialetti finitimi nel Papaxti, p. 96, nmtu
(Montefortino), atri p. 99 (Petritoli) ; dei lontani non occorre par-
lare. Cf. Salvioni, Pianto 10.
43. LM. pormone II 616.
44. FL, PL, BL, CL. affrittu I 99, II 929, III 42, af-
fritta III 364, nfruenza II 260; pracatu 1 148; ubrigatu III
206 ; Crementiu passim^ concrudilo II 184, e III 55, 274.
45. reggie I 306 (auriculae), giusu 1 150, giudi I 306 (anche
chiusti I 107), e stia pur chiagiaró III 9.
R. — 46. Si gemina nei. futuri farrima pr. 43, 46, 58 ecc.,
girrd^T.lO, serrò I 9, 86, sarrà I 84, 329; negli imperf. sirria
I 237, dirria I 243, darria I 502, starria II 931 ; e in arraco-
inanno II 125; subentra in stracca I 367, in strifidatu III 117,
864, se è da s^;j9M7are di cui ha il significato, e in nodri III 410,
47. Metatesi : stroppiabirri III 457, ntartenne II 268, nterte-
nere II 974^ sperfonnata II 744, fersora III 487 {* frissora da
frixorium).
48. Non è errore stroaró I 434 per rtroaró, avendosi a Ca-
merino (Papanti 253) stornenno per ritornando, e altrove altri casi
simili ; ma può dubitarsi che sia da diverso prefisso.
V. — 49. Iniziale o intervocalico cade o resta senz'altra re-
gola, forse, che la sintattica : di fronte a ota 1 48, aglio pr. 31,
0 pr. 65, illa I 10, isu I 88, icinanza I 241, edé I 295, ecchio I
305, ergognd I 315, enga I 365, acca I 366, ia II 2 ecc., e See-
rine pr. 33, pioe I 37, proa I 78, troa I 79, coeglie I 231, j-JMt-
ritti pr. 48, diaidu I 258, troaa II 260, magnaa II 261 ecc.,
altrettante ve ne sono che mantengono il V primario o secondario.
50. Si raddoppia in avvanza II 251 ; si indurisce in besciche
II 516.
51. W: varnellittu III 425.
Studj di filologia romanza, IX, 40
634 G. CROCIONl
S. — 52. NS in nz: scunzulato III 330, spenzerosa III 364,
penzem pr. 25, lìenzando I 203, e cf. II 49, I 158, 415 ecc.
LS. polzó III 401.
53. SS. Si sdoppia in adesa pr. 21, 63; si dissimila in prii-
mistu III 1^, promesta II 792 (Arcevia : j^fonierso e -mersa), mesta
(missa) III 599. Tale dissimilazione si ritrova in molti paesi della
regione.
54. ST. cossora III 828 e costora III 654, 690, 746 ecc.,
cussù II 925, 131, 134, III 279, e custit III 2.
N. — 55. Cade regolarmente davanti a S : cuscigliata II 92, co-
siglio II 95, spasa (expansa) III 60, (esemplari comuni alla regione
dell' -m: Mazzagalli : cMsejY 33, cusija 40, nisijera 38; Leopardi:
cusiju 1& ecc.); in recrescesse III 98, 195, recresctdo III 369, che
sarà recresciuto.
56. ND. Assimilazione progressiva: manna pr. 8, facenna
pr. 22, ntenna pr. 23, conmitti pr. 51, hallanno III 860, A. §. 24.
57. NGr. agnelecata I 216, giugnia II 208, strignil 142, stregue
II 890; e stia qui anche magna II 252. GJlT. cognusci II 167,
cognoscesse III 642 (ma cunusci I 103, 161); ngnorante II 348.
M. — 58. Qualche incertezza nella geminazione: commo II
102 ecc. e corno passim '), caminà II 604, amoglia II 83, ^es-
samo III 741, altrove gessammo.
59. MB si assimila in commatto II 235 che vuole esser notato.
Pongo qui anche un moccó li 903 (un boccone).
Consonanti esplosive.
C. — 60. racomanno pr. 76', I 341, II 125, vechio I 28, tochi
1 238, fenochi 382, ocM I 383, brocu 1 388, ciochu I 389 ecc.;
facenna pr. 22 (ma -ce- in I 148).
61. — fecatellu I 92, sfoca I 400, III 791, allocata III 688.
') Qui la geminazione, da imputare allo sdrucciolo originario quo-
MODO, si estende a molti dialetti marchegiani e non marchegiani,
e procede anche assai più in là.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 635
Q. - 62. CHstìó I 456, II 231, 301, III 10.
63. aqqua II 555, 623, III 575 e aquitare II 293, 770
anche agua II 828.
G. — 64. Talora dilegua. Iniziale: onna II 88, ancie II 633
interno: shiuttitu II 874; shriare I 69, III 379, 492, 570, 758
(ma sbriga III 824), fruatu III 632. Ricordo anche spiatu I 268
veramente da oon-spicare (in Arcevia : spiga spia). Korting 8948
65. Palatina iniziale, par che tenda a jotacizzarsi, come ci fa
pensare la doppia correzione di gente in jente I 9, II 141 (e I 66).
66. Astorggiu II 754, 759 e Astorgiu II 786, lege II
377, 398, e legge più volte; quagió III 167, 590, 756, hagio III
377 di fronte a haggio passim, cf. § 80.
T. — 67. aiuda I 16, ^joderete III 792; in venderellu III
423, per la nasale precedente.
68. Al solito, cf. § 80, bufine I 46, matinata I 310; escai-
tide III 413; enclisi: sentitte 190.
Accidenti generali. — 69. Prostesi. Di a: acunsigliu II
491, accontare II 64, arraffazonata I 183, arruina II 453, ar-
raccomanna II 125. Giova notare che il 1" è solo fra molte
forme normali, il 2° è ben noto alla lingua antica. Di fronte agli
altri stanno le forme ma recomanno I 341, racomanno III 289.
Di s : sfor I 483 ; spenzerosa III 364.
70. Epitesi. mene I 125, II 356, tene I 124, cuscine II 500.
71. Epentesi. Di a: Taramata; di r cf. § 46; squastratu
II 317 credo per errore.
72. Aferesi. Di i- cf. § 23; di a- § 14; di e- § 17.
73. Sincope. Di n cf. § 55 ; di Z § 42; di ì; § 64.
74. Apocope. Cf. §§ 22, 29.
75. Metatesi. Cf. § 47.
76. Accento. Non occorre da notare che causa I 473 in
rima con scusa, che è forse rima d'occhio.
77. Assimilazione. ND cf. § 56; LD § 47. Vocalica.
Cf. § 20.
78. Dissimilazione. SS cf. § 53; strica II 655 (sfrigola
proprio di vari paesi della Marca, da triturare).
79. Enclisi, pose puossi I 296, II %4i,volu II 329, vmne II
636 G. CROCIONI
462, 531, 841 (Raffaelli, Mattinate, votela), voglie III 552, hatelo
III 679, stace II 606, parte I 373, tente II 410.
80. Sdoppiamento. Cf. §§ 58, 60, 66, 68.
81. Aggeminazione. Cfr. §§ 46, 58, 66, 68.
Morfologia.
Nome. — 82. Genere. Noto i pi. neuti-i fusa I 47, III
424, asa II 572, (ant. lat. vasum), rina III 444, acora III 448,
soma II 712 passa III 437, crespignall 711 (cf. Caix, St. 113);
e le lenzole III 404 che viene dal neutro ; e amore II 698 fatto femm.,
come asa vaso II 80, 898, dia Dio I 341 e passim.
83. Desinenze. Oltre hutine, ine ecc. § 32, i bua pr, 75,
diffuso tuttora nella Marca.
84. Declinazione. Di terza in prima: pella III 200, 783,
dota II 21 ; in seconda : produ II 899, mani III 506.
85. Numeri. Noto solo: du pr. 3, II 27, dui II 59, 262,
dece II 33, III 222, inti II 28, 31, III 107, se II 242.
Pronome. — 86. Personali, me mi pr. 37, te ti I 164,
ve vi pr. 8, glie gli (e a loro) pr. 20, se si pr. 23 ; mia pr. 44,
vua pr. 54, nu pr. 43, vu II 872.
87. Possessivi. I pi. mia II 215, tua II 473, e il masch.
mia I 443, III 608 ci danno il diritto di compiere le serie, po-
nendo anche sua, tanto per il maschile, quanto per i pi., sull'auto-
rità dell'uso vivo esteso, per lo meno, dalla provincia di Macerata
(regione dell' -u, Papanti 81, 82, 84, 85, 254, 259, 266 ecc.,
Rafaelli 10 ecc.. Procaccini, Mazzagalli, Oleandri, Leopardi,
BoLDRiNi ecc. passim) sino ai dialetti gallo - italici della Marca
(Conti IX) *). A queste, che parrebbero accennare a fissità di decli-
nazione, altre se ne aggiungono non estranee ai dialetti finitimi: me,
mi (Papanti 258); e to, so, cf. § 9, di cui esempi in Papanti
97, 98 ecc. e negli autori citati qui sopra, passim. Non trascu-
rerò, sebbene comuni, i nessi figliama II 139, III 776, figliata
figlimu III 58, 73, 194 patritu II 487, babbitu III 598.
87*'*. Relativi, chi il quale (nominativo) II 335.
') E più in là. Cf. Meyer in Grundriss del Grober, 547; Bianchi,
Dial, 26; Meyer L.. It. Gr. 213, o meglio D'Ovidio, ^rcA. .9?. XII 176.
' LA INTEUVENUTA RIDIGOLOSA ' 6ii7
88. Dimostrativi, quidu pr. 33, qiiissu I 466, quillu
pr. 41 (quigli I 84), issu I 278, su I 312, stu pr. 17, istu I 435,
costa III 2, ciissH II 131 ; quessa III 265, quella, essa I 215, sa
I 221, sto I 4, testa I 273, colle II 505; cos^om III 654, 690,
cossora III 828 (vale ' i parenti ' o ' grappo di persone nominate ')•
L' -a delle due ultime forme le congiungerà con i pi. mia^ tua,
sua, § 87 e con lora loro, di molta parte della Marca.
89. Indefiniti, quae pr. 22, I 446, cosa niente II 725,
III 365, 385 ecc., coelle niente pr. 28 ecc., chinga I 163. Questo,
vive per la Marca (Papanti 254 (Camerino), 258 (Mogliano)),
(Leopardi : 13 chlnche scia), in Arcevia ò chinra (Marooaldi : chinca
147) e va unita con -sìa, chincasia chicchessia.
Verbo. — 90. Indicativo. Pres. Notevoli le forme vaco I
189, II 809, III 176, rvaco I 42, daco I 43, staco III 192, reco I
207, 322, con i cong. vacali 56,111 188, daca III 7, 573, staca
III 41, Veca 1 343, tutte vive (Papanti 81 : sago sono, Mazza-
galli : vago 29, vaga 4, fago 7, faga 8, 40, staga 31, daga 40,
digo 27 ecc.. Procaccini : vaco 30, vaca 33, 38, veco 53, Leopardi:
daca 31, Oleandri: veco 17, daco 22, vaco 23, Marooaldi: faga,
faca 151) 3f. Meyer in Grundris del Grober , 539; e i plurali
scima pr. 45, I 482, II 53 ecc., tdima II 948, vulima III 216,
scrijma III 344, pudima II 883, non meno che farrima pr. 43,
46, 58, III 863 ecc., podirima pr. 47, reederima II 887, idirima
III 133, rparlarima III 155, rentrarima III 800, Salvioni,
Pianto 12-13. Si ha forse un es. di sema 1 82. Cf. § 1 e.
91. Congiuntivo. Cf. §§ 1 ò e 90; inoltre magna II 127,
apparechia 1 63, deora III 581, spechia II 553, strica II 655,
deenta II 567, e molti altri. Per i congiunt. di 2'', 3* e 4* coniug.
cf. §§ 1, 2.
92. Ini per f. Indie. Notevole statia 1 98, 99 (e il cong. sta-
tesse II 959, III 366), (Papanti 259, 261, è d'uso comune), pei
quali cf. Salvioni, Pianto 13, 14; giaa ibat 1 184, II 827, III 585.
93. Participio. Cf. § 18. beta II 80. Nel reat. bèta e bitu
bibita. Ca^epanelli 15; pistu III 830.
94. Me tapi asmi, paté 1 430, III 594; giaa ecc. cf. § 39.
Fuggici 1 234. Il passaggio di questo verbo alla coniugazione 1*
è comune a molta parte della Marca; anzi il Salvioni, Pianto,
14, lo dà come un distintivo del Marchegiano.
638 G. CROCIONI
Avverbio. — 95. In -mente, altramente pr. 12. Di modo.
ìiseme I 134, II 639, corno pr. 57 e commo I 429, cusci I 118,
SUSCÌ I 331, secunnu III 300. Di esortazione: ossii pr. 1 per
assimilazione, osh I 237; assaia cf. Gloss. Di tempo: arfessa pr.
12 (nel pausolano iera ieri, Pbooaccini 30), com' II 745 in valore
di ' non appena ' (Arcevia: co), po' che pr. 51, n questo I 494, tnà
I 450, ajamà I 264, agiamd III 285, amaramd oramai III 161,
janata e gianata 1 94, 250, II 58, 353, 587 ecc. (Rafpaelli, Matt.
23 e n. 55. Ivi 2S anche Janajanata). Di luogo: fora pr. 51, I
354, sfor I 483, do (ubi) I 137, yió 1 23, 214, 291, quagió 1
286, nante II 349, nanti III 276.
96. Assai più ossservabili sono le forme esso III 534 {es-
sogli III 657), elio III 528, ecco [decco III 25 col d prostetico),
unite con il prefisso mi- a formare miesso II 136, miello III 698,
miecco pr. 34, talora scritte separatamente : mi ecco I 355, alle
quali si uniscono tnilld III 174, migiiagió III 167, framiecco III
477. Il Raffaelli (Papanti 255) ci dà per il dialetto moderno mie,
mecquì, meccjuà, mie, meli), niella, messo, oltre a miecco e miello.
II prefisso si rincontra, avverbiale o preposizionale, nel camerinese :
melu (Papanti 253) e nel trejano: we/^Zà (Papanti 258), nel ma-
telicese : me lu, me la ecc. (Boldrini 15, 22, 39, 48), nel recanatese :
mecqu), mecquà, mellè, mellassà (Mazzagalh 5, 21, 8, 31, 39 ecc.),
nel fabrianese (Marcoaldi 159): men in, e credo per buona parte
della Marca. In Arcevia s'usano : macchi e, raramente, macchitta,
macqicà, malli, e, raramente, malUtta '), malia, mallasstì, macquajù.
TI Conti, Voc. Met. 216, segna mala e 77ialé, trascurando varie
forme. Per altre varietà dialettali, marcheg. e non marcheg., vedi
Arch. gì. it. II 444-446, dove ne parla l'Ascoli.
Interiezione. — 97. cappita II 978; pe I 134 passim (è una
mezza espressione che si pronunzia coll'e stretto, prolungando
il suono in senso fricativo); potta I 234 espressione volgare di
meraviglia.
') Mi sia permesso ricordare anche gli avverbi, ormai di uso ri-
stretto, litta lì, chitta qui, accuscitta così, acculuscitta in quel modo.
' LA INIKRVK.NLTA RIDICOLOSA ' 639
GLOSSARIO
Abbìitinato II 54. Probabilmente vale * raccolto ', quasi * avvol-
tinato '.
Ajamd I 264, agiamd III 285, aggiamd II 751, ormai.
Allappa I 49, attaccarsi. Dal marcheg. lapjya lappola {Race. 98).
Con significato analogo in Race. 8.
Amaramd III 161. Cf. § 95.
Ampu II 173. Certo è un male, forse cutaneo, ma il significato
preciso sfugge. Da vampo. Il Manuzzi dà qualche esempio
analogo.
Annutiatu III 150, ammogliato. Da nnptiae.
Aspa III 424, aspo. Più fedele dell' it. all'etim. haspa. Zambaldi
81, Toschi 26 innaspa, 38 nnaspa, Marcoaldi 140 annaspa ;
spagn. asjya.
Assaia HI 649 ' passa via '. Cf. roman. pussa via, fabrian. e reat.
pissa via (Marcoaldi 165, Campanelli 23).
Assigna ^l 998, novero, computo. Cf. § 4.
Batticore I 89, battito di core.
Burletta III 415, piccola borraccia. Korting 1658, 2"' ed.
Botenellu II 520, recipiente in forma di botticella (it. bottinò)
da tener cereali, semola ecc.
Brochu I 388, brocca. Più vicino dell' it. all'etim. Tlpò^ooc,. Cf, Kor-
ting 1582.
Butine I 46, bottino.
Cannitu II 589. Non è chiaro. Forse, per metaf., tranello, im-
broglio.
Capicciu III 405, capecchio. In Arcevia cajJeccio, a Velletri capercio.
Ciocti I 239, 389, pianella, zoccolo col fondo di legno. Cf. cioce.
Coelle III 53, qualche cosa. Cf. Caix, St. 18.
Copeza I 890, II 756, capo. Toschi 23: cupizamxcz.', sp. caheza,
lat. CAPITIUM.
Coza I 191. Nell'abr. ' scavatura' (Finamore 173), e ' sudiciume ',
in Arcevia ' roveto, cespuglio folto ' (cf. it. accozzaglia). Qui
0 grandi rughe o gran quantità di peli nel viso da celare
con la " calcina „ cf. v, 185, o viso lordo, Cf, Cajipanelli 214.
640 G. CROCIOM
Cudiruta I 376, caudata, forse con allusione inonesta. Nella Marca
coderizzo, Toschi 22, Race. 53 (Fabriano cudirizzo, Marcoaldi
149, in Arcevia anche coderuzzo) per similitudine l'orlo del pane;
coterone il codione o codrione (Conti 148, codiron e cudiron).
Fantella II 744, giovinetta. Cf. it. fante, fantolino ecc. Per afe-
resi da *>nfantella. Nella canz. del Castra 10 : fantilla. Mo-
naci, Crestom. 492.
Fitto pr. 49, II 207, 433, III 150, 251, fermo. Da (figo) kictu
quasi confitto, inchiodato. Cf. Kortino 3729.
Fitìf II 631, figlio. Dialetti vicini usano: fetóne giovinetto, fé-
taccia giovinetta, ecc. Cf. it. ' feto ', lat. fetds.
Ft'ottula pr. 58. Si usi") spesso per ' rappresentazione drammatica '
in genere.
Fustii II 346. S'usa, per similitudine come qui, a indicare uomo
inetto, nelle locuzioni : dà retta a sto fusto, senti sto fusto ecc.
per ' ascolta me '. In fondo ha il significato it.
Intervenuta pr. 61-62. È il titolo della Coni. L'A. interpreta
" occascione „, mostrando di crederla già in uso; noi cre-
diamo sia un neologismo di lui, cf. pr. 61-62, e pag. 507.
Janata. Cf. § 116. La forma guanata che trovo in altre rime an-
tiche cingolane inedite, consiglierebbe di ravvicinarlo agli esiti
di HOC ANNO, Korting 4568, quasi da ' hac annata ' (?).
Laa II 249. Il testo legge " a laa „ con un " la „ sovrinterposto.
Deve trattarsi di concrezione, perchè in un cod. veliterno del
400 leggo: lo lavo del sole, e in un testo arceviese antico:
i loglie gli avoli.
Lapiggiu III 703, laveggio, cf. Parodi, Romania XIX 484.
Lenguetta III 414, linguetta della lucerna.
Lu Q lo 11 667, III 727, III 773. In nessuno dei tre casi la di-
zione è chiara.
Magnattu II 237 mignatta. A Cori ìnagnatto; nell'abr. magnite
baco. PlNAMORE 208.
Maia 1 152, 289, 298, 867, 378; III 8, 164, 195, 600, 621 ecc.
La parola non è più viva a Cingoli.
Manecane I 14, II 195, 417, mangiare.
Matterà III 412, madia. In Arcevia mattra, MÓKxpa. Race. 107.
Toschi 28, mattra e matterà.
Mente 1 495, tener m- badare, porre attenzione. Cf. Salvioni,
Pianto, pag. 30. Vale lo stesso la frase mjìorre metile, II 363.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA ' 641
Moscula II 572 palèo. Così a Fabriano (Marcoaldi 160).
Mpampanatal 251, disgraziata? cf. § 97.
Nitrita III 237, sta in un'imprecazione. Così nella Marca si ode :
che possa abbaiar come un cane, e sim.
Nomata I 300, nomea (nominata).
Ntoccu 1 213. Nell'abr. (Finajiore 225) : ndocche e nducchette specie
di brodo (cf. tncchette, Finamore 306). Qui, per similitudine,
acqua lotosa.
Nuenza li 691, Cf. la n.
Nulla l 488. Par certo che si debba leggere n'uUa ; ma sarà im-
possibile che si debba leggere mdia da nolehayn ?
Pana III 418, Toschi 30: panava spianatoia.
Panneìla III 399, grembiule.
Pataracchia II 677. Nel Fanfani : pateracchio, ma il significato
non è uguale.
Piste II 16. Dev'essere parola del gergo.
Polzó[tie\ III 401. Basta il v. " un polzó pe na balestra „.
Proenne II 220, provende {praehenda, Zambaldi 633) per azione
della labiale scomparsa {jyrovenna). Cf. Korting 7360.
Radetora III 426, radimadia.
Ramajó III 396, ramaiuolo.
Rapacciusu I 435, II 512. Nel Finamore 254 : rapacciose pieno di
loia.
Ridlusii I 416, forse sozzo (Abr. ridle loia, Finamore 259).
Shiscid I 39, sdrucciolare. In Arcevia sbriscià, Fabriano (Mar-
coaldi 168) shigidf sbigicu, sbiscicd.
Sbiuttitu II 864. Cf. § 64. Si aggiunga in Caix, Studi ecc. 37-38.
Scorti II 796, accorti.
Scote II 996, riscuotere.
Scìdtrinato III 111, rifrustato. Per metaf. da coltre (dei letti).
Scunturbatu II 128, disturbato. Cf. la frase che è popolare.
Scuppà II 686. Non ha il signif. di Race. 166, ma di arricciare,
accartocciare, dar forma rotonda. Cf. it. ' coppo ', e Kor-
ting 2693.
Spallacollu III 178. Parte dell'indumento femminile, ma non ne
ho notizia.
Spara III 397, cercine. Da separa (s'para).
Stizd I 328, smuovere, accrescere. Nelle Marche stizzd (e anche
scatizzd * scapotizzd) e nell'Abr. (Finamore 292) vale levar
642 G. CROCIOM
la parte arsa del tizzo, perché bruci meglio. Qui per simili-
tudine.
Stricd II 655, stritolare. Race. 185. In Arcevia, strigolà. Cf. § 78.
Strifulà II 1018, III 117, 864. Cf. § 46.
Trocu III 407, trogolo. Cf. cioco.
Trufa III 415 (in Arcevia truffa), boccia di terra cotta, che si
suol chiamare anche giusta, da tener liquidi. Nella canzone
del Castra (Monaci, Crestom. 491) trufo. Si può vedere con
qualche utilità Campanelli 153-54, e meglio Korting 9794.
Tunnu III 418, scodella, per la forma. In Arcevia 'tonno' e
' tonnine '.
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
Questi saranno nominati in fra tempo nella Commedia secondo che
occorrerà :
Brodc
PiLDSU
RUSCINA
FlNOZA
Strina
Stura
Patarachia
Sabafina
astobgio
Stroppiabirri.
INTERLOCUTORI
zecchi
Pritu
Scuffiottu
Crementiu
Gaudextiu figlio de Cre-
mentiu innamoratu
Taramata moglie de
ClABÓ
Saporetta figlia de
ClABÓ
Ser Ciappellitu notariu
Pasqua testimoniu
ClABÓ
644 G. CROCIONI
AL MOLTO R. S. IL SIG. THEOFILO NICOLO
Dovendo io^ R. S. mio, degnamente corrispondere a tanti
singular favori da lei recevuti, conveniva senz'alcun fallo
maggior celerità nel' eseguir il debito mio. Il qtial manca-
mento si come conosco e confesso cosi defendo non dover es-
sere in mala parte preso da lei; considerata adunque la
deboleza del mio ingegno, distratto massimamente da mille
occupazione noiose, appena gl'anni bastarano cionche i mesi.
Anzi, se io me fusse resoluto con minor maturità, haverei dato
segno de stimar poco i meriti suoi, e de conoscer molto meno
le forze mie.
Ma io tratto questo punto, come se dopo molti dolori ha-
vesse partorito qualche gran cosa; et pure io la conosco assai
bene, et non m'accuso meno nell'uno di quello che me scusi
nell'altro. Ma perché quello che io do a V. S. é pure il meno
imperfetto per esser primo parto uscito da me, spero che sotto
nome di bono mi si debbia far bono. Essendomi dunque, R. S.,
pervenuta a le mani una compositione in prosa raccolta in
buona lingua da un gentil homo maceratese sopra alcuni casi
occorsi nella mia città, m'he parso per far più gl'animi de-
gl'uditori alegri tradurla in rima in vocabolo cingolano con
verso sgroboloso. Tanfo più che lei (mentre dett' opera veniva
in compositione) mi favori richiederla, ala quale ha potuto
più in me il desiderio di ubbidirli che il dubbio di dispia-
cerli, volendo più tosto ch'ella mi tengha per poeta poco in-
tendente che per servidore poco discreto. La presento dunque
sotto la scorta della sua benignità più tosto che sotto la cen-
sura del suo giudicio, supplicandola benignamente scusare pili
che gradire, perdonando i suoi difetti, quali per il poco spatio
di tempo sono causati senza farn'altra copia. Prego l'huma-
nitd sua che dispenzi l'ignoranza mia col riceverlo almeno, e
con aggradire il mio bon animo, con il quale mi racco-
mando sempre nella sua buona grafia, e le bacio la mano.
Di Mac [erata] li 6 di Xbre 1606.
D. V. S. M. R. [della V. S. molto rev.].
Divof"" serv""' f. Dom"^" B.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
645
COMMEDIA
detta La Intervenuta ridicolosa
fatta in sdruzolo, alla Cingolana, nela quale se referisce casi avenuti
da personaggi che infra ragionamento se nominaranno, composta
ad istantia del M. R. S. Theofilo Nicolo da la Serra de S. Quirico.
In Macerata. 1606. ')
PROLOGO
0 ssu, non pili ciarlare,
staate n pò quiti,
A ddu' partiti
m'é besognato rescire..
Anzi, per non patire 5
che .se facesse remore,
l'altr'é che l'autore
ve manna a fa la scusa
come che s'usa
su le commedie fare. 10
Io non lu posso scusare
per adessa altramente,
se non ch'ha poca mente
e ha manco cervellu.
Dello re:to é bon fratellu 15
e bon amicu.
S'ha pigliatu stu ntricu
per sta m pò pensusu,
perché é capricciusu
e glie piace de stentare: 20
adesa vo ncomenKare
a fa quae facenna,
se ben par che se ntenna
pocu de stu mesteru,
pure lu pocu penzeru 25
lu fa scappa dalla strada.
Ma io me so misso a bada
e non dico coelle.
0 ssù, sorelle,
staate tutte a sentire 30
quello che ve oglio dire.
Quist'é Pitine,
Castellu de San Seerine,
e miecco sta sera
s'ha da scurdar la lettera. 35
Perché ridete?
non me ntennete?
s'ha da piglia moglie,
che ve enga le doglie !
s'ha da stregue lu nodu. 40
E se bene in quillu modu
che fa gli cettadini
non farrima nu contadini,
scusatece, che nua
scima nati fra gli bua. 45
Basta che farrima
quello che podirima,
da puiritti.
Ossù, staate mpó fitti,
e sentate ben tutti, 50
pò che ve ce sciete connutti.
E com' haima finito
tutti ve nvito ')
a cena con vua,
perché fra de nua 55
non ce porreste stare.
Como se fa chiamare
la frottula che farima?
credo che prima prima
tutti raggiate saputa: 60
se chiama la Intervenuta,
e attesa é l'occascione;
con gran rascione
fora l'ha fatta scappare,
perché ve o racontare 65
certi casci uccursci.
V'accittima tutti
alegramente a sentire;
e ha lo partire
ridenno se girrà, 70
perché se senterà
cose de piacere.
Ma ecco che vene
Pritu de qua a traersu:
sentatilu per versu, 75
me raccomanno.
*) Così nel frontespizio.
^) In una correzione : nritimo.
646
G. CROCIONI
ATTO PRIMO
Scena Prima
Pritu sulu.
0 potta de me !
haggiu pigliata lu gran aflFruntu !
non so se mette cuntu
de piglia sta mpresa;
Dio lo sa che me pesa, 5
pur non voglio manca;
se- posso trama
quello che aggio su la mente,
serro tenuto dalla iente ^)
per lu saggiu della illa. 10
0! lu cervellu me grilla,
se sta cosa farro
credo che me guadagnare
spissu spissu da manecare.
L'homu per non rubbare 15
s'aiuda comò po'.
Io certo so
ch'ha Scuffiottu piacerà.
Como lo saperà
ancora m'haerà a paga; 20
lu oglio gi a troà,
e glie rascionaró;
ma per le scale gió
io sento caminà.
Me oglio retirà 25
per senti ciò che dice.
Scena Seconda
Scuflaottu e Pritu.
ScuFF. 0 ! Diu, l'esse vechio
É una mala cosa!
A me m'é tanto noiusa ^)
che non lo pozo pati. 30
Me credo de mori
a ogni momentu.
Se tira mpó de entu,
de casa non pozo scappa,
lu catarru me fa cala, 35
non pozo fa ste proe.
Quanno pioe
me besogna n casa sta
per paura de non sbiscià.
perché lu pé é lezeru, 40
e io mizu ^) com'un piru;
8 a casa rvaco,
allu diaulu me daco :
non rtroo cos'all'ordene.
La casa sta n desordene, 45
par che scia mess'a butine.
o! io ho le fusa pine,
s'una ota ne scappo.
Prit. Adessa me gli alappo
e glie dico della moglie, 50
e se non la o toglie,
pò, so dannu!
ScuFF. 0! sent'un aflPannu
che lu core me straccia.
Besognarà pur che faccia 55
quello che non vulia fare :
') Sotto la cancellatura: gente.
*) Cf. Prefazione, pag. 602.
") In una cancellatura pare : mizzu.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
647
moglie me besogna pigliare
a ogni modii.
Prit. e strittu lu nodu,
ci ha mpó de fantascia; 60
dà su la pascià
l'homu quanno s'nvechia.
Besogna che m'apparechia
a cacciaglie quattro carote.
ScuFF. Ma quello che me percote 65
é lu di' de certe jente,
che l'homu non pò fa niente
che non lo oglia nasare.
0! io me oglio sbriare,
voglio gi a troà Pritu 70
che ste cose a mena dita
sa più che nisciun altru.
Prit. Adessa te tengho per scaltru
e per homu saccente,
adesso credo che la mente 75
haggi su lu cervellu.
ScuFF. 0 fratellu!
Beatu chi non proa!
chi va a casa, troa
ugni cosa accommodatu: 80
la matre l'ha cacatu
quanno sem'a !a luna.
Prit. Rengratia la fortuna,
che presto sarrà de quigli,
che oltra a gli figli 85
serra ben goernatu;
par che te sii mutatu
su lu isu de colore?
ScuFF. M'é vinutu lu batticore
a sentitte parlare; 90
par che me senta forare
lu fecatellu,
fin che non sacciu quillu
che tu innata dici. ')
Prit. In fatti gl'amici 95
non se conosce mai
se non su gli guai;
tu statij sulittu,
statij sempre aftrittu
e rascioni con li mura; 100
senti ra pò sta intura
che t'haggio troata:
cunusci Taramata,
la moglie ch'era de Cii;bó
quillu che se troó 105
alla morte de Pilusu,
che per non esse chiusu
drent'a na prescione
(e s'hebbe rascione)
dalle mura se buttò, 110
e cosci scampo
dalla furia della corte?')
adessa, per sorte,
lu desgratiatu
é stat' amazatu. 115
La moglie l'ha saputu,
e per non fall'un cornutu,
cusci mortu, mortu,
vo haé quae confo rtu,
e, per dilla ana parola, 120
non vo durmi pili sola.
Se 0 accompagnare:
se tu la 0 pigliare,
lasso la cura a tene.
ScuFF. Io n quanto a mene 125
me c'accoramodaria,
per che c'aggio fantascia
e lu besogno me sforza,
ma non voria che per forza
me la rtogliesse Gaudentiu, 130
lu figliu de Crementiu,
quillu che va sbrahaggianno
e me c'aesse lu dannu
nseme con la ergogna.
Prit. 0 ! a quillu besogna 135
n quae modo proedecce.
Do te engo a rtroare?
voglio gì a tramare
lu parentatu.
Spero che se sarà pracatu 140
Gaudentiu n quae modu. ^
ScuFF. Strigni pur lu nodu,
che so contentu;
ma sa, non gettain'a lu entu
la cosa della dota. 145
Prit. 0! quesso na olta
ce se ntenne.
Faccenne, faccenne,
lassarne gì a traagliare.
') Sotto la cancellatura gianata, sopra, forse, janata, cf. ie)Ue su gente.
') Cf. Ili 508.
648
G. CROCIO NI
Scena Terza
Taramata e Sap oretta.
Tar. Fa che tenghi l'usciu giusu, 150
ha ntiso, Saporetta!
Sap. Maia, me mitti la stretta,
non vurria che me lu dicisci ;
so che non te credisci
che fosse na cioetta. 155
Tab. Uh I figlia, che sci benedetta,
la matre tua te cusciglia,
e a te, figlia,
par che t'aggia feritu.
orma i da maritu, 160
credo che lu cunusci.
Sat. 0! scia malletto gl'usci
é chinga gli fa.
Te oglio contenta,
o! to ! i contenta? 165
Tar. Pe gli figli se stenta,
haggio questa sola,
e corno gli dico na parola,
par me se oglia crepa;
la oglio marita ^) 170
a la i^rima occascione,
e cusci non haerà rascione
de lamentasse più.
Ma tu,
poera Taramata, 175
muti stata desgratiata,
che da pò ch'ha persu Ciabó,
nisciun te o,
nesciun te rechede:
pe, so che non se crede 180
la gente che scia nvechiata,
ma io non vaco lisciata
né arrafazonata,
comò che giaa Ruscina,
che lu isu de calcina 185
tuttu impiastratu haia,
e questo lo facia
per agguzà l'apititu
a qualch'altru maritu.
0 comò che Finoza 190
ch'haia tanta de coza
su lu mustacciu;
ma io quistu npacciu
non m'haggio ma pigliato,
ch'alhi strippati! 195
me pariria fa vergogna,
e GUSCI me besogna
durmi senpre sola,
e ab.bracciu le lenzola
e lu piumacciu. 200
Una olta stisci lu bracciu,
la notte, per abbracciare,
penzandome de troare
lu puirittu de Ciabó,
e cusci me s'urto 205
su la matterà della farina;
quanno veco, la matina,
era mezu ammaccatu.
Scena Quarta
Gaudentiu e Taramata.
Gaud. 0 vi se so avvinturatu!
ecco Taramata!
va tutta scunsulata,
porta lu broccu,
de volé gì pe lu ntoccu
gió la fonte;
volta mpó qua essa fronte,
faccia agnelecata,
210 multo va delaniata,
ecco Gaudentiu to;
pò ch'é mortu Ciabó
so che non vo sta sola. 220
Tar. Uhimé ! sa parola
215 non vurria che lu dicisci,
') Sotto alle cancellature si legge: crepare, lìiarifare.
' LA LNTERVBNUTA RIDICOI.OSA '
649
vurria prima Io sapisci
per certauza.
Gaud. Lu muri é usanza, 225
non te despera;
n'aggio siututo rasciona
lu maritu de Perna
che sa che con la lucerna
va cercanno le uuelle. 230
Tar. Non ne credo coeglie.
Gat'd. Dico che lo pò crede,
SCI, per questa fede;
potta! pe non te fuggià,
lassate tocca, 235
puttana de me.
Tak. Ossa I che c'é ?
non voglio che me tochi;
se me ce cao un de sti ciochi...,
che bella creanza! 240
non VI che la icinanza,
se se n'avedesse,
dirria che lo facesse
per volemmo accompagna?
Gaud. Taramata, non te stiza, 245
pò mult'i cruda,
potta de luda!
pe, lassate ferra.
Tar. 0! io aggio altro da fa,
non posso, gianata, 250
trista me mpanijanata!
quella figlia comò sta?
lassame caminà,
resta consulatu !
Gaud. 0 ! io so desgratiatu. 255
Adessa che gli ulia rasciona,
se se ulia accompagna,
lu diaulu ce s'è mpontatu;
io credo d'esse natu
a cattia nfruenza, 260
ma lu tempo e la pacienza
a ugni cosa dà fine.
Scena Quinta
Pritu e Saporetta.
Prit. Tutto quistu confine
aiamà haggio cercatu
e non haggio rtroatu 265
quillu pasciu de Gaudentiu.
Haggio affrontatu Crementiu
e gle n'haggio spiatu;
non so se do é capitatu
0 do gitu se scia; 270
credo che la bizarria
gli scia ntrata su la testa.
0 ! sirria bella testa,
s'un sbarbatellu
che non ha cervellu 275
né discritione,
volesse la rascione
fasse da per issu,
ma pò ch'aggio promissu,
non voglio manca, 280
voglio gì a troà
a casa Taramata,
gle darró na speronata
e vedere che dice.
Sap.
Prit.
Sap,
Prit.
Sap.
Prit.
tic. tac.
Chi é? che vóV 285
Fatte mpó qua gió,
Madonna Taramata.
Che VÓV gianata
maia non ce sta,
é gita a caà 290
Taqua gió la fonte.
Ugni disignu va a monte,
non pò gì cosa netta.
0! Saporetta,
lassate n pò edé. 295
Pose ') sape
perché sta cusci giusa?
Maia ha pigliato scusa
per famme sta nserrata,
dice che cattia nomata 300
aggio appresso la gente.
Guarda, mpó niente ^),
e non se ergogna!
e VI? besogna
lassalle di' esse ecchie; 305
*) Int: si può? (puossi?),
^) Int.: metti attenzione.
Studj di filologia romanza, IX
41
650
G. CROCIONI
giudi le rej^gie
e fa ciò che te piace.
Ma se non te despiace
di', comni'i namorata?
quant'é che la matinata 310
non t'ha fatta lu murusu?
Non torce su musu,
par che me ogli fa lu piantu.
Sap. Uh! Pritu che sci santu,
tu me fa ergognà! 315
Pbit. Te oglio marita,
sta quita, Saporetta.
Sap. Oh ! tu me mitti fretta,
che sci delaniatu.
Pbit. Unu faggio troatu 820
che pare un paladine,
e veco n fine ')
che te deletta;
é viro, Saporetta?
Sap. Fa pur cuntu che me piace; 325
par ch'una fornace
haggia dentr'allu pettu,
ma tu me stizi lu dilettu
e pò non sarra coeglie.
Prit. 0! le ganzette belle 330
Non se burla susci.
Sap. Uhimé, Pritu, vi,
par che me senta manca;
quello che a da fa
fallo prestamente. 335
Peit. Acciò che la gente
cun mico non te eca,
va via e alla ceca
fidate de me.
Sap. Io lasso fa a te. 340
Prit. Ma recomanno a Dia ^).
Sap. 0! quanno sarni quillu di'
che Veca rveni
a casa maia mia
con fantascia 345
de olemme marita?
e sci, gle oglio parla
scopertamente,
gle dirró che lu dente
comenza haé appititu, 350
e se so da maritu
perché non me lu da?
Scena Sesta
Taramata e Saporetta.
Tak. e pur vo sta Tab.
mi ecco de fora,
che scia malletta l'hora 355
che t'haggio cacata!
Sap. Me s'era cascata
la scuffia da la fenestra.
Tab. So ch'i maestra Sap.
per caccia le carote. 360
S'haisci pivi dote
che la figlia de Brunu,
ma troarà nisciunu
che te toglia per moglie.
Che te enga le doglie, 365
figlia d'una acca!
Sap. Maia, i stracca? Tab.
ha finito de di?
me te pozzi mori,
se te dico buscia! 370
Ossii, va via,
cioettella,
parte cosa bella
sta su la strada sola?
se te sento di parola, 375
cudiriita !
0! che donna mpuntuta!
Maia, mult'i arrabbiata,
so che non m'ha troata...
quasci non me l'ha fatto di. 380
0! io la oglio fini,
non voglio pili fcnochi,
gli gatti a aperti gl'ochi
e a missi gli denti.
Senti? 385
sfacciata !
che sci scannata!
se non portasse lu brochu
') Sotto una cancellatura : infine.
^) Cf. § 82.
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
651
con uà ciocliu Sap.
t'urria rompe la copeza! 390
guarda che gentileza!
tu i figlia de Oiabó?
se lo so? Tar.
besogna che sci bastarda
che Tu foco t'arda! 395
io te offlio ammazii!
Po crepa
che m'oglio marita!
se no l'appititu
sfocare per altra strada. 400
Non besogna sta piii a bada,
lassarne n casa entra:
tante glie ne oglio dà
che mal per essa !
Scema Settima
Gaudentiu sulu.
0 poiru Gaudentiu! 405
o babbu me Crementiu !
pò che haggio da fa
par che me oglia crepa
su lu pittu lu core;
sento un dolore 410
che tutto me straccia,
quella lucente faccia
de Taramata bella
che m'ha caato la coratella
e me fa sta penzusu, 415
quillo vechio rullusu
l'ha da spusare ?
voglio prima fa crepare
issu e lu strippatu;
Gaudentiu va pur armatu, 420
porti pur la ralbarda.
0 ! che lu focu t'arda,
mena le ma,
non poza magna più pà,
se no glie cao lo core; 425
in ogni mó lu dolore
so certu che m'ammazarà,
e nisciun me farà
le ennette, commo so mortu.
Non voglio paté stu tortu, 430
lu oglio gì a rtroà
e con questa gle oglio dà
alla olta dellu traersu;
gle stroaró bé lu ersu
a istu echio rapacciusu. 435
Scena Ottava
Gaudentiu e Crement.
Ecco lu fastidiusu !
0 che sci mallittu!
sempre me fa sta aflittu,
ma aggio consulatione.
Babbo non ha rascione 440
a di' queste parole.
Sa de che me dole?
dellu fastidiu mia,
che per la fé de Dia
non me mportaria coelle. 445
Quae nuelle
tu a ntiso de me?
ma se pozzo sape
chi é su mitti-focu,
non pozza troà ma locu, 450
se non lu pacco n croce.
Crem. Non alza la oce,
parla pian pia,
fatte m pò qua,
pagate de rasoio; 455
con chi ha fatto custió
tu, di', saputillittu ?
Gatid. Lu diaulu mallittu
gle l'ha fatto sape ;
0 ! me par de vede 460
che vogli rascionà.
Cbeh. 0 ! tu me fa caca,
tu vo la burla;
di' m pò, lu fi de Scurla,
ch'ha uto a fa con ticu? 465
Gaud. 0! quissu é un intricu
che non finirà mai.
652
G. CROCIONI
Crbm. Eccomi su gli guai,
Pe, dimme com'è stato?
Gaud. e non e' haimo dato, 470
non è stato coelle.
Cbkm. Mai le nuelle
se lea senza causa,
Non fa più scusa,
dillo, nome de Dia! 475
Gaud. 0 ! via,
allo dire
non aggio uluto patire
che me facesse ngnuria,
e cusci con furia 480
resuluti ce scima partiti,
e scima giti
sfor delle mura;
issu baia paura,
pur l'arme sfodero, 485
e se tiro
da na banna per menare;
io che nuliii ^) comenzare,
disci na olta: Ossii;
issu disse : Mena tu ; 490
io respusi : Mena tu,
ch'io non voglio mena,
non voglio comenza.
N questo la gente lo senti
e ce enne a sparti, 495
e cusci lu casu é gitu.
Vidi m pò, se so fenitu !
babbu, pe, temme mente.
Cbem. Po se la gente
te sentesse di' cusci, 500
puirittu, non vi
che te darria la burla V
Ossu! giamo, che Scurla
ve 0 fa fa la pace.
Gaud. Farro comò te piace, 505
Ossii, giamo ia!
1) Cf. Gloss.
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
653
ATTO SECONDO
Scena Prima
Pritu e Scufflottu.
Pkit. Giaa gìó la fonte,
gì' haggio parlato per la ia;
e' ha fantascia
e bona ntentione,
m'ame par ch'haggia rascione 5
per un cuntu,
perché sci vecchio troppa
e a quissu ntoppu
non ce se pò proedere.
ScuFF. E io gl'oglio fa vedere 10
che, se ben so canutu,
so grosso e spalluta
e commo me proarà,
ma se n'avedeni
se ce posso resciste; 15
so statu a tre piste
cosci vechio corno so.
Pbit. Ossu, gle rparlaró
per quissu cuntu tanto;
ma dimme un pò, quanto 20
ha da gì nanzi la dota?
perché besogna che la scota,
che m' ha ditto che sta m pignu,
é un quatra de igna
che troppo mporta! 25
ScuFF. Mogliema che s'è morta
in du stala de terra
me de cento inti fiuri;
e ssa igna quanto mporta
per farla pili corta? 30
Prit. Cento inti fiorini,
ma dice eh' é bon tirri ').
ScuFF. 0 be, dece fiuri manco
non me fa lu fiancu;
per quantu sta m pignu? 35
se me resce un disignu,
io gle Foglio rescote
e cusci farrii la dote
lu maritu a la moglie.
Prit, Pili presto non la toglie, 40
non gle lo promette,
sta m pignu per cento sette,
non te mette cuntu.
ScDFF. Appuntu ;
e che me restarla? 45
tridici fiuri sarria
lu nome della dote?
pò me percote
a ppenzacce solamente.
Prit. Baristi da di' a la gente 50
e starristi sempre atìrittu;
ecco ser Ciappellitu!
ce scima be ncuntrati.
Scena Seconda
Sere, Scuff, e Prit.
Ser. Perché ve scete abbutinati?
me olete colle [coelle?] dire 55
nanzi che vaca a spartire
la deferentia ch'é nata
poco fa, gianata.
fra dui pazariegli
che co li coi-tiegli
lunghi se ulia ferire?
io gli so gif a spartire
e gli oglio accordare.
60
') Int. terreno.
654
G. CROCIONI
ScuFF. Pose ') accentare
comm'é gita la cosa? 65
Seb. Non é gita furiosa;
a più per ascio,
per adesso ve bascio
a tutti du le mane.
Pbit. Ossù, a domane; 70
ma, sere, di' un pò,
te par che s'aggia rasoio
Scuffiottu a piglili moglie?
Seb. So che non la o toglie,
Scuffiottu, t'ho' accompagnare ? 75
ScDFF. Sci, perché non te pare
che scia tempu ancora,
non te par scia gionta l'hora?
non pozo sta sulu n casa.
Seb. Tu n'ha beta na asa; 80
l'homu quanno s' he nvechiatu
per sta repusatu
non besogna che s' amoglia.
Pbit. Besogna che la toglia
per esse goematu. 85
Seb. Sarrà pocu prezatu
un vechio da na donna,
sotto a quella onna
le brache o porta;
lassate cusciglià 90
a chi a studiatu.
ScuFF. So bellu e cuscigliatu
e me so resolutu.
Seb. Me besogna sta mutu
da che non vo cosigliu, 95
io te poss'esse figliu,
tu me l'haeristi a dare,
ma pe lo studiare
che saccio commo va.
Pritu, che ce dirra 100
su n quesse parole?
Pbit. Faccia commo vole,
ma a di la eretà
commo 0 da fàV
besogna che lu goernu 10^
l'haggia quistu nvemu
per potè campa,
se no glie besogna crepa
de friddu e di vittu;
sallo ser Ciappellittu 110
sempre a sta n casa sulu....
me se gonfiarà lu culu.
Seb.
ScUFF.
Ser.
Pbit.
ScUFF.
Pbit.
ScDFF,
Prit.
ScDFF.
Pbit.
ScUFF,
Prit.
ScDFF.
Pbit.
ScUFF,
a dilla, fratellu.
I nisciunu é cervellu.
Se non c'è non ce scia, 115
0 io la fantascia
me la oglio caare.
E a me me pare
che per esse decrepitu
e per non perde lu creditu 120
ch'ha appresso la gente
non la pigliassi altramente,
pur fa ciò che te piace,
voglio gì a fa sta pace,
m' arracomanno. 125
0 va cu lu malannu
che lu cancaru te magna !
ha scunturbato la Spagna.
A Dia, a Dia, sere.
0! bellu parere 130
che t'ha datu cussu!
Che ce fa a nu?
ma nun besogna parlanne
che cussù, sa? lo spanne
per tutto, adesso, adesso; 135
comenzarà miesso
culu primu che s' afronta.
0 ddi che ce se mponta
quissu uotaiiu curnutu ;
commo l'haerà saputu 140
la iente, che ce fa?
Lu pudiria rguastà.
0 tu i mattu,
ancora non è fattu!
Ce se pò mponta, 145
ch'io Foglio fa,
se credesse senza dota,
io lo oglio fa na olta, 150
mpontacese chi se o.
Sa che farro?
girrò a sollicità.
Sci, sci vagì' a parla
nanzi ce metta focu 155
su notariu da pocu,
ch'e forscia la o per issu.
Si, non ce penza a quissu.
Ce lu farà penzare,
fa che Foglia pigliare; 160
con mille buscie
con mille frascarie
te he ^) quisci notarij
') Int.: puossi? si può?
-) Int. : viene, cioè, vengono.
'I,A INTERVENUTA RIDICOF.OSA
655
che he tutti falzarij;
saccio be chi é quisci! 165
non c'è homo pei* isci;
cognusci Mauritiu
che he hi dottor de stu locu?
e pur manco per pocu
ch'un notariu non hi gabasse 170
e non glie falzificasse
lu strumentu d'un campo,
che glie enga lu ampu,
a quanti ce n'é;
sa che èV 175
qnisti cettadini
gle da du quatrini
e pò glie lassa fare,
scritture cassare,
falzifici'i strumenti, 180
ma quae volta se ne pente,
ohimè ! che gente !
lo patre gabbarla,
concrudilo, assaia!
che me oglio ritirare. 185
Prit. Do te engo a rtroareV
ScuFF. Mi eccu n casa, e sa,
fa che sacci tratta
la cosa della dote.
Prit. Gle la oglio fa rescote, 190
lassa fa a me
che te oglio fa vede
si chi é Pritn to;
ma dimme m pò,
rtroai-ó da manecà? 195
ScuFF. Sci, lo oglio fa!
va via prestamente.
Scena Terza
Crement. e Taram.
Crem. In fine la mala gente
per tutto se rtroa,
gle paria de fa na proa 200 Ta
a lu figliu de Brodu,
non vulia che i niscium modu
la pace se facesse
accio che ce mettesse
le mane la Rasció, 205
ma un homu de reputatió
ugnunn fa sta fittu,
se non giugnia ser Ciappellittu,
non se facia coelle.
Tar. Non pili nuelle, 210
lassa fa a me,
Crementiu ve,
cusci sulu che fa?
Crem. Statia a penzii
alli guai mia 215
che per la fé de Dia
non ha funnu né fine;
y sarria un paladine,
se non haesse st'affannu ;
se proenne de gran l'annu 220
me fa la puscione ;
quanno voglio un testone
saccio do me gi;
sette fogliette de vi
<|uist"anno aggio rposte, 225
ma aggiu stu figliu alle coste,
che me fa despera;
ugni cosa vo fa
commo pare a issu;
adesso s'è missu 230
su le custió.
Tu t' ha pili che rasció,
Crementiu fratellu,
e io cu lu cervellu
commatto de Saporetta 235
che é tanto maledetta
che pare un magnattu.
Crem. Quissu non é lu fattu,
non é cosa lu grida,
é che vo spreca, 240
vo butta gli quatrini :
se buligniiii
ha spisci s'una ribcca,
le gioenette non spreca,
non saccio che te ogli. 245
Sacci che non ce cogli:
figliama a spfecà
se vo rasomeglia
tutta a [la] laa sua ')
che, a dilla nfra de nua, 250
che per avvanza
non vulia mai magna
na cica de ricotta;
la carne meza cotta
io gl'haggio vista venne. 255
Era donna da facenne,
gle paria de fa na proa
quanno cucia du oa,
e, s'a venne le troaa,
non se le magnaa, 260
per gola d'un quatrine;
Tar.
') Cf. Gloss. s. laa.
656
G. CROCIONI
un di' dui pulcine
baia misci su lu spitu:
venne Pritu
e cusei gli disco, 265
se per sorta haesce
de le gaglin da venne;
essa lu ntartenne
e da lu spitu caó li pilcine
e per galline 270
se gli fece pagare.
0! cosci se 0 fare
figliama Saporetta;
ha cura d'ugni cosetta,
ma é troppo saputa 275
et he troppo bracuta;
a lu maritu vorrà da,
se mai lu pigliarci:
non ce se pò haé da fa,
un di' muri me fa. 280
Uhimé che figliai
che glie enga la tigna,
quasci me l'a fatto di;
ossù, io voglio gì
da la moglie de Brodu, 285
che se sarró da cordu
gl'oglio dà m pò de gline.
Cbem. Va via; in fine,
ognun de nua
n'ha la parte sua, 290
ognuno ha da fare.
Scena Quarta
Ser Ciappell. e Crem.
Seb. La pace é ben tramare:
aquita lu romore,
rtene lu furore
dellu populu e della gente : 295
sempre su la mente
he dell'homu saputu.
Dice lu statutu
mi ecco de Petine
che du carlini 300
paga chi fa custió,
acciò che la rasció
se poss'ogne le mane,
e cusci pian piane
r homu scia gastigatu. 305
Io so statu
una pace a fare,
e me so fattu pagare.
La gente é poeretta
e per una foglietta 310
me ce so accordatu.
Cbeu. 0! sci lu ben troatu,
ser Ciappellitu valente.
Seb. Pax, amorem, benevolentia
poza haé Crementiu 315
con tuttu lu parentatu.
Cbem. Sere, io t' haggio squastratu
per homu multo saputu.
Seb. Io so suto
dottu fin su le fascie: 320
l'homu ce nasce
quanno a da esse valente.
Cbem. Tutta la gente
te ten cusci,
ma, sere, di', 325
damme quae cuscigliu.
Quillu figliu
me fa desperare.
See. Volu fermare?
o! dàglie moglie, 330
me enga le doglie
se non lu idi mutare:
non pò saltare
unu ch'hé accumpagnatu ;
e tu chi l'ha proatu 335
lo de sapere.
Chem. Quissu to parere
me piace, ser Ciappellittu,
ma, che sci benedittu,
coscigliacelu m pocu 340
che non troo ma locu
fin che fa le pasci'e.
Ser. Io non saccio di busci'e,
lo oglio fare,
lassa tramare 345
la cosa a stu fustu;
s'io non te l'aggiustu
di che so ignorante:
VI? te lo dico nante,
voglio che resca netta, 350
gl'oglio dà Saporetta
la figlia de Taramata;
piacete, gianata,
non fa lu furiente,
ripusatc la mente 355
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
657
e lassa lare a mene.
Crem. Sere, a la fede
me comenzi a rentrare,
te oglio recordare
solo na paroletta; 360
(me par che la gauzetta
scia sufficiente)
ma guarda mpó mente
della robba se che ha,
e dimmelo dima. 865
Ser. 0 ssù io, sa?
fa pure stima
che prima prima
ugni cosa voglio sape ;
tu statte a sedè, 370
e a me lassa traaglia,
e Gommo non saccio tira
questa faccenna a fine,
di' che lo ine
m'ha caato de cervellu. 375
Crem. Sere, fratellu,
non te dico altro;
te conosco scaltra
e per homo saccente,
ma fa che la gente 380
non te conosca variu.
Ser. Crementiu, so notariu
e aggio studiatu
e me so troatu
pili volte a quisci mpicci; 385
no me va ma i capricci
su per lu capu,
perché i o sempre n capo
lo meglio e lo megliore,
e forsce quae dottore 390
che fa lu sapiente
e da tutta la gente
é tenut'un Salamone,
su i banchi a la Rascione
ugni di' se rtroa. 395
Che, se facesse proa,
manco sa lege;
spissu, spissu le lege
ntenne a lu cuntrariu.
Me che so notariu 400
é venuti a rtroare
per volesse cuscigliare
de qualche ntricu.
Crem. Io faggio per amicu
e lasso a te la cura; 405
va con la ventura
e con la bona sorte,
e, se a me me porti
quae bona nuella,
tente su la scarsella 410
secur quae grussittu.
Ser. Lassa fa a ser Ciappellitu (sic),
vatte pur via
che per la fede mia
foglio servire, 415
e voglio adessa gire
un poco a manecare,
e pò rverró a parlare
mi ecco a Taramata.
Gommo l'aggio cuscigliata 420
bello bello gle parlare,
e lu nventariu farro
della roba che se rtroa,
accio la noa
pozza dà a Crementiu. 425
Scena Quinta
Pritu e Gaudent.
Prit. Ven m pò qua, Gaudentiu,
lassate rascionà,
potta! te fa tira
commo fussi cettadine.
Gaid. Tu non ha ma fine, 430
finiscila, se te pare,
che agg'altro da fiire,
non pozo sta più fittu.
Prit. Se vede ch'i giuinittu,
e che non ha cervellu; 435
io comm' un fratellu
te oglio cuscigliare.
e tu non vo scoltare,
par che scij nfuriatu.
Gaud. Babbu f ha mannatu, 440
cridi che non lo saccia?
non besogna che me faccia
parla per gli mezani,
che gle rescerà vani
tutti gli cuscigli. 445
Gli poeri figli
se tratta da fachini,
commo a du quatrini...
0 ! m'ha assascinatu !
658
G. CROCIONI
tristii me despriatiatu, 450
che voglio io pili fareV
non pozo pili campare,
stu figli u m' arruina,
tuttu se tapina,
tuttu se delania, 455
e pò issi smania,
se non te la puttana,
ma qiiae volta la lana
gle casca da la testa.
Prit. 0! quessa é n'altra festa, 460
lassamola pur gire ;
vome ') tu sentire?
vo sta un poco quitu?
te oglio fa un partitu
che a te te piacerà, 465
se te contentarà
sarà bene per te,
che io, per cuntu me,
pocu me ne curu.
(ìaud. Tu parli cu lu muru, 470
non te oglio ascolta,
e vatti pur a fa
gli fatti tua,
che fra de nua
poco ce pò avvanzà. 475
Pkit. Te ulia rascionà
de elette dà moglie,
ma pò che non l'ho toglie
i me oglio parti.
Gaud. Fermate, do o gì? 480
se de quiss' ho rascionà,
i foglio ascolta,
perdoname, fratellu.
Prit. Tu non ha cervellu
né discritió; 485
te par da haé rasció
a patritu de di male?
lu demoniu nfernale
quesse cose te fa di'.
Gai:u. 0! stamme a senti: 490
lu bon acunsigliu
che te oglio dà da figliu,
te oglio accompagnare,
(o! multo me pare
che t'aggia da piacere!) 495
me l'ha dittu lu sere,
ch'é con una ganzetta
delicata e netta:
la prima de Petine.
Gaud. Po eh' ha da gi cuscine, 500
de olemme accompagna,
io te oglio parla
alla libera gianata:
La moglie de Ciabó,
se colle' me o, 505
i me oglio accompagna,
altramente non penzà
che m'haccompagna mai.
Pkit. 0 ! che te enga gli guai I
tu no burla, 510
e che vo fa
d'essa vechia rapaciosa,
lercia, brutta e baosa?
ha na bocca par na gaggia,
e credo ch'haggia 515
le poccie, commo besciche.
lo non so che te di chi,
do te a la fantascia?
con le froscie spargerla
de semmula un botenellu, 520
né dente né capillu
credo ch'haggia sula testa;
non saria cos'honesta,
non te piglia su mpacciu;
ha pò quillu mustacciu, 525
che se glie guardi fissu
par scia d'un porcu stissu;
gli putrist'esse figliu,
piglia quistu cuscigliu,
lassala stare. 530
Gaud. Vome ') contentare?
dammela a quistu modu.
Prit. No no, guasta lu nodu,
non ce penzare,
no ne oglio parlare, 535
me oglio gi con Dia.
Gaud. Ossii, dimme pur via
chi é quessa che m'ho dà,
s' é cosa da piglia
damo adess' la stretta. 540
Prit. Cunusci Saporetta,
la fi de Taramata,
quella delicata,
quillu musu de luna?
sacci che nesciuna 545
la passa de belleza;
é tutta gentileza,
lu nome la condanna:
non vi che se domanna
') Int. : mi vuoi.
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
659
la bella Saporotta? 550
a lu maiic'é ganzetta,
non é gaglina vechia,
né crede che se spechia,
né se mpiastra mustacciu :
aqqua de pantanacciu 555
lu colo che se mette;
non é da ste cloette
né da ste saputelle
che in locu d'esse belle
par tanti mascaruni : 560
gli mariti é castruni
che glie lo lassa fare.
Gaud. Tu me comenzi entrare
drent' a la fantascia,
che per la fede mia 565
me sento n certo modu...
par che deenta brodu :
tu hai pili che rasció.
Prit. e sa per un Sansó,
quano rapre la bocca; 570
ugn'annu pò la biocha...
par na moscula per casa,
quannu rlaa le asa
pare na signora,
e porta la corona, 575
e sci se la fa penne
e con le sue faccenne
resce donna d'honore.
Gaud. Non pili eh' a me l' amore
me rentra su 1 cervellu. 580
0! Pritu, mio fratellu,
pe, fallo prestamente,
non me fa sta dolente,
va, troa pur mi pa
e di' se lo vo fa, 585
e pò troa Taramata,
vacci, è meglio gì gianata,
fa na olta prestu, Pritu.
Prit. No no furia, lu caniiitu
pe lassa a me fa, 590
te oglio contenta
vatte pur via.
Gaud. 0! Dia!
a me me par migl'anni
che l'aggio da spusà, 595
Pritu, Pritu, e sa?
sulicita, fratellu!
Prit. E va via, pazarellu,
lassa la cura a me.
0 ! 0 ! quistu pur e' é ; 600
non haggio fattu pocu:
non sta sempre in un locu
chi le facenne o fa.
Lassarne caminà.
Scena Sesta
Sap oretta sola, canta.
Sap. Sotto sotterra c'hé natana rosa, 605
stace lo caalier che ciancia egioca.
Scia laudato Dia!
dapó che Maia mia
maritu m'ho troa,
e cusci pozo canta 610
e sta bella ripusata;
ce so pur arriata
a questa contenteza!
uhimé! che allegreza
che cunsulatione I 615
me par che lu pormone
iss' ancora se resenta;
maia mia, che sci contenta,
multu ha cunsulata
figliata, gianata, 620
ma pili te fo stizare,
e te oglio portare
l'aqqua con le rechie.
Che c'o fa d'esse echie
che le ganzette, 625
le poerette,
prima le fa nvechià
che Voglia marita?
le fa tutte liquefa
e cuRCi non ti cura 630
ch'allu primu fitu
non é più bon da maritu:
gle se ncrespa le ancie,
e queste non é ciancie
0 guarda, mpó mente 635
da ste echie dolente
commo scima cunnutte;
besognaria che tutte
nseme s'accordasse
e maritu se pigliasse 640
660
G. CROCIONI
tutte da per esse,
0 pò esse stesse
n casa se lu menasse,
che nesciuno lo sapesse;
so che le farria penzare
ste echie, e stralunare
a rtroaglie maritu,
e quist'é l'apititu
che m'haia missu n testa,
se maia non era presta 650
a dammilu essa stessa.
Ossu voglio gì via,
me oglio gi a fa bella
645 che par la coratella
me se strica drent'a lu core, 655
ma de esse l'amore
che drento c'hé rentratu.
Scena Settima
Scuflaottu e Saporetta.
ScDFF. Fotta ! me so straccatu
co lo tanto aspettare!
pe, che se penza de fare 660
Pritu, che non vene?
me fa sta m pene
in doglie e in affannu,
m' ha fatto sta un annu
in casa a fa cioetta *), 665
o! eccu Saporetta,
potta I lu se tira.
Sap. Ho! ho!
ScuFF. Ha! ha! suspira,
la oglio gì a ncuntra. 670
Saporetta, che fa
c'ha dato su l'archittu?
quae bellu giuinittu
t'ha fatto la fattura;
chi he? lu fi di Stura 675
ho lu fi de Cacastraccia ?
Sap. Uh ! uh ! che patarachia,
pe no sta un poco quitu!
ScuFF. Ha troatu maritu
mammata Taramata? 680
Sap. e sci gianata
quesso statia penzenno.
ScDFF. 0 ! su ! te ntenno
e t'haggio ben comprisu !
t'ha 'mpiastratu lu isu 685
e scuppate le ciglia,
0 ! che bella figlia !
t'ha fattu lu ricciu,
ma che he stu mpicciu?
to! to! é na peza, 690
tu non i nuenza ')
e te ho acconciare?
Sap. Me la ulia leare
e pò me s'hé scordato.
Uh ! che sci scannatu, 695
non guarda ogni cosetta,
non lu vi? so poeretta,
per la amor de Dia
non lu rdi a maia mia,
Scuffiottu, non ne parla. 700
ScuFF. Non te dubita,
bada pur a te,
ma dimme m pò a me,
che facete sole n casa?
mammeta vidua é rmasa 705
non se ole rmarità;
pe, che penza de fa?
ugni cosa va n malora,
chi ve laora,
chi ve rficca la igna? 710
horma le crespigna
a soma ce se de rcoglie.
Sap. Oh! non me da pili doglie
non me dà pili affannu, 715
é giunti! l'annu
che he mortu babbu Ciabó
e anco non vo
penza a rmaritasse.
ScuFF. Se maritu rtroasse 720
per essa e per te,
dimme m pò a me
') Int.: a far come la civetta, cioè a guardare e riguardare se tornava.
^) Che s'abbia da correggere in 'nuezza' novizia?
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
661
ce s' accordaria ?
Sap. Sci non c'ha fantascia,
non c'ha cosa de oglia. 725
SccvF. 0 ! che gle enga la doglia,
pe, che diaulo vo fa?
Di m pò, e gVé stat'a parla
nisciuuu sta matina?
bAi'. Lu maritu de Saratìna, 730
Pritu, ce enne, gianata,
ma non ce l'ha troata,
non gl'ha ditto coelle.
SciFK. Ah! hai bone nuelle,
Pritu se mette prescia, 735
besogna che rescia
lu maniggiu sicuramente.
Sap. Me par de vede iente,
lassarne rentrare.
ScuFF. No gl'aggio potuto caare 740
na parchi de bocca.
A la fé che non he sciocha,
che fantella sperfonnata!
la donna com'è nata
té lu diaulu su lu crine, 745
con esse, infine,
non se pò haé da fare;
me oglio retirare
e cusci spettare Pritu. 750
Aggiama de haé appititu,
é un pezu che gè via.
SciENA {sic) Ottava
Taramata e Sere.
Tak. S'io non giugnia
presto, n casa d'Astorggiu,
cridi che d'accordu 755
s'harria rotta la copeza :
o! che bella gentileza!
la comma gridaa,
Astorggii; se stizzaa,
paria cani e gatti: 760
* Quisci non é gli patti
che m'ulij osservare /,
dicia la Commare.
Astorggiu responnia:
" T'ha messa fantascia 765
e non he vir coelle;
chi t'ha ditt'esse nuelle?
dimmelo m pò tu ,.
All'hora i giunse su
e gli feci aquitare, 770
e all'hora la Commare
me disse tutta stizata :
" Parte bella questa cosa?
custii che me promette
de non tocca ganzette 775
fin ch'ha da sta con micu,
e pò l'amicu
per famme despera
se va a colcà
co la figlia de Fofó ! 780
vi se m'haggio rasciò
de gridìi e sta dolente! ,.
Uh mult'é furiente,
l'hé malletta la Comma.
Non s'ulia contenta 785
che Astorgiu glie dicesse
che se n'accorgesse,
che non era veretà
che gli ulia dà
per fi a lu giuramentu, 790
che glie enga lu spaentu!
Sbr. La cosa promesta,
mascimamente questa
ch'hé un parentatu
besogna scia manegiatu 795
da homini saggi e scorti :
acciò che gli torti
non se faccia a nisciuno,
c'ognunu
ne resta consulatu; 800
quistu parentatu
io lu oglio trattare;
sempre a da fare
un homu de riputatió ;
ossii ! alla cunclusió ! 805
o! o!, ecco Taramata!
sci multo ben troata!
Tar. Che va facenno, sere?
Seb. Vaco daenno parere
a chi me lu chede, 810
senza mercede
e senza pagamentu.
Tar. Uh ! che sci contentu !
appunto besogno n'haia:
t' oglio di na fantascia 815
che m'haggio misso n testa.
662
G. CROCIONI
Ser. É cos'honcsta;
quanno s'ha da cuscigliare,
besogua gi a rtroare
quigli eh' he dutturi, 820
perché i ntrichi e i duluri Tar.
da lu capu ve lea.
Tar. Par che lu core recea
quae consulatió.
Senti m pò s'aggio rasoio, 825
senti m pò che voglio fa:
poco fa giaa a caa Ser.
m pò d'agua a la fontana,
e a pé de strada piana
Pritu m'affrontò 830
e cusci me rascionò
d'un partitu ch'issu haia,
de olemme rmarita
da che Ciabò é mortu.
Ser. 0! bellu confortu! 835
tu t'ho rmarita
e figliata la o lassa
a che ne ho ne enga?')
fa che non te ntenna,
non me ne rascionà. 840
Pe, vome *) ascolta,
anco non haggio dittu
e tu, ser Ciappellittu,
vo toglie a nijnà :
essa anco vo marita, 84-5
serra duppiu lu nodu.
0 ! 0 ! a quissu modu,
t'aeristi quae rasoio,
ma lu di delle perso
che sarrà lu fattu ; 8.50
nanzi facci lu contrattu
e ! penzatece bene.
Ma ecco che vene
Pritu, de qua,
vedamo che vo fa. 855
SciENA Nona
Pritu, Sere e Taram.
Prit, e unu n' he accordatu !
comm'haggio rtroatu
Taramata sola,
in una parola
lu nodu é bell'e strittu ! 860 Ser.
0 ! eccu Ciappellittu,
rascionà con Taramata.-
bunni bunni, brigata.
Ser. A! decon Pritiim valentem! Tar.
di' m pò, che va facennoV 865
quae cosa va tramenno.
Prit. Sere, vote ^) guadagna
quae cosa da magna, Prit.
0 ! cusciglia Taramata,
di che l'haima maritata 870
e pò lassa fa a nu.
Tar, Da pò che tra de vu
volete rascionà,
io ve voglio lassa ;
bunni, sere, a dia, Pritu! 875
Ser. Po tu m'ha sbiuttitu,
fermate, do vo gì?
Prit. Taramata, non te parti,
non so venuto per sturbatte;
era inutu a rascionatte 880
de quillu parere:
mi ecco allu sere
gle lu podima fidare.
Se cuscigliu ve posso dare
no ve mettate atfannu, 885
se no, bunni e bonannu,
ce reederima.
Sere, vi? non fa stima
de partitte i nisciun modu.
Se s' ha da stregne lu nodu 890
tu te c'ha da troare.
0 ! via, a rascionare,
Taramata, lu tempu é variu,
adessa non e' he contrariu,
damoglie la stretta. 895
Sere, sta poeretta
sta sola sola n casa,
non pò bee na asa
che glie faccia produ,
e a quistu modu 900
tu sa, non ce pò sta;
se vo gì a compra
un moccó de accina,
') Int. : all'abbandono, ne venga che vuole.
') Int.: mi vuoi?
^) Int.: ti vuoi?
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
663
Prit.
Tar.
Sek.
se pe na proenna de farina
vo gi gió lu mugli, 905
besogna che agli vici
lu besognu commetta,
perché a Saporetta
nuu la pò lassa sola. Tar.
A dilla a uà parola, 910
se de rmaritare, Skr.
che te ne pare ?
ouscigliala m pò.
Se he mortu Ciabó,
che vo pili aspetta? 915
sola non se pò sta,
troa quae paiiitu,
repigliate maritu.
Lu partitu he troatu,
Scuffiottu n'é namoratu, 920 Tar.
della robba n'ha
non ce besogna penzà.
Lu partitu é superchiu, Ser.
ma é troppo ve chiù.
Cussii l'aerò treddi, 925
e pò rmanerò cusci Prit.
pur vidua scunsulata.
0! che dici, Taramata, Tar.
per quess'a lu cor affrittu?
Tu ') piglia un iuinittu ? 930 Prit.
non te starna bé :
0 cridi a me,
no lu rnuntia,
potria crepa Tar.
e tu ricca rmanerà. 935
0, via, lo oglio fa,
ma sentate na parola,
non voglio lassa sola Prit.
figliama Saporetta,
che la poeretta 940 Ser.
de dolo se murena.
T'oglio mette pe la via, Tar.
non te despera ;
non sa che poco fa
te n'aggio rascionato? 945
Sci, ma non m'ha raccontato Ser.
a chi la ulij da;
se la ulima accompagna,
daamala a un juinittu,
s'haesse sulu lu littu 950
e non haesse pà, Prit
saccio che stami
contenta e ripusata.
Ntenneme, Taramata,
ascoltame m pò, Pritu; 955
haggiu un partitu
che, se ce reescesse,
credo che ce statesse
Sapoietta da cettadina.
Dimme m pò, a prima prima, 960
de che parentat' he?
Cridi me a me,
eh' he degli Ijon de Peti,
sempre hai ri a quatri
e vin e pan da enne, 9fi5
ha de multu coelle :
rcoglie la faa a giumelle
giò da la puscione
he é bone persone,
non é gente da impicciu. 970
0 ! caame stu capricciu,
se me l'ho fa sapere,
non me pivi ntertenere.
Cunusci Gaudentiu
lu figliu de Crementiu? 975
che ne dici tu, Pritu?
Cappita ! é bon partitu
te ne pò contenta.
Chi sa se lo ho fa? 980
e chi sa se lo oglia?
Non te piglia sa doglia,
lo sacc'i che la ole
che ce o pia parole?
issu l'a ditt'a me. 985
E io te do la fé
che so tracontenta ;
fa che presto senta
quae risolutiò.
Taramata piano m pò; 990
della dota che farrima?
Besogna dillo prima;
Taramata che vo fii?
Io gle oglio da
ciò che aggio per la dote, 995
e voglio prima scote
quillu pezo de igna.
E io farro l'assigna
de ciò che gli o dà
e lo farrà stima 1000
ab aiitetn peritus
quem dicit tu Pritus ?
Altro non se pò di
solo che lo sparti
scia fatto iustamente 1005
acciò ch'ugnun la mente
') Int. : vuoi ?
664
G. CROCIONI
Tar.
poza requià.
Della robba besogna dà
a Scuffiottu la mita, Seb.
e l'altra la orra 1010
per dote Gauaentiu,
perché cusci Crementiu
ne sarrà sodisfattu.
Quissu a punt'é lu pattu
che fa io gli ulia; 1015 Prit.
ossii, nome de Dia,
io ve oglio lassa,
ma besogna strifulà Ser.
lu nventariu ch'a dittu ').
Giamoce, assaia. 1020
Sci SCI giamo pur via
giam a fa està faccenna.
lo, to ! porto la penna
e non he temperata,
me se de esse scordata 1025
la bona che ce serio.
A reedecce, sere, a Dio,
me oglio mette fretta
che Scuffiottu m'aspetta.
Ad revidendum Pritus. 1030
*) Qui sembrami di notare, dal senso, la caduta di qualche verso,
del che può dare indizio anche il difetto della rima.
' LA INTERVENUTA RIDICOLOSA '
665
ATTO TERZO
SciENA I
Gaudentiu sulu.
Gaud. La gioentii nou pò sta,
cosili me fa aspetta
e ma dami de olta;
0 io na olta
lu oglio gì a ncuntrare, 5
perché a me me pare
che me daca la baia.
Me lo dicia be mala
che era un chiagiaró,
c'oglio fa custió, 10
se la cosa non ha conclusa.
Non ce valei-a scusa,
perché me l'a prumisto.
Questa olta lu pisto
e lu faccio mpara sinnu, 15
e sci voglio di a ccinnu
n'altra olta me ntenna.
Parte bella faccenna
non esse anco spidita?
me enga la pipita, 20
se non lu fo penti.
Lu oglio fil muri
de la morte maligna.
D'esse ^) git'a la igna
che d'ecco non ce sta. 25
Se lu pozo affronta
da le ma non me scappa;
me learó la lappa
presto da lu dossu ;
da per issu s'è mossu 30
non me lo pò nega,
che non l'ulia fa,
né manco ce pensaa ;
gl'oglio fa fa la baa
commo ch'agli mpiccati; 35
gabba gli namorati
e faglie quisti affrunti....
a lo rfa de gli cunti
lu oglio achiappare.
SciENA Seconda
Crementiu e Pritu.
0! multo a me me pare 40
che staca Ciappellittu,
me fa sta tant'affritto
che non pozo requiare,
e un'hora a me me pare
che scia migl'ann' apuntu: 45
granne earia l'afFrunto
non potesse troare
con chi accompagnare Pkit.
Gaudentiu me figliolo.
Per la robba che me troo 50
ugnun lo durria fa,
perché l'appai-entà
commo c'hé quae coelle
senza più altre nuelle
lo concrude un mezanu;
se 1 disignu rescie vanu
ma pili voglio proa
figlimu d'amoglia;
voglio se nvecchia n casa.
La fama se he spasa
de quistu parentatu
per tuttu 1 vicinatu,
Crementiu lo de sape.
55
60
^) Int. : dev'essere.
StudJ di fi!olof)ia romanza, IX.
42
666
G. CROCIONI
Lassate edé,
Crementiu, do va? 65
Di un pò, non me o dà
la mancia de la noa?
0! bella proa,
tu te fuggiai
Crem. Io non te viddi mai, 70
se non quann'ha chiamato.
Che noa m'ha recato
de figlimu ch'hé spusu? Crem.
non me torce lu musu.
Prit. Fotta! chi te l'ha dittu? 75
Crem. Da messer Ciappellittu
io l'haggio saputo. Prit.
Prit. E multo é venuto
presto a datte noa, Crem.
ha fatto bella proa 80
se quest'hé!
Crem. E perché
non l'haia da sape?
0 ! quiss'é bel pare.
Prit. Io te l'haia a di 85 Prit.
lu primu, per veni
cun ticu a manecà,
e pottemme guadagna
quae bona mancia. Crem.
Crem. Tu rempierà la pancia 90
e la mancia ha guadagnata,
perché non me l'à data
questa noa altro che tu.
Prit. Crementiu, sa? pò tu
credo m'ogli burla, 95
i te l'era inuta a dà...
me penzaa che te piacesse
non che te recrescesse.
Crem. Tu me sechi le cervella;
questa bona nuella 100
non m' he suta ma portata, Prit.
e tu me l'à portata
e cusci l'haggio saputa,
e m'hé tanto piaciuta
che me par esse deentatu 105
juinittu uamoratu,
commo era int'anni fa. Crem.
Ma la dota comò va?
Pritu fa ch'io la ntenna.
Prit. Fa cuntu la faccenna 110
scia stata scultrinata
da na certa brigata
ch'ugni cosa o sapere.
Io e lu sere
lu parentatu haimo fatto, 115
e a quest'hora lu cuntrattu
serra bell'e strifulatu.
Prima prima sarrà stimatu
quella robba che e' he,
e fra Scuffiottu e te 120
l'haete da sparti.
0 ! che te sento di !
Scuffiottu a tolto moglie?
0 ! che glie enga le doglie,
pe, chi a pigliata? 125
Taramata,
ve sarrete parenti.
Fotta ! non ha pili denti
s'è mezzu aggobbatu
e s'è annutiatu 130
quanno che non pò più.
0 puiritt' ossù !
presto lo idirima.
Issu non fa sa stima,
se penza de resciste; 135
ch'é stati! a tre piste,
dice, non ha paura.
Se su capricciu dura,
non sarrà da pocu,
se penza scia un giocu 140
lo fa d'està faccenna.
Chi a orechie intenne,
Ossù!, me oglio gì
e lu oglio fini,
che io non veggo l'hora 145
de fa sta cosa bona,
che Dio scia laudatu!
0 vi eh' haeró fermatu
figlimu maldittu.
0 via non sta più fittu, 150
vatte a proedé.
Io voglio fa sape
a Scuffiottu che m'aspetta
che la cosa é gita netta.
A Dia, ce rparlarima. 155
Fa pur stima
che te de desiderare,
lassarne gì a conciare
per casa le massarie.
Fotta! farrà pascle 160
Gaudentiu a maramà!
•• L\ INTERVENUTA RIDICOLOSA
667
SciENA Terza
Saporetta e Taram.
Sap. Adessa che lu Notarla
serie lu nventariu
e maia sta attaccennata
e cusci io fjianata 165
in'oglio gi a cusci<iflia
mi quagió da la Comma,
quello ch'iiggio da fa,
quanto lu spusu ce enerà.
Tar. Saporetta ! o Saporetta ! 170
uh I che sci maldetta,
pe, do i gita?
me s'è smarrita
to ! eccola millu !
pe, do diaulu va? 175
Sap. Vaco qua da la Comma,
me ulia fa presta
lu spalla-eollu.
Tar. Uh ! te rumpi lu collu,
do a truata quest'usanza? 180
guarda mpó che creanza!
Sap.
Tar.
se te 0 concia lu musu
nauti che venga lu spusu,
non sii parili?
saccio che non vo fii 185
commo la figlia de Strina,
che non c'è vicina
che non vaca affannenno
e va troenno
sempre quest'e quella 190
e dice: comò so bella?
staco he acconciata ?
pò, se ini accuntrata,
cri che statii frescha ?
Maia, non te recresca, 195
non lo farro ma più.
Camina, su,
che lu sere non te senta,
uh ! mult'è contenta,
non cape su la pella. 200
SciENA Quarta
Gaud., Pritu e Scufflottu.
ScuFF. 0 quest'è la nuella
che m'ha toccato lu core ;
adessa lu dolore
tuttu me s'è partitu;
0 se sapisci, Pritu, 205
quanto te so ubrigatu!
serrò accompagnatu,
la robba crescerà
e quaeduno rmanerà
dopo me, quanno so mortu. 210
Pkit. Scufflottu, aeristi tortu,
se non te ralegrassi;
haggio spisci molti pasci
per maneggia lu parentatu,
alla fin l'haggio tiratu 215
a quello che vulima.
ScuFF. Quanno nu farrimo stima
delle cose ch'ha in casa?
Prit. Sta facenna c'è rmasa,
ogn'altra cos'è fatta, 220
e i credo che batta
su gli dece Aurine,
perché le casse è pine
rase, che le lassò
lu puirittu de Ciabó. 225
Tu sa orma che fa?
vidi da capezil 0
la casa, lo meglio che pò,
perchè te rveneró
a rtroà accompagnatu. 230
Gaud. Oh! cera de mpiccatu.
adessa te rtroo,
non me parto che io proo
se quistu ferru taglia.
Prit. 0 che te enga la nguenaglia, 235
Gaudentiu, t'i ammattitu?
ScuFF. 0 che te enga lu nitritu,
pe, vo fa custió ?
^) Forse : d'acapezà.
668
G. CROCIONI
Gald.
Prit.
Gaud.
SCUFF.
Gaud.
Prit.
Gadd.
ScUFF.
M'baggio be rasció,
quant'é che m'ha' parlato? 240
Pe, f haggio accompagnato,
che vurristi da me?
Yurria sape
se Saporetta me ole.
Pe, non più parole, 245
non t'ha ditto de sci?
Oh ! oh ! se sta cusci
la pudiristi ntenne.
Ma più su ste facenne
me mpaccio con juinitti ; 250
issi vo sta fitti
e gl'altri vo che traaglia;
oh che canaglia!
dice pò: Va, faglie bene.
Su le catene 255
fin qua m'ha fatto stare,
che te ne pare,
Scuffiottu, dillo tu.
Ossù, ha torto tu,
figliu, non te stizà, 260
quesse cose non se pò fa
cusci a mena ditu;
basta che serra maritu
de Saporetta bella ;
pò quessa nuella 265
te dijria consulà,
e tu te 0 ncollorà.
Gaud. Io non so ncoUoratu,
ma me so maraegliatu
che da un pezo n guà 270
non m'é vinutu a parla,
me credia che me burlesse.
ScuFF. E che vulij che facesse
se non era concrusa?
Con che scusa 275
nanti t'ulia vini?
pò tu me fa mpasci
a vedette sci stizatu.
Cussu ha fattu lu parentatu
e pò glie dici ignuria? 280
Non besogna gì a furia,
lassate maneggia;
0 vatte m pò a concia
non perde tempu, vanne
che agiamà se spanne 285
per tutto, bad'a te.
Gaud. 0 biatu me,
sci SCI, m'oglio gì via
me racomanno.
ScuFF. A Dia. 290
0 che capu vanu!
che cervellu balsauu!
SciENA Quinta
Sere, Taramata e Scuff.
Ser. É gran reputatió
d'unu che scia notariu,
quanno fa n'aventariu
che staca ben a sestu,
perché o tard' o prestu
ne serra laudatu.
Credo haé ben stimatu
secunnu lu cervello
de tutto quanto quello
che la robba pò alere,
com'ognun vedere
potrà su la scrittura.
0 che bella vintura!
Scuffiottu sta a spetta,
giamoglie un pò a parla!
Taramata, ven cun micu;
te so di' ch'i bon amicu,
Scuffiottu, che se fa?
accostate m pò qua!
non vidi Taramata?
Scuff. Oh scij la ben troata!
Tab. e tu scij lu ben venga!
295 Ser. Non saccio chi me tenga 315
che la fé non faccia dà;
serra megl' aspetta
che venga Gaudentiu
accio che Crementiu
300 non se poza lamenta, 320
perché ve l'o fa dà
inseme a tutti du.
Scuff. Sere, pe, fa tu,
che ne dici, Taramata?
305 Tu sta meza disperata, 325
pe, non me sta cusci,
che non te piace, di
da haé prisu maritu?
pe, vi ch'é bon partitu,
310 non me sta scunzulata. 330
Tar. La parola é bell'e data,
comm'o che me despiaccia ?
I.A INTERVENUTA RIDICOLOSA
669
Seu.
besognara me piaccia
in ogni moiln.
É gii'i strittu lu nodu,
335
non c'è altro che fa,
se non de gì a rtroa
Crementiu e lu figlia.
SciENA Sesta
Prit., Crem., Sere, Tara., Scuflf. e Pasqua*.
Crem. Non preza lu cuscigliu Prit.
de lu patre so, 340
vi se vo preza lu to. Pasq.
Prit. 0 che homu stronatu !
Ber. Oh! ecco lu parentatu, Ser.
adessu lu scrijma.
Crementiu, prima prima, 345
commo che bon^ amicu,
me rallegro con ticu
de quistu parentatu.
Crem. Oh ! scij lu ben troatu,
Dia te contenta, sere ; 350
lassate edere,
Scuffiottu, non t'abbuscare,
che me oglio rallegrare,
non 0 uto ma certanza
de questa parentanza, 355
ti sirria inut' a rtroare.
ScuFF. Non ce bt??ogna fare
cerimonie tra de nua;
presto presto tutti dua
ve sarrete parenti. 360
Prit. 0 ! multo sta contenti,
Taramata, e tu che fa?
i te eggo multo sta
afflitta e spenzerosa.
Tar. Io non aggio cosa, 865
commo urristi che statesse ?
Crem. Non vurria che te paresse,
perché non so venutu
che me fosce recrescutu (sic);
oh che scia nella bon'hora, 370
cusci con ticu ancora
me oglio rallegra.
Tak. Dia te poza contenta.
Ser. Oh tiratee da na banna,
che voglio che se spanna 375
quistu ch'é l'aventariu
ch'agio fatt'io notariu
per tuttu quistu locu ;
Pritu, sbriate m pocu,
va, chiama un testimoniu, 380
potta de lu demoniu,
che non te l'ha menatu?
Sci lu ben troatu.
Pasqua, che ha da fa?
Cosa aggio da fa, 385
perché, che vo?
Passa de qua gió,
state tutti a sentire
che io comenzo a dire:
Quistu é lu nventariu 390
ch'haggiu fatt'io notariu
mi eccu dillu locu.
In prima un capefocu
che ili cumpagnu é ruttu,
una pigna de struttu, 395
un ramaio e na cuchiara,
un toaglió da fa la spara,
tre pigne e du scudelle,
du camiscie e tre pannelle,
quattro scuffie da testa, 400
un polzó pe na balestra,
un bancu da sedè,
un lapiggiu e un trepé,
item du lenzole e un pagliericciu,
un canestru de capicciu, 405
du buca, un broccu,
una taza e mezu troccu,
un saccu. una sacchetta,
un calzittu e na brachetta,
sette nodri de gli, 410
un gallu e du gagli,
una matterà rotta,
du scattule da ricotta,
na lucerna senza lenguetta,
una trufa e na borletta; 415
item un caldaru,
e un pettene da telaru,
un pana e un tunnu,
una sechia senza funnu,
una zappa, una angha, 420
una storta e una stangha,
un falcció (sic), un accittarellu,
una scopa e un venderellu,
un'aspa e quattro fusa,
un varnellittu comò s'usa; 425
item una radetora,
670
G. CROCIONI
du coperchi e na fersora,
un pistatù e un morta,
una banchetta da magna,
una paletta, un spitu, 430
mezu barri d'acitu,
du trespoli, un telare,
e un cocciu da cacare,
una scrofa pregna
e sette pezzi de legna. 435
Tar. Sere, non te scorda
le tre passa de corda.
Ser. Adessa l'ulia di'.
Una biocha e du pulci,
una corda da segha, 440
e una cagnola prena,
un purchittu e du campa,
item, una schiaina
per tene caldo le rina
de li spusu che é vechiu; 445
item un spechiu
che costo tre quatri,
e du acora da cusci,
tre casce che non c'hé cosa,
e una é meza rosa, 450
cun un pezu de igna,
che, dice, sta in pignu.
Ossii, nome de Dio, Pritu,
e tu com'a nome?
Pasq. Io me chiamo Pasqua, 456
e lu patre de mi pà
se chiamaa Stroppiabirri,
ch'era un brau paladi,
e i so lu fi de Stura.
Ser. 0 ! co la bona intura 460
sarrete testimonij.
Et ego rogatus
in hoc x>cirentatus
qualmente Taramata
s'hé accompagnata 465
miecco con Scuffiottu,
e per dote glie dà
de ste robbe la mitii,
e l'altra a Gaudentiu
figliu qua de Crementiu 470
per haeglie data
ditta Taramata
per moglie la figlia;
e issu la piglia
e accetta lu partitu. 475
Crem. 0! Gaudentiu é gitu
fin miecco a lu campu
poco fa; almanco
rvenesse prestamente.
Ser. Non tenate pili mente, 480
jatel' a chiama,
che non c'hé altr' a fa.
Pasqua, te pò gì via.
Pasq. Me raccomanno a Dia.
Pbit. Horma che c'hé da fa? 485
Seb, 0 via, iate a chiama
lu spusu ; presto su,
Scuffiottu, e tu
statte ritiratu,
perché sarra chiamatu. 490
Taramata, tu ancora
sbriate, va, laora,
va, concia la ganzetta
e té la casa netta.
Tar. Sci sci, girró, 495
e n casa aspettarró.
Crem. Sere, e tu che vo fa ?
Ser. Me lassare rtroà,
jate pur via.
Crem. Ossù, a Dia. 500
ScuFF. A Dia, sere,
lassate reedere.
Pbit. E nu, Crementiu,
iam a rtroà Gaudentiu.
Sciena Settima
Ciabo' sulu.
CiAH. Dapo l'haé caminato 505
per lu maru e per la terra
e scampata la guerra
e la furia della corte,
eccote che la sorte
m'ha pur menato a Petine. 510
Ho ! in fine
ugni cos'è mutato.
pò mult'é accasato
da che so gitu via.
To! miecco c'era na ia, 515
e adessa c'è un casamentu;
me engha lu spaentu
se saccio do me sta.
0 che dirrà
mogliema, quanno me ede ? 520
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
671
saccio che se de crede
che me scia bell'e mortu;
to! miecco c'era n'ortu
e adessa c'hé na casa,
pe, cosa non che rmasa 525
de quellu che c'era prima;
o! come ne nvechima,
se non me gabbo,
elio casa de Babbu
e questa é casa mia,
se la fantascia
non me fa strabigliare.
0 io voglio bottare.
Tic toc tic toc
530
SciENA Ottava
Tara., Ciabo' e Sapo.
Tar.
ClAlt.
Tar.
ClAB.
Tar.
ClAB.
Tar.
ClAB.
Tar.
ClAB.
Presto! che esso gli spusci. Tar.
Se rasciona de spusci, 535
che sci che Taramata Ciab.
se sarra rmaritata.
Adessa, adessa, Pritu.
So Ciabó, non so Pritu.
0! corno ha utu nitiu 540 Tar.
che se fa lu sposalitiu? Ciab.
va via,
va nome de Dia!
0 ! io la eco ntricata,
la casa me s'hé sbagliata, 545
voglio rbottà.
e me l'oglio fa nsegnà.
0 de casa! o brigata!
tic toc
a la casa de Taramata Tar.
da che banna se va? 550
Perché? che ho fa?
voglie dà quae coelle?
Certe nuelle Ciab.
de lu maritu glie porto.
Lo saccio ch'é mortu, 555
e ssa scusa non te ale.
Lu demonio nfernale
ce ioca a la cioetta ')
con queir anima malletta.
0! purittu Ciabó! 560
che sci che non rtroaró Tar.
hoggi la casa mia!
pe la fé de Dia
che serra na bella festa!
Fatte a la fenestra, 565 Sap.
mustra m pò su mustacciu.
0 cialtronacciu,
aspetta, spetta m pò.
Ah! ah! adessa se ne hen gió.
0! sbriate, sorella, 570
se non vo che le cervella
te secca e te daca noia,
0! to ! cera de boia!
0! polti-ona vacca,
m' ha buttato l'aqqua, 575
voglio che te ne penti.
Dagli founamenti
adessa la casa te taglio;
tu vidi che non caglio,
scappa qua de fora 580
che li lupi te deora,
poltronaccia sfonnata!
So io Taramata,
e aggio pigliatu maritu.
Che giaa a fa lu furiscitu, 585
te pò gi via per quesso.
Ohimè! lu cessu! -)
tu i Taramata
e t'i accompagnata?
ossii, apri quagió 590
ch'hé rvinutu Ciabó to.
Cusci fosse mortu,
perché quissu tortu
non lu iniria a paté.
I, poeretta me! 595
pe, che voglio fa?
che scusa voglio piglia?
Babbitu, Saporetta !
Uh ! m"ha mesta la stretta !
Maia, é issu daero? 600
') Frase viva anche oggi, vale ' prendersi giuoco di alcuno '.
') Così la parola cancellata : la sovrapposta culu.
672
G. CROCIONI
Ciad. Quist'é un gran penserò,
s'hé viro che l'aggia pigliatu
Tar. Uh! svinturatu!
pe, com' ha fatto a rvini"?
CiAB. Tu m'ha fatt' ammattì;
comm'i rmaritata?
che noa t'hé stata data
dellu fattu mia?
Tar. Tutti me dicia
ch'iri stat'ammazatu,
ma non sta desperatu
ch'haia da esse fattu
questa sera lu cuntrattu
de me e de Saporetta.
Uh! che scia benedetta 615
quest'ora ch'i rvinutu.
CiAB. S'ancora non é sutu,
tuttu m'ha cunsulatu.
0 biatu me !
605 Sap. Maia, pe,
ven su che non saccio fa,
non me saccio acconcia;
tutta me so rguastata.
Tar. Uh! che sci cunsulata,
ecco babbu to
che te lasso
su la cesta, quanno gì vii
CiAB. Te rtroa via
che ma me lo pensaa.
610
620
625
SciENA Nona
Sere, Ciabo' e Tara.
Sek. Non resce ugni discignu.
630
N casa baia m pignu
un mantellu fruatu
Ser.
d'un desgratiatu
che per pagamentu
ClAB.
de caatura de stromentu
635
me l'haia lassatu;
adessa m'hé statu rubbatu
Ser.
e me lu besogna paga.
Io lu ulia porta
ClAB.
a le nozze solamente
640
accio la iente
Ser.
per notariu me cognoscesse
e honore me facesse
commo nu airi miritima.
ClAB.
Meglio serra che prima
645
destramente cercanno vaca
nanzi che daca
Ser.
^'accusa alla Rascione.
Assaia, le i^ersone
commo pò assascinare
650
glie par de fare
ClAB.
na proa da paladine;
ma pò che so vicine
Ser.
voglio di' a costerà
che m"ha aspetta che a bora 655
in ogni mo rveneró.
ClAB.
tic toc tic toc
Tar. Uh! essogli, Ciabó,
che
che gli ulima di?
Ciak. Lassagli vini,
lassa responne a me. 660
Chi é?
Taramata, so lu sere.
Oh ! un forestere !
Un foreste de lu locu.
Sere, mult'i da pocu. 665
Pe, non vi se chi so?
So che non i Ciabó,
me par de raffigurattc.
E io vengh'abbracciatte,
pò che m'ha rcunusciutu. 670
0 ! sci lu be rvinutu !
Pe, lu nome s'era leatu
ch'iri stat'ammazzatu.
Mogliema me l'à dittu,
qua diaulu maldittu 675
ha portata essa nuella.
0! questa sci ch'é bella!
se ulia accompagna;
hatelo ditto? e, sa,
questa sera s'haia da fa. 680
M" aggio fatt' acconta
com' é gif ugni cosa.
Faciamo spusa
almanco Saporetta
pò che la cos'è stretta. 685
0! quesso l'oglio fare,
pò che me pare
scia ben allocata.
Ma é stata nfamata
la casa de costora; 690
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
673
0 ! scia ne la bon' hora ;
mannamogler a ddire.
Non pò sta a vinire '),
non haé paura.
Oh che ventura!
eccogli, en de qua.
695
Scena Decima
Prit., Gaud., Crem., Ciab,, Ser. e Tara.
To ! to ! ce sta a spetta
lu sere, miello a l'usciu.
Chi é quillu da lu rusciu?
Non lo saccio i'. 700
Buuni! bunni!
multo staete musei.
Crementiu, non rcunusci
chi é stu foreste ?
Se lo 0 sape 705
ven qua, guardaglie m pò.
CTuarda, guarda Ciabó !
pe, tu i risuscitatu.
0' VI che e' haimo datu,
0 Scuffiottu desgratiatu! 710
Non so resuscitatu,
se non me so ma mortu.
0! che confo rtu!
io te oglio abbraccia,
e te ogli'» bascià, 715
che da che scima nati
ne scima stati
sempre comò frategli.
E adessa più che frategli
ne scima parenti. 720
Gaudentiu, non me senti ?
ecco lo geniro to.
Abbraccialu, Ciabó.
Parente, che se fa
da quant'in qua....? 725
0 sci lu Ijen rtornatu !
Polu! fi allongatu.
Pritu, e tu corno sta?
che non gle a' a fa
tu ancora l'allegrezza? 730
Prit. Questa sarra la parenteza,
he VI ser Ciappellittu,
0 che scia mallittu
Ciabó, pe, i rvinutu?
Ciak. Pritu, pò t'i nvechiatu; 735
haggio rtroatu
tuttu stu locu mutatu.
Ser. e che te penzi ? lu locu
s'hé mutat'a pocu a pocu,
ma manco ma sarria 740
se non gessamo ia,
ma ce besogna gi.
Ciab. 0 quessa sci
me sa na brutta festa.
Ser. É cos' honesta 745
pò ch'é rvinuti costora.
Facci ini fora
figliata Saporetta
e daamo la stretta
a quistu parentatu. 750
De lu tempu passatu
se ne rascionarà.
Ciab. Sci la oglio chiama.
Taramata! Taramata!
Se Saporetta s'è acconciata, 755
menala quagió.
Tar. Adessa, adessa, Ciabó.
Gaud. Sbriamola, che se fa?
Crem. Pritu, va a da
a Scuffiottu la noa. 760
Che gioa
de fallu pili stenta?
So che se desperani,
quanno sa està nuella.
') Int.: non può tardare a venire.
674
G. CROGIO.M
SciENA Undicesima
Gaud., Crem., Ciab., Tar., Sap., Ser.
Gaio
Fotta! l'è bella!
Biatu Gaudentiu!
ossi'i, Crementiu,
765
Gaud.
ecco Saporetta.
Crem.
Crem.
0 che SCI benedetta!
Sap.
Sciate li benvenuti!
770
Gaud
E tu sci la ben troata!
Fotta, Taramata,
Ciab.
lo r a conciata bene.
Ser.
Tar.
Uh! molto se ne rtene,
c'è nata bell'e netta
775
Tar.
figliama Saporetta.
Gaio
Sere a la concruscione.
Ciab.
Ser.
Tu t'ha rascione,
venate qua,
Ser.
toccatee le ma.
780
Saporetta, fa che te senta
,
Gaud.
dimme m pò, i contenta?
Sap.
Non capo su la pella;
parte che scia nuella
Ser.
da non sta ripusata?
785
Gaud
0 faccia dilicata,
lassamete bascià.
Crem.
Ser.
Ossù, non fa.
Ser.
Sap.
Che te mporta oramà?
lassalu fare!
790
Crem.
Ciab.
Su, che sfocare
cu lu tempu ve poderete.
Sap.
Po multu sciate
invidiusci.
Pe, cusci fa gli spusci. 795
0 via, non piii ciarlare,
so che non vulima stare
miecco pò eh' è spusata.
0 Taramata,
apri l'usciu che rentrarima. 800
Ce reederima,
io ve oglio lassa.
Sere, ven qua
non te parti.
Te besogna ini 805
con nua a manecà.
No, no, aggiu da fa;
c'è tempu n'altra olta.
Sere, sere, ascolta,
non voglio che vadi via. 810
Questa fantascia
io ve la oglio caà;
ce oglio restii,
me eneró su.
Sere, entra primu tu. 815
No, no, vattene su,
cedo lociis maiores dice Catone.
Fo, non par un Salamene.
Ven su, ser Ciappellittu.
Sciena Ultima
Pritu e Sere.
Frit. 0 Scuffiottu puirittu! 820
quanno a saputu la noa
facia prò a
de elesse ammazza.
Ser. Fritu, vote ^), sbriga?
un pezzu haim'aspettatu : 825
è cuncrusu lu parentatu
de Gaudentiu e Saporetta.
Cossora t'aspetta.
Prit. 0 sere, che aggio istu!
tuttu s'è pistu 830
Scuffiottu, quann'ha saputu
che Ciabó é rvinutu.
Ser. e che ce o fa?
Non se pò remedia;
la desgratia è stata sua. 835
Prit. A ddilla fra de nua
è statu desgratiatu.
Sa, se sarria ammazzatu,
se, nanti che me partesse.
*) Int. : ti vuoi ?
LA INTERVENUTA RIDICOLOSA
675
avertitu non l'haesse 840
che se doesse repusare,
che gl'ulia troare
moglie a iss'ancora.
Sere, non sta de fora,
ven dentro, che vo fa? 84.5
Sek. Voglio lecentia
miecco sta brigata.
— Donne, v'é stata grata
la nostra Intervenuta?
chi sarra quella saputa 850
che voglia di' de no?
Horsii, Pritu, Ciabó,
Crementiu e Scuffiottu,
Pasqua, visu d'arlottu,
Taramata e Saporetta 855
(ch'adesso sta a la stretta)
Gaudentiu ìuinittu,
e io ser Ciappellittu
Scimusomnes advostrum commannum;
se volete ad ballanno 860
vini fra ste persone,
a son de ceterone
ve farrimo saltare;
e se volete strifulare
un strumentu o nventariu, 865
ecco qua lu notariu
che per tre quatrine
buscie senza fine
ve dirnì a tutti quante.
Hor su, che sciate sante, 870
giate cu lu malannu,
ve scia datu lu bannu !
Io faccio
fine. 874
DEL
LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE
PROSA GENOVESE INEDITA DEL SECOLO DECDIOQUARTO.
Il Guarnerio, prendendo a pubblicare nel Giornale Ligustico
la Passione ed altri testi genovesi del sec. XIV, ha già
descritto in una nota il codice della Biblioteca delle Mis-
sioni Urbane che conserva questo libro ^). Non occorre
quindi che io ne dia nuovamente ragguaglio; mi basterà
avvertire che l'antica segnatura del codice 31-3-7, fu mu-
tata, or non è molto, in 31-3-23.
Ma, esaminando il contenuto di questa prosa per vagliarne
l'importanza letteraria e indagarne le fonti, mi convinsi
d'avere innanzi, non una traduzione immediata del De
Contemptu Mundi di Innocenzo III, come il Guarnerio af-
fermò e promise dimostrare, ne una eseguita, come pur
sarebbe stato lecito sospettare, su una versione francese
eventualmente utilizzata anche dal volgarizzatore fiorentino
Bono Giamboni; sibbene una traduzione della Miseria del-
l'Uomo di esso Bono Giamboni, che a sua volta l'opera
propria elaborò sul latino del pontefice.
) P. E. Guarnerio, La Passione ed altre prose religiose in dialetto
genovese del sec. XIV, in Giornale Lig., XX, pag. 270.
DEL LIBRO DK LA MISERA HUMANA CONDICIONE 677
Del Giamboni non è stato scritto assai, ma la questione
se la sua Miseria dell'Uomo derivi o no dal latino di
Innocenzo III, fu toccata dal Bartoli ^), che, ricalcando le
orme incerte del Tassi -), primo editore del trattato,
pervenne all'esclusione d'ogni altra fonte intermedia. E,
per vero, un nuovo riscontro concorrerebbe a dargli
ragione. Non già che la Miseria riproduca fedelmente tutto
il De Contemptu Mundi o ne sia un largo rifacimento ;
piuttosto può dirsi una riduzione, un centone di periodi
tolti qua e là dai capitoli latini e sapientemente amalga-
mati in limpidissima prosa; ma non è difficile, se si voglia
procedere con un esame minuto, rintracciarvi tutti questi
capitoli, sdoppiati o fusi o tradotti anche integralmente a
servigio d'un intento nuovo e diverso.
In tal modo tutta l'opera toscana rivela saltuariamente
questa dipendenza, e spesso dove meno ce l'aspetteremmo,
in un breve apprezzamento o in un esempio spigolati quasi
di furto ; né crederei opportuno di soffermarmi oltre su
questo punto, se non mi vi obbligasse il vedere con quanta
leggerezza e facilità va perpetuandosi, d'una in un'altra,
per le storie della nostra letteratura, un giudizio comples-
sivo del Tassi, che suona contrario alla verità dei fatti.
" E perchè, egli dice, siffatta imitazione gradatamente si
allontanasse..., cotale accorgimento usava il G., nella com-
pilazione del suo scritto, che ora l'ordine della materia
rovesciando ed ora questa di nuovi argomenti rivestendo,
operò che quanto quello in sul principio col primo libro
di Lotario consonava, nel seguito poscia dal secondo e
più ancora dal terzo si rendesse discosto „. Davvero non
mi sembra che questo " graduale allontanamento „ giovasse
a dimostrare una relazione diretta fra le due opere: quel
che piìi monta si è che dall'esame loro non risulta. Certo
il Giamboni attinse poco dal terzo libro, ma non meno
^) Storia della letteratura italiana, Voi. Ili, pag. 83.
') La Miseria dell' Uomo e altri trattati. Firenze, Piatti, 1836.
678 FRANCESCO LUIGI MANNUCCI
letteralmente da questo che dai primi due. I trattati, anzi,
si ricongiungono alla fine :
Innocenzo III, cap. xviii. Giamboni, pag. 125 ^).
Ibi erit fletus et stridor den- E nel detto luogo staranno mai
tium, gemitus, ululatus, luctus sempre in lutto e in pianto, e in
et cruciamentum, stridor et eia- guai, e in strida e in paura, e in
mor, timor et tremor, dolor et tremore e in fatica, e in dolore
labor, ardor et faetor, obscuritas e in oscuritade, e in puzza e in
et anxietas. acerbitas et asperitas, asprezza, e in ambascia e in mi-
calamitas et egestas, angustia et seria, e in povertà e in angoscia,
tristitia, oblivio et confusio, tor- e in tristizia e in tormenti, e in
siones et punctiones, amaritudi- pene e in amaritudine, e in pen-
nes et terrores, fames et sitis, sieri, e in fame e in sete, e in
frigus et cauma, sulphur et ignis freddo e in caldo, e in fuoco ar-
ardens in saecula saeculorum. dente, che non resterà mai d' ar-
dere nel secolo dei secoli.
Come potè il Tassi incappare in tale errore? Probabil-
mente, poiché più frequenti si fanno, verso la fine, le inter-
polazioni originali, egli non seppe distinguerle dalle parti
del trattato che presentavano analogie con il latino, e le
qualificò a priori " materia di Lotario rivestita „ ; ma, da
buon accademico ch'egli era, badava, più che ad altro, a
mietere in ogni pagina nuovi vocaboli, per trarne occasione
a frivolezze cruscheggianti.
Queste interpolazioni non sono numerose; si riducono a
una diecina di " rimedi „, a uno sviluppo didattico-ascetico
dei Dieci Comandamenti e a una digressione sul paradiso
e sull'inferno: in tutto diciassette capitoli sopra settanta.
E, se alcuno non volesse tener conto del fatto che esse
costituiscono un quarto solo, e forse meno, dell'opera totale,
troverebbe pur sempre negli argomenti loro nuova testi-
monianza di attinenze immediate fra la Miseria e il D. C. M.,
imperocché rispondono appieno all'indole del trattato me-
dioevale toscano, che vuol essere in genere un componi-
mento di morale accessibile e utile a chicchessia. E il
*) Della Miseria dell'Uomo di Bono Giamboni. Silvestri, Milano, 1847.
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE 679
Giamboni stesso non sembrava scostarsene, scrivendo : sì
mi posi in cuore di fare un'operetta, nella quale io mostrassi
per ordine tutta la misera condizione dell'umana generazione...
per comune utilità degli uomini e delle femmine, sì come
degli alliterati, come dei laici. Invero, con quanta utilità
dell'umano consorzio e del sentimento religioso cristiano
levasse Innocenzo III così cupa e terribile la voce nel suo
libro, ne so ne indago. Opera, che più di quella ispiri
all'uomo il disgusto dell'essere e lo spavento della morte,
credo sia difficile rinvenirla in tutta la letteratura esclu-
sivamente ascetica. È naturale quindi che un trattatista
del trecento, un notare, ossia uomo di mondo e colto
{buono e 'santo lo dicono i codici), quando già svaporavano
i furori dell'abnegazione monastica, cercasse di temperare
con parole di speranza lo sconforto generato da una visione
tenebrosa della vita e, spronando alla pazienza e alla
ragione, dipingesse con fervida fantasia i regni della divina
beatitudine cui non accenna l'austero pontefice. Se dal
testo latino, onde certo gli venne la prima ispirazione,
non seppe sempre scostarsi e, quante volte vi tornò sopra,
altrettante forse se ne partì annerito di quella pece, elevò
tuttavia la materia del suo trattato a un intento piìi no-
bile ed umano, e la distribuì secondo un ordine più razio-
nale, accompagnando l'uomo di dolore in dolore dal giorno
della concezione fino a quello del giudizio, mettendo talora
in evidenza un po' del proprio io e dando al tutto quella
veste romantica che più tardi, e non molto, divenne pregio
di più ideali e grandiose figurazioni. Del resto anche Al-
bertano da Brescia, giudice come il Giamboni, avea com-
posto, verso la metà del dugento, tre dottissimi trattati
morali e chi, dopo Andrea da Grosseto, li tradusse, fu
un notare pistoiese, Sofifredi del Grazia.
Ma veniamo al Libro de la misera humana condicione.
Con il De Contemptu Mundi qui, già lo dissi, non vi sono
più che rapporti indiretti; strettissimi e indiscutibili invece
con la Miseria dell' Uomo. Infatti parti sostanzialmente diverse
680
FRANCESCO LUIGI MANNUCCI
e ritenibili quindi come aggiunte, non v'occorrono di fre-
quente; pili rare poi sono quelle parafrasate. In massima
convien dire che la traduzione procede di pari passo con
il testo toscano, conservando intatti per pagine intere
persin l'ordine delle parole e, col proprio significato spe-
cifico, certi costrutti che, se le fossero giunti per il tramite
di uno scritto francese intermedio o fossero stati attinti
da un originale comune con il Giamboni, apparirebbero
indubbiamente mutati nella forma,
Eccone un saggio:
GiAMiìONi, pag. 5.
dice Seneca: Acconcia l'animo
tuo e turbati del male e del bene
ti allegra. E santo Pagolo disse:
Tra gli allegri si dee 1' uomo ral-
legi-are e tra' tristi turbare. Ma
di questo t' ammonisco, perchè il
dicono i savi, che delle tue avver-
sitadi ti debbia tosto consolare e
non vi debbia porre il tuo pensa-
mento, se non in quanto credessi
poterlo schencire o schifare, per-
chè i miseri pensieri fanno misera
la vita dell' uomo. E cotanto hae
ciascuno inverso sé di miseria,
quanto pensando se ne fa egli
stesso. E chi sopra tutte le avver-
sitadi che gl'incontrano nel mondo
vorrà pensare, non sentirà mai che
bene si sia; perchè questo mondo
non è altro che miseria. E da Dio fue
dato all' uomo perchè qui dovesse
tribulare e tormentare e portasse
pene de le sue peccata.
Genovese, p. 116 del codice.
dixe senecha: aconza l'animo
to e turbate de lo mal e de lo
bem t alegra. E sam Polo dixe che
inter li alegri se de 1 omo ale-
grare e con li tristi turbare; ma
de qwesto t amaystram, chi (lo)
dixam li savi, che de le toe auer-
sitae te deby tosto consolar e
no gè debi meter lo to pensa-
mento, so no in tanto comò tu
te creysse asminuyr o alegrar o
schiuar, perzoche li miseri pen-
samenti si fam misera la uita de
1 omo. Unda 9aschaum si a in si
tanto de miseria, quanto elio
mesmo pensando se fa. E chi in
tute le auersitae chi uewne a 1
omo in lo mondo uora pensar,
no sentirea che bem (si?) sia,
perzoche questo mondo no e atro
cha miseria e da deo fo dayto a
1 omo perzoche elio gè deuesse tri-
bular e tromeutar e portar penna
de le soe peccae.
Ond'è che la lingua riesce un genovese toscaneggiante
e che in ogni capitolo si rileva l'architettura aggraziata
e schietta dei periodi toscani, anche in mezzo a frequentis-
simi pleonasmi di casi obbliqui, a sconcordanze di nu-
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE 681
mero e di persona nei verbi e ad erronee sequenze di
tempi, dovute, il più delle volte, non tanto alla sintassi
diversa e propria del ligure volgare, quanto all' ignoranza
del copista, della quale ci sono di prova le correzioni
vergate con inchiostro uguale, ma da mano forse piìi
esperta ^).
Il Libro non è presentato come lavoro originale; e ciò
sia detto ad onor del vero e anche un po' del traduttore,
che, se non dice esplicitamente d'averlo tradotto, dichiara
francamente, dopo alcune pagine di introduzione: Acomen-
rasse qui uni tractao ordinno per uni sauio. Sfratta egli
invece i primi periodi del testo toscano, forse perchè con-
tenevano il nome del Giamboni e gli sembravano troppo
personali: il che pare confermato dall'artificio onde riesce
a rabberciare il periodo con cui principia la versione:
Giamboni, pag. 4. Genovese, pag. 116.
Onde non ti conviene questo Se tu uoy auer bo»na uita in
modo tenere, se in questo mondo qwesto mondo, elio te cowuem par-
vogli avere buona vita, ma par- tir da li dolorosi penser, e star
tirti dai dolorosi pensieri, e stare co« 1 animo alegro, p^rzoche lo
con r animo allegro, perchè lo stao de 1 omo segondo 1 animo
stato dell'uomo secondo l'animo si e zuegao.
è giudicato.
Nel corso della quale, pur mantenendo invariato l'ordine
della materia, ha poi provveduto del suo a un'enumerazione
più ragguagliata di quegli argomenti che il G. raccoglie in un
riassunto preliminare a capo d'ogni trattato, e ha sdoppiato
e unito in seguito, secondo l'enumerazione propria, i vari
capitoli, facendoli terminare con un riferimento laudatorio
a Dio, alla Vergine e ai santi: spesso con un amen.
') I costrutti, che hanno qui un carattere prettamente genovese,
si possono trovar tutti negli studi sistematici del Flechia {Archivio
Glott. It., X, p. 66) e del Parodi (ibid., XV, p. 41). Ma sono rari e,
con l'aiuto del Giamboni, è facile, dove occorra, aggiungere o sosti-
tuire la parola che rida al periodo la forma di quello corrispon-
dente toscano.
StndJ di flolo^ia romanin, IX. 43
632 FRANCESCO LUIGI MANNUCCI
Tuttavia, fra tanta fedeltà, quasi direi rispettosa, al-
l'opera del sauio, parrà strano trovare anche qui delle
vere e proprie interpolazioni. E, poiché vi sono, vogliono
un cenno dichiarativo. Già pensai, al primo esame del
Libro, che il traduttore fosse un frate pricaor, come quello
che avea redatto il Trattato dei sette peccati mortali, tra-
scritto nella prima metà del nostro codice; e a convin-
cermene contribuirono lo stile più semplice e famigliare,
il tono oratorio e la prolissità di questi brani. Piuttosto
che pagine d'un trattato, sembrano squarci d'una predica
alla buona, improvvisata dal pulpito a un pubblico grosso,
e ricorrono per lo piìi nella chiusa delle varie parti, ora
come clausola didattica ora come richiamo a concetti svolti
piìi innanzi. Considerevole, perchè uno dei piìi lunghi,
è ad es. quello interposto nel trattato terzo, intorno ai
nemici dell'uomo e alla gloria divina: un sermone spoglio
di quella benda dottrinale che, se posso cosi esprimermi,
fascia ogni argomento del Giamboni. Anzi, che sia una
digressione personale, il traduttore lo lascia intendere
dalle parole con cui riprende — si noti, allo stesso punto —
la sua versione: e per tornar a lo nostro proponimento in
questa rubrica. E piìi avanti, nel capitolo primo del trat-
tato quarto, egli introduce alternatamente, a mo' di chiosa,
altre digressioni, ma più brevi, sullo stesso soggetto,
apostrofando direttamente il lettore, come per obbligarlo
a porvi maggior considerazione.
L'argomentazione d'una fonte diversa non sarebbe fuor
di luogo per il trattato sesto, ove il genovese abbandona
senz'altro il Giamboni, sviluppando con nuove considera-
zioni i Dieci Comandamenti; e qui la traduzione resta
mutila, priva cioè del settimo e dell' ottavo trattato. Ma il
sospetto non regge, perchè il traduttore, in un capitolo
preliminare, annuncia questa parte mancante e non mostra
di volerla escludere: // VII tractao, dice, sera de la beatitu-
dine e de la gloria de l omo insto da l omo danao e la sententia
de lo jorno de lo di de lo ziiixio e hj segni chi apparam per
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE ^83
caxom de quello jorno ecc.: parole ancor queste riportate
dal Giamboni. Ne è da credere che l'amanuense possedesse
il libro intero, avendo egli apposto, dopo l'ultima riga, la
formula monastica " Deo gratias , e il proprio nome,
fra ter hyerommus de hauaro. La ragione sta invece nella
circostanza che la maggior parte dei codici della Miseria
è interrotta al punto stesso della redazione genovese e
che il nostro frate dovè tradurre, per conseguenza, da
uno di questi esemplari mutili ; tant' è che il Tassi, già
nella prima metà del secolo passato, ricorse a un codice
di proprietà privata, per poter pubblicare interamente
l'opera toscana. Provvide quindi come meglio gli pareva
ai Comandamenti — compito che, in grazia del suo mini-
stero religioso, non doveva tornargli difficile ne discaro —
e non più osò avventurarsi con gli ultimi due trattati.
Per mala ventura il Libro de la misera huìnana condicione,
così come ci è pervenuto, interrotto e mancante della
consueta nota a\\'exj)licit, non dà luogo a congetture ri-
guardo all'autore e all'anno. Si può soltanto argomen-
tare che, non essendo un compendio, ma una traduzione
regolare, sia stato compilato poco tempo dopo l'originale
suo. Non dispero tuttavia che da un giorno all'altro s'abbia
a trovare una nuova redazione dialettale della Miseria,
opera, come dimostra il gran numero dei codici tuttora
esistenti, certo assai letta e diffusa prima del Rinascimento ;
e che un opportuno raffronto riesca a fare un po' più di
luce. Del resto, una traduzione genovese dal toscano non
costituisce un fatto isolato: altre non ne mancano e con
fonti ben definite. Recherebbe piuttosto meraviglia che non
rimanessero tracce letterarie delle strettissime relazioni
che correvano fra la Toscana e la Liguria, e proprio fra
Genova e Firenze, ai tempi di Dante.
Anzi, mi parrebbe potersi far qualche ipotesi intorno al
tramite pel quale il trattato toscano sarà giunto sino a
Genova. Dirimpetto alla chiesa di S. Tecla, in quel gran
quartiere, che era abitato da toscani d'ogni professione e
634 FRANCESCO IXIOl MANNUCCI
d'ogni età, s'addentra tuttora il vico Vegetti " che prese
il nome dalla famiglia dei Vecchietti, i quali, lontani dal
loro bel S, Giovanni, temprarono in Genova le amarezze
dell'esigilo, dopo la battaglia di Montaperti (4 settembre
1260), 1).
Questo nome, evidentemente, non è che un diminutivo
del gentilizio Del Vecchio, non del tutto scomparso o
ignoto in Genova, perchè trovasi in due atti del 16 e 17
agosto 1278, attribuito a un curatore toscano. Ora, il
Giamboni apparteneva alla famiglia Del Vecchio : nulla
di più probabile quindi che egli v'avesse qualche parente,
cui mandasse in dono il suo trattato , scritto per comune
utilità degli uomini e delle femmine, o che questo parente,
se per avventura ascritto ad ordine religioso, lo divul-
gasse a scopo morale.
Comunque ciò sia, posto in sodo che il Libro de la mi-
sera humana condicione sia una traduzione condotta sulla
Miseria dell' Uomo, cade il sospetto espresso dal Gaspary
che il trattato del Giamboni, per essere scritto in prosa
troppo forbita e piena, provenga da una penna del secolo se-
guente 2). Se così fosse, la traduzione genovese dovrebbe
collocarsi o nel secolo XV o in altr' epoca più recente ;
laddove essa è indubbiamente del principio del XIV o
anteriore, perchè del XIV sec. è la copia a noi pervenutane.
Al brano riprodotto e raffrontato più sopra aggiungo
quello che rimane a compiere il capitolo introduttivo del
trattato. Per dare poi un' idea generale della traduzione,
credo opportuno riportare anche una delle interpolazioni,
attenendomi sempre, ben s'intende, alle norme conven-
zionali delle pubblicazioni scrupolosamente diplomatiche:
*) Cfr. Arturo Ferretto, in Atti della Soc. Ligure di St. Patria,
Voi. XXXI, 1901, pag. xiir.
^) Storia della letteratura italiana, traJuz. ital., Voi I, pag. 164.
DEL LIBaO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE
685
sciogliendo cioè i nessi, sostituendo lo varie lettere ai
segni d' abbreviatura e chiudendo fra parentesi quadre
le parole da frapporre, fra curve quelle da espungere.
Giamboni, pag. 5.
Ma quelli sono meno tormentati
che per pazienza sanno le cose
passare; perciò che per pazienza
hae tale virtude, che tutte avver-
sitadi vince. E che il mondo sia
così rio, come t' ho mostrato di
sopra, vedi santo .Tob, che disse:
Perchè sono io uscito dal ventre
della madre mia , acciocché io
vegga fatiche e dolori, e consumi
i dì miei in confusione? E vedi
che disse Salomone : Lodai mag-
giormente il morto che il vivo :
e colui giudicai ancora più bene
avventurato che in questo mondo
non nacque, ma nel ventre della
madre tostamente fuggì la vita.
E vedi che pregò Iddio un pro-
feta: disse: Trai di carcere, cioè
del corpo, l'anima mia; ove non
ha tranquillità , né riposo , ove
non ha pace ne sicurtade ; ove ha
paura e tremore; ove ha fatica e
dolore. Onde se Job, che fue santo
e cossi grande appo Dio, e di
pazienza a tutte le genti diede
esemplo, e fue povero e ricco, e
provò il bene e il male di questo
mondo, favellando di se medesimo,
biasimò così la sua nativitade; se
Salomone, che fue così savio re e
così ricco, ed ebbe tutti i diletta-
menti del mondo, e appo Dio fue
profeta grandissimo, ed in cielo e
Codice gen., pag. 117.
Ma quelli gè som mera turbay,
chi in pacientia sam pasar le
cosse, perchè la pacientia si e una
uirtue chi uenze ogni auersitae;
e che lo mondo sia cossi ree comò
e' t 0 mostrao, sapi che sam Job si
lo dixe, digando: perche som e' in-
sio de [lo] uentre de la mia mayre,
a^o che e' nega fayga e dolor e
che ly mey jorni se co«sumen
in cowfuxiom ? E guarda asi che
dixe Salomon, loando più lo morto
che lo uiuo e quello zuiga ^) (.)
Anchor dixe che maor uewtura a
quello chi in questo mondo no
uem, ma intr« lo corpo de la
mayre tosto perdesse la uita. E
sa[er] tu de' che um profeta prega
deo, digando : tra' de prexom 1 a-
nima mea, unda eli e dentro, (zoe)
da lo corpo, unda no e reposso
ni tranquillo, unde no e paxe ni
segurtae, unda e paor e timor,
unda e fayga e dolor; unda sam
Job, chi fo COSSI santo e grande
a pe de deo, si de esempio a tute
le gente de pacientia e si fo po-
uero e richo e cossi proà lo bem
e lo male de questo mondo e,
parlando de si mesmo biasma cossi
la soa natiuitae. E Salomon, chi
fo cossi sauio rey e cossi richo e
aue tuti li dilecti de questo mondo
e a pe de deo fo profeta e in lo
^) Il traduttore ha qui inopportunamente spezzato un periodo e
introdotto il " dixe ,.
FRANCESCO LUIGI MANNUCCI
in terra fue glorioso, sovra la vita
dell'uomo diede cotale sentenza:
e se il Profeta, veggendo la vita
dell'uomo in cotanta miseria, pregò
Dio che gli desse la morte , non
ti crucciare, se ti senti gravato
stando nel mondo, perchè chi arde,
stando nel fuoco, non è da mara-
vigliare. E se tu delle tue avver-
sitadi vogli pigliare consolamento,
pensa sopra la miseria della vita
dell'uomo, e vedi che ne è detto
dalli Savi. E da che le ti'ibulazioni
itltrui avrai conosciute, sopra le
tue ti potrai consolare; perchè
dice un Poeta: Che gli è grande
consolamento ai miseri di trovare
compagnia in su le pene.
Or fa' con Dio, ch'io me ne vo
e più innanzi dire non ti voglio :
perciò, se vorrai cercare la Scrit-
tura, tutte le cose troverai dette
dai Savi.
E nel partire che si fece la boce
fui desto, e guarda' mi d' intorno,
e non vidi nulla. Allora mi segnai,
e umilmente orai e dissi: 0 boce
di sapienza e di beatitudine, che
a me per consolarmi sei venuta,
dammi forza e vigore di trovare
quello onde tu m'hai ammaestrato.
cel fo glorioso e sì de soura la
uita de 1 omo aue cotanta sa-
pientia (.) E, negando lo dicto
profeta che in la uita de 1 omo
e tanta miseria, elio pr^gà a deo
che elio li dese la morte, perche
atri se de bem condeyr, seando
in lo mondo. Unda chi arde intra
lo fogo, no e marauegia se elio se
lamenta^). Ma, se de le toe auer-
sitae tu uoy prende consolaciom,
pensa in la misera uita de questo
mondo e guarda zo che per li
sauy n e dicto. E, quando tu
aueraj cognosuo le tribulatiom in
autreu, tu te poray cowsegiar soura
le toe. Unda um poeta dixe che
grande cowsolatiom e a li mis-
sé'r[i] de trouar cowipagnom (.) a
le penne.
Or sta co« deo che me ne vago
e piìi in anti dir no te uogio,
perzoche, [si] tu uoy cerchar la
scritura, tu troueray tute le cosse
diti -) da li sauy de quello che tu
uoray sauer.
In lo partir chi fé la uoxe, e'
fu desuegiao e guardayme d in-
torno e no ui niente; sì me si-
gnay e humilimewti si oray e dissi
0 uoxe de sapi[enti]a, eh e uegna'')
per mi consolar, dame forza e
uigor de trouar quello unda tu m ay
amaystrao. E, quando cossi e' aui
*) Tutto questo luogo è errato. Probabilmente il traduttore s' è
staccato dall' originale e il copista ha poi scritto falsando. Il " con-
deyr „ è inintelligibile. Troverei opportuno quindi rabberciare nel
modo seguente la copia, pensando che sieno state scambiate le parole
' unda , e " perche , a capo delle righe : unda atri no se de lamenta,
seando in lo mondo, perche chi arde intra lo fogo, no e marauegia.
^) Corr: dite.
^) Corr: uegnua.
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMA.NA CONDICIONE
687
E quando liei così detto, mi levai
ritto in piede dal tenebroso luogo,
ove pensando giacea doloroso, e
cominciai a cercare la Scrittura,
e a veder i detti dei Savi sopra
la miseria della vita dell' uomo.
E quando bei assai cercato e ve-
duto e diligentemente considerato,
sì si mosse il cuor mio a pietade
e cominciai dirottamente a pian-
gere , pensando tanta miseiùa
quanta nella creatura dell' uomo
e della femmina avea trovato.
Ma tuttavia pigliai consola-
mento, percbè trovai detto per li
Savi, che ninno altro pensiero u-
milia così il cuore dell' uomo e
della femmina, come in pensare
e riconoscere la miseria sua; onde
dice un Profeta: In mezzo di te
è la cagione percbé ti dei umi-
liare. Non andare dunque cercando
le cose de' cielo, non quelle della
terra, non niuna altra cosa strana;
se umiliare ti vuogli, te medesimo
pensa. E colui che bene penserà
quello che egli è, e riconoscerà
se medesimo, se non si umilia,
sarà peggio che bestia; perchè si
dice del paone, che quando egli
leva in alto la coda e vedevi co-
tanta bellezza, va molto allegro
e superbio, ma, quando volge l'oc-
chio alla sozzura dei suoi piedi,
immantinenti si umilia e china la
coda. Ed io, considerando che l'u-
railitade è quella virtù, per la
quale l' uomo è più piacevole a
Dio che niuna altra cosa, e che
è cominciamento e fondamento di
colui che vuole intendere al ser-
vizio di Dio, secondo che dice
santo Bernardo: Per l'umiltà sar-
dicto, si me leuay drito in pe
de lo tenebroso e doloroso logo
unda e' dormia. E si me comen-
zai a cerchar de la scritura e a
guardar li dicti de li sani soura
la miseria de la uita de 1 omo.
E, quando e' ani asay cerchao e
diligentimenti considerao, si se
moue lo cor meo a pietae e in-
coraewzay dirotamewti a pianzer»
pensando in- tanta miseria quanta
in la scriptura e' aueua trouà de
1 omo e de la femena: ma tutafia e'
pryxi consolatiom, perzoche trouay ■
dicti de sauy, chi dixam che ne-
xuw antro pensamento humilia
cossi lo cor de 1 omo e de la fé"
mena corno pensar e recognose
la soa miseria. Unde dixe um pro-
feta che in mezo de ti e la caxom.
per che tu te pò humiliar. No
anday doncha cercando le cosse
de lo cel ni quelle de la terra ni
nesuna atra cossa stran(y)na. Ma,
se tu uoy humiliar, pensa in ti
mesmo e quello che bem penseray
90 che elio e, (e) recognoseray
bem si mesmo; se elio no se hu-
milia, elio sera pezo cha una bestia,
perzoche elio si dixe che eli e
paóm, che, quando elio leua in auto
la eoa e elio se ne tante belleze,
elio uà monto alegro e superbo.
Ma, quando elio uaze li ogi a ly
soy pe e uelli cossi sozi , incon-
tenente elio se humilia e china
la eoa e passa la soa alegreza.
Unda, considerando che 1 [hjumi-
litae e quella uertue, per la qual
1 omo piaxe più a deo cha per
nesuna atra e che humilitae si e
principio e fondamento de quello
chi uol intender a lo seruixio de
688
KRANCESCO LUIGI MANNUCCl
rai alla grandezza; ed è questa
la via, e altra non si trova che
questa: e chi per altra via vuole
salire, cade poscia eh' è montato;
sì mi posi in cuore, di molti detti
di Savi, che avevano trovato, di
fare un' operetta, nella quale io
mostrassi per ordine tutta la mi-
sera condizione dell' umana gene-
razione, non per neuna burbanza
di vanagloria, ma per comune u-
tilità degli uomini e delle fem-
mine, sì come degli allitcrati,
come de' laici: acciò che, leggendo
e udendo leggere altrui, in questo
libro riconoscano la loro miseria
ed abbiano via e modo d'umiliarsi
e di convertirsi e di tornare al
loro Creatore, considerando il loro
pessimo stato e misera condizione,
a che sono dati in questo mondo
e neir altro. E avvegna che per
umiltade diventi vile l' uomo al
mondo, non dee lasciare perciò
d'essere umile; però che, secondo
che la luce non si conviene con
le tenebre, e la giustizia con la
niquitade, e Iddio col Diavolo,
così è impossibile cosa a essere
uomo chiaro e piacevole al mondo,
e glorioso e grande appo Dio.
E però disse santo Bernardo:
Impossibile cosa è all'uomo di
poter avere i beni di questo
mondo e dell' altro, e che qui il
ventre e colà la mente possa em-
piere, e che di ricchezze a ricchezze
passi, e in cielo e in terra sia
glorioso. Onde chi al mondo piace,
a Dio piacere non puote; e quanto
deo, e, segondo che dixe sam Ber-
nardo : Y>er la humilitae ueray a
la grandeza e questa si e la uia
e atra no se ne troua, e chi per
autra uol montare in uenirge cha
per la humilitae, si ca^-e da poa
che elio e inontao. ')
Unda e' me missi a cor de far
una oura per la quale e' mostrasse
per ordem tuta la coHdiciom de
la humanna generatiom. Ma no
per nesuna utilitae de uanagloria,
ma per comuna hutilitae de li
homi e de le femene, cossi comò
de quilli chi sam letera comò de
quilli chi no la sam, azoche, le-
zando e odando lezer autri in
questo libro, se recognoscam e
uegam apertamewti la soa miseria
e abiam uia e modo de humilytae
e de tornar a lo so creator, con-
siderando lo so pessimo stao e la
soa pessima condiciom, auegna deo
che per 1 humilitae 1 omo deuegna
uil a lo mondo. No de perzo la
persona lassar de esser humile,
perzoche la luxe no se confa con
le tenebre e la iustixia cu» la ini.
quitae, ni deo cun lo diauo[ro],
e cossi serea imposibile cossa che
la persowna sia piaxej^uer a lo
mondo e glorioso a deo, perzoche
la luxe e la gloria temporal si e
contraria de la spirituale. E perzo
dixe sam Jeronimo che eli e im-
posibile cossa a la perso?ina poer
aueyr 1 um bem e 1 antro, zoe de
questo mondo e de 1 atro. Unde
che a lo mondo piaxe, a lo segnor
deo no pò piaxer, doncha apar
') Questo periodo v», come nel G., unito al seguente, perchè gram-
maticalmente non regge.
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE
689
r uomo è più vile al mondo, di
tanto è più prezioso e grande
appo Dio. E però santo Paolo,
nella pistola sua, favellando di
se e degli altri Apostoli, disse:
Domeneddio fece noi Apostoli vi-
lissimi, e al parere delle genti
via più sottani che gli altri, ed
uomini quasi pur della morte, e
come una spazzatura del mondo ').
Appare dunque che a umiliarsi
e avvilarsi l' uomo per Dio non
è abbassamento, ma accrescimento;
e però dice il Vangelo: Colui che
s' aumilierà sarà esaltato e chi si
esalta sai'à umiliato.
E avvegna che conosca bene che
io non sono di tanto senno eh' io
sia sufficiente da poter pienamente
dire quello che nuovamente ho
trovato, e che si converrebbe a
così utile Trattato, impertanto io
non mi rimarrò di sforzarmi di
dire quello che ho ritrovato, per
dare inviamento a coloro che sono
più savi di me, di compiere ed
ammendare quello che male o
meno fosse per me detto. E io
ne starò volontieri al loro compi-
mento, considerando che così sono
trovate tutte le scienze che l'uomo
hae incominciate : e 1' altro veg-
gendo il detto di colui, sopra
quella materia ha trovato nuove
cose, laonde tutte le scienze in
questo mondo sono avanzate.
che humiliarsse per deo a lo mondo
no e abassamento, ma e grande
acressimento e grande honor, ser-
uando a lo so segnor, p^r chi eli
e uegnuo a lo mondo e in che elio
a possan9a de farlo grande e pi-
9em a lo so piaxer e cossi chi fa
le oure piaxeure a deo, si se pò
reputar possante e no pi^em ni
uil. E comò dixe in 1 auajigelio
che chi se humilia sera exaltao
e chi se exalta sera humiliao.
Auegna deo che (no) sia cogno-
scente che no som de tanto sauer
che sea sufficiente piennaraenti
dir tuto quello chi se co«uerea a
cossi utile traytao corno e questo*
pero no me romaró [de] forcar a
dir che nonamenti e' o trouao.
per dar aui(s)amertto a quilli chi
som più sauy de mi a compir e a
mendar quello chi più e mem per
me fosse dicto e si staro uolunter
a lor compimento, considerando
che cossi sum stayte trouae le
arte e le .sientie che 1 um si a
incomenzao e 1 atro sum ■) quello
dicto si a trouae cosse none la
unda g e parsuo, e cossi sum
stayte auanzae per questo modo
tute le sientie.
*) La citazione intera è omessa dal genovese, forse per il paragone
inclusovi. La sostituisce con la solita lode a Dio.
"^) Per questo sum cfr. Flechia, Archirio Glottologico It., Vili, p. 395.
690 FRANCESCO I.UKM MANNUCCI
Si notino ora nel brano seguente, a cui nulla trovo
corrispondere nel Giamboni e che attribuirei al traduttore,
le peculiarità avvertite più sopra. Vi si discorre prolis-
samente dei nemici dell'uomo. Codice, pag. 130:
e in quella (la terra) tomeromo, cossi comò deo comanda, quando
elio dixe: tu e zener e in zener torneray; e iwpe?*zo se pò dir che
lo corpo si e um uaxello ') e una prixom spu^ente e de uil con-
diciom, unda 1 anima si e termina a star. Uno tempo eia intro, si
se purifica segondo la soa uertue, che, se ella e uirtuosa e piacente,
ella si fa finna ^) e, si no se pò \)ìh brutar per la gracia e i amay-
stramewto, che deo g a dato, onerando li remedy chi g am meste,
ma, se ella e pocho uertuosa e no uogia usar li remedy de uertue,
che chi g a comisso deo, ella si se bruta e si deuem de uil condiciom
\)er soa caxom, che se pò ualer, se ella noi, e netezar per li amay-
strame?tti, che chris^e gè ordenà bem, quando elio era a lo mondo,
che caschaum pò e de imprende che no; e, no uogiando esser neta,
coMuem che la uaga a lo logo unda le cosse brute som ordenà a
star, zoe in brutezo e spuya e penna e langor, chi e apellao lo pro-
fondo d[e] abisso; e questo si e raxoyneue che zaschaum staga unda
elio più se contenta, si che quilli chi se contentam de star in^ro
uil cose e spu9ente e penose, si e bom che gè stagam e questi som
li peccaor chi no uolam contrastar contra le bruteze de questo
mondo e Ili iusti, chi le refuam e Ile contrastam, si e raxom che
elli no abia[m] mal. ma siam mixi donda elli dexiraw esser, in cosse
nete luxente e olitoxe, zoe lo regno celestia[l], de che lo segnor,
pim e abondeyue de ogni puritae e de ogni perfectiom de bem, si
gouerna quello reame dignitosso de chi eli e, e in questo receue
tuti quilli chi som digni de star, e quilli chi no ne som digni, comò
e' [o] dito, si uam in lo reame tenebroxo, [...V] '') si e penna dolor
e tribulatiom de ogni condiciom, perzo che quello logo si guarda e
gouerna sathanas e li soy cowpagnom chi som li angelli maledicti
da deo chi fom descazay de lo so regno glorioxo per le soe iniquitae
e malicie e ostinay in soperbia e orgoio e per la soa malicia e ini-
quitae elli si perseguam e combatem in ogni modo che li po[m] la
humana generatiom, comò inuidioxi de 1 amor e de la gracia de deo,
che elli am perduo per lor caxom ni may la po»t i-ecuuerare, tanto
som ostinay e abominay in la lor iniquitay; e pero ogni cossa che
*) La similitudine occorre pure nella parte tradotta, a pag. 120.
■) Corr. : s afinna.
^) Porrei " unda ,.
DEL LIBRO DE LA MISERA HUMANA CONDICIONE 691
elli pom fa contra lo lionor e lo piaxé de deo, elli la percazaw e
si la persegua/M ta«to corno elli pow e pero che i« le cosse celestià
elli no am poey, elli som monto inigi e feruenti contra le cosse
temporale. Unde elli [no] am alcum poey, pero che elli som uil e
pinne de fragilitae; e pcrzo che la natura humana procee de lo
mondo, si g e p<?ricoloxa la persecutiom de quilli inimixi, ma lo
segnor nostro si n a armay e guemye de arme defendeyue contra
le lor malicie a tuti quilli chi se uolem defende e aquistar uictoria
contra de quilli inimixi, comò pietoxo e misericordioxo che elio si
e de tuti li soy seruioy e amixi, lo qual remedio si e cognoscimento
for9a e uertue a sotomete e a confunde ogni desiderio e piaxer de
quelli inimixi ; e questa uictoria si acquista tuti quisti chi se uolam
arma de quelle arme de gracia che deo n a dayto, de le quay
caschaum se ne pò arma chi uol, si *) nesum no se ne pò scusar,
pcrzoche elle som tute aparegià a la uoluntà de tuti quilli chi
uolam contrasta e combater centra quelli inimixi, per auer uictoria
a lo honor e a lo piaxer de deo e fayando li merita de lo regno e
chi no uol uencer li soy inimixi, si e raxom che elio perda e quello
sia prexow e iwprexionao da quilli da chi elli som persegui e som
pagai come elli som degni, corno e' te o dicto de soura, che tu
sapi questa persecutiom e batagia da questi inimixi si e a termina
in picem te/npo, chi e la uita de la personna de che ella aquista
perpetuale gloria e merito, zoe chi a la uictoria; e chi no la si [...?] ^),
i-omam perpetualmenti in lo tormento e in la tribulatiom de quilli
inimixi; doncha e bem uil e traitor de so segnor e de si proprio e
digno de ogni iniga puniciom chi se uo auante mete a perdiciom in
• maw de li soy inimixi perpetualmenti cha obey e serui lo so le-
giptimo segnor, chi 1 a fayto e creao e lo merita perpetualmenti
de tanta gloria e beatitudine comò el de lo regno de cel celestial
e si e certo dauero ^) lo bem e lo male chi e tuto dicto e pero
caschaum s auixe bem che in questo mondo elio faza quello che in
1 atro ; elio no se penta, pero che niente no uarà pentirse, ma starà
a lo zuigamento de quello che 1 auerà aquistao a lo so tempo in lo
mondo, o gloria o dawpnatiom : e perzo le penne e le fayge de lo
mondo si som gran(y)de e forte, peroche chi uol auer la uictoria de
la gloria de parayso che elio si ha proao, e bem neto e bem puro
per auer tanta gracia, si che de grande hono conuem grande faj^ga ;
chi no uol auer lo merito de lo regno celeste, si e degno de zo che
*) Corr. : ni.
"-) Forse: uol.
^) 0 d auer (o). ?
692 FRANCESCO LUIGI MANNUCCI
elio cercha penna e fayga e questo si cowuem che 1 abia i» questo
mondo e in 1 atro, si che in 1 antro elio ha 90 che elio deserue in
qwe^sto mondo 0 bem 0 mal, e sapi che lo mondo si e comò lo fogo.
che purificha le cosse bonne e degne e si arde [e] consume le cossi-
ree e mete a perdiciom, donda elio mete lo peccaó i» profondo d[e]
abisso e cossi am penna in 1 autro e in questo mondo, ma li insti
si am in 1 antro zo che elli dexiram e in questo 90 che elli pom v
uolam soferi e cossi li insti in questo mondo som più contenti cha
li peccaor no som ni pom esser, peroche elli som sempre abraxa e
acessi de lo fogo de lo mondo, chi may no li sacia, per darge più
penna e per farla ') più confunde e uegnir a perdiciom; e, per tornar
a lo nostro p7"oponimento in q?<esta rubrica e tractao,
Feancesco Luigi Mannucci.
^) Corr. : farli.
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE DI GIOVANNI FLECHIA
EDITE DA Giuseppe Flechia.
1. — Anf rione, npr.
Credo che questo nome, non infrequente presso i Fio-
rentini, sia probabilmente un'alterazione di Onofrione o
piuttosto di Xofrione, nel quale ultimo caso Va d'Anfrione
nato da *Nfrione potrebbe considerarsi come vocale pro-
tetica, quale ha luogo assai spesso ne' dialetti dell'Italia
Superiore.
2. — Bonturo, npr.
Bonturo Bonturi della famiglia de' Dati, lucchese, è ri-
cordato tra i barattieri nel XXI canto dell' 'Inferno'. Pro-
babilmente da Bono e Tura {Ventura), portato poi come
maschile al finimento in -o; sicché propriamente questo
nome consti di due altri che, presi nella loro interezza,
suonano Buono, Buonaventura.
3, — sen. capar elio.
Vale ' capezzolo della mammella '. Il Fanfani (Vocab.
dell'uso tose, s. v.) registra caperello e lo dice " d'uso co-
mune a Siena „ . Sì a Siena, se vuoisi, ma in bocca di chi
non parlasse senese.
4. — caschereccio.
Voce non registrata nei vocabolari del Fanfani, ma tutta
propria come aggiunto di frutto che cada assai per tempo
0 facilmente.
694 G. KLECHIA
L'usa tra gli altri il Targioni Tozzetti (Diz. bot. II, 23)
chiamando marrone caschereccio la castanea vesca, sa-
tiva praecox dei botanici.
5. — caverozzola.
Così ha il Volgarizzamento di Palladio nell'edizione di
Verona (1810), citata dalla Crusca. Ciò nondimeno il Fan-
fani registra insieme col Tramater cavarozzola, tolta ap-
punto dallo stesso luogo, donde il Tramater reca, sopra
un'edizione manifestamente guasta, cavarozzola, e sopra
la veronese caverozzola.
6. — cittarello.
(Poliziano : Prose, pag. 30).
Il senese ha, insieme coll'aretino e con qualche altra
varietà di dialetto toscano, citto, citta in significato di
' fanciullo ' , ' fanciulla ' , e perciò le forme derivate di cit-
tino, cittolo, cittarello.
Questo nome è ignoto affatto al fiorentino; quindi è che
incontrandosi la parola cittarelli nelle Prose volgari del Po-
liziano ^), cioè in iscrittura di origine e di forma al tutto
fiorentinesche, la critica dee ragionevolmente dubitare della
genuinità di tale lezione, come quella che porge una voce
estranea al glossario specialmente fiorentino e presentan-
tesi sotto forma- essenzialmente antifiorentina per quell'ai
in cambio di er. Se non che dato uno sguardo al testo la-
tino che vi sta da lato (poiché trattasi di latinucci colla
versione dati dal Poliziano a Piero de' Medici), si trova
che a cittarelli risponde expositii ^), donde appare chiaro
^) Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite e inedite di An-
gelo Amhrogini Poliziano raccolte e illustrate da Isidoro del Lungo.
Firenze, Barbera, 1867, pag. 30.
^) Ecco il passo latino: " ...idemque mihi quod ex j) ositi is ac-
cidit, itti me repente quasi parente orbatum sentiam „ ed ecco l'italiano
corrispondente: " et interverrammi come a' cittarelli, che a un
tratto vii ritrovi senza padre , (pag. 30).
NOTE LESSICALI ED ONO.MATOl.OGICHE 695
che in cambio di citfareììi e da leggere (/ittatelli o gittateglL
voce al tutto fiorentina ed esprimente quello che ora con
vocabolo pur toscano diciamo piìi comunemente trovatelli.
7. — giulleresco.
I vocabolarj hanno giulleria e non giullaria ; giullaresco
e non giulleresco, cioè nel primo con -er-, nel secondo con
-ar-'. incoerenza che non dee far maraviglia. Giulleresco
trovasi, fra gli altri luoghi, nelle Prediche inedite del Beato
Giordano da Rivallo (Boi., 1867, p. 334).
8. — lapislazzero.
Lapislazzero = lapislazidi. Il Fanfani non registra questa
forma in alcuno de' suoi vocabolarj, quantunque sia propria
del fiorentino e del livornese e s'incontri nelle antiche
scritture e fra gli altri per ben quattro volte nella Descrizione
delle nozze di Maria de' Medici e nelle Opere del Buonar-
roti il Giovane, pur ristampate dallo stesso Fanfani {Opere
varie, Firenze 1863, pp. 417-419). La forma originaria di
questo vocabolo è lapislazidi o lapislazuri (cfr. Diez, Et.
Wort, s. azzurro); ma lapislazzero potrebbe anco venire
immediatamente da lapislazzaro, forma assai frequente che
insieme con lapislazzalo s'incontra pure in scrittori fioren-
tini 1) ; e in tal caso lapislazzero presenterebbe er = ar. Ad
ogni modo le due forme genuinamente fiorentine sono lapi-
slazzolo e lapislazzero.
9. — Maccajone, Lajatico e Donoratico.
Maccajone, antico nome essenzialmente pisano, credo che
rifletta Maccarione da Maccario (Macario). Si avrebbe
qui il fenomeno piìi o men proprio de' dialetti toscani:
'j = 7'J,rf (cfr. ant. pis. F^^/o/o = Vieto rio, denajo = de-
nario, ecc.).
') Nel Ricettario si ha lapislazzoli, nello Stratto de' Doganieri ecc.,
di Firenze (Firenze, 1664) lapislazzuli; nelle varie Tariffe toscane,
lapislazzoli.
fi96 G. FI.ECHIA
E così noi potremmo anche per via di questo fenomeno
giungere ad un'origine assai verisimile del pur pisano nome
locale Lajatico, cavandolo da Hilariaticum, derivato dal
gentilizio Hilarius. Fra i nomi locali di questa forma derivati
indubitatamente da nome personale abbiamo il boi. Loren-
zatico, e credo assai verisimile che il pur pisano Donoratico,
raddotto alla più antica ed organica sua forma di Donno-
ratìco (così p. es. nella Cron. pis. di R. Sardo, passim),
accenni a nome di valor personale, cioè ^Donnolatico da
*Donnolo, *Domnolo, *Dominnlo ^).
Un altro argomento ancora per cavar Lajatico da Hila-
riatico l'abbiamo in altro nome locale pur pisano, voglio
dire Z/o/awo = Hilariano, non registrato, è vero, nel vo-
cabolario geografico, ma attestato, tra gli altri, dal nome
di (\\\q\\' Andrea da Lajano, che nel 1360 fu in Pisa tra i
congiurati per l'uccisione di Gualtieri (cfr. R. Saedo, Op.
cit., p. 146). Sarebbe molto inverisimile che questo Lajano
non fosse un luogo pisano e avesse punto a che fare
per es. col Lajano del Beneventano, che tenuto conto di
quell'ambiente, io non dubitai di riportare a un Laianum
da Lai US 2), il quale nella Toscana si sarebbe mutato in
*Lac/giano. È superfluo infine fermarsi sull'aferesi dell' i-
in Lajatico e Lajano, quale è, p. es., in Lario, Larione,
secondo che suonano generalmente nella loro forma popo-
lare Ilario, Ilarione.
10. — fior, macherozzolo.
Questa voce si trova registrata nello Stratto de' Doga-
nieri, ecc. di Firenze, p. 25, insieme con altri arnesi come
'taglieri', 'corbelli', 'bicordi', ecc. Invano però si cer-
') Si tenga presente il nome proprio Domnulus che ricorre, p. es.,
in SiDONio Apollinare, £'/)is^., 4, 25, e il fr. Donneley = Domntdacum;
e cfr. Flechia, Di alcune forme di nomi locali dell'Italia Superiore,
pag. 68, s. Donelasco.
*) V. G. Flechia, Nomi locali del Napolitano derivati da gentilizj
italici, Torino, 1874, pag. 32.
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE 697
cherebbe ne' vocabolarj cosi macherozzolo come bicordo o
hicord^e. Forse maclierozzolo, che erroneamente, credo, nel-
l'indice alfabetico dello Stratto è registrato sotto la forma
di macherozziiolo, non è altro che una varietà di forma
del materózzolo de' vocabolarj, e in questo caso avremmo
qui un esempio della sostituzione della gutturale alla den-
tale, che forma oggidì uno dei caratteri fonetici più note-
voli del fiorentino, del pratese e di qualche altra varietà
di parlar toscano.
11. — fior, marmerucola.
E vocabolo essenzialmente fiorentino, perocché il solo
scrittore che ce lo presenti come nome di pianta è il Cel-
lini {Vita, I, 6,3), laddove il Targioni Tozzetti non lo re-
gistra; e Via delle Marmeruole era (ed è forse ancora) per
attestazione del Varchi {Storie, lib. VII) una via di Firenze
posta nel quartiere di S. Giovanni. Non mi pare impro-
babile che per una qualche analogia di colore od altro
questa parola si connetta etimologicamente con marmor
e presenti er = or. È nome di pianta che i vocabolaristi
(v. Fanf. s. v.) e anche l'annotatore al Cellini (Brunone
Bianchi, pag. 70) identificano con marruca (Rhamnus
paliurus di Linneo), ma che potrebbe per avventura es-
sere Vacanthus mollis de' botanici, dal Vigna {Animadver-
siones in Theophrastmn) chiamato erba marmoracia
(cfr. Targioni Tozzetti, Diz. boi. II, 5). Plinio {Nat. Hist. XIII,
23,44) parla di un marmaricum genus capparis e
mentova pure un genere d'erba dai Greci detto m arma-
riti s (XXIV, 17,17), due nomi di piante connessi col greco
nome del marmo (nap)aapo<5).
Ai botanici la questione se la marmeruola risponda alla
marruca o sia pianta diversa ; a risolver la quale gioverà
forse il citato passo del Cellini dove si parla di un giar-
dino posto sul Tevere " chiuso da una folta siepe di mar-
merucole „. Il connettere etimologicamente questa voce con
marmocchio (minimuculus), marmaglia (minimalia) e
Stu'!j di filologia ronvinza, IX. 44
698 G. KLECHIA
col *>narmeUino (minimellinus) dell'Italia Superiore ci
tira al tema minimus, sicché qui Ver dovrebbe tenersi
per elemento di derivazione, che sarebbe unico caso dinanzi
al sufjfisso -uculo. Quando poi fosse tra marmerucola e
marruca una connessione etimologica, non sarebbe il primo
alterazione del secondo, come dice il Bianchi (1. e), ma
si questo di un più organico ^marmeruca, che sincopatosi
in *marmruca, si sarebbe naturalmente converso in mar-
ruca (romagn. maruga).
12. — mìllaghera.
Il Fanfani non ha che mullaghera, che è la forma del
Diz. hot. del Targioni Tozzetti; ma la forma mìllaghera
s'incontra in Targ. Tozz., Istruz. ecc., p. 55.
13. — fior, pacchierotto.
Questa è la forma genuina, indubbiamente. Ma il Fan-
fani, che registra la forma pacchierotto nel Vocab. dell'uso
tose, dichiarandolo per diminutivo di pacchierone (che, se dio
ci ajuti, dovrebb'essere pacchieronotto), nel Vocab. della
lingua it. registra invece la forma pacchiarono, che si
fonda sopra un esempio della Secchia Rapita.
14. — piluccherare.
Ha senso di ' piluccare ' , ' spogliare ' , ' scorticare '. Non
è nel vocabolario, ma s'incontra nelle Chiose sopra Dante
(Firenze, 1846), p. 170.
15. — fior, spicchierone.
Nome fiorentino dello ' strillozzo ', registrato dal Savi
{Ornit. Tose, II, 79), ma che indarno cerchereste nei vo-
cabolarj, compresi anche i due del Fanfani, cioè l'Italiano
e quello Dell'uso toscano.
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE 699
16. — fior, taffera.
Questa voce non è registrata nel vocabolario, ma la
trovo in uno Stratto (ms.) delle stime della Dogana di Fi-
renze, annesso a un mio esemplare del già citato Stratto
dei Doganieri, ecc. di Firenze (Fir. 1664), appartenuto a
un Isidoro Pistoiesi, prima doganiere di Casentino, vissuto
intorno alla metà del secolo scorso [sec. XVIII].
17. — fior, trajero.
Erroneamente il Fanfani nel suo Voc. accenta trajéro per
trajero. E una moneta veneziana chiamata sotto quella re-
pubblica colle varie forme di trdgiaro, traero, trairo, traro
e che i fiorentini dicevano trajero.
18. — Usigliano, Urliano, Oriano, nn.ll.
Auselius (cfr. Fabretti, Lex. s. Ausel, Auselius;
CoRssEN, Aussjyr. 1,24:9; Vanicek, Etijni. Wort., 161) donde
Aurelius. Alla prima forma del gentilizio è forse rad-
ducibile V Usigliano che si presenta ben quattro volte in
quel di Pisa, e che mantenne come dialettico il sigma
originario, mentre dalla normal forma latina di Aurelius,
per via del celtico Aureliacum venne il ni. Oriago
(cfr. Flechia, Di ale. forme di nn. II. delVIt. Snp., p. 48
[320]), e per via di Aurelianum le altre forme di nomi
locali Urliano (Aret.) e Oriano (Parma, Brescia, Como,
Milano). Il quale ultimo nome mi porge ancora occasione
di accennare un nome di famiglia originariamente locale,
voglio dire Oriani: e l'astronomo Oriani, come lombardo,
non avrebbe potuto non riconoscere il suo nome da uno
dei quattro nomi locali Oriano, che, come proprj della
Lombardia, riflettono normalmente Aurelianum, qui reso
tanto pili verisimile dai varj fundi Aureliani attestati
dalla tavola alimentaria di Velleja.
700 G. FLECHIA
19. — Nomi originariamente personali,
diventati senza più nomi locali ^).
1. Aguzzo (Terni): dal gentilizio Acutius (cfr. Bram-
BACH, Corp. Inscr. Rhen., 448, 660, 662, 681): ma
potrebbe essere anche abbreviazione, p. es., di Mont-
aguzzo (cfr. il piem. ni. J/o«^?> = Mont-acùtu s).
2. Azeglio (Torino). In dial. suona Azèi e Zèi, e piuttosto
che da arielli (cfr. Di alcune forme, p. 74) sarà da ri-
condurre al gentilizio Acilius (cfr. azil aceto, piv. azì).
Da agellum dovranno invece ripetersi il calabr. Ajeìlo
(Cosenza) e il tose. Gello (Arezzo, Pistoja, Pisa).
3. Bergonzo (Piacenza), Bergonza (Pavia), Bergon-
zoli (Novara): da Verecundius, come Gonzaga
verisimilmente da *Verecundiaca e Gognano da
*Verecundiano.
4. B i g i 0 g n 0 (Novara) = *Biagiogno, daBlajunius ( Ta-
vola alim. di Velleja, IV, 74) : cfr. il Blixuno del Cod.
Dipi. Langob.
5. Bobbio (Pavia, ecc.). Da Bovius: cfr. il piac. Bob-
Mano =Bovìanu.m, nap. Bojano (v. Flechia, A^o?;u
locali del Nap., ecc., p. 19).
6. Carisio (Novara), da Caricius. Cfr. Cliiarisacco (dial.
friul. Ciarisa) e il fr. Carisey da Carisiacum, e il
Carisiaco delle monete merovingiche.
7. Ciamarella (dial. alp.) = Casa Marella (cioè ' casa
dei Marcili ' ).
8. Cicogno (Novara): da Ciconius. Cfr. il ni. Cicogìiiago
{Misceli, di Storia ital., VII, 347) e il fr. Cicogne =Ci-
coniacum (cfr. Di ale. forme, p. 30).
9. Comazzo (mil.): dal gentilizio Comatius che si
legge in una iscrizione milanese.
*j [Questa serie si aggiunge agli esempì già allegati dall'A. a pa-
gina 96 della monografia: Di alcune forme di tiomi locali dell' It. Sup.,
citata più sopra].
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE 701
10. Coreglia (Genova, Lucca), genov. Guef/a: da Co-
rellius.
11. Cossogno (Novara): da Cossonius.
12. Ebbio (Piacenza). Incerto se da Helvius o da
Ebulus.
13. Morbio (Corno, Mendrisio) da Molvius.
14. Nonio (Novara), da Nonius. La forma dialettale di
questo nome, che suona Gnugn {nun), invece di *tiun,
e dovuta ad assimilazione.
15. Ottiglio (Aless.): pronuncia paesana ylw^/e. Da *A u-
tilius, Altilius.
16. Ozegna (Vercelli). Da Eugenia?
17. Poviglio (Reggio) da P o p i 1 i u s : cf r. il piac. Poviago
= Popiliacum.
18. Pian ciò (Arezzo): daPlancius. Così Pia w^o (Reggio).
19. Piejo (Nap.) da Pedius (v.Mommsen, Tnscr. R. Neap.).
20. Rueglio (Torino). Questo nome può normalmente rad-
dursi a tre tipi : Rubellius, Rodellius, Rutilius.
21. Servagno (Cuneo): da Servandius, gentilizio atte-
statoci delle iscrizioni (v. Brambach).
22. Sa vigno (Bologna): da Sabinius.
23. TarzognvO (Parma): da Tarsunius (Tav. c^i F(?/^gJa).
24. Tuoro (Nap.): da Thorius (v. Mommsen, /wscr. B. N.).
25. Vareglio (Aless., Cuneo): da Varilius.
20. — Forme accorciate di nomi propri italiani ^).
A) Accorciamento per cui il nome parossitono perde per
sincope quanto è tra la consonante o gruppo consonantico
iniziale e la vocale tonica ^).
*) [Pubblico queste pagine come saggio del copioso e importante
materiale, lasciato dal Flechia, intorno all'origine dei cognomi ita-
liani, che doveva far parte di quella larga trattazione sull'origine e
formazione del sistema onomastico neolatino, che era vivamente at-
tesa dai dotti dopo l'insigne saggio che l'Autore pubblicò nel 1878
tra le " Memorie dell' Accad. dei Lincei „. Cotesto materiale, che io
sto ordinando, sarà messo in luce insieme cogli studj inediti di to-
ponomastica italiana].
^) [Gli esempj che qui si recano sono da aggiungere a quelli alle-
702 <"t. FLECHIA
Baci' da B(onap)ace {B. di Ser Rustichello è ricordato
dall'iLDEFONSo, XVI, 857).
Bardo da B(ern)ardo.
Benghi da B(enev)enghi o da B(enciv)enghi, che
ricorre nell' Ildefonso (II, 281) accanto a Bencivieni
(ivi, 8, 249). Venglii sta per vieni come tenghi per
tieni in " e me ne voglio andare e tu mi tenghi „
(Tigri, Canti poi), tose, 2^ ed., p. 205).
Benni da B(enciv)enni. Un ser Bartolo Benni di Signa
fu mandato legato per Firenze a Narni il 25 agosto 1346.
Bese da B(orgh)ese. Se dovessimo credere al senatore
Carlo Strozzi citato dal Manni [Sig. XIX, 31), Bese
sarebbe accorciativo di Baldese, e questo diminutivo
di Baldassarre; laddove Baldese è molto verisimilmente
aferesi di Rimbaldese. Da Borghese deriva pure, per
aferesi, il cognome Ghese. Da Bese {Borghese) vengono
poi i cognomi Besio, Besini, Besozzi, ecc.
Bice da B(eatr)ice. In un documento del 1321: " no-
mine Beatricis sive Bicis „ (Ildefonso, XVI, 398).
E nota la terzina dantesca {Par., VII, 13-15):
Ma quella riverenza che s'indonna
Di tutto me pur per Be e per ice,
Mi richiamava come l'uom che assonna.
Forse al Poeta doleva di quasi sconsacrare il nome di
Beatrice, che fu la forma costantemente da lui adoperata
nella Divina Commedia, presentandolo sotto la volgare e
direi quasi esoterica forma di Bice, che egli adopera solo
nel Canzoniere; quindi egli trovò modo d'introdur questa
forma nella Divina Commedia senza porvi la volgare di Bice,
non certo per tema di attenuare l'altezza del poema, dove
egli adopera pur nel Paradiso e Cianghella e Lapo e i Lapi
gati dall'Autore a p. 10 dello scritto Di alcuni criteiy j^^r l'origina-
zione dei cognomi italiani, dove si discorre di cotesta sorta di accor-
ciamento].
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE 703
e i Bifidi. Il senso adunque di quei versi sarà: " ma quel
sentimento di riverenza, che io provo fortissimo sentendo
il nome di quella divina donna pur sotto la men nobile
ed accorciata forma di Bice [B-ice), ecc. „
Bino da B(ernard)ino.
Bista da B(att)ista.
Boccio da B(artolome)occio.
Borso da B(onacc)orso. Notevole pure Borsin.
Bufo così da B(enven)uto come da B(onaj)uto. Da
non confondersi con Buti, ni. in quel di Pisa, nel quale
ultimo caso il cognome sonava da Buti (come p. es.,
in Francesco da Buti).
Cante da C(avalc)ante.
Cìiessa da C(ont)essa.
Dello da D (ani) elio. Un Daniello di Nicolò Delli si legge
presso il Milanesi (Gior. Stor. degli Arch. tose, IV, 203).
Duti da. D- {ìe .-aj)uti.
Fecca da F(ranc)esca, con fenomeno quale in Cecco da
*Cesco (Francesco). Una Fecca dei Buondelmonti era
nel 1353 moglie di Lapo di Binde Cavalcanti.
Feldi da F(igliin)eldi.
Fese da F(or)ese.
Figo da F(eder)igo.
Fresco, Fresca da Fr(anc)esco, Fr(anc)esca (cfr.
Giorn. Stor. degli Arch. tose, III, 38 e 39).
Gajo da G(alig)ajo, che ricorre nell'lLDEFONSO.
Gardo, Garda da G(her)ardo, -a (cfr. il n. Gherardo
Gardi).
Geppe, Geppo da G(ius)eppe, G(ius)eppo.
Gesio da G(en)esio.
Gheldo, Ghelda da Gh(in)eldo, Gh(in)elda; così Ghel-
dolo da Gh(in)eldolo.
Gianni da G(iov)anni, col g conservato palatale.
Lieo (Ildef., XVI, 240), Ligo da L(odov)ico.
Lolfo e Loffo da L( and) elfo o da L (od) elfo, senza
704 G. KI.ECHIA
escludere che possa essere aferesi di Agi-lolfo o di
Sigi-lolfo. Da Lolfo venne Loffo (cfr. Xoffo da Nolfo,
Ar-nolfo) per legge fonetica d'assimilazione propria
del fiorentino (cfi\ Flechia, Rivista di Filol. Class.,
VII, 388 e 394).
Maldino daM(ag)aldino (Magaldo) oda M(on)aldino
(Monaldo), od anche per aferesi da G ri-ma Idino.
Maio (e Miato?) da M(ini)ato, se non, per aferesi, da
Amato (cfr. il composto Bonamato), più raro assai
di Miniato.
Meo daM(att)eo o M(azz)eo. Avvertasi però che Meo
coi derivati Meino, Meticcio, Meuzzo, ecc., può anche
essere da Bartolo-meo (cfr. Flechia, Riv. di FU.
Class., VII, 380).
Mese da M(arch)ese o da M(ilan)ese.
Metto da M(an)etto: la storia parla d'un Manetto di
Signa.
Mingo da M(er)ingo.
Mita daM(argher)ita (questo nome s'incontra nel Ciampi,
Statuti dell'Opera di S. Jacopo di Pistoia, p. 132).
Monna da M(ad)onna.
None da N(apole)one.
Nosa da N(icol)osa.
Nuccio da N(icol)uccio.
Pardo da P(icc)ardo?
Roifo da R(id)olfo (cfr. Loffo da Lolfo e v. Riv. di FU.
Class., VII, 388).
Saldo da S(inib)aldo.
Sone da S(im)one.
Tacco da T(al)acco (cfr. Manni, Sig., XI, 100).
Taldo da T(eb)aldo o T(ed)aldo.
Tedi da T(ordov)edi.
Tj^o (senese del 1300) da T(eodor)igo, e come ali. Te-
dorigo, fior. Te derigo.
Toro da T(eod)oro.
Zone per Sone da S(im)one (cfr. zolfo da solfo e Zepp>^
da Seppe, Giuseppe).
NOTE LESSICALI ED ONOMATOLOGICHE 705
B) Accorciamento per cui il nome, dopo aver subita
l'aferesi della sillaba iniziale, subisce un secondo accorcia-
mento per sincope analogo al precedente ').
Bico, Biga (senese B'ujozzi) da ( Al)b(er)igo.
Cajo da (Nic)c(ol)ajo.
Cegna (Ildef.) da (Ben)c(iv)egna.
Cerra da (Vin)c(igu)erra.
Chigio da (Ac)c(ar)igio.
dolo da ( Ac)c(ia)jolo.
Ciuto da (Benri)c(ev)uto.
Coso, Cosa da (Ni)c(ol)oso, {-colosà).
Dando (coi derivati Dandino, Dandolo, ecc.) da (Al)d(o-
br)ando.
Fello da (Ilaf)f(a)ello.
Ghino da ( U ) g ( 0 1 ) i n 0 ( = Ugonino) o da ( A ) g ( o s t ) i n o.
Ghita da(Mar)gh(er)ita.
Gino da (Rug)g(er)ino o da (An)g(el)ino.
Giotto da (An)g(el)otto o da (Rug)g(er)otto (cfr.
Arch. Stor. Ital, App. V, N. 20, p. 39).
Goso da (Vi)g(or)oso.
Lora da (E)l(eon)ora, se pure non è da (Va)lora:
cfr. Loi'e = Valore.
Loso da (A)l(id)oso {Alidosio, Alidogio), donde il co-
gnome degli Alidosi d'Imola. Il Fanfani, Accorcia-,
ture, ecc., vuol trarlo da Luigi!!
Luti da (Die)l(aj)uti.
Maccio da (Tom)m(as)accio.
Mede da ( D i o) m ( i d i ) e d e, se pure non è aferesi di Dio-
mede o di Xicomede.
Nagio da (A)n(ast)agio.
') [Di tale accorciamento si tocca a pagg. 10-11 dello scritto già
citato del Flechia e a pp. 377-78 della Rivista di Filol. Classica,
volume VII].
706 e. FLECHIA
Setta da (Eli)s(ab)etta. La storia ricorda una Setta
degli Strozzi, maritata nei Vecchi,
Tano da (Ot)t(avi)ano o da (Ca)t(al)ano.
Tante [con Tantini, Tantucci, Tantuzzi) da (At)t(av)ante.
Teci da (Die) t(if)eci.
Tiede da (Die)t(id)iede.
Tina da (Ca)t(er)ina.
Vicjio da (Sa)v(er)igio. Vigio di Saverigi è ricordato
dairiLDEFONSO.
PER IL DIALETTO DI CAMPOBASSO
Caro Monaci,
Ricorro a te e al vostro periodico per una dichiarazione
che da piìi mesi avrei dovuta fare, se molte altre faccende
non me ne avessero distratto. Il prof. Goidanicli ha pub-
blicato, nella Miscellanea in onore dell'Ascoli, un suo ar-
ticolo sul dialetto di Campobasso, dove fa il contrappelo
alla descrizione che, or è più di un quarto di secolo, feci
io del mio dialetto nativo. Non istò a dire quanto sia il
garbo, e nei concetti e nella forma, della requisitoria ; e
neppure quanto sia già di per sé garbata l'idea di ripi-
gliare, dopo tanti anni, un lavoro altrui, per cincischiarlo
d'osservazioni ovvie e tardive, o contrapporvi spiegazioni
assai spesso audaci. E ciò, trattandosi d'un lavoro specia-
lissimo, che a nessuno sarebbe venuto in mento di rifare,
come si rifanno, senza domandar licenza ad alcuno, a proprio
rischio e pericolo, quelle trattazioni che son veri capitoli
d'una qualunque scienza o disciplina. Il Goidanich, trovan-
dosi a corto di titoli concernenti la grammatica neolatina,
poiché per questa non aveva che un unico lavoro, s'è af-
ferrato al primo soggetto che gli si è parato dinanzi alla
mente ; e forse questo fu il primo a pararglisi sol perchè
io gli ero ben presente alla memoria, come colui che al
suo anteriore unico lavoro neolatino mi ero amorevolmente
interessato. Ci fu per giunta che egli aveva tra i suoi di-
708 F. b"0VlD10
scepoli di Pisa un Mastropaolo, nativo pur lui di Campo-
basso ; il che rendeva agevole, opportuno, conveniente, di
contrapporre la testimonianza del giovane alunno a quella
del vecchio descrittore del dialetto sannitico.
E sta bene; ne io voglio ora infastidire te e i vostri
lettori con una requisitoria alla requisitoria. Da un pezzo
m'ero già proposto di ritornare sul mio antico lavoro, e
spero di trovar prima o poi il tempo di mettere in atto
il proposito. Non è che io mi debba pentire di quanto mi
fu dato di stampare, che non discordava da tutti i criterii
prevalenti allora nell'indagine neolatina, né che sian molti
1 punti sui quali i criterii prevalsi dopo mi costringano a
modificare le spiegazioni fonetiche, morfologiche, etimolo-
giche. Ma i tempi sono mutati, ed io con essi, come in altri
scritterelli ho già mostrato, e talune cose le cangerei vo-
lentieri 0 le atteggerei un po' diversamente. Non mi sono
affrettato a farlo anche perchè presumo che ogni discreto
lettore sopperisca da se, ed ogni buon critico debba sde-
gnare come troppo facile l'impresa di darsi aria di corret-
tore là dove ha ben da credere che io oggi sarei il primo
a correggermi. Quanto al resto, cioè alle escogitazioni nuove
e più 0 meno ardimentose degli altri intorno " ai mate-
riali „ che io ebbi l'onore di suppeditare ai futuri sapienti,
vedremo a suo tempo, ove accorra. E in una cosa non vorrò
certo far mutamenti, cioè nella mia abitudine di dar piena
ragione a chiunque l'abbia e comunque.
Ma fin da ora debbo insistere su un particolare, che non
è d'apprezzamento ma di fatto, e rientra fra quei mate-
riali appunto che io accumulai. Qui la recisa smentita altrui
verrebbe subito a traviare gli studiosi di dialettologia me-
ridionale. Io asserii che nel mio dialetto si avesse la ridu-
zione di i breve ed e lungo tonici latini in èi, e quella di
n breve ed o lungo in òu. Registrai gli esemplari che potei
raccapezzar nella mia memoria o nell'altrui, e non omisi
di registrar pure gli esemplari ove una tale riduzione man-
casse e si avesse la semplice vocale e ed o. Nella classi-
PER IL DIALETTO DI CAMPOBASSO 709
ficazione degli esemplari potei incorrere in qualche falsa
reminiscenza mia o altrui, come certo nel modo d'interpre-
tare l'oscillazione del fenomeno non ebbi tutta la sicurezza
che l'odierno stato della scienza suggerirebbe. Ma questo
ora non c'entra. Il Goidanich, fidandosi appieno dell'autorità
del suo alunno, assicura che a Campobasso i dittonghi non
esistono affatto, bensì soltanto nel contado, e gli par che
suonino piuttosto óo, ée anziché óu, éi. Ne cava la con-
seguenza che non un intonaco letterario veli qua e là,
com'io presunsi, il dialetto cittadino, ma che il cittadino e
il rustico siano " due dialetti diversi „ : nientemeno I II
grossolano abbaglio che cosi io avrei preso gli parve che
fosse reso credibile dalla mia stessa dichiarazione, che
" vivendo da molti anni lontano dal luogo nativo, dovevo
raccapezzarmi tra una folla di reminiscenze „. Veramente
io proseguivo così : " verso le quali, quantunque alla prova
le trovassi ben più fide ch'io non osassi sperare, avevo
sempre una volontaria diffidenza ; che forse avrebbe finito
a sgomentarmi del tutto, se non mi fosse venuta in soc-
corso l'amorevole cooperazione di due miei ottimi congiunti,
Tito «e Gennaro Cerio „ . Aggiungo ora che il primo di
questi due è autore inedito di argute poesie vernacole.
Si trattava dunque di scrupoli, non d'altro che di scru-
poli ; e lo dicevo chiaro, ne davo ansa ad alcuno di cre-
dermi perciò così immemore della mia loquela nativa, così
stordito, e così storditi con me i miei adiutori, da ascri-
vere ad essa indebitamente una caratteristica fonetica di
tanto rilievo e tanto appariscente. Diamine ! Qui non si
tratta d'una parola singola, d'un fonema secondario, d'un
esemplare più o meno ; ma di tal cosa che non può sfug-
gire dalla memoria od entrarvi per equivoco. E facile im-
maginare a quanti ricordi e impressioni della puerizia si
colleghino certe forme della parlata. Poniamo, tra i quattro
e gli otto anni abitai in una casa dirimpetto a cui s'apriva
uno stretto viottolo a scalini che il volgo chiamava la
Rtia de tre ddeita (Via di tre dita), e io ho ancora pre-
710 F. d'ovidio
sente la cera dei miei vecchi quando mi ammonivano di
star attento a non dir così ; poiché nelle famiglie colte del
Sannio è continua la guerra al vernacolo, tollerato appena
inconsapevolmente in quel suo carattere musicale che si
suol dire l'accento d'un paese, e più o meno inconsapevol-
mente in certi idiotismi di sintassi, di frasi, di parole, di
pronunzia in generale o di pronunzie peculiari a qualche
parola. La smentita che altri mi dà mi ferisce, piii che nella
coscienza o nell'amor proprio di studioso, nelle dolci ri-
membranze patrie e domestiche. Son cose che altri non
può prevedere in concreto, ma che è prudenza e onesto
riguardo intravedere e presupporre in massima.
Or eccomi a dire più precisamente come la cosa stia.
La distinzione fra un dialetto cittadino ed uno rustico è
od era, in un certo senso e in molti casi, vuota di signi-
ficato per tante città del Mezzogiorno. Nelle quali i lavo-
ratori della terra nascono, vivono e muoiono entro le mura
cittadine. Quand'ero fanciullo, i contadini di Campobasso,
nati e battezzati in città, dormivano in città, uscivano la
mattina ai campi, torna van la sera a casa, e in città so-
stavano nelle feste, durante le loro infermità e nella vec-
chiaia. Il contadiname e la plebe (fin dove questa distin-
zione era possibile colà) parlava il vecchio dialetto, il
dialetto coi dittonghi, che rappresentava il vero e genuino
fondo del vernacolo paesano ; il quale era invece ammac-
cato, rammorbidito, raggentilito, sulle bocche della gente
civile, aspirante a non parlar che italiano, e nelle bocche
degli artigiani, aspiranti ad uniformarsi ai civili. Questo è
tutto ; e chi per una città come la mia avesse voluto pre-
scindere dal fondo plebeo o rusticano, non avrebbe quasi
quasi avuto di che dialetto trattare. Il campobassano ti-
pico, antico, fedele, era quello specialmente del rione di
San Mercurio, vicino alla chiesa di Sant'Antuono. Adesso
lo cose sono assai mutate. Oggi l'emigrazione in America
ha portata via molta di cotal popolazione rustico-cittadina.
Anche i reduci dall'emigrazione ritornano trasformati e rin-
PER II. DIALETTO DI CAMPOBASSO 711
civiliti. Inoltre, le moderne proibizioni municipali, col vietare
finalmente di ricondur la sera a casa dai campi l'asino, il
maiale, la pecora, han finito di diradare quella povera gente.
Così è avvenuto che oramai i dittonghi, salvochè da
qualche rudere dell'antico stile, non si odono più nell'ambito
urbano ; mentre ai miei tempi bastava che il fanciullo
uscisse a far una palla di neve innanzi alla porta di casa,
per ritornar sii, non solo con le mani avviate ai geloni,
ma con la lingua infetta di dittonghi. E sennò te li por-
tava a domicilio la fantesca. La civiltà ha fatto rapidi
progressi, e i miei concittadini han molta inclinazione a
raffinare rapidamente la lor favella. È quindi naturalis-
simo che le caratteristiche più aspre e primitive del parlar
locale, già ristrettesi al vernacolo rustico ed estremamente
plebeo, si sian venute dileguando in questi anni, Campo-
basso nacque borgo feudale, nel medioevo avanzato, e solo
nel 1806 fu assunto agli onori di capoluogo di provincia;
la quale fin li non aveva un'esistenza a parte, ma entrava
nella provìncia di Lucerà, che ora è della provincia di
Foggia. Solo da allora la capitale del Molise s'avviò len-
tamente a diventare una vera città, quantunque sempre
piccola. Il che dapprima produsse un graduale incremento
della popolazione, ma da ultimo ha finito con esser causa
di decremento.
Leggo in un opuscolo che a propria difesa ha or ora
pubblicato 1 ' ex-sindaco commendatore Francesco Bucci
[L'altra campana, p, 27-8), che nella cinta daziaria la po-
polazione " neirSl era di 12,774 abitanti, oggi è ridotta
a 11,890, laddove quella dei presenti nelle case sparse,
che neir81 era di 1,218, è salita a 2,438 ; talché oggi alla
città, in confronto del 1881, mancano 884 consumatori di
generi soggetti a dazio „. Le case sparse erano per l'ad-
dietro una rarità, quasi una singolarità. Una tal crisi sto-
rica produsse via via una crisi anche nel vernacolo, sempre
più liberatosi, nelle sfere cittadine, delle peculiarità più
veramente e rudemente vernacolar! ; il che spiega come un
712 F. d'ovidio
adolescente possa aver dato ragguagli diversi dai miei, e,
per miopia di veduta storica, addirittura avversi ai miei.
Senza dire delle tante ingenuità in cui può cadere un gio-
vinetto, improvvisato giudice di certe questioni. Ma per
fortuna io mi trovai a cogliere il momento di transizione.
In esso certe oscillazioni venivan naturali, e poteva acca-
dere che una parola di ragion comune sonasse ancora col
dittongo, in bocca a quelli che parlassero davvero il ver-
nacolo, e che una parola richiamante cose strettamente
cittadine, piìi familiari alla classe colta o semicolta, avesse
già assicurata la schietta vocale italianeggiante. Ma sempre
era questione di lotta tra il pretto vernacolo campobas-
sano e il volgare illustre della cittadinanza superiore ; non
già di due dialetti, il paesano e il rustico. Che rustico se
i contadini eran paesani ? Essi erano per l'appunto consi-
derati come i ritardatarii o refrattari al progresso nel
parlar pulito, o come i cari conservatori del vero uso paesano.
Nella modesta storia del mio piccolo comune non vi
furono sopravvenienze e sovrapposizioni di stirpi diverse,
ma solo il crescere delle influenze letterarie o delle in-
fluenze partenopee, per la nuova dignità di capoluogo di
provincia e il frequente passaggio d'impiegati, di magistrati,
di professori e via via. La supposizione d'un dialetto ur-
bano, che, pur essendo vero vernacolo, stonasse dal con-
certo del rimanente Molise e delle attigue zone dell'Abruzzo
e delle Puglie, torna stranissima e priva d'ogni fonda-
mento. E già nel preambolo alla mia monografia avevo
fatto ben intendere quanto sia nei paesi nostri stremato
l'uso del dialetto, tacciato d'essere un parlare sporco, e l'a-
bitudine e il proposito di non usare che la lingua colta, il
parlar pulito, benché più o meno intinto, massime in certe
occasioni, di vezzi locali. Quaranta o cinquant'anni fa, a
stento qualcuno, e specialmente qualcuna, si ribellava contro
il parlar tosco, cioè l'italiano, che gli pareva un'affettazione.
Ormai le scuole e il resto avranno spazzato via tali codini
e codine. E una condizione di cose onde a fatica riesce a
PER IL DIALETTO DI CAMPOBASSO 713
rendersi ragione chiunque sia istintivamente tratto a raf-
figurarsi ogni dialetto sul regolo dell'Italia cisalpina. Là
si che si può fare una distinzione abbastanza netta fra il
dialetto delle classi superiori e quel delle umili, o tra il
paesano e il rustico. Fino a un certo punto si può dir lo
stesso di Napoli, ove si può ravvisar chiaramente un dia-
letto dogli aristocratici, uno mezzano, uno plebeo, e fare
anche altre distinzioni. La baldanza di gran capitale fa che
i nativi non abbiano troppi scrupoli: e i provinciali stessi
vengon qui a napoletaneggiare, come se ciò fosse appro-
priarsi una specie di volgare, se non illustre, mediocre.
Ben diversa è la condizione delle altre città e terre meri-
dionali, soprattutto di quelle men remote dall'Italia centrale.
In conclusione, i dittonghi sono stati via via fugati
dalla mia città al pari degli asini, dei maiali e delle pe-
core. Per essa non potevo ne dovevo porre nessuna pre-
cisa antitesi tra un dialetto urbano ed uno estraurbano ; e
il professor Goidanich ha se non altro perso qui di vista
il proverbio, che ne sa piìi un matto in casa sua che un
savio in casa altrui.
Mi scusi lui, scusami tu e il tuo collega di direzione, e
credimi sempre
Napoli, 27 maggio 1902.
tuo aff.mo
F. d' Ovidio.
Siudj di filolooia romanza, IX. 45
NUOVE POSTILLE AL DIZIONARIO
DELLE COLONIE RUMENE D'ISTRIA
In questo stesso periodico (voi. VIII, pp. 517-609) il Dottor
Matteo Bartoli raccolse una ricca messe di postille, acute e
coscienziose, al dizionario del rumeno d'Istria pubblicato
teste, forse con molta fretta e poca prudenza, dal Dott. Arturo
Byhan ^). Anch'io ebbi la ventura di sentire, sopra luogo, il
linguaggio di quei Rumeni ed essendo Rumeno di nazione
potei raccogliere facilmente, col controllo del mio idioma
natio (banatense), anche un nuovo manipolo di voci abo-
rigeni, cioè non derivate dall'italiano (veneto), ne dai varj
dialetti delle vicine colonie slave. Queste e altre postille
unisco ora, per esortazione di lui, agli studj del Bartoli;
e tanto piti mi pare opportuna e adatta al caso questa
rivista italiana (che gentilmente mi concede ospitalità), in
quanto che si tratta di " colonie straniere in Italia, d'ori-
gine neolatina „ , in una provincia che se , politicamente,
non va ora unita allo Stato italiano, certo interessa, scien-
tificamente, soprattutto i romanisti d'Italia.
Quanto alla trascrizione dei suoni, non fo, per ora,
alcuna dichiarazione, rimandando ad altro lavoro, dove
avrò, fra breve, da discorrere, con più comodo, dei molteplici
problemi che offre la fonetica del rumeno d'Istria.
*) V. ora anche Romania, XXXII, 1903.
NUOVE POSTILLE AL DIZIONARIO DELLE COLONIE RUMENE d'iSTRIA 715
La cifra accanto ai singoli vocaboli indica il villaggio
da cui provengono. Cioè, secondo la nomenclatura officiale
della Giunta provinciale dell'Istria (V. Studj Vili, p. 523) :
1. Letana, 2. Castellania, 3. Avellino, 4. Frascati, 5. Colle
San Giorgio, 6. Villanova, 7. Frassineto, 8. Sciane (hei^nu).
alentu de komùn (4), agente comunale.
àiier (4): rosa din à. kade, la rugiada cade dall'aria.
àr bolli (4): àrbolu en brod pre mare, letter. " al-
bero in nave per mare ,.
asirita (8), (artic.) asina.
bàlege (4), sterco di animali.
bare (4). borea. Invece nel Banato beare = venticello.
beka (6), sorgente: àpa-n liiff, ke terlea ansa din
pemint, l'acqua nel boschetto, che scorre fuori dalla
terra.
berbécele (solo a Sciane), il maschio della pecora e
della capra.
hoboshe e siske (5), ghianda.
bo'sku (artic.) boskele (5), bosco.
br end US a (artic) plur. -s (8), rum. dac. brlndusà.
b riffe (4), temperino.
de g era (8), ha freddo.
diveni: io divenés, ani divenit (8), con tutti i si-
gnificati del Banato (" chiacchierare, parlare, trattare „).
duri ale (4), manico della scure.
^nfesà, fasciare, io oi e. f etti, {o ani q.ku rubina
pe skutek.
face, ha vari significati come nel rum. dacico: nu-s
f e kilt e f et eie: tirere-s (8), " non sono mature le
(queste) ragazze: sono [ancora] giovani: analog. 7iu-s f.
Ifmnele: kreskut-au, dar s-au tal'at, ibid.
716 GIUSEPPE POPOVICI
f ente re (8), sorgente o non pozzo; analog. nella Dacia
vecchia [tara Hateguluì).
fermindnt (8), zolfanelli.
fermenta, impastare; fermentés (8), e non fermentìi
come scrive il Dott. Nanu per influenza del rumeno let-
terario.
feti ti a, ragazza e non bambina, come lo prova il pro-
verbio (caratteristico anche da lato morale): musata f.
grumbo se tire H griimha fino, " la bella ragazza ha
brutti costumi e la brutta belli „.
fólele (6), vale anche: mantice.
frdier (8), è il maschile di fr digerita (e non fraie-
rita, cfr. Byh., 219).
fuieta (artic.) (4), gazzetta.
gabir, solo a Seiane; ma anche esiste gàbii (4).
gerdasele (8), pettine per cardassare la lana; ger-
da'si (6, 8), cardassare (sinonimo del seguente).
grebenà; v. gerdasele, io am grebenU, gre-
benésk.
grize, ha capito male, credo, il Maj: iuve-ti-s oile?
(lett.: " dove ti sono le pecore? „), en grise-. luogo roc-
cioso; srb. cr. krs, roccia. Per " cura - hanno solo skurbe.
gutni (4), ma di solito pog. inghiottire; da gut.
harambaSa (artic), h. de tàt (4), capo di banditi; in
tutto il Balcan; come anche mag. haramija.
inkàc (6): i. virit-a àpa tot pe su brigure, " qui
è venuta l'acqua sempre sotto i monti „.
iàzer, ricorre realmente (6), gura de i.
iepita, è veramente una puledra che non ha figliato
(rum. dac. manza).
kana (7): k. de pipe, canna da pipa.
NUOVE POSTILLE AL DIZIONARIO DELLE COLONIE RUMENE d'iSTRIA 717
k erndt (4), (plur. -t), sanguinaccio; o non " salsiccia „,
che vale kob a site (e non -ite).
kerpa (artic.) e kiirpa, krpa, plur. — e {le) è rum.
dac. cirpà, carpa.
klin, anche k. de sekure (8) = rum. dac. barba de
sècure.
kluc, designa un istrumento rurale, " ku ce firn se
skobé „.
kope de fir, non vale " covone „, ma " fastello di
fieno „ (pagliaio).
kosivésku {saka ài), mietere.
kuii, non esiste (il Maj. s'è lasciato traviare, anche qui,
dalla lingua letteraria), ma solo càvel.
lakom, fem. -e: l. dupe kàrna, desiderosa di carne.
lesa (artic.) (4, 8), porta di vimini.
live: l. vodina (8), cade l'acqua, piove.
lupo n a (8), lupa.
lu^i: lavare colla liscivia: io luhesk roba, ptc. -it.
lupa de glinda (5), buccia di ghianda.
mràh (4), brina: ciide kezut-a mrazu.
tnukla (8), rum. dac. muchi a.
obotu (6), rum. dac. obadà (orlo del cappello).
0 c^M A; ^M (4), malocchio: là àpa-n glàh si-I resface
de 0., " prende l'acqua dal bicchiere e lo libera dal ma-
l'occhio „ (In quest'acqua si mettono di solito alcuni pezzi
di carbone ardente, sette o nove). Anche il verbo dokld,
col significato del rum. dac. deochia; io m-am endoklat,
m-av doklat f etele, te ani endoklat {A, b), io diiklu;
ciré voi a duklat?
oienit: ola s-av o. (8), " la pecora ha partorito „ ; altre
forme non ho inteso.
718 GIUSEPPE POPOTICI
okàle (4), occhiali.
osor{u), plur. -e (8), caste osore g a lira fekut.
OS tra de sekure (8), il taglio della scure.
pan:; a, plur. -eie (4), ragno.
pàrik{u), plur. -k (4), paio, rum. dac. pàreche.
pikùn (4), è picone.
pinzai (4), arare, io pluzesk, rum. ban. a plugàri
da plug.
pokloni, far complimenti, we poklonesk, li s-a po-
klonit, srb. cr. klanjam se, moj naklon = mein
Compliment.
poiane (4), prato = rum. dac. poiana, invece srb. cr.
poljana E ben e.
polezeskii (4), nascere, detto dei porci: porci, pór-
kele se p. Cfr. zi eh e.
potop (6), inondazione, rum. dac. povoiu, ban. p ovàri
(potop, nel rumeno dacico è " diluvio universale „).
priku (4), rum. ban. purku, attraverso, p. preste
ape = ban. purku peste ape da per -\- con?
ratón{u), plur. -n artic. -hi (4), il maschio dell'anitra.
romàn (5) = rum. dac. roman. (Calomel.).
skurbe, v. grize.
skobt, rum. dac. se obi, grattare.
stugni: a s. foku (4), attizzare il fuoco.
strela (4), lampo, srb. cr. strijela, slav. eccles.
strèla.
strigón(u), plur. -n{i) (4), ban. strigoh, è " stri-
gone „.
suflà (4), soffiare.
sti, vale anche " conoscere „: nu-l sti? " non lo co-
nosci? „ e " leggere ,.
NUOVE POSTILLE AL DIZIONARIO DELLE COLONIE UUMENE d'iSTRIA 719
sprat (4), un s., vestite.
stroliga (artic.) (4), plur. -e, eie, strega.
tartoflin{u), plur. -u{i), patate piccole che si danno
ai porci.
tekni, (4), rum. dac. tigni.
tiirs (4), tronco di vite, nel Banato vale " palo per
fagiuoli „,
tortele de k e dar e (8), ansa di caldaia.
titait (4): ahute-me pre cela làpte ce Domnu
a t. "" aiutami in nome del latte che Dio ha succhiato „.
UT sona (8), orsa.
vodina (8), pioggia. Dal srb, cr. r/ódina = tem-
pestas (cfr. Budmani, Rjecnik, 9, 236), " attraverso
*guodina „. Cfr. rum. dac. ni o vii a, dallo slav. eccles.
mogyla, " attraverso *tnoguila „.
zepusi (4), rum. dac. zàpusi.
zmirkva (4, 5), abete.
zrni (6), macinino, srb. cr. hrni, rum. dac. rtjnità,
dallo slavo eccles. zriiny + «^<*-
Giuseppe Popovici.
BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
RECENSIONI
D"". Idelfonso Nieri, Vocabolario lucchese; pp. xlvii, 286; Lucca,
Giusti, 1901 *).
Il Nieri è riputato per altri suoi saggi, da una schiera di studiosi
ed amici, come dotto conoscitore della lingua nostra del trecento,
buon traduttore di Teofrasto e finissimo e geniale " ricostruttore , e
narratore di novelle lucchesi sul gusto del Sacchetti; alcune delle
quali ottennero giustamente d'essere accolte nelle Antologie di Gio-
vanni Pascoli e d'altri. Il libro che egli ora pubblica, frutto vera-
mente di lungo studio e grande amore, è un molto importante e bel
contributo agli studj della dialettologia italiana; e all'Autore procu-
rerà senza dubbio una più larga e diffusa riputazione, giacche questa
opera sarà d'ora innanzi citata spesso e con lode dai romanisti. Ab-
bondantissima e ricca di cose nuove è la materia raccolta nelle 270 pa-
gine del testo, che è in quarto e a due colonne ; e anche uno che sia
pratico del toscano e de'suoi dialetti vi troverà assai da imparare. È pre-
ceduto il Vocab. da una Prefazione e conchiuso da un'Appendice (pp. iii-
xLvii, 271-86), due discorsi letti alla R. Accademia lucchese, che a sue
spese procurò l'edizione, veramente magnifica. Nella Prefazione l'A.,
esposto il concetto informatore dell'opera, passa a indicare le varietà
dialettali del lucchese (§ VI- Vili), e le particolarità fonetiche e mor-
fologiche (§ IX-XXXIl), per poi venire alla critica de' lessicografi suoi
predecessori (ch'egli accusa soprattutto d'aver dato spesso come luc-
chese un termine tose, comune o italiano ^), e alla descrizione del suo
*) Così il frontespizio; ma la stampa non fu a termine che nello
scorso luglio; o il libro è venuto ora in luce.
^) È un difetto in cui cade più volte lo stesso Nieri (tanto è vero
che a noi tutti è più agevole il i-ilevare gli errori altrui che l'evi-
tarli); il quale a torto registra come lucchesi: afjgeggio, are. agghia-
dare, aggranfignare, alloggiarci, avvallare (' a. una cambiale '), bevic-
chiare, bozzo, cacchione *, cascame, cica cicala, cutérzola, dispensa (il
*) Giacché nell'es. ivi addotto non avrà il senso di ' castagna intristita sulla
pianta ', come mostra credere il Nieri, ma quello suo solito e proprio (' verme ').
RECENSIONI 721
proprio metodo (§ XXXIII-LXVI); e termina con siiggi dei singoli testi
antichi e moderni, che l'A. adoperò nella compilazione. Il discorso è un
po' troppo lungo, ma non stanca, perchè animato da un sentimento vivo
e sincero; e a ogni modo il Nieri dimostra quasi sempre una cono-
scenza piena e sicura del suo soggetto, che egli padroneggia assai
bene. Il tratto meno felice mi par quello dove, con poco metodo e
spesso con troppe parole e in modo che ora sembra ingenuo, discorre
de' suoni e delle forme, ridicendo suppergiù quel che altri aveva già
detto in proposito (v. Arch. glott., XII, 107-34 e 161-74). Per citare
un solo esempio, nel § X non si fa che ripetere, disordinati nella
materiale disposizione alfabetica, gli esemplari che si trovan raccolti,
razionalmente discriminati e in parte spiegati, a' nn. 19-26 della
' Fon. lucchese '. Nell'Appendice si toccano o si ritoccano diverse
particolarità grammaticali del dialetto lucchese.
A vantaggio d'una seconda edizione dell'opera, che è lecito l'augu-
rarsi prossima, mentre della prima non restano che pochi esemplai-i,
oltre che metto a disposizione dell'A. alcune centinaja di mie vecchie
schede, stimo bene d'esporre qui una parte di quelle osservazioni,
che mi furon suggerite da un attento esame del ' Vocab. lucchese ' e
che, come confido, allo stesso amico Nieri parranno, o in tutto o in
parte, ragionevoli. Innanzi tutto dispiace una certa trascuratezza, che
non solo si mostra poi ne' non pochi errori di stampa, nelle incon-
gruenze grafiche, nel fatto che parecchie voci sou fuori della loro
sede alfabetica e nelle promesse non mantenute, in quanto si rinvìi
da una voce a un'altra che poi manca; ma che risalta subito nel-
r Elenco degli autori ' cercati '. Giacche, essendo essi disposti in serie
alfabetica di cognome, Luigi Fornaciari, anziché dopo il Fanfani, oc-
corre dopo il Lucchesini! Così alle singole voci, mentre di regola e a
buon diritto precede la definizione, questa poi non di rado segue
all'esempio. E la definizione inchiude talvolta un termine del vernacolo,
' mobile '), are. forcelluto, garba (sorta di vaglio), gattune e gohbone-i,
are. ghiova, imbuzzare e sbuzzare, impresciuttire, insulsaggine, luogo
(podere), lustrente, maggiociòndolo, manata (percossa con mano), mostri-
dna, pigione (p. dell'uva), porticato, prestarsi (adoperarsi), princisbecche,
raffio (forca), ralla, ricevuta (il recere), rimessa (r. delle piante), ron-
fare, ruspare, sano (intiero), sbraccettare, sbraitone, scassata, scandiglio,
schiappa, sessantina (agg. di ' granturco '), spricciare, tacca (' di mezza t- '),
tassello, zizzola; e parecchie altre, con cui s'allungherebbe la lista.
Ma il Nieri non ebbe a mano il Voc. del Petrocchi, cioè quello
tra' nostri che gli avrebbe reso i migliori servigi. D'altra parte l'A.
potrebbe, a sua giustificazione o scusa, osservare che la viva fioren-
tinità di diverse voci, registrate dal Petrocchi sopra la linea, è lecito
revocare in dubbio; e che esse spetteranno più propriamente al pi-
stojese e con esso anche non di rado al lucchese.
722 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
riuscendo oscura a tutta prima per chi non sia lucchese (v. a rincic-
ciorare, sbefanata, ecc.). Così al metaplastico inana, ricordato oppor-
tunamente s. mano, s'assegna anche un articolo a parte. E possuto e
puole e vuote (volete), anziché andar s. potere e volere, si notano di-
stintamente. Di serò, sol per negare che questa forma verbale sia
dell'ant. lucchese, si fa un articolo a parte s. «.E un articolo circa
la pronunzia zz per ss (tazzare, ecc.), il quale doveva se mai trovar
luogo s. s al principio, e invece s. z alla fine! Così l'etimologia di
micca, scodellata di minestra, figura assai curiosamente s. scafagna.
L'A. poi non distingue nella scrittura lo z (aspro) dallo z (dolce), e
sebbene quest'ultimo sia indicato non poche volte con apposita avver-
tenza, pure l'indicazione è non di rado omessa (v. p. es. a bazzarana,
bronza, faenza, lampezzare -zzìo, razzaio -ata e -ato, zembo, zemino, ziz-
zola) ; e la confusione s'accresce per ciò che alle volte si credè bene
di notare anche l'altro suono del z (v. per es. a lezza, lézzora e pap-
pazzucco). Anche di s intervocalico son per egual modo confuse del
tutto nella scrittura le due diverse pronunzie.
Erano poi da omettere alcune voci, che niente altro sono se non
le normali varietà fonetiche lucchesi delle corrispondenti voci italiane,
come polléssora -ezzola (ali. a -Izzora), spàzzora -orino -orare (che se
mai sonerebbe spàssora nello schietto vernacolo). Di molte altre, che
non sono del lucchese comune, ma di territorj ben più ristretti, bi-
sognava indicar sempre la provenienza o, se non altro, designare
alcuno de' paesi, dove un dato vocabolo è in uso. Tale ad esempio
è góvoro, parte superiore di ciascuna gamba davanti del cavallo (forse
da cubi tu, mutato il suff.), onde sgovorato, spallato; e tale anche è
zemo molle (rinforz. di 'bagnato'); voci che io con parecchi altri
lucchesi ignoravo e che s'odono, come il Nieri stesso m'avverte, al
Ponte a Moriano e in quei pressi. In qualche caso l'informazione anche
non appare abbastanza estesa e sicura. Così cita egli dichiarire (si dice
soltanto a dich-, a caso, come tocca tocca) dal Bianchini, e sgrotolare,
sgret- e tumelài, disadatto, minchionciotto, sull'autorità dello Stefani,
confessando che non conosce queste voci, le quali anche oggi a Lucca
sono vivissime. Lo stesso è a dire di rinfuga, che l'A. dà come voce usata
a Chifenti! E bucina, giovenca, non è soltanto della lingua infantile,
ne cinino majale, soltanto della ' dictio ludicra', ma son dell'uso ge-
nerale in certi paesi del contado. Altre voci che l'A. avrà udito, più
che in altri luoghi, al suo nativo Ponte a Moriano o da quelle parti
(come ludro, morbino, sghei, ecc.) sono stridenti neologismi importati
dall'Alta Italia. Negli opificj del Ponte a M. e del Piaggione abbon-
dano gli operai non lucchesi, massime gli emiliani; e non fa mera-
viglia, se qualche loro vocabolo attecchisce e passa nel linguaggio
comune. Tra poche diecine d'anni, è lecito supporre, codesta infil-
RECENSIONI 723
trazione esotica sarà molto più copiosa: un fatto questo, che dovranno,
per il giusto criterio storico e ad evitar curiosi abbagli e illusioni,
aver ben presente gli studiosi avvenire del lucchese.
Ma questo del Nieri anche vuole, di tratto in tratto, essere un Vo-
cabolario etimologico. Benché l'A. per lo più s'attenga a buone auto-
rità (Ascoli, Flechia, Parodi, ecc.), non ha però saputo resistere alla
tentazione d'etimologizzare anche per conto suo; e non di rado, mi
pare, infelicemente. E così molte osservazioni fonetiche o morfolo-
giche 0 di più larga ragione linguistica, o non persuadono affatto
0 son molto discutibili; e ad ogni modo si potevano tralasciare con
vantaggio. Mi sia consentito d'addurre parecchi esempj ; tanto più
che questo d'una cotal pretensione dottrinale è secondo me il difetto
men lieve dell'opera che esaminiamo.
(Pg. 5 s. abbracchire). L'it. bracco, che rispecchia l'equivalente germ.
b r a k k 0, diffuso su gran parte del territorio neolatino (v. Kort.'- 1541),
per l'A. è derivato da f 1 a e e u s; etimologia foneticamente impossibile
e di cui per altra parte non si sente alcun bisogno, giacche in ter-
mine relativo alla caccia l'origine germanica è quanto mai verosi-
mile.— (Pg. 11). L'epentetico r d'allegrire, allegare dei denti, che a
Lucca si dice comunemente anneghire (non registrato dal Nieri) è
ripetuto da influsso d'allegro, senza che ben si veda per qual rela-
zione ideale tra le due voci !.. — (Pg. 27 s. battimo). Si cita plaga,
in senso geografico (cioè p lag a), che si fa procedere dalla rad. plàg
percuotere, quasi fosse plaga (efr. Arch. XV, 182).— (P. 28). L'A. dichiara
belléndora, farfalla, da *b e 1 1 1 n u 1 a (' bellu '), senza esser trattenuto
dalla strana inverosimiglianza che è nel supporre un così antico ' di-
minutivo doppio ' di b e H u, il quale per di più avrebbe dovuto dar
*bellin(lora (forma che per semplice errore di stampa, fuor del posto
che a lei spetterebbe nella serie alfabetica, occorre in Fanf, u. t.
come data dal Bianchini e che in Petrocchi si trasfigura anche peggio,
spostato l'accento, in bellindòral) ; e ad ogni modo cfr. Arch. XII, 127
(ricordando anche ballaena qpóXXaiva, Lindsay ii, 60). — (Pg. 36).
Rispetto a brània, brama, piana (sost.), si riconosce la metatesi nella
seconda forma ; laddove, se dobbiamo partire da *b r a g ì n a, come
r A. sembra ammettere, sarà proprio il contrario (cfr. pània da
pdina, ecc.)! — (Pg. 39). Si deriva bugnare mugghiare, brontolare, da
bugno arnia. Non sarà invece che una variante di biigliare (Salvini ;
V. il Voc. it.); e cfr. il lucch. ragnare di rimp. all'it. ragliare. Ap-
presso, per etimo di burbdndola, specie di coleottero, si esibisce bur-
banza\... — (Pg. 48). A proposito di casti'o castigo, vi s'avverte, quasi
un fatto fonetico, il passaggio della media in tenue, mentre non ab-
biamo qui che sostituzione di suffisso (a casticare, cfr. faticare, leti-
care, ecc.) — (Pg. 51 s. chiappare). Nell'esempio: ' Preparate tutto,
724 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
chiappa che torni stasera ', il chiappa non sarìi 3 pers. ind. col senso
di ' può accadere, è possibile ', come crede il Nieri, ma 2 impv. col
senso di ' ammetti, supponi ' (cfr. pigliare, OnoXaupdviu, ecc.) — (Pg. 52).
Rispetto al fenomeno che è in chiebhito per tiebhito, tiepido, si cita
crischiano per cristiano, dove l'alterazione è avvenuta in condizione
assai diversa; e si dà poi schioppo qual succedaneo di stioppo, mentre
è proprio il contrario, come tutti sanno (v. Kòrt.^ 8497). — (Pg. 72).
Per émhora ed embra, specie d'arbusto, si considera come epentetica
la prima forma. 0 se fosse, invece, sincopata la seconda?... A ogni
modo non è certo che sgumhoro, citato a riscontro, stia per sgombro,
anzi che viceversa (v. Kòrt.- 2351 e 2676). Le stesse voci ritornan poi
più innanzi: Umbora e Umbra, dove l'A. vede l'articolo agglutinato.
Con ugual diritto si potrebbe supporre, al contrario, che le altre
due forme sian sorte per discrezione dell'articolo. Come ha fatto il
Nieri a decidere, ignorando l'etimologia? — (Pg. 92). L'origine di
gromigno, comignolo, da culminpu potrà anche parere non im-
probabile. Ma dovendosi supporre la forma intermedia *gormigno, col
passaggio (non antico) di l in r din. a consonante (v. Arch. XII, 118),
non potrà aver dato il nome al mt. Gromigno, che è ricordato prima
del mille, fin dal 787, come Gruminit) (forse da legger Gram-). Ed è poi
peregrina la notizia che l'A. ci dà dell'esistenza di Segromigno, con la
scorta d'un documento assai tardivo (1186)!... Cfr. Suppl. Arch. V,
127. — (Pg. 107). Si spiega inzuffìlare da sibilare, anzi che da s i-
filare. Impossibile, come mostra il luogo dell'Arch. a cui l'A. stesso
rimanda. — (Pag. 109). Quanto a lari ladri ! (termine di giuoco ;
V. Arch. XII, 123), mi fa meraviglia che all'A. sia ignota questa im-
portante forma. Giocando a ' pomba e ciccia ', quelli che devono esser
rincorsi gridano lari, cioè ' ladri ', che sono essi (gli altri sono i
' birri '). Codesto giuoco si dovè anche a Lucca chiamare dei Birri e
Ladri, come si chiama tuttora altrove. — (Pg. 113). Per linchetto, in-
cubo, dim. di lineo (v. Arch. XII, 130), si suppongono le fasi ante-
riori *incubetto *incuetto, a cui non si può pensare senza sorridere. E
poiché l'A. cita il Caix (st. 119-20) ed il Flechia (Arch. II, 10 n), si
direbbe che egli abbia voluto farli suoi complici in codesto tentativo.
— (Pg. 122). L'a protonico di matraglia mi- è attribuito a infl. del
ni. Matraglia -aja ! — (Pg. 130 s. Naguiléa). In asso della frase ' la-
sciare in asso ', se da Nasso, abbiamo un caso di discrezione, e
perciò non può quest'esempio stare con ninferno nabisso ecc., che al
contrario ci olirono concrezione d'ijn. — (Pg. 132). Il Nieri mostra di
credere, a gran torto, che il lucch. ni (a lui, a lei, a loro) sia da gli,
per la curiosa trafila di gliele gnene gnine, mentre è da inde; v. Arch.
XII, 163 (cfr. M.-Lùbke, II, 104). Più innanzi v'è data come certa
l'origine del misterioso nlfito, inquieto, stizzoso, da niffo; alla quale
RECENSIONI 725
non conferiscono probabilità alcuna, perchè sconvenienti dal lato mor-
fologico, i supposti paralleli musone e itKjrugnato. — (Pg. 134 s. olo -a).
In hrenciùglioro e ciortcllora si trova r all'uscita, non perchè essi son
quadrisillabi, come all'A. sembra, ma per dissimil. dal gli (/) e dal //.
— (Pg. 136). L'ottato, it. dottato, agg. di ' fico ', anche per l'A. vien da
optatu odeoptatu, come se ciò fosse la cosa più certa del mondo
(cfr. Arch. XV, 168 '). — (Pg. 148). In piggia -o, piìi cose messe in-
sieme, fagotto, si vede contro ogni verosimiglianza un allòtropo di
piccia. Considerato il sinon. suo piggello, mal separabile da piggia -a,
potrebbe quest'ultimo, secondo una teoria cara al Nieri, non essere
che un presunto positivo, ricavato da piggello; e cfr., oltre Caròla
e Carola, Catèra e Ccitera, Giovacco, Pellégro, anche: huccello buccellato,
susa susina, ecc. Del resto, che da piggello si risalga a p u g i 1 1 u,
come pose il Caix, forse crederemo ora assai meno. — (Pg. 149).
Per p'iolare , pigolare , dall' A. s' attribuisce con poca carità allo
scrivente quell'etimo che egli propose per piulare ipjul-, onde 2)juli
-a ecc.), lamentarsi: plorare; cfr. Arch. XV, 386 n. — (Pg. 151).
Si pensa a derivar pisigno pisz- da bizza, sul fondamento della forma
bizzigno (Valdinievole), il quale invece non sarà che pizzigno, rac-
costato se mai a bizza (ma cfr. bicci piccioli, biccigna bazzecola). Da
bizzigno, per via fonetica, non si poteva mai venire a pizzigno ; che
sarebbe un'alterazione regressiva o ascendente, di cui forse non riu-
scirebbe d'addurre altro esempio. — (Pg. 156). Le forme prati- e preti-
sémina, prezzemolo, si dichiareranno per semplice evoluzione fonetica;
e non ci sarà bisogno di ricorrere alla ' falsa analogia ', come l'A.
dice, di prato e prete e di seminare ! — (Pg. 168). A etimo di rigno,
cattivo odore (cfr. Arch. XII, 132) si propone ferigno. Ma la sillaba
iniziale, qui, come sarebbe caduta? Giacche l'aferesi non si può am-
metter senza una ragione probabile (discrezione dell'articolo o d'una
preposizione, ecc.). A codesto modo il campo dell'etimologia verrebbe
molto, e molto comodamente, allargato!... — (Pg. 169 s. rimbozzare).
Si pensa a connettere il tose, bozzo, accolta d'acqua stagnante (voce
ancora del tutto enimmatica) e il sinonimo sassar. poggu col lat.
p 0 d i u, senza riguardo alcuno dell'enorme distanza che ne separa i
significati. — (Pg. 175). Per la cons. iniziale di roventare dov-, se sta
bene il riscontro con rivertirsi div-, perchè in ambedue s'ebbe scambio
con r- prefisso; non regge però l'altro con mirollo mid-, dove è una
vera alterazione fonetica. — (Pg. 176). La rugghia, rasiera, sarebbe
direttamente da r e g ìi 1 a. Impossibile. Forse essa è il nome estratto
^) È voce per me sempre oscura. Forse è da un nome locale (cfr. Ot-
tati, Salerno) o da un personale (cfr. alamanna, seral- e salamanna,
l'uva così detta da Ser Alamanno Salviati).
726 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
da nujghiare, pareggiare lo stajo, spiegabile da r u ij' l ar e = x e-
g u 1 a r e, o sia con metatesi delle due prime vocali sorta nelle forme
rizàtone, o con w anche in prima sillaba per assimilazione. —
(Pg. 185). Da shuccicare, scivolare, si rimanda con giusta ragione a
f<fng<]ìcare (da 'exfugicare, cfr. sfuggire detto del piede che sci-
vola), derivandolo poi senz'altro da buccia, da cui fu promossa bensì
(ma niente di più) l'alterazione. La forma sfuggicare, che è la più
diffusa e comune, di certo non si potrebbe ripeter da shuccicare. —
(Pg. 186 s. scancio). L'etimo di guencire, che è l'aat. wenkjan, è
attribuito con curiosa confusione a schencire (v. Kòrt." 10375 e 9303).
— (Pg. 190). Lo scervallato, per cui si fa un articolo, adducendo un
esempio di Luigi Fornaciari, Lett. 71, non sarà che un errore di
stampa (il ' come qui diciamo ' s'adatta benissimo a scervellato, che
non tanto era ed è italiano quanto lucchese). — (Pg. 193). Per scia-
bigotto, balordo, grullo, si pensa, modificando una proposta del Caix,
a sci(i[pito] -\- bigotto. Se non che bigotto non vi quadra punto per il
significato. Se non mi paresse ostare l'equival. sciabica attestato dal
Lucchesini (cfr. Arch. XII, 132), crederei ora piuttosto che senz'altro
s'abbia qui sciap- sciabidotto (e sciapito è forma caratteristica luc-
chese), con (/. 0 per dissimilazione o per infl. di qualche sinonimo. —
(Pg. 209). Il verso del Fucini, son. IV: ' E si scappa a godessi a San Ma-
rino ', non par che sia bene scelto come esempio del si = ci (noi. a
noi), che è proprio anche del pisano e del livornese (cfr. Arch. XII,
163 e '76). Lì godessi vorrà dir ' godersela ' e il si sarà pron. di
3* pers. Più innanzi, a dichiarare sinibbio, sizza, vento gelato (un
altro duro problema etimologico), si pensa asine nebulo! ...*) —
(Pg. 214). Per sovici, sostegni delle botti (it. ' sedili '), cfr. Arch. Xll,
133, s'insiste sull'etimo del Caix, subliciu; dal quale, assoluta-
mente, non si poteva venire ad altro che a *sovecci (a "sovicci, dato
l'i), non a quella forma col semplice e che è sovi'ci. Ove si debba
proprio partire dal parossitono, bisognerà rinunziare a sùbìces
' cose sottoposte ' (etimo dato già dallo scrivente e accolto dal
M.-Lubke, Gr. it. 83). Del resto, potremmo anche supporre accento
protratto ; o anche pensare a sublicae -es, travi da sostegno (forse
corrad. a sudes stanga, palo; v. Stolz, I, 271), supponendo che il
suffl. derivativo (-i k-) avesse qui vocal lunga (e non breve, come se-
gnano i lessici, senza l'autorità di nessun poeta). — (Pg. 239). Si fa
risultare tràmice, tralcio , da fusione di tramite e tradùce.
') La var. zenibbo, della Versilia, se la voce provenisse di là, po-
trebbe accennare a una l)ase in -I p u (cfr. ivi ribba ripa, ecc.). Anche
il Petrocchi registra sinibbio sopra linea (e sarà voce viva del pi-
stojese), come ' vento con neve ' e ' neve polverizzata dal vento '.
RECENSIONI 727
Sarà; ma non trovo che il primo di questi due termini abbia mai
significato qualche cosa di simile a ' tralcio ' '). — (Pg. 246 s. va). La
riduzione di k-tt iniziale, preceduto da vocale, a v si dà ivi per luc-
chese, ma dello schietto pianigiano lucchese non è. 11 quale, per
esempio, non dice di vi (di qui), ma di ui. A ogni modo è curiosa
la spiegazione che si offre del fenomeno: ' la gutturale q fu perduta
nell'aspirazione e la ii fra due vocali passò nella sua semivocale ' ^).
E avrei materia per seguitare così un bel pezzo. Ma le mende di
vario genere notate finquì, e le altre che si potrebber notare, riu-
scirà agevole il correggere, essendo più ' eccessi ' che ' difetti ' ; e
') Ecco, a ogni modo, parecchi belli esemjjj di contaminazione o
fusione di sinonimi, Jall'A. non rilevati: borborare (3 prs. bórbora),
gorgogliare del ventre, da mormorare e borbottare -ogliare; fonfolena,
da fanfaluca e falena; ghiomella, da giomella e ghiomo (cfr. Arch. XII,
129) ; guattire, che esprime la voce del cane quando ha trovato un
fiato, da guaire e squittire ; mastucare (3 prs. mastùca), da masticare e
mandu- manucare; profe'rgere, offrire, da proferire e porgere; quider no
varj fogli di carta insieme, da quaderno e quinterno. E il Nieri,
s. bilurcio, bene spiega sbilurciare, da sbiluciare e sbirciare.
^) Superfluo l'avvertire che Vu di qui quando questo ecc. è esso una
' semivocale ' (ad evitare ambiguità, meglio forse: una ' semisonante ', u ,
che nel caso rostro passa in sonante v). — Del resto, con tutto l'eti-
mologizzare di cui abbiamo dato un saggio, avviene spesso che l'A.
trascuri altre proposte etimologiche, che almeno in parte egli non
dovrebbe ignorare e che ben poteva ricordare, se non altro per con-
traddirvi. Eccone qualche esempio, con la relativa citazione: agrilegto,
Sappi. Arch. V, 93 s. laurus (aggiungendo che un lagro, da *lavro,
lauro, e attestato dal Mattioli; v. Targ.-Tozz.) ; bigórdolo e bilào,
Arch. XII, 128; bofonchio, Suppl. Arch. V, 111 s. bubulus; calaverna,
NiGRA, Arch. XIV, 276; capitar solo, Suppl. Arch. V, 112; catro, Arch. XII,
118 e XV, 386 n; cincinpótora e condominare, Arch. XII, 128 e '29; debbio,
Suppl. Arch. V, 146; dindellare, Arch. XV, 216; féuto, ib. \^\; fórforo,
Arch. XII, 129; fregiane, Zeitschr. XXIV, 142 (cfr. Arch. XVI, 170);
gavina. Mise. Asc. 431 ; gavonchio, Arch. XII. 173 ; gongolare, Arch. XV,
216; gorro e gronchio, Arch. XII, 129 e '30; guspélloro, ib. 172; in-
caracchiato, ib. 130; ingudnguaro, Flechia, Arch. Ili, 175; lappare,
Arch. XII, 157 s. lappula; leto, ib. 125 n; lucia, Arch. XV, 150 n;
mantrugiare. Mise. Asc. 433; pecchia, Arch. XII, 172 n (cfr. XIII, 400);
pillàccara e pionso, ib. 131; polUzzora, Suppl. Arch. V, 99; pomba,
Arch. XV, 144 s. bomba; rantacchio, Arch. XII, 132: sbonchio. Mise.
Asc, 489 ; smergolare, Arch. XIT, 133; s(o««ca/v, Salv., Nuove postille
s. sumere; trabocca, Arch. XV, 203; vagellare, ib. 206. Ne raro è il caso
che l'A. (e certo per mera disattenzione) ripeta, tralasciando ogni ri-
chiamo, cose già osservate dallo scrivente nella ' Fon. lucchese ' ed
altrove. Per averne pochi esempj tra molti, vedi s. abbacchio, anne-
' ghire, barasciare, billora, copo, culi'gnoro, deli'co, limo, sborniare
(Suppl. Arch. V, 121 s. bornio), scaciato (Mise. Asc. 443 n), scedra,
tieulo, tràccola.
728 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
tanto più che non si devono per nulla imputare a mancanza di
perspicacia e d'ingegno, giacche TA. n'ha da vendere. E abbon-
dano del resto le osservazioni giuste ed acute, come il lettore
vedrà scorrendo il ' Vocabolario lucchese '; e non mancano neppure
le nuove e probabili etimologie. Così saranno ben dichiarati : auscare,
sbirciare, da l]usco, quantunque la perdita di l iniziale per confusione
con l'art, sia meno ovvia in aggettivo; ho- o bucina, giovenca, da
*b u e I n a, cioè b u e u 1 a con diverso suffisso (cfr. però Arch. XV. 144);
^raspollo da raspollo, col g dell'equival. gràppolo. Inoltre: menno,
inetto, citrullo, da Menno (accorciamento di ' Domenico ') *); jnccitiolo,
vinello, in quanto sia (come è sempre parso anche a me) un allo-
tropo di picciolo, a cui starà come corgnolo a córgnolo, muricciuolo a
muricciolo, nocciuolo a nòcciolo, e simili (in contrario v. Salvioni,
Zeitschr. XXIII, 523); garfagn. pera, trottola (lucch. prillo), da piru,
con cui par confermata l'origine ài prillare da *pirinulare (cfr.
NiGRA, Arch. XIV, 294 e 359), o piìi semplicemente, da *p i r u 1 a r e.
Tra le cose notevoli, messe in luce dal Nieri, c'è anche qualche
base latina, che passerà ad arricchire il Voc. romanzo. Tale è t e-
g è r e, che si rispecchia nel pieno e sonante tieggere o chieggere,
coprire, di Pescaglia ed altri paesi vicini.
Novembre 1902. Silvio Pieri.
V. Gian, Vivaldo Belcalzer e l'enciclopedismo italiano delle origini,
Loescher, 1902 (Estr. dal Supplemento n. 5 del Giorn. Stor. della
leti. ital.).
A messer Vivaldo Belcalzer, notaio mantovano, qualche cenno fu-
gace ed incerto dedicarono eruditi del secolo XVIII e del principio
del XIX. Ma Vittorio Gian perviene a fissare per entro un periodo che
va dal 1279 al 1308 alcune date relative alla vita di lui; la sua figura
di studioso mette a campeggiare in un quadro di quel che fu la cul-
tura mantovana al suo tempo, e la sua opera di volgarizzatore d'una
delle più pregevoli enciclopedie medievali compiutamente illustra per
ogni lato.
L'enciclopedia che il Belcalzer attese a ridurre in volgare è quella
compilata col titolo De proprietatihus rerum dal minorità Bartolomeo
Anglico, inglese di nascita, secondo il Gian, non francese, benché vis-
suto a lungo in Parigi per ragioni di studio. Messala a confronto con
') Il Nieri insiste, credo con ragione, su' nomi proprii che vennero
a dire ' inetto, balordo ', ripigliando e modificando un'idea non nuova
(cfr. Arch. XV, 174); e adduce basti ano , bennardo -ardone, brogio
(anche fior.), giorgio -one, pasquale ed altri. Gon essi manderemo anche
mommo, che deve esser ' Girolamo ' (cfr. il lomb. e ven. Mómolo).
RECENSIONI 729
quella ben più nota di Vincenzo de Beauvais, crede il Gian di poterle
assegnar dei vantaggi che in qualche modo ne compensano il difetto
relativo d'ampiezza ; e, dimostrata l'importanza ch'essa ebbe nel mo-
vimento " enciclopedico „ italiano dei secoli XIII e XIV (movimento
ripartito di fatto in due correnti, l'una indigena, l'altra straniera,
essendo però ben più copiosa, tra le due, la seconda), passa egli a
render minuto conto dei procedimenti che il Belcalzer seguì nell'opera
sua di volgarizzatore, qua e là tagliando e riassumendo con notevole
destrezza, altrove facendo discretamente posto a qualche giunterella
suggerita da sentimento d'amor regionale o municipale.
Ma ben s'intende come una tale opera non possa uno studioso ita-
liano aver tra le mani senza che il suo pensiero si rivolga di tratto
in tratto agli scritti di Dante e in ispecie alla Coininedia, dove, av-
vivata dall'arte mirabile, fu trasfusa tanta parte del sapere di quel
tempo. E bene opportuna appar quindi l'esplorazione dal Gian pra-
ticata attraverso il De proprietatibus per cercarvi riscontri alla ma-
teria scientifica da Dante elaborata. Gopiosi ed interessanti essi sono ;
e, quand'anche fossero in massima parte spiegabili mediante identità
0 somiglianza di fonti, costituirebbero nel loro insieme una prova
ben concreta di quanto largamente attinse Dante alla scienza corrente
del tempo suo ; laddove dalla legione ogni dì più crescente degli en-
tusiasti forse poco sinceri, certo poco curanti della verità e nemici
delle fatiche che la ricerca di essa impone, gli si vuole attribuire
un'assoluta originalità in uno sconfinato campo di sapere.
Le pagine che inducono a tal conclusione son tra le più com-
mendevoli di <(uesta memoria, dove però anche il glottologo tro-
verà buona materia per se, in quanto il volgarizzamento di messer
Vivaldo, dal quale, oltre a copiosi estratti, derivò il Gian un abbon-
dante glossario, ha diritto d'esser considerato come il più fedele rap-
presentante del vernacolo mantovano ai tempi di Dante. E in vero,
il Belcalzer, non avendo certo in mira quel tipo di lingua letteraria
che Dante atìannosamente cercava a traverso l'intricata selva dei
parlari italici, nò alcun modello di lingua letteraria di fondo toscano,
si trovò di fronte a due termini nettamente distinti: il latino e il
volgar mantovano ; nettamente distinti di per se e nell'intenzion del
volgarizzatore, il quale sarebbe contravvenuto allo scopo dell'opera
propria, quando v'avesse lasciato sensibilmente penetrare la lingua
dotta dell'originale ch'egli si proponeva di metter alla portata di
tutti in tutti i suoi particolari. E con questo è anche da considerare
che la versione del Belcalzer ci fu conservata in un manoscritto dei
primi del trecento, il quale ha valor d'autografo in quanto eseguito
sotto gli occhi dello stesso Belcalzer.
E poiché sono a parlar della lingua del volgarizzamento ecco qualche
studi ài Jiiolofiiii rumanea. IX. 40
730 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO
osservazione sui brani pubblicatine in appendice e sul glossario. A
p. 145, r. 9, sarà forse da leggere: com è, gite...; a p. 150, r. 21,
corod va certamente corretto in cored, come del resto poi sospetta
il Gian nel Glossario; ibid., r. 29, 1. quelh; a p. 153, rr. 10-15, leggi:
A', complid lo direnar, se remof le mense e le man se lava, e a De fi
reportà gratie e hanor al segnar (= lat. hospi ti); e, fat go, zascadun
va ò ie plas; a p. 157, cap. IX, riga penultima, corr. e tant ella n'a
più de bever'?; a p. 59, r. 25, corr. Eciamdè. Nel Glossario a dug = allocco
sarà anche da avvicinare il prov. due, collo stesso significato, pel
quale vedi il mio Bordello di Goito, p. 253, n. al v. 23 ; e il zugos
nel senso di " giocondo , non ha nulla a vedere con " succoso ,, ma
è l'equivalente di " giocoso „. • C. d. L.
Paul Andraud, La vie et Vijeuvre du troubadour Raimoii de Miraval.
Paris, 1902.
L'A. vien preparando l'edizione cx-itica del canzoniere, abbondante
e ripartito tra un gran numero di codici, di Raimon de Miraval, il
più cavalleresco dei trovatori: possiamo quindi considérax'e questo
volume come la parte storica dell'opera complessiva e al tempo
stesso, secondo che l'A. par desideri, come uno studio di costumi.
Si tratta d'un canzoniere quasi esclusivamente amoroso ; e poiché
l'A. dedica la maggior parte di questo suo lavoro all'ordinata rico-
struzione delle storie d'amore che quello ispirarono, si può ben dire
che ne risultino stabilite anche le linee generali di quel che sarà per
essere l'edizione.
Maggior diligenza non si sarebbe davvero potuto desiderare dall'A.;
ma s'intende bene che, data la materia tenue sulla quale le sue in-
dagini venivan praticate, non sempre certe se ne posson dire le ri-
sultanze. Le poesie d'amore del Miraval, come tutte le trovadoriche,
offrono di per se un mal sicuro fondamento a ricostruzioni storiche
e mal soccorrono le razós, derivate come sono, e Dio sa con quale
e quanta libertà, dalle poesie stesse. Di tali difficoltà ben si mostra,
teoricamente, informato l'A.; ma in pratica egli finisce per fare
anche troppo larga parte all'autorità delle razós, ora tenendosi stretto
ad esse fin là dove l'inverosimile incominci, ora menando loro buono
l'inizio d'una storia che poi egli s'industria di continuare e menare
a termine coli' interpretazione diretta dei testi, e quasi sempre poi
accettando da esse l'identificazione dei " segnali ,, dal poeta adot-
tati, con uno od altro nome di nobile dama. Per esempio: l'A. ben
riconosce l'inverosimiglianza complessiva dell'episodio della separa-
zione di Raimondo da sua moglie, di cui egli stesso fa la consegna
nelle mani del nuovo marito, per correre poi a sua volta a sposare
Ermengarda di Castres, la quale invece all'ultimo momento sposa
RECENSIONI 731
Olivier de Saissac. l^out cela fait sourire, conclude l'A.; ma non senza
aggiunger subito che autentica è la storia da cui un sì bizzarro rac-
conto ha preso le mosse. Autentica, perchè qualche tratto se ne
ritrova nello scambio di sirventesi occorso tra Uc de Mataplana e
Raimon de Miraval, nel quale anche appajono (e qualcuno storica-
mente accertabile) i pivi dei personaggi che la razós menziona. Ma
quei due sirventesi, appunto perchè sfuggono a qualsiasi tentativo
di determinazione di contenuto, si prestarono a meraviglia alla fan-
tasia capricciosa del biografo ; e, quanto ai nomi storici, — Gau-
dairenca, Uc de Mataplana, Olivier de Saissac — , i due primi figurano
in questi due stessi sirventesi; il terzo in un dei sirventesi composti
pel giullare Bayona.
Vero è che su terreno così malfido devono necessariamente mo-
versi quanti intendono alla ricostruzione della vita d'un trovatore.
Ma l'A., e lo ribadiva egli stesso nel paragrafo di conclusione della
prima parte del suo lavoro, ha voluto far di più : presentarci un
quadro dal vero dei costumi del tempo; e questo risulta troppo
fosco perchè il lettore non abbia a vivamente preoccuparsi della sto-
ricità delle sue linee e dei suoi particolari. Se ne mostra del resto
preoccupato anche l'A., che si chiede : " Mais avons-nous bien le
droit de juger ainsi cette société pour l'avoir entrevue au travers de
cette oeuvre et de cette vie ? ,.
Ma codesto a parte, molta lode merita l'A. per le ricerche intorno
alla famiglia del trovatore e le abbondanti notizie che intorno al
suo paese d'origine ci fornisce : non meno che per la valutazione che
dell'opera sua poetica egli fa nel secondo capitolo. Non dimentica
egli di tener presenti i giudizi che ne dettero i Provenzali contem-
poranei e posteriori: ma accanto alle testimonianze di Raimon Vidal
e Matfré Ermengard avremmo voluto veder allegata quella del com-
pilatore della breve sumnia dictaminis del canzoniere vaticano 3207,
dove alle eleganti formule e sentenze del Miraval in materia d'amore
si fa un posto singolarmente onorevole (cfr. Revue des laugues r<>-
manes, 1889, p. 189). C. d. L.
Liborio Azzolina, La Compiuta donzella di Firenze. Palermo. 1902.
L'A. combatte, e con buone ragioni, mi pare, gli argomenti che il
compianto Borgognoni traeva da qualche passo del canzoniere di
Chiaro Davanzati e da qualche altro del Reggimento e costumi di donna
del Barberino contro l'attribuzione dei sonetti CX e CXI del Vati-
cano 3793 alla Compiuta, come donna, ben inteso, in carne ed ossa.
.Ma nei due sonetti non riesco a scoprire quella sincerità d'ispirazione
personale presso che palpabile per l' Azzolina : che anzi quel " dis-
degno che [la Compiuta] ha dell'uomo nel suo ascetismo meramente
T.i2 BULt.ETTINO BIBLIOGRAFICO
fantastico , a me pare ammantato del frasario convenzionale trova-
(lorico, dove il De jjrofìtniiiiì per senno e pregio e cortesia sempre
s'incrocia colle imprecazioni a falsità e villania.
K intimamente connessi a questi due sonetti sarebbero, secondo
l'Azzolina. i tre costituiti in tenzone nello stesso Vaticano 3793 sotto
i nu. CMIX-CMXI, e di cui il secondo reca appunto il nome della
Compiuta, il primo ed il terzo sono adespoti: ma con essi va ag-
gruppata la canzone CCXVl come quella che, tra l'altro, " tradisce
ad ogni passo il modo di sentire e di vedere proprio della Compiuta ,;
e poiché essa, attribuita per un dei soliti arbitri al Davanzati, è ad
ogni modo nei rapporti di risposta a proposta colla canzone n. CCXV,
indubbiamente del Davanzati, e questa offre certi " punti di con-
tatto , coi due sonetti adespoti diretti alla stessa Compiuta, sorge
nell'animo dell' Azzolina il sospetto che di essi due sonetti sia autori'
il Davanzati; e tal sospetto prende consistenza dal raffronto con tutte
le rime del trovatore toscano.
Di che è conseguenza che la Compiuta donzella, non persona fan-
tastica, ma reale, poetò per entro all'ultimo trentennio del sec. XIII:
nel quale appunto vengono a confluire l'operosità letteraria del Da-
vanzati e quella di Maestro Torrigiano col quale pure essa fu in cor-
rispondenza poetica. P] Cominuta sarebbe, sempre secondo l'A., non
nome proprio, ma qualificativo di donzella.
Nel lavoro dell'A. è certamente a lodare la coscienziosità o almeno
una preoccupazione sempre viva di coscienziosità, in quanto ogni
punto del sottile ragionamento egli cerca di por bene in sodo: ma
non so quanto probabili siano da proclamarne i risultati, fondati
come sono pressoché esclusivamente su consonanze di motivi e di
espressioni poetiche in mezzo a un materiale in cui dello " specifico ,
nelle situazioni non si sentiva bisogno e le tracce dell'individualità
son per lo meno da giudicare e definire impercettibili. C. d. L.
Amos Parducci, Sulla cronologia e sul valore delle rime di Bonagiunta
Orhicciani da Lucca. Messina, G. Toscano, 1902.
A dir vero, non si tratta d'un lavoro in due parti logicamente
distinte : sicché insomma accertato nella prima, per via d'argomenti
di carattere ben positivo, l'ordine cronologico della produzione del
poeta lucchese, si venga poi per entro a questa a sceverar le varie
fasi dell'evoluzione artistica. Che anzi è sul riconoscimento di queste
che si fonda la distinzion ci'onologica; ma d'error di metodo non
si può parlare, data l'accertabilità della cronologia che ad esse fasi
spetta, indipendentemente dalla rappresentanza che se ne può asse-
gnare ad uno od altro poeta, nella stoi'ia della nostra lirica delle
origini.
RECENSIONI 733
E mi pare che con sufficienza di prove e bontà di ragionamenti per-
venga l'A. ad accertare tre periodi nell'opera letteraria del lucchese:
uno di stretta imitazione siciliana, dal quale ebbe origine il giu-
dizio ornai tradizionale su lui ; uno di transizione, nel quale ebbe a
modello Guitton d'Arezzo, non tanto nell'abuso delle complicazioni
formali quanto nel far larga parte all'elemento filosofico-morale, e
non senza lasciar balenare qua e là uno spirito preannunziatore di
cose nuove; un periodo, finalmente, nel quale sarebbe " innegabile
l'influsso del dolce stil novo ,.
Un po' pili di luce sarebbe stata forse desiderabile per quanto
spetta a quella fase durante la quale il Lucchese, all'ombra dell'Are-
tino, sarebbe venuto maturando la propria arte alle grazie e le gen-
tilezze dello stil novo.
Ma si può dir forse precisata, come dovrebb'essere, la parte che
veramente spetta allo stesso Aretino nella evoluzione della antica
lirica nostra V
C. d. L.
NOTIZIE
n.r;,«^tnf rf-';fjL^Tr J'':'^'''^%'P''''''^il' degli antichi dialetti italici
netmocienit dialetti Ualiani e negV idiomi romanzi in qenere Fraucesco
d Ovidio ha pubblicato una memoria che nell' intenzione sua non
vuole avere che carattere proemiale. Ma essa può essere suLestlvad"
To v'i'si%or' ';?,"'*; ff P"'^ ^^ P"'^ ""' '^' ^^'^ un assetto defin-
!nnr; 1 1 ,*i^''«^/^"'^ ^^^^^^ reazione dei parlari preromani in -enere
sopra 11 latino dovunque questo si estese e radicò; e della pÒssIb H à
che per quanto spetta agl'italici, abbiano a rinvenirsenrreliÒu e
anche al di la di quelli che furono i loro naturali ed or.Vinar ìcoi
fini, e, quasi per incidenza, ma con sostanziale compiutSza e -rande
perspicuità VI si riassume la questione dell'origi^delle linC ri
manze, partitamente e in successione rigorosam^ente logica Snen:
tribù" ot'albT" '■ '"'^r'*^ in malgiore o minox^mi'surr con-
tribuirono alla formazione di esse. In un ultimo paragrafo assenna-
eSioni elictr-^'T ''rr""' ^'' '' 'l"^^^ " problema duSe
s'e^rn'df ;Siss?mh^^^^^ '' '^' ''^'''' ''''^'^'' "- ^'^ ^Lato
è Ìrt/f^/"^"'''"'T' '^'' ^^'^'''"«"'»' '" Francia e la Chanson de Roland
e 1 titolo d una breve memoria (estratta dalla Rivista // Saqqiatore)
del professore Bortolo Faggion. Vi si vuol dimostrare la Stami-
nazione epica della sconfitta di Roncisvalle colla invasione normanm
capitanata da Rollo o Rollone. ai tempi di Carlo il SempHce con
mort^'^n^Ha^r'^ "'^ Rolando, gonfaloniere, sarebbe diramente"
Frnn.in vo iT .7""-"°™^"°° ^^'^ precedeutemeute stabilitosi in
loHngia. '''^'^■'^^•^ "^ «^ ' ^'^^^' '^'^ *^^^n«lon« della leggenda ca-
A "^o^-"'^ ir*''^ Espaùa y su literatura en el extran jero, il professore
A Farinelli ha pubblicato nella rivista spagnuola La JctMraTrl
sua conferenza letta nell'Ateneo di Madr d il 19 gennaio 1901 ^
uno scritto denso di fatti sicuramente domina e quTdi periicua
mente esposti e ordinati; suggestivo anche là dove esso è^più^ con-
ciso, tale insomma sotto ogni rispetto da indurci a deplorare che
non sia stato pubblicato in Italia e in italiano. Vi si leXno x m?
d appendice alcune pagine di bibliografia, nelle quali paiSmente
colie Xp "■ """T ^«-«^™?ti le relazioni letterarie cLlla Cg.a
otnda) ^^ ""'''"' {^r'.xn^ni, Italia, Germania, Inghilterra,
.rn^/.in^"'''^"^'' Crescini dobbiamo una nuova edizione, accompa-
gnata da versione, de La lettera epica di Rambaldo di VaQueiras\ì
marchese Bonifacio di Monferrato (Padova, Tip. Randi; e'str Igì
Atti e Memorie della R. Accademia di Padova). Sicuri vanta-ffi essa
n!n%rn'^ru ^f ^r^"" accurata dello SchuItz-Gora; e miglior lode
non SI potrebbe darle.
Con questo fascicolo cessa la pubblicazione degli Studj di filologia
romanza. o mAo
3 marzo 1903.
Tipografia VINCENZO BONA - Via Ospedale, 8, Torino.
Pubblicazioni della, stessa Casa Editrice.
1 20
6 —
7 50
20 -
8 —
3 50
10 -
EETANA E. Vittorio Alfieri studiato nella vita, nel pensiero e nel-
l'arte con lettere e documenti inediti, ritratti e fac-simile; in 8°
grande, di pag. vii-547
UZZOLO C. Luigi Concato. Discorso commemorativo, letto nella
R. Università di Torino ; in-8", di pag. 45 .
AMPORl G. e SOLERTI A. Luigi, Lucrezia e Leonora d'Este. Studi;
in-S", di pag. iv-211 "
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diti; in-8°, di pag. xii-264 "
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sulla rappresentazione drammatica del contado Toscano e sul
teatro Mantovano nel secolo xvi. Seconda edizione rivista ed
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}RAF A. Foscolo, Manzoni, Leopardi. Saggi. Aggiuntovi preraffaelliti,
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gine viii-487 ...••■••■■"
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in 8°, di pag. xv-462 e 602
- Poesie e novelle; in 8», di pag. 359
- La crisi letteraria ; in-8», di pag. 38
- La leggenda dell'amore; in-8'Mi pag. 35 . •
- Dello spirito poetico dei tempi nostri ; in-8", di pag. 38
- Di una trattazione scientifica della storia letteraria. Prolusione al
corso di letteratura italiana, letta nella R. Università di Tonno;
in-16», di pag. 34
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LEOPARDI G. Le tre lettere intorno alla divisata fuga dalla casa
patella; in-16», di pag. 65; col disegno della camera del Leopardi ,
MERLIN! D. Saggio di ricerche sulla Satira contro il villano, con ap-
• pendice di documenti inediti; in-8°, di pag. viii-231^ ^ ,
"TORINO -"cIsTÉDiTmcTERMANNO LOESCHER - TORINO
7
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9
50
6
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4
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14
3
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1
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NOVATI F. Studi critici e letterari. L'AlBeri poeta comico. Jl ritmo
cassinese e le sue interpretazioni. Un poeta dimenticato. La
parodia sacra nelle letterature moderne; in-8" di pag. 310 L. 4
OTTOLENGHI L. La vita ed i tempi di Giacinto Provana di Collegno.
Studio, col diario dell'Assedio di Navarino, 1825, che si pubblica
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pag. 231, con ritratto del Pro vana ,3
SAVI-LOPEZ M. Leggende del mare, con 60 illustrazioni di C. Chessa ;
in-8°, di pag. vjn-360 con ritratto dell'autrice . . . , 5
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stampe, con note ed introduzione; in-16", di pag. ccxciv-370 , 16
SOLERTI A. Vita di Torquato Tasso ; 3 volumi in-8° gr., di pag. xiv-
883, xvui-541 e 218, con 10 fac-simili, 3 piani, 30 illustrazioni,
4 medaglie e 28 ritratti «35
TAVERNA G. Lettere raccolte e pubblicate a cura di Virginio Cok-
TEsi ; in-8°, di pag. xv-167 ^1
TOMMASINI 0. La vita e gli scritti di Nicolò Machiavelli nella loro
relazione col machiavellismo. Storia ed esame critico. Voi. 1,
in-8<' gr., di pag. xxvii-750, con ritratto del Machiavelli . „ 16
TORRACA F. Gli imitatori stranieri di Jacobo Sannazaro. Ricerche.
Seconda edizione accresciuta, in-8°, di pag. 103 . . „ 2
VITTORIA COLONNA (Marchesa di Pescara). Vita, fede e poesia nel
secolo decimosesto per A. Reumont. Versione di Giuseppe Muller
ed Ermanno Ferrerò; 2" edizione, in-8°, di pag. xx-331 . , 5
— Carteggio raccolto e pubblicato da Ermanno Ferrerò e Giuseppe
Muller. 2"" edizione con supplemento raccolto ed annotato da
DoM. Tordi; in-8°, di pag. xxxii-522 ,8
— Supplemento al carteggio raccolto ed annotato da Domenico Tordi
coll'aggiunta della vita di lei scritta da Filonico Alicarnas^o.
(In commemorazione del quarto centenario della nascita della
divina poetessa) ; in-8°, di pag. 128 „ 3
TORINO — Casa Editrice ERMANNO LOESCHER - TORINO
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PC Studj di filologia romanza
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V.9
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